Terenzio era
spagnolo, almeno così diceva, e tutte le volte che mi fermava, sbarrandomi il
passo all'angolo del palazzo della Prefettura, si sbracciava e agitava testa, mani e corpo per avvalorare le sue dichiarazioni di
nazionalità.
Sul
principio, per quanto costui pronunciasse varie parole di castigliano, di cui
conoscevo il senso, ero convinto che fosse italiano: abruzzese per giunta.
Cosa facesse, di preciso, non lo
sapevo.
Mi era comparso davanti una sera,
mentre tornavo a casa dall’ufficio.
«Signore, gradisce un corno della
fortuna?»
Ero soprappensiero e mi fermai, ma
non certo a guardare i suoi corni, poiché questi oggetti non m’interessavano
affatto.
Di colpo mi scossi e, con voce
stizzita:
«Lasciatemi in pace, buonuomo!»
Terenzio parve colpito dalla mia
scortesia e scappò via giù per il vicolo, con tale furia che mi voltai,
incuriosito, a guardarlo.
Così, la sera seguente, quando me
lo vidi nuovamente di fronte all'angolo
del tetro palazzo della Prefettura, mi fermai. In un certo senso ero
dispiaciuto di averlo spaventato il giorno prima. Ma Terenzio non parve portarmi
rancore.
Man mano che aumentava la mia
benevolenza nei suoi confronti – non appena me lo vedevo ogni sera davanti,
piovesse o nevicasse o tirasse un vento da tagliar la faccia –, egli diventava
più insistente, più petulante.
Non so quanti
corni di varie dimensioni, persino dorati, comprai da lui.
E ogni volta che uscivo dal mio
ufficio, anche quando facevo tardi, me lo ritrovavo di fronte più
intraprendente e audace.
Una sera non potei fare a meno di
dirgli:
«Terenzio, ora stai esagerando. Non
devi abusare della mia pazienza.»
«Ma è proprio ciò che desidero,
signore.»
«Come sarebbe a dire?»
«Desidero che voi perdiate la
pazienza.»
Lo guardai e lui, con un gran
sorriso che parve allargargli il viso olivastro, mi fece ciondolare davanti
agli occhi il grappolo dei corni rossi.
Alzai le spalle. Me ne andai con
un senso di rancore.
Poi tutto accadde qualche giorno
dopo, con esattezza la notte della vigilia di Natale.
Ero fuori di me perché il mio
direttore generale, per un banale incidente di archivio, mi aveva trattenuto
fino a tardi, mentre a casa ero atteso
per la cena.
Pochi fiocchi di neve sottile attraversavano
l'aria silenziosa.
Terenzio mi apparve dinanzi, come
il solito.
«Buona sera, signore.»
«Vattene, ho fretta!»
Mi sbarrava
il passo più del solito e agitava le braccia lunghe e nere alla luce del
lampione.
«Vattene, ho fretta!» ripetei.
«Avete fatto un po’ tardi, questa
sera… Vorrei mostrarvi...»
Ero fuori di me, cercai di
avanzare ma lui muoveva le braccia come un fantoccio scosso da sussulti.
«Ascoltate, signore.»
«Vattene, maledetto!»
Mi fermai di colpo. Non potevo
credere alla mia ira, alle mie parole. Mi volsi lentamente verso Terenzio,
quasi a chiedergli scusa; ma lui, con un dolce sorriso, inchinandosi appena,
con la tipica aria da castigliano, disse:
«Grazie signore. Da quando mi
avevate chiamato buonuomo, nessuno più mi voleva nel mio mondo. Secondo gli
altri (e qui rise) ero diventato un demonio di infima classe, troppo onesto, troppo generoso… Grazie ancora, signore, e…
buon Natale.» E facendo ciondolare lungo il fianco il grappolo dei corni rossi,
si avviò giù per la strada e scomparve.
(Per gentile concessione dello scrittore Sergio Bissoli)
Davvero un bel racconto. Un horror ironico, più che altro
RispondiEliminaSilver
Direi un horror originale quello di Dave. Molto piacevole.
RispondiEliminaMi ricorda, in qualche modo, "La patente" di Pirandello. Ironico, divertente e molto ben scritto.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino