venerdì 15 marzo 2013

TROPPE CORNA IN QUESTO AFFARE di Max Dave

                              

 Terenzio era spagnolo, almeno così diceva, e tutte le volte che mi fermava, sbarrandomi il passo all'an­golo del palazzo della Prefettura, si sbracciava e agi­tava  testa, mani e corpo  per avvalorare le sue dichia­razioni di nazionalità.
Sul principio, per quanto co­stui pronunciasse varie parole di castigliano, di cui conoscevo il senso, ero convinto che fosse italiano: abruz­zese per giunta.
Cosa facesse, di preciso, non lo sapevo.
Mi era comparso davanti una sera, mentre tornavo a casa dall’ufficio.
«Signore, gradisce un corno della fortuna?»
Ero soprappensiero e mi fermai, ma non certo a guardare i suoi corni, poiché questi oggetti non m’interessavano affatto.
Di colpo mi scossi e, con voce stizzita:
«Lasciatemi in pace, buonuomo!»
Terenzio parve colpito dalla mia scortesia e scappò via giù per il vicolo, con tale furia che mi voltai, incuriosito, a guardarlo.
Così, la sera seguente, quando me lo vidi nuova­mente di fronte  all'angolo del tetro palazzo della Prefettura, mi fer­mai. In un certo senso ero dispiaciuto di averlo spaventato il giorno prima. Ma Terenzio non parve por­tarmi rancore.
Man mano che aumentava la mia benevo­lenza nei suoi confronti – non appena me lo vedevo ogni sera davanti, piovesse o nevicasse o tirasse un vento da tagliar la faccia –, egli diventava più insistente, più pe­tulante.
Non so quanti corni di varie dimensioni, persino dorati, comprai da lui.
E ogni volta che uscivo dal mio ufficio, anche quando facevo tardi, me lo ritrovavo di fronte più intraprendente e audace.
Una sera non potei fare a meno di dirgli:
«Terenzio, ora stai esagerando. Non devi abusare della mia pazienza.»
«Ma è proprio ciò che desidero, signore.»
«Come sarebbe a dire?»
«Desidero che voi perdiate la pazienza.»
Lo guardai e lui, con un gran sorriso che parve allargargli il viso olivastro, mi fece ciondolare da­vanti agli occhi il grappolo dei corni rossi.
Alzai le spalle. Me ne andai con un senso di ran­core.
Poi tutto accadde qualche giorno dopo, con esattezza la notte della vigilia di Natale.
Ero fuori di me perché il mio direttore generale, per un banale incidente di archivio, mi aveva tratte­nuto fino a tardi, mentre  a casa ero atteso per la cena.
Pochi fiocchi di neve sottile attraversavano l'aria silenziosa.
Terenzio mi apparve dinanzi, come il solito.
«Buona sera, signore.»
«Vattene, ho fretta!»
Mi sbarrava il passo più del solito e agitava le braccia lunghe e nere alla luce del lampione.
«Vattene, ho fretta!» ripetei.
«Avete fatto un po’ tardi, questa sera… Vorrei mostrarvi...»
Ero fuori di me, cercai di avanzare ma lui muo­veva le braccia come un fantoccio scosso da sussulti.
«Ascoltate, signore.»
«Vattene, maledetto!»
Mi fermai di colpo. Non potevo credere alla mia ira, alle mie parole. Mi volsi lentamente verso Terenzio, quasi a chiedergli scusa; ma lui, con un dolce sorriso, inchinandosi appena, con la tipica aria da ca­stigliano, disse:
«Grazie signore. Da quando mi avevate chia­mato buonuomo, nessuno più mi voleva nel mio mondo. Secondo gli altri (e qui rise) ero diven­tato un demonio di infima classe, troppo onesto, troppo generoso… Grazie ancora, signore, e… buon Natale.» E facendo ciondolare lungo il fianco il grappolo dei corni rossi, si avviò giù per la strada e scomparve.

(Per gentile concessione dello scrittore Sergio Bissoli)

3 commenti:

  1. Davvero un bel racconto. Un horror ironico, più che altro

    Silver

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  2. Direi un horror originale quello di Dave. Molto piacevole.

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  3. Mi ricorda, in qualche modo, "La patente" di Pirandello. Ironico, divertente e molto ben scritto.

    Giuseppe Novellino

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