mercoledì 31 luglio 2013

TOMBE di Sergio Bissoli

                
Una volta al mese, per ordine di una vecchia zia, vado a pulire la tomba di famiglia nel piccolo cimitero di Roveredo.
È una giornata di settembre mentre percorro la stradina di campagna che porta al cimitero. Due vecchi intabarrati procedono lentamente. I gatti si scaldano al sole ormai basso. Lungo i fossi oscillano grandi fiori gialli.
Arrivato sulla tomba butto via i fiori secchi, cambio l’acqua e con uno strofinaccio incomincio a pulire le lastre di marmo.
Un tizio con la penna in mano sta davanti alla tomba vicina. È vestito di scuro e porta grossi occhiali da miope.
Spinto dalla curiosità, prima di andare via gli chiedo:
“ Ha i suoi morti sepolti lì?”
“No, non ho nessuno. Io vengo qui solo per imparare...”
“Imparare che cosa? La brevità della vita?”
“Sì, ma non solo questo. Qui siamo vicini al mistero della morte...”
Fa una pausa prima di continuare:
“Lei non si è mai chiesto dove va a finire la personalità dell’individuo: tutte le sue esperienze, le conoscenze, le emozioni, le sensazioni...”
“Finiscono tutte con la morte del corpo.”
“In natura nulla si distrugge e tutto si trasforma. Il corpo fisico durante la vita si trasforma in corpo psichico. Quando il corpo fisico muore il corpo psichico sopravvive...”
Poi l’uomo si sposta davanti a un’altra tomba e io vado via.
Il mese dopo, in ottobre, percorro la stradina tortuosa del cimitero. Una nebbia grigia ristagna sotto i pioppeti ingialliti.
Il cimitero ispira desolazione. Ci sono vasi rovesciati, fosse allagate da cui proviene l’odore della terra marcita. Davanti al casotto del becchino c’è una vanga interrata e uno scopino per il cesso; alla sinistra un cartello pubblicitario della luce votiva.
L’uomo con gli occhiali sta guardando la foto ovale di una ragazza col viso triste e gli occhi grandi. Mi fermo per salutarlo e lui commenta:
“Guardi questa ragazza. Sembra troppo fragile per affrontare le durezze della vita.”
“È vero. Chissà che storia dolorosa c’è dietro!”
“Nessuno ha mai spiegato il mistero delle morti giovani. Qual è lo scopo di questa breve vita? Qual è la funzione di una vita iniziata e non vissuta?” Una lunga pausa: “Solo la reincarnazione può dare una risposta. Cioè tante vite a disposizione nelle quali evolvere e maturare. Io cerco anche questo nei cimiteri. Cerco il mio corpo precedente, per far riaffiorare i ricordi, o qualche antica emozione...”
È arrivato novembre. Nei campi ci sono cespugli rovesciati dalla brina e fossi ghiacciati. Una macchia di luce cadaverica indugia nel cielo a sud.
Il cimitero sembra ancora più squallido e decrepito. C’è ancora il solito tizio, infreddolito, davanti a una tomba di famiglia.
Quando gli passo vicino gli chiedo:
“Lei segue qualche metodo nella sua ricerca?”
“Seguo l’ispirazione. Sono colpito da un viso, uno sguardo, un vestito.... Intuisco una vita in un volto, tutte le aspirazioni, le speranze irrealizzate...”
“E cosa ha scoperto in questa tomba?”
“Provo a prevedere chi occuperà i loculi ancora vuoti. C’è stata una entrata nel 1958, poi nel 1970 e poi nel 1979. Con intervalli di 12 e 9 anni. Questo è nato nel 1948 ed è morto nel 1979; noti come l’8 diventa 9. Questo è nato nel 1911 ed è morto nel 1958. Riesce a vedere lo schema che sta dietro? Nessuna cosa avviene per caso...”
Arriva dicembre nuvoloso, piovoso e sono costretto a rimandare le mie visite al cimitero.
Durante l’inverno mia zia si ammalò di polmonite e morì in due settimane. I cugini vendettero la sua casa. Io mi sono trasferito in un altro paese dove ho incominciato un nuovo lavoro.
Alcuni anni più tardi, in luglio, ritorno a Roveredo e faccio una visita al vecchio cimitero. È un po’ cambiato durante questo tempo. Il mio strano amico con gli occhiali non c’è. Peccato. Avrei molte domande da fargli adesso.
Anche negli anni successivi ritorno là, senza mai più incontrarlo.

lunedì 29 luglio 2013

LE OMBRE di Vittorio Catani



Le Ombre sono la nostra controparte. La zona oscura di noi stessi. Molti, oggi, hanno Ombre. Alcuni asseriscono che noi umani “normali” non ci siamo ancora ben interrogati sul fenomeno; e che dovremmo sforzarci di capire meglio non solo il ruolo delle Ombre, ma anche ciò che esse pensano di sé, e riflettere su come sia accaduto che abbiamo relegato le Ombre a un ruolo subordinato, da creature di serie B. Eppure, non pochi affermano che il loro dilagare ha già assunto la configurazione d’una rete in cui siamo rimasti impigliati, una struttura profonda che ci condiziona. Le Ombre, insomma, ci dominano.
Io non so che dire: so soltanto che di “lei” ho bisogno. Se mi prende la sensazione di vuoto, di completa inutilità, di incolmabile solitudine, chiamo al videocellulare la mia Ombra. Le parlo, lei tace. O accade il contrario. Talora mi limito a fissarla, ogni volta stupito. Mi perdo negli inverosimili lineamenti del suo viso. Ma può anche accadere che decidiamo d’incontrarci e uscire. In campagna, per boschi, nel cuore convulso d’una metropoli, in un pub, in periferie. Quanto a farci l’amore è questione controversa, ma so che per molti è una spinta irrefrenabile.
La prima volta che vidi la mia Ombra trasalii nel fissarla e balbettai:
“Oh… sei tu, Julienne”.
Eppure ero preparato. E’ ovvio, io mi chiamo Julien. Ho 25 anni e la conobbi che ne avevo 20, anche se naturalmente sapevo della sua esistenza. Alle spalle di ogni Ombra c’è un’oscura storia di nuove ingegnerie genetiche: clonare l’ovulo appena fecondato del nascituro (l’ovulo che sarebbe poi divenuto me, ad esempio), e apportare al doppione una modifica minima, cambiandone solo il sesso. Realizzare l’impossibile sogno (o mito) di due gemelli omozigoti ma di sesso differente. Gemelli? Noi siamo Umani, loro sono Ombre.
Pur avendo io con Julienne quasi il 100% di geni in comune, è vuota retorica parlare di “consanguineità”.
Di lei fui subito ipnotizzato, come lei di me. Julienne ha una sua storia fisica e psichica, io una mia. Ma ci accomuna qualcosa di abissale che nessuno di entrambi potrà mai eludere. È immorale? Perché l’umanità ha fatto questo? Comunque, ora capiamo cosa significhi fissarsi in uno specchio magico, vedere la propria luce e la propria notte, assistere all’unione dell’“animus” con l’“anima”, guardare in fondo a un baratro, scoprire la metà assente, ritrovarsi completi ma divisi. Si dice di gente impazzita, di Ombre che hanno plagiato, schiavizzato la loro controparte o viceversa. Ma forse sono false voci, leggende fiorite sotto lo sguardo immobile di questo immenso plenilunio.

domenica 28 luglio 2013

TELETRASPORTO di Massimo Licari

                                      
Vorrei invitarvi al brindisi che, solitario, dedico alla chiusura dei viaggi tradizionali. Si, lo so, è con spirito sarcastico che festeggio l’evento che di fatto mi precluderà qualsiasi spostamento non possa fare a piedi, ma cosa posso fare per oppormi al cosiddetto progresso? Solo un brindisi sconsolato.
Rileggo l’articolo trionfalistico (ferale per me) apparso sul Corriere della Terra: Oggi, 30 luglio 2086 si chiude definitivamente l’era del trasporto tradizionale. È l’inizio di una nuova epoca, nella quale tutti viaggeremo alla velocità della luce. Finalmente anche la Saturn Airline, l’ultima compagnia aerea, ha chiuso definitivamente le attività.
Treni, automobili e navi, sono pezzi da museo già da tempo. Da oggi in poi lo diverranno anche gli aerei ad antimateria.
L’articolo prosegue esponendo con dovizia di particolari tutti i vantaggi che trarremo dal nuovo sistema di teletrasporto della Enterprise Corporation. Spostarsi da un punto della Terra a un altro in un batter d’occhio. E anche di più. Basti pensare alle colonie sulla Luna, su Marte, e alle altre spedizioni che stanno allontanando sempre più i nostri confini. E tutto spendendo molto meno di quanto costava fino ad oggi un volo aereo.
Con grande gaudio delle potenti associazioni per la tutela dell’ambiente planetario.
Io non festeggerò, perché non userò mai il sistema di teletrasporto della Enterprise Co.
Le premesse sembravano molto buone nel 2075, quando il MIT annunciò il debutto del primo sistema sperimentale di teletrasporto.
Ricorderete certamente l’annuncio che tributava gli onori al gruppo di ricerca che era riuscito a teletrasportare una chiave a un chilometro di distanza.
Ora, non voglio annoiarvi con dettagli che conoscete perfettamente, ma lasciatemi seguire il filo del ragionamento.
Concettualmente, il funzionamento è semplice: un oggetto viene analizzato, il sistema ne crea una vera e propria mappa atomica che viene salvata nel buffer del sistema di teletrasporto. L’oggetto viene smaterializzato, la mappa trasmessa alla velocità della luce al sistema di arrivo che la analizza e ricompone l’oggetto usando altri atomi.
Quando hanno usato questo sistema con un essere vivente, un topolino, il tutto ha funzionato perfettamente. Peccato che il topolino all’arrivo era morto.
I ricercatori capirono che l’analisi doveva spingersi più a fondo.
Nei nuovi sistemi la risoluzione arrivava fino a livello quantico, consentendo così la ricostruzione perfetta anche di un essere vivente.
Funzionò con topi, gatti, cani e scimmie. Per essere certi che la ricostruzione fosse perfetta, usarono diversi sistemi di indagine, tra cui uno banale ma efficace: misurare il peso esatto dell’essere vivente alla partenza e all’arrivo.
Tutto sembrava andare per il meglio.
Il sistema era pronto per provare il primo teletrasporto di un essere umano.
Il dottor Scimeca, che faceva parte del team di ricerca, fu il primo volontario.
Venne teletrasportato il 26 agosto del 2081, da un’estremità del MIT all’altra.
Tutto funzionò benissimo, salvo che il dottor Scimeca, all’arrivo, pesava ventuno grammi in meno. Non venti e non trenta. Ventuno grammi esatti in meno.
Forse non ricorderete questo particolare, perché la notizia fu riportata in un paio di trafiletti delle principali riviste scientifiche.
Nei giorni successivi all’esperimento, il dottor Scimeca venne sottoposto a tutte le indagini possibili, e per tutte l’esito fu senz’altro positivo.
Ma quei ventuno grammi erano inspiegabili.
Fecero un secondo teletrasporto sempre con lui, e non registrarono alcuna differenza. Così pensarono di essersi sbagliati.
Quando fu la volta del secondo volontario, i risultati furono analoghi al primo teletrasporto. C’era una differenza di peso di ventuno grammi dall’arrivo alla partenza.
Dato che non c’era alcuna spiegazione e visto che i test erano tutti sicuramente positivi, decisero di non preoccuparsene più.
Come sapete, il sistema fu approvato in poco tempo da tutta la comunità scientifica, e si cominciò la produzione dei primi sistemi a livello industriale.
Quei ventuno grammi, però, continuavano a girarmi in testa.
Finché capii.
Quello fu il momento in cui decisi che non avrei mai provato il sistema di teletrasporto.
Forse penserete che sono un vecchio superstizioso, e probabilmente avete ragione.
Ma provate a fare una ricerca e poi ditemi: quanto pesa l’anima?
No, mi spiace. Sono arrivato fino a qui tutto intero, anima compresa.
Posso fare a meno di viaggiare alla velocità della luce.
Brindate con me, ora.
Alla fine di un’epoca e all’inizio di una nuova era.

sabato 27 luglio 2013

RICORDO DI RICHARD MATHESON


     Con queste brevi note, Letteratura Fantastica vuol ricordare un grande scrittore di science-fiction, di fantasy e di horror, Richard Matheson, scomparso, all’età di ottantasette anni, il 23 giugno 2013.
Autore del celebre romanzo Io sono leggenda e del racconto Duel, da cui furono tratti diversi film di successo, Matheson collaborò, tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso, con il regista Alfred Hitchcock, per il quale scrisse alcune importanti sceneggiature, dalle quali furono ricavati vari episodi della serie televisiva Ai confini della realtà.

venerdì 26 luglio 2013

ALFREDO E ALBERTO di Paolo Secondini


«Cosa vedi, Alfredo?»
«Quello che vedi tu, Alberto.»
«Vedo un uomo che bacia una donna con passione.»
«Vedo questo anch’io... O invece è la donna che bacia l’uomo?... Mah!... Credo che sia la stessa cosa.»
«I loro visi sono annebbiati. Duro fatica a metterli a fuoco.»
«Hai ragione... Sono piuttosto annebbiati, evanescenti, quasi due ombre.»
«Come avvolti da un forte bagliore, ma non accecante.»
«No, non accecante, ma comunque un bagliore.»
«Ora l’uomo muove le labbra, sta dicendo qualcosa.»
«Anche la donna muove le labbra, risponde, sorride... Ha denti smaglianti… Non vedo più niente, Alberto, è buio.»
«Neppure io, Alfredo, vedo più niente. Ma cosa succede?… Aspetta, ecco di nuovo il bagliore… Dove sono l’uomo e la donna? Dove sono finiti? Riesci a vederli?»
«No, non li vedo… Un’auto corre lungo una strada polverosa.»
«Sì, un’auto nera… Un momento… Ce n’è un’altra che insegue.»
«La vedo. È gialla, sportiva.»
«Perché sparano, Alberto?»
«Non so, Alfredo. In effetti sparano. Un uomo è ferito. Non è quello che prima baciava la donna?»
«No, Alberto. Questo qui ha i baffi... Perlomeno sembrano baffi.»
«Sei sicuro, Alfredo?»
«Sono baffi, Alberto.»
«Adesso è scomparso… E quello cos’è?... Un cane o un cavallo?»
«Nessuno dei due, sembra piuttosto…»
«Tutto è buio ora, all’improvviso. Buio completo.»
«Già, vedo buio anch’io… o niente?»
«Forse niente, Alfredo. Neanche buio... solo niente.»
«È questo il niente, Alberto?»
«Non so… Forse è niente e forse è buio.»
«Certo se è niente, è un po’ anche buio, non ti pare?»
«Aspetta, aspetta… Ora vedo…»
«Come un bagliore modesto, stavolta. Riesco a distinguere un prato, un cielo, una casa e auto che corrono ancora, sollevando nubi di polvere giallastra… Mi sto chiudendo di nuovo.»
«Mi accade lo stesso, Alfredo. Mi chiudo a poco a poco.»
«Ho sonno.»
«Ho sonno anch’io.»
«Buonanotte, Alberto.»
«Notte, Alfredo.»


E i due occhi, Alberto e Alfredo, il destro e il sinistro dello stesso viso, si chiusero contemporaneamente.
Il televisore rimase acceso nel piccolo salotto.
Immagini di auto in corsa e banditi che sparavano, lungo strade polverose di campagna, si susseguirono sullo schermo con ritmo incalzante.
L’uomo seduto in poltrona ora dormiva profondamente, e russava.
Alberto e Alfredo non russavano: erano parte integrante di quel russare.

giovedì 25 luglio 2013

GIUSEPPE NOVELLINO INTERVISTA SHEL SHAPIRO

(È con grande piacere che riproponiamo un’intervista – già apparsa in STREPITESTI nel 2012 – del nostro collaboratore Giuseppe Novellino a un grande personaggio della musica leggera italiana degli anni Sessanta, Shel Shapiro, cantante e chitarrista dei Rokes; attualmente attore, scrittore, musicista, produttore discografico.)

Cominciamo con una domanda un po’ frivola: ti senti più inglese o più italiano?
Sicuramente è una domanda frivola. Non mi pongo il problema. Dopo più di quarant’anni che sto in Italia, mi sembra logico che mi senta più italiano che non inglese. Comunque non vivo nell’incertezza. Mi sento libero di agire come voglio.
Ti sentiresti di esprimere un breve giudizio sull’Italia del 2012?
Io ho un passaporto inglese e un passaporto italiano, quindi sostanzialmente posso parlare come cittadino di questo paese. Anzi sono a tutti gli effetti cittadino italiano.
Sicuramente una volta, quando sono arrivato agli inizi degli anni ’60, l’Italia era un paese più affascinante, con più spazio e possibilità di azione. Questo vale per l’Italia come per gli altri paesi, diciamo così, provinciali. Nel frattempo le cose sono cambiate. Trovo che abbiamo passato diciassette anni di disastro culturale. Penso che la recente affermazione di questi governi cosiddetti liberali, di centrodestra, sia stata dannosa per la crescita morale, mentale, culturale, etica dei cittadini di questo paese.
Che cosa pensi dei giovani d’oggi?
Che non hanno vita facile, e noi non contribuiamo a rendergliela agevole. Risolvendo per loro i problemi e riempiendoli di comodità, pensiamo di dare a loro un vantaggio. Invece, proprio a causa di questo nostro comportamento, rendiamo difficile la loro esistenza.
Quali motivazioni ti hanno spinto a scrivere l’autobiografia?
Edmondo Berselli, che pubblicava i suoi libri con la casa editrice Il Mulino, dove era direttore editoriale, e successivamente con la Mondadori, sosteneva che ero uno di quei personaggi degli anni ’60 che avevano diritto di parola. Edmondo mi ha spinto a raccontare la mia esperienza. Io non sono uno di quelli che amano guardare indietro, nella vita trascorsa, con l’intento magari di celebrarsi; ma penso che certe volte faccia bene gettare uno sguardo alle spalle per rendersi conto degli errori che si sono commessi, ma anche delle cose giuste e buone. Quindi ho agito soprattutto perché la Mondadori ha insistito perché scrivessi un libro sulla mia vita. Mi hanno un po’ spinto, devo dire.
Sono stato assistito da Marco Cavani, scrittore bolognese, amico e conoscente. Mi dispiace che la Casa Editrice non abbia messo il suo nome sulla copertina. Nel mio sito, però, il nome compare e il danno, mi sembra, è stato riparato.
La motivazione, dunque, è stata quella di cercare di guardare con spirito critico quello che abbiamo fatto e questa eredità che abbiamo lasciato. L’idea di autocelebrarsi, di esaltare quegli anni è decisamente fuori luogo. Chi ha vissuto i ’60 può andare giustamente fiero perché erano anni belli. Chi non li ha vissuti pensa di avere perso una grande occasione. Ma io ritengo sia un giudizio non del tutto giusto, in fondo.
Se un tuo figlio diciottenne ti dicesse: “Papà, voglio andarmene in America a vivere di musica, come commenteresti questa sua decisione?
Non glielo impedirei, alla fine, ma cercherei di convincerlo a non andarci. Proverei a fargli capire che sarebbe meglio fare qualcosa di più solido. Però, se lui è convinto e decide di provare, di affrontare tutte le difficoltà per vedere realizzato un suo sogno, allora ritengo che sia una cosa positiva. La convinzione e la fiducia in se stessi sono sintomi di maturità. Io penso, infatti, che occorra agire con senso di autocritica, per evitare di vivere delle tragedie più avanti.
Io non ricordo cosa pensassero i miei genitori, quando decisi di andare all’estero (prima ad Amburgo e poi in Italia) per mettere a profitto i miei talenti musicali e artistici.
Che cosa trovi nella professione dell’attore, sia di teatro che di cinema?
Soprattutto questa possibilità di perdersi e di essere qualcun altro, per un momento. Tutti sanno che Shel canta e suona la chitarra. Lo danno per scontato. Ma se lui potesse, per un giorno, essere, che so, un imperatore romano o un serial killer, gli piacerebbe. Ho avuto delle esperienze in merito e trovo che sia una cosa molto esaltante entrare nella psiche di un’altra persona. Non essere più se stesso per un po’. I grandi attori, infatti, cambiano addirittura la faccia, non sembrano più loro stessi. Vedi, per esempio, Pacino e De Niro. Questa però è una caratteristica, diciamo così, anglo-americana di fare l’attore. In Italia è diverso. Nella professione di attore si richiede che tu rimanga te stesso. Non c’è film di Gasman dove non si capisce che è lui. Rimane sempre se stesso. Forse Marcello Mastroianni è l’unico che sia riuscito veramente a uscire da se stesso, movendosi nella scia degli attori anglosassoni.
Nel libro e nel tuo ultimo spettacolo sull’America della beat-generation, si nota un bisogno di impegno anche di carattere politico (in senso lato). Hai dei progetti in tal senso?
L’idea di poter fare il politico di professione, se l’ho avuta, l’ho lasciata ormai dietro le spalle. Oggi cerco di dare un senso a quello che dico e a quello che faccio, insomma.
Mi va di provare a combattere questa voglia di metterti dentro una scatola e comportarti secondo delle regole che ti detta qualcun altro. Poco prima di questa nostra chiacchierata, ho parlato al telefono con Mario Capanna, una persona che mi ha sempre capito e mi ha sempre sostenuto nel mio impegno di uomo e di artista.
Credo che noi abbiamo vissuto una quindicina di anni veramente brutti. Tutte le volte che ho fatto uno spettacolo, ho sempre cercato di spingere la gente a reagire, a indignarsi. Io sto usando questa parola, “indignazione”, da almeno dodici anni, da quando ho rilasciato un’intervista a L’Unità, dove mi dichiaravo indignato e denunciavo Blair e Berlusconi.
Insomma cerco di dire quello che penso, e se il mio pensiero aiuta ad aprire gli occhi di qualcun altro, ne sono felicissimo.
Quali sono i programmi di Shel artista?
In questo periodo mi è tornata un po’ la voglia di suonare, alla grande. Per questo farò una serie di concerti in alcuni clubs, con un gruppo che ho battezzato Hamburg ‘63. Come tu sai, nel 1963 suonavo ad Amburgo. Lì mi sono fatto le ossa, come musicista, in un locale che un po’ di tempo prima aveva visto passare i Beatles.
Nello stesso tempo continuerò con lo spettacolo “Beatnix”, un recital sulla musica, la letteratura, la società dell’America dalla Grande Depressione agli anni ’60.
Concludo con una leggera (e forse ingenua) curiosità, più che una domanda. Quale rapporto c’è, oggi, tra Shel e gli altri tre ex-Rokes (Bob, Mike e Johnny)?
Io non parlo di loro. Se vuoi sapere qualcosa dei Rokes, sono a disposizione, ma non mi piace parlare delle singole persone e dei miei rapporti con esse.
Comunque Johnny lo sento spesso. Vive a Roma e fa il pittore. Bob e Mike, invece, sono in Inghilterra.

mercoledì 24 luglio 2013

PICCOLO OMAGGIO A K di Renato Clementi


Non mi piace essere svegliato alle cinque del mattino da qualcuno che suona alla porta. E mi piace ancor meno se il campanello, invece del solito “Driiiin”, si mette a fare “Miao! Miao! "
- Ma che cavolo… Arrivo!
Guardo dallo spioncino. Nessuno. Esito ad aprire la porta, sia perché sono in mutande, sia perché potrebbe essere un ladro. Non mi andrebbe di essere derubato senza vestiti addosso.
Mi accerto meglio. Non c’è proprio nessuno. Ma ecco che il campanello riprende: “Miao! Miao!”
Apro di scatto la porta e mi trovo davanti un nano in salopette rosa con il dito allungato verso il campanello.
“Dio com’è brutto” è il primo pensiero che mi salta in mente. Se si fosse trovato nella storia di Biancaneve, la ragazza avrebbe preferito farsi strappare il cuore dal cacciatore piuttosto di averci a che fare. Il nano però non mi dà il tempo di riordinare le idee che m’incalza:
- Su, si sbrighi. Siamo già molto in ritardo. Voi Tuttigiorni ve la prendete sempre comoda. Ma vedrà! Vedrà! – e così dicendo il nano agita il suo ridicolo ditino nell’aria.
Vorrei dirgliene quattro a questo sgorbio barbuto (non vi avevo detto che era barbuto? Beh, ve lo dico ora: ha una barba fitta che gli nasconde il pisello. Infatti è tutto nudo, una versione maschile e ridotta di Lady Godiva, E la salopette? Quella non c’è, infatti mi accorgo adesso che la salopette rosa è solo dipinta).
Ma torniamo al dirgliene quattro. Comincio con:
- Ma perché cavolo il mio campanello s’è messo a far miao?
- Oh, che domande… Il 31 aprile tutti i campanelli fanno “miao”. Non vi basta averli costretti a fare “drin” tutto il resto dell’anno? Forza, si spogli che andiamo.
- Si spogli?
- Certo, non vorrà uscire in mutande, spero.
- Io non esco nudo!
- E allora s’infili la mia salopette. Tenga.
Il nano si stacca la salopette (dipinta, ricordate?) e me la porge. Adesso è una salopette vera e anche della mia misura. Vorrei chiedere al nano come è possibile che ne abbia ancora una dipinta sul corpo dopo avermela data, ma ci sono altre cose più urgenti da appurare. Purtroppo non ne ho il tempo.
- Forza, andiamo! Vuole che vengano a prenderla? – mi sollecita ancora il nano.
- Andiamo dove? Chi deve venire a prendermi? Come può essere che oggi sia il 31 aprile? - sparo queste domande a raffica, ma il nano, sempre più agitato mi prende per la salopette e mi strattona fuori di casa esclamando:
- Non c’è tempo, non c’è tempo! Andiamo!
Non sono certo il tipo da farsi trattare in questo modo e, alzando il mento in un gesto di orgoglio, annuncio:
- Io non esco di casa senza aver bevuto il mio caffè!
Il nano si fa tutto rosso, poi cede.
- E va bene, ma si sbrighi.
Prendo la caffettiera sui fornelli, una moka italiana autentica. Dovrebbe essere rimasto del caffè e controllo alzando il coperchio. Dentro la caffettiera un grosso occhio mi guarda e ammicca. Chiudo la caffettiera.
- Andiamo, sono pronto – dico al nano.
Scendiamo le scale e ci troviamo in strada. Quattro tizi in divisa e dalla faccia cattiva mi puntano addosso fucili del ’18 con tanto di baionetta.
- È lui – dice l’unico dei quattro che porta un berretto da capitano.
- È lui – ripetono gli altri tre con la faccia ancora più cattiva.
- Sono io – balbetto con un filo di voce.
Il nano è proprio arrabbiato:
- L’avevo detto che sarebbero arrivati. Adesso sono guai, caro mio Tuttigiorni!
Il capitano si pone a gambe larghe davanti a me con un’aria da tiraschiaffi. Con un calcio potrei farne una frittata delle sue uova, ma probabilmente sarebbe l’ultimo gesto della mia vita.
- Mi dia subito il suo codice a barre. È meglio per lei.
Vorrei informarmi meglio su quello che succede se uno non dà il suo codice a barre, ma il cipiglio del capitano mi scoraggia. Così rispondo esitante:
- Mi chiamo Ern… - non riesco a finire la frase. Il capitano strilla!
- Che cazzate sono queste? Le ho forse chiesto di dirmi il suo nome? Vuol prendermi in giro?
Guardo smarrito il nano, che pone una mano a lato della bocca e mi sussurra:
- Il suo nome da Tuttigiorni qui non frega niente a nessuno. Il capitano vuole il codice a barre
che le hanno assegnato quelli della ditta Mangimi & figli.
- Ma io non ce l’ho.
- Un brutto guaio, vediamo se riesco a convincere il capitano.
Il nano s'allontana di qualche passo con il poliziotto e i due discutono animatamente per un po’. Mi tremano le gambe dalla paura perché sono ancora sotto tiro dei ’18. Quando il nano ritorna appare abbastanza soddisfatto.
- Bene, abbiamo tre ore per procurarci un codice dalla Mangimi e figli. Speriamo di fare in tempo, altrimenti la pratica passa alla Corone funerarie s.p.a.
Non credo che il passaggio alla Corone funerarie s.p.a rappresenti per me un miglioramento, pertanto m’informo presso il nano:
- Dove si trova la Mangimi e figli?
- E chi lo sa – risponde tranquillo il nano. – Se le piace possiamo prendere il viale qui a destra.
Sto per replicare con una parolaccia, ma mi trattengo. Preferisco indagare su altro. C’incamminiamo lungo il viale di destra e dopo qualche passo pongo la domanda che mi sta a cuore.
- Ma lei chi è e perché è venuto a casa mia?
Il nano si stringe nelle spalle.
- Che domanda strana. Sono un nano. C’è sempre un nano che suona alla porta il 31 aprile. Qualche volta alle cinque del mattino, qualche volta alle sette di sera. Non c’è una regola fissa.
- Ti pareva – borbotto tra me, ma il nano ha udito.
- Ma insomma! La sto aiutando, potrebbe essere più gentile, no? – esclama furibondo.
Questa volta sbotto:
- Porca ciminiera! Basta prendermi per i fondelli! Lo sanno tutti che il 31 aprile non esiste!
- Certo che non esiste! – grida a sua volta il nano fuori di sé. – Nemmeno io esisto, se è per questo. Ma lei, lei… vuole toglierci anche il diritto di provarci?
- Provarci a far che?
- A esistere, naturalmente. Noi viviamo nel 31 aprile, ma voi Tuttigiorni vi siete presi l’intero calendario e così ci avete spediti nel non essere.
- Santo cielo! Ma che siete, una specie di sogno? Ah, ecco. Ho capito! Sto sognando. Menomale, temevo già il peggio.
Il nano mi guarda con aria afflitta.
- Magari fossimo un sogno. Almeno ai sogni avete concesso un po’ di esistenza, ma a noi… - Poi guarda il cielo e aggiunge: - Nemmeno lassù ci vogliono bene. Bastava che stabilissero l’anno di 366 giorni ed era tutto a posto. Anche noi creature quasi esistenti avremmo avuto un nostro tempo. E invece no. Il trecentosessantaseiesimo giorno è stato concesso solo agli anni bisestili e per di più alla fine di febbraio. Non siamo stati trattati troppo bene.
- Già, è vero – concordo. Il nano mi fa un po’ pena.
- Ma non deve credere che ce ne stiamo con le mani in mano noi del 31 aprile – riprende infervorandosi. – Noi ci sforziamo in continuazione di esistere, sa? E che lavoro! Che impegno! E a volte ci riusciamo.
Cammino con la testa china e piena di pensieri confusi. Il nano tace e anch’io. A un tratto alzo la testa e l’insegna mi si para davanti, grande e luminosa: MANGIMI & FIGLI.
- Che fortuna, siamo già arrivati! – esclamo.
- Non c’è da stupirsi – replica il nano. – Il 31 aprile tutte le strade conducono alla Mangimi & figli.
Mi avvicino al grande portone d’ingresso che un portiere spalanca con sussiego.
- Prego, entri. La stanno aspettando. Però è meglio che non passi di qui. Entri dalla porta alla sua destra.
Guardo la porta, c’è l’etichetta W.C. Sono i gabinetti pubblici e non ho voglia d’infilarmi là dentro, così me ne infischio del portiere e proseguo dritto lungo il corridoio principale. C’è un’altra porta, l’apro. E mi trovo in strada, esattamente davanti al portone d’ingresso.
- Gliel’avevo detto – mi redarguisce il portiere. – Perché non mi dà retta?
Io e il nano oltrepassiamo la porta del WC e ci troviamo davanti altre due porticine, una a destra con la targhetta recante la scritta “uomini”, e l’altra a sinistra con scritto “nani”.
Ci dividiamo, il nano entra a sinistra e io a destra, ma ci troviamo in uno stesso corridoio al quinto piano.
- Deve cercare l’Ufficio Codici e Parenti – dice il nano. – Vada lei, io l’aspetto qui.
Lungo il corridoio ci sono tante porte che conducono ad altrettanti uffici. È tutto molto ordinato e le targhette molto chiare: “Ufficio per Azioni di testa”, “Ufficio Deleteri”, “Ufficio Quindici”…
Sto girando da circa un’ora e continuo a incontrare uffici con nomi sempre diversi: “Ufficio Giaculatorie”, “Ufficio Va”, “Ufficio”… Finalmente vedo una porta recante la scritta “Ufficio Informazioni”. L’apro. Ci sono tre grossi bruchi seduti a un tavolo che giocano a carte. Richiudo la porta. Nelle successive tre porte incontro: il bidello di quando andavo alle elementari che, come allora, non sa nulla, un acquario con i pesci e infine un giovanotto del 30 febbraio che ha sbagliato giorno.
Proseguo ancora e la mia costanza è premiata. Finalmente trovo la porta con la scritta: Ufficio Codici e Parenti.
Busso.
- Avanti! E si sbrighi.
Entro e vedo il nano alla scrivania. Indossa un paio di occhiali e consulta un grande schedario che occupa tutto il ripiano.
- Dovevo immaginarlo – sospiro. Poi ho due alternative: arrabbiarmi di brutto o parlare gentilmente. Preferisco la prima possibilità. Avanzo fino alla scrivania con la mia irresistibile cavalcata dell’incazzato. Stringo i pugni e li sbatto con forza sullo schedario, gridando:
- Ma che piffero ci fai qui? Nano della malora!
Il nano non si scompone. Sputacchia sulle mani e si lava la faccia.
- Ovviamente fornisco i codici a barre, come c’è scritto sulla porta. Lei è un Parente?
Mi siedo per terra, prendo la testa tra le mani e mi metto a piangere. Il nano s'impietosisce, non è malvagio. Mi s’avvicina e mi asciuga le lacrime con un fazzoletto.
- Su, non faccia così – sussurra con voce soave – tutti prima o poi ricevono un codice a barre, no? Però mi par di capire che lei non è un Parente e la cosa si complica.
Tra i singhiozzi balbetto:
- Già… pe-perché adesso è tutto troppo semplice...
- Sa che facciamo? – prosegue il nano. – Andiamo giù al bar e ci facciamo un cappuccino. Quando la pancia è piena tutto appare più roseo.
Si alza e si dirige alla porta. Lo seguo come un automa. In strada non ci sono bar, ma questo me l’aspettavo.
- Accidenti! – esclama il nano con evidente disappunto. – Cesare non ce l’ha fatta a esistere.
- Chi è Cesare? Domando con un filo di voce.
- È il padrone del bar, ovviamente. - Poi si guarda il polso come se avesse un orologio e aggiunge: - Ah, s’è fatto tardi, devo proprio andare. Ci vediamo la prossima volta. Intanto lei si procuri un codice a barre. Addio!
Così dicendo mi gira la schiena e vedo il suo culetto allontanarsi veloce lungo la via.
- Ma … ma io che faccio qui? – protesto.
Il nano s'arresta, si volta e mi guarda con aria stranita:
- E come faccio a saperlo io? Per quanto mi riguarda la storia finisce qui.
- Finisce qui? – poiché la scrittura dei punti interrogativi accompagnati da punti esclamativi non sono ben visti da queste parti, devo specificare che la domanda la urlai con due punti interrogativi e otto esclamativi. Poi metto le mani a coppa davanti alle labbra e grido: – Ma che diavolo! La storia sarebbe finita qui? Che finale è?
Il nano s’infuria a sua volta.
- Che finale è, che finale è... Oh, la fate facile voi Tuttigiorni! Voi che vi siete accaparrati l'intera esistenza! Accidenti! Con tutta la fatica che abbiamo fatto per esistere volete anche che la
storia abbia un finale? Prepotenti ed egoisti!
Detto ciò prese a correre lungo la via con le sue gambette storte e presto scomparve alla vista, lasciandomi tutto solo, nel mezzo del 31 aprile e con una storia scritta a metà. Vi pare bello?

martedì 23 luglio 2013

ALYSON 67 di Antonio Ognibene

     
                    
Un gioco troppo pericoloso

L'ampia fascia di spazio intergalattico era libera da polveri e detriti, un vuoto perfetto.
A rompere l'equilibrio di questo scenario monotono, era una macchiolina dalla bizzarra forma di squalo.
L'astronave della Benson & C. appariva come un placido bestione arrugginito che vagava alla cieca e fuori rotta, nei pressi di Yakootah, una stella di classe F dal colore bianco-giallastro.
La vernice della fiancata destra del cosmocargo era ammaccata e piena di bolle, causate dai colpi incessanti dei cannoni a raggi Beam che ne avevano surriscaldato le lamiere. Uno sfregio lasciato poco prima dell'abbordaggio da parte di una nave predatrice randyriana.
La zona MY24 era conosciuta anche come Deserto Nero, nome affibbiato dai quei pochissimi cosmonauti che vi transitavano.
Sul lato della carlinga danneggiata, erano appena visibili il numero 56 rosso stampigliato vicino al muso, e la stella dello stesso colore marcata sulla pinna di acciaio.
Dei cavi penzolavano nel vuoto da sotto la pancia, come tentacoli privi di vita.
I pirati che l'avevano ridotta in quel modo adesso erano lontani milioni di chilometri, forse in direzione di Lybor V, a smerciare di contrabbando il platino depredato e sperperare il denaro in compagnia di donne kubyrre e a trangugiare othos fermentato. Sul cargo avevano lasciato pochi container pieni di razioni HPL e un centinaio di morti.
Questo successe circa venticinque anni prima.
Ma non tutti perirono in quella carneficina.

* * *

Nel magazzino viveri, una giovane figura femminile se ne stava accovacciata dietro una porta scorrevole chiusa. Imbracciava un fucile a raggi Beam LS60.
“Quest’attesa mi fa venire il mal di pancia,” pensò mentre si torturava con i denti il labbro inferiore. “Dovrei andare al bagno.”
Aveva i capelli castani rasati quasi a zero e due occhi blu che spiccavano sulla carnagione pallida.
Ogni tanto appoggiava l’orecchio alla fredda paratia di metallo, trattenendo il respiro. Sentiva i battiti del cuore pulsargli nelle tempie.
Dietro la porta c’era un lungo tunnel che scorreva per circa duecento metri come un budello nella pancia dell’astronave. Terminava con un incrocio che portava in vari locali.
Nella semioscurità del deposito, proprio di fronte alla porta dove se ne stava rannicchiata Alyson 67, c’era un secondo passaggio che portava alla sala macchine. Ma l’apparato di propulsione dell’astronave era stato messo fuori uso dai pirati e non funzionava più da anni. La ragazza era sicura che il nemico non sarebbe passato da lì.
La maglietta bianca e sporca della giovane aveva delle vistose chiazze di sudore sotto le ascelle, ogni tanto prendeva l’estremità dell’indumento per asciugarsi il sudore dalla faccia. Anche se i motori non funzionavano il riscaldamento era assicurato tramite pannelli solari montati sopra la parte posteriore del cargo.
A volte lei si appoggiava il fucile sui jeans per far riposare le braccia. Nella stanza si sentiva solo il suo ansimare e lo sfregamento delle suole di gomma delle scarpe da ginnastica contro il pavimento di linoleun.
“Diavolo, arriva o no?”
Restò ancora in silenzio, con l’orecchio incollato come una ventosa sulla parete.
“Forse ci siamo... credo.”
Si udivano dei battiti leggeri ma decisi e insistenti, sul pavimento di ferro grigliato del tunnel.
Alyson trattenne ancora il fiato.
“Non può essere lui.”
Lo strepitio era troppo debole. Lei sapeva che sulla nave c’erano molti topi, e stava attribuendo quello scalpiccio proprio a qualche roditore in cerca di cibo.
Seguirono degli incessanti gridi acuti, interrotti da uno scricchiolio come di piccole ossa rotte.
“Si sta mangiando i topi!” disse con una smorfia di disgusto.
Per un attimo che le sembrò infinito, non sentì più nulla, ma restava con l'orecchio appiccicato alla porta.
Dalle lamiere metalliche del pavimento salì un rumore crepitante, come se qualcosa di grosso si stesse avvicinando con calcolata cautela.
“è lui,” pensò. “Stavolta è lui.
Nel tunnel la luce tremolante dei neon rifletteva strane e grottesche ombre su pareti e soffitto.
Sentiva in modo chiaro graffiare sul metallo esterno della porta, come il rumore delle unghie sulle lastre di ardesia delle vecchie lavagne.
Alyson si turò un orecchio con un dito, strinse per un attimo gli occhi e serrò i denti.
“Devo rimanere concentrata,” pensò.
La giuntura tra le due porte scorrevoli sembrò spostarsi in modo millimetrico.
Tolse la sicura all’LS60.
“Vuole forzare la porta con gli artigli.
La ragazza si alzò in piedi. Vedeva l’anta di metallo sollecitata da uno sforzo esterno.
I crampi allo stomaco aumentarono.
Sentiva solo l'odore acre del proprio sudore.
Lo sguardo si fermò sulla pulsantiera di un dispositivo touchscreen, installato su una colonna alla sinistra dell’entrata.
Sopra il pannello alfanumerico c’era un rettangolo luminoso rosso con una frase scritta in caratteri bianchi: Digitare il codice di accesso.
Alyson pigiò sullo schermo tattile una serie di numeri e lettere.
- Vieni a prendermi, bestione! – disse a denti stretti, poi si allontanò di qualche passo dall’ingresso.
Le ante della porta si aprirono con un sibilo.
Entrò una ventata di aria calda, seguita da un odore intenso e sgradevole, come di cibi andati a male.
La ragazza emise un urlo selvaggio e fece fuoco, ma il raggio azzurrino non colpì nulla e si smorzò nell'aria. Davanti alla giovane donna non c’era nessuno, solo un lungo corridoio vuoto.
- è impossibile! – disse – Era dietro la porta, l’ho sentito.
Il petto le si muoveva in su e in giù.
Doveva avvicinarsi alla colonna per richiudere la porta.
Gocce d'acqua precipitavano dai tubi posti sul soffitto, giù nella pavimentazione con un irritante blip, blip, formando un torrente stagnante sotto la grata di acciaio.
Aly avanzava a piccoli passi. Rivoli di sudore le colavano dentro gli occhi, dandole un fastidioso senso di bruciore.
Teneva l’arma puntata verso l’apertura. Bastava premere un solo pulsante per chiudere l’entrata.
Il bagliore blu della pulsantiera le illuminava il dito indice, a una decina di centimetri dal tasto di chiusura.
Il braccio scattò verso il touchscreen ma prima che potesse premere il pulsante, una creatura verde e squamosa si staccò dal soffitto e atterrò davanti a lei, colpendola con una zampata.
Zaff!
Alyson fece un volo all’indietro e rotolò sul pavimento per tre o quattro metri. L’LS60 finì sotto un armadietto di acciaio.
Aveva ancora le gambe per aria quando guardò il gigantesco lucertolone avanzare verso di lei.
La parte ventrale dell'alieno era un fascio di muscoli tendente al giallo ocra. L'essere ondeggiava la testa in modo lento, a destra e a sinistra.
La ragazza si toccava la schiena e con una smorfia tentava di rialzarsi.
Il sorriso del mostro era ipnotizzante, estrofletteva la lingua biforcuta e minacciosa tra i denti simili a migliaia di aghi; in questo modo poteva raccogliere le molecole olfattive presenti nell'aria e analizzarle, considerato che la vista non era il suo forte.
Alyson riuscì a mettersi a sedere. Le arrivavano improvvise zaffate di marcio, come se l'orribile creatura avesse appena fatto colazione con un piatto di spazzatura.
- Che schifo! - disse, pensando al fiato del rettile.
- Diavolo, Creech! - urlò verso il mostro.
- Troppa veemenza? - chiese il sauropode con una smorfia di rincrescimento.
Le scappò un’imprecazione.
- Tu che ne dici?
Il mostro si grattò la testa con gli artigli ricurvi.
- Scusami Aly, ti sei fatta molto male?
- No, tranquillo è già passato. – disse alzandosi e dirigendosi verso il fucile.
- Mi dispiace davvero. – continuò Creech, guardandola raccogliere l’arma.
- Ma l’avevi settata in modalità uno? – chiese poi.
- Certo – rispose lei – Mi credi così idiota da ucciderti? – disse.         
- Con chi giocherei, poi? – continuò dando una pacca con la mano sull'avambraccio muscoloso di Creech. Lei gli arrivava sì e no poco sotto il petto.
Le pupille da rettile del suraniano si ridussero a due capocchie di spillo.
- Lo rifacciamo, Aly? – La fila di denti sottili spiccavano in quella bocca priva di labbra.
Alyson si stava massaggiando con le mani la zona dei reni.
- Ti eccita, eh? - disse lei con un sorrisetto ironico.
- Dai Aly, prima di cena! - insistè.
- No, Creech – replicò la ragazza. - Basta. Sta diventando un gioco troppo pericoloso.
La sinuosa linea dell’astronave, sparì inghiottita nel gelido intenso dello spazio.