martedì 9 aprile 2019

IL MISURATORE di Pierre Jean Brouillaud

La nube scintilla. Vapore o polvere di stelle. Sopraggiunge: o meglio, ci attira. Velocità: qualche cosa tra l’erosione e la luce. Lo spazio assume a impulsi una nuova densità. Brusche variazioni di ritmo. Un susseguirsi di accelerazioni e di rallentamenti. Correnti che ci trasportano, ci sviano, ci dirigono. La nube ci assorbe. Bianco sovresposto. Vuoto e pieno.
Un punto luminoso, inoltre, traccia una linea luminosa che presto svanisce. Ma ecco che lo spazio fecondato palpita. Un orizzonte si riallinea, erubescente, venato di blu e di turchese. Il punto rinasce, descrive una curva, un cerchio, una serie di cerchi concentrici al raggio decrescente. Si espande, decelera. Sta per fermarsi. Alla base si forma un rigonfiamento, goccia che tremola, vibra, cade, rintocca e risuona nella membrana dello spazio, timpano e tamburo. La goccia evapora, ma l’urto ritorna, generando un rilievo sonoro, che schiude profondità infinite. Eco moltiplicati dall’alternanza di lungo e di breve.
Nate da una goccia del sole bianco, così ci appaiono le Miriadi. È il nome che sarà dato a questo universo uno e molteplice. Polvere di mondi.
Noi siamo l’Equipaggio. Uno e molti. Quanti? Importa poco. Diciamo cinque. Prendendo spunto dalle dita della mano. Non abbiamo che un nome solo. Parliamo di una voce sola. E forse mai, durante quest’avventura, uno sarà distinto dall’altro.
Abbiamo scoperto il crocevia del tempo. Si situa alla frontiera degli elementi, alla giuntura del cielo, del mare e della terra. In un punto in cui tutti i piani si intersecano.
Siamo passati da questa geometria dell’impossibile. Siamo stati presi nel turbine. Perché il tempo è un vortice. All’inizio se ne percepiscono solo i colori. Li prende dai tre elementi: azzurro, verde, glauco, striato d’ocra. Iridescenza. Un calice fluido. Poi il tempo si scolora. Nel cuore del vortice, si ha la sensazione di restare immobili. Non c’è strumento, cervello che possa misurare, stimare la velocità.
Non è né una caduta, né un’ascensione, perché non ci sono né l’alto né il basso; è un salto nel vuoto. Si entra, si esce. Fra i due, un lampo, un capogiro.
Attraversiamo i quattro anelli. Il primo nero con striature blu notte. Il secondo, porpora e violaceo. Il terzo splende e palpita come il corpo di una grande fiera. L’ultimo è diafano.
Il suolo si posa sui nostri piedi. Torna più volte. Troppo alto. Troppo basso. Si assesta. Rolla un po’. Beccheggia persino. Per oscillazioni, ci cerca. L’Equipaggio fa qualche passo. Il sole si fortifica. Intorno si delineano elementi dello scenario. La luce, la cui intensità diminuisce, traccia contorni e libera piani.
Trasparenza del mattino. Luce blu. L’atmosfera è impregnata di un profumo penetrante. Non viene né dalla terra né dalla vegetazione. Al contrario cala su di loro.
Dinnanzi a noi si innalza una foresta di fusti piramidali. La vegetazione acquista colori più intensi. Ogni tanto cambia di tono. Crepita. Si spacca. Si direbbero involucri di una mongolfiera che si dispiega e si gonfia. La foresta canta il suo brano musicale. E tutto ciò che si offre alla vista sembra ingigantire. Eccetto noi, che siamo sempre uguali.
Di colpo, le piante, gli elementi del paesaggio raddoppiano, si moltiplicano.
Si tratta di una semplice duplicazione dell’immagine. I corpi duplicati però esistono; li tocchiamo, li esploriamo. Si impongono a tutti i nostri sensi.
Con un’eccezione, comunque. Noi siamo cinque. L’equipaggio resta se stesso, mentre intorno tutto pullula.
La natura sorge davanti, dietro, a destra, a sinistra. Siamo soverchiati, circondati, schiacciati, inghiottiti, annullati. Bisogna manovrare in mezzo a una vegetazione sempre più densa. Ci schizza in faccia, sbucando sotto i nostri piedi. Reclama quel poco di spazio che noi ancora occupiamo. Noi cerchiamo una via. Percorso a ostacoli che già ci vede perdenti. Facciamo saltelli per evitare le punte che sbucano. Presto, saremo sollevati, proiettati.
Frinire di cicale. La vegetazione protesta. Non lascia il minimo spazio alle altre forme di vita.
Mezzogiorno. La vegetazione ha cessato di crescere. Qui e là avvengono ancora moltiplicazioni. Invece di un getto, una semplice spinta che abbiamo tempo di parare. Ci vien da pensare che già ci stiamo addentrando nell’estate.
Osserviamo che spesso, una nascita abortisce. La terra sollevata si affloscia. Non vi resta che un rigonfiamento. Le piramidi intanto si opacizzano. I loro tronchi turgidi si riempiono di scaglie che donano loro l’aspetto di palmizi.
È il rigoglio dell’estate.
Invece dei profumi primaverili, nell’aria fluttuano odori acri. Anche se in forme elementari, fa la sua comparsa la vita animale. Cerca di affermare i suoi diritti. Nelle pieghe del terreno, sui versanti più esposti, è il suo turno di sorgere. Fa nascere corone di bolle gelatinose che si schiuderanno alla carezza del sole. Semenza di mezzogiorno. Grave difficoltà questo ritardo di qualche ora – una stagione – sulla proliferazione vegetale.
Degli esseri unicellulari, di grande plasticità, scivolano tra i rami, si cercano per amalgamarsi. Prudente, quasi timida, la vita animale sta occupando il vuoto in una struttura incorniciata dai vegetali.
Una detonazione secca si ripercuote attraverso la foresta delle piramidi. Un tronco esplode. Un altro ancora. Si polverizzano senza lasciare alcuna altra traccia che una tumescenza del suolo. Le esplosioni si susseguono. La foresta sta per saltare, per le violente pressioni interne? Sembrerebbe che, nella maggior parte dei casi, le piramidi scoppino vicino al manifestarsi della vita animale, che però così viene spazzata via. Terrorismo vegetale?
Impossibile prevedere da dove arriverà il colpo che liquiderà tutto o parte dell’Equipaggio. Presso di noi o magari sotto i nostri piedi, alla stessa base di una piramide. Un crepitio precede sempre l’esplosione. Miccia che brucia prima dello scoppio. Senza dubbio le fibre del tronco che iniziano la combustione. Poi il crepitio diviene generale. Stridore di cicale.
Attenzione! Abbiamo appena avuto il tempo di vedere il tronco vicino, che si fendeva che siamo stati assordati dalla detonazione. Coperti di polvere, ci tastavamo. Indenni.
In un avvallamento, le esplosioni hanno distrutto le prime manifestazioni della nuova vita. Ma nei punti dove erano le piramidi esplose, non sono le piante a ricomparire. È la vita che rinasce. Nel fondo di una buca si forma una massa di elementi agglutinati, allacciati, confusi. Si rigira su se stessa. Subito, si contrae. Una semenza blu ne irriga i componenti divenuti diafani. Qualche secondo, e non c’è più trasparenza.
Corpi olivastri. Poi questo microcosmo, che pare mosso dall’energia del desiderio, entra in una fase d’espansione. La massa presto occupa tutto l’incavo che la ospita. È agitata da un movimento interno, centrifugo, che parte da un nodo più denso. Nella fase di espansione, gli elementi si sviluppano maggiormente quando si avvicinano alla periferia. Sembra si vogliano staccare dall’insieme, che la massa vitale sia, a sua volta, sul punto di scoppiare. Ma ecco la contrazione che li frena e li reintegra. Invece quelli che sono arrivati alla periferia, non essendo più irrorati, cessano di riprodursi. Si accasciano, formano una pellicola, una pelle morta.
Poi si manifestano delle tensioni. La pellicola si crepa e lascia apparire uno strato elastico, vivente, che si sostituisce al precedente e proietta minuscoli frammenti di pelle.
Un tepore sprigiona dalla massa in movimento. Essa è particolarmente sensibile quando la massa raggiunge la fase di maggior contrazione. Poi inizia l’espansione e fa scaturire il liquido blu. Gli elementi allora si separano gli uni dagli altri e ritrovano una certa autonomia. Quando si diffonde la semenza perde colore.
Ma a lungo termine, chi farà progressi? L’inarrestabile orgoglio vegetale? O l’animale che malgrado le apparenze, forse guadagna terreno, pezzo per pezzo, incrostato in ogni fessura del suolo, dopo aver riconquistato tutte le posizioni perdute e invaso la foresta esplosa?
Siamo nel centro del pomeriggio. Di fase in fase la massa decresce. Le corone si vuotano e si disseccano. I loro occupanti – almeno i sopravvissuti – si celano in una vita clandestina. Hanno, a loro volta, deposto la loro semenza ancora invisibile e che sonnecchierà fino all’inizio della prossima estate, sotterrata, così ben nascosta da sfuggire alle ultime aggressioni vegetali.
Le forme si restringono. Si assottigliano, e quindi noi diventiamo più grandi. La foresta si è rischiarata. Non resta che un soggetto su dieci. Brindiamo a ogni elemento che scompare. L’autunno si accende mentre l’estate esplode. Emanazioni fluide, esse stesse composite. L’autunno odora di polvere, di bruciato. Scoppi sonori. Scoppiettii. Crepitii di braci umide. Petardi. Il fuoco non si ravviva. L’autunno è come un prurito alle estremità. Spinte centrifughe. Di quale richiamo esterno è seduzione? Tentazione dello smembramento. Sconclusionate, sono tutte le immagini che, dolcemente straziate, si inaridiscono. Alle volte, non ne sopravvive che la metà. Poi svanisce anch’essa. Sempre dei piani che non possono collegarsi. Disinnesto. Là, due immagini le cui metà si rincorrono e tentano di raggiungersi. L’una e l’altra tentano ogni combinazione possibile. Diritto, rovescio. Sotto, sopra. Capovolti. Di fronte, di lato, di sbieco. Sali e scendi. Puzzle, impaziente gioco di pazienza. Flash. Incontri mancati nello spazio e nel tempo. Contrattempi. Due metà sinistre si rifiutano e vanno ad associarsi ad altri elementi del paesaggio. Divisioni seguite da accoppiamenti secondo assurde formule: A1+B2, B1+C2, A2+C1. La meta si separa; si permutano: A1+C2, B1+A2, C1+B2.
Improvvisamente, tutto torna all’ordine. Il paesaggio si è calmato. Gli elementi hanno ritrovato combinazioni stabili che, per la maggior parte, consistono in un ritorno alle formule precedenti. Equilibri che l’inverno sta per congelare. Preso dal gioco delle permutazioni, l’Equipaggio non ha scorto il sopraggiungere della stagione notturna. E già scende la sera.
Brevità dell’autunno. Un languore insidioso ci intorpidisce. L’inverno si annuncia con un acciottolio. L’aria si fa chiara e si cristallizza. Fini aghi che pungono la gola e i polmoni. È arrivato l’inverno. Secco. Brutale. Il sangue si ritira con la linfa. Questa volta, siamo bloccati. Presi in una tagliola. Radicati. Solidificati in piedi. Statue straniere, piantate come meteoriti sul suolo delle Miriadi. Freddo? Per noi no. Un benessere che si prova, dicono, a dormire in un buco nella neve. Benessere? Essere appena. Perduta ogni sensazione di temperatura. Il pensiero stesso svanisce. Brina della memoria. Mettere insieme mezz’idea, difficile. Non ci si vede più. Non si sente nulla. Dormire. Smettiamo di respirare, con molta naturalezza. Senza la minima preoccupazione. Dormire. L’uomo questo intruso, infine paralizzato. Sì, vediamo. Ancora. Del paesaggio non resta che un pallido cliché. Immagine fissa. Ultima impressione retinica. Occhio ibernato.
Blu. Trasparenza dell’immagine nel giorno che rinasce. Il cervello scongelato. Associa ma non percepisce sfumature. Che poi si animano.
Difficile legare il pensiero ai movimenti delle forme che si delineano, a quelli dei nostri corpi. Il petto finalmente si solleva. Facciamo una profonda inspirazione. E ritroviamo l’uso delle nostre membra.
Non sapremo mai se il freddo regna su questa parte delle Miriadi. O se l’inverno non è che un’assenza. Ne sapremo qual è la sua durata. Potrebbe essere la più lunga di tutte le stagioni o la più corta.
Mattina. Ecco la primavera, spinta dalla febbre; risveglio o sogno che riscuote il dormiente?
Bisogna muoversi prima del ritorno dei profumi, sfuggire alla seduzione che ci intrappolerebbe sicuramente fino all’estate prossima, con le sue violenze e i suoi vicoli ciechi, e ci coinvolgerebbe nella folle danza delle stagioni.
Immagine sfocata. Dominante rossa. Degli organi invisibili suonano una toccata radiosa. Giungono dei riflessi, venuti chissà da dove, e illuminano un cespuglio di cristallo i cui steli sono faccette che scompongono la luce. Sostiene frutti a forma di baccello. I grani appaiono sotto l’inviluppo iridato che, agendo come una lente, vi concentra i raggi solari. Faville blu. Il sole accende una vetrata. Proprio contro la parete rocciosa, insiste su un ordine di colonne che libera dall’ombra e che avanzano nella chiarezza, sfavillando di tutti i colori del prisma. Si moltiplicano, si ordinano in ranghi serrati, profondi. Al richiamo della luce si solleva una città di vetro, fusa, colata dal fuoco del vulcano. Innalzata, città cattedrale interamente consacrata alla gloria del fuoco che fu suo architetto, alla gloria del sole da cui nasce il fuoco. Risuonante, essa saluta i suoi dèi. Noi, siamo ignorati quando passiamo davanti ai suoi pilastri. E questi non riflettono nemmeno le nostre ombre quando ci frapponiamo alla luce.
La musica si è spenta. Presto, rinascerà, diversa, distante e nostalgica. Il sole è salito. Gira. L’ombra si stende sulla città. Le colonne debolmente restituiscono la luce. Si illuminano dall’interno – gemme in cui fluttuano pagliuzze ambrate. Senza la minima traccia di fumo o di combustione, corrono tra gli edifici, folla impaziente che attraversa in un brivido. I figli di fuoco danzano, instancabili, impercettibili. Non si nutrono che di se stessi. Acconciati di giallo, crestati di blu, oscillano. Corrono allacciati, tornano, si avvitano, si accoppiano. L’atto d’amore li esalta e li magnifica. Si espandono, salgono in avvitamento. Corona di fuoco. La città intera si illumina. Quando si accoppiano, è per fiammeggiare così e per morire. Per rinascere senza posa dal mattino alla sera. Essere collettivo che non persiste. Popolo nomade divenuto sedentario il giorno in cui le colonne hanno saputo imprigionarlo offrendogli il gioco dei loro specchi. Popolo bambino che incanta la magia dei riflessi, con l’infinita mobilità del suo stesso spettacolo.
Quel fuoco che ci ignorava e la cui danza capricciosa ci teneva lontano dalle colonne ha percepito la nostra presenza. Si spinge verso di noi. Rapido, ci traccia intorno dei cerchi. Ci cattura.
I figli del fuoco sono meno numerosi di quanto pensavamo. Si moltiplicano nei prismi di vetro. Appena sfuggono al loro recinto, li si vede un po’ individualizzarsi prima di mescolarsi tra loro. Senza danni, abbiamo superato la prima linea. Istantaneamente, recuperiamo la nostra ombra. Si eleva curiosamente tra noi e le fiamme. Eco che danza coi figli del fuoco.
Imitando la nostra ombra, scomparsa ogni paura, vortichiamo. Passiamo tra le colonne. All’interno, si spaziano, formano una sala in cui ci si muove facilmente. La folla ci accompagna. Non possiamo fermarci da nessuna parte. Se ci arrestiamo, il fuoco ci brucia. Per sfuggire al suo morso, bisogna muoversi restando in mezzo alle fiamme. Ritornare fuoco nel seno del fuoco. Le fiamme ci incatenano. Ci imprigionano. Corrono su tutto il nostro corpo. E fiamme noi siamo, rosse, pettinate di blu. Non tocchiamo più terra. L’aria ci solleva. Il suolo è di brace. Non viviamo più nell’istante. L’istante non esiste più. Si consuma. Prima di nascere, naufraga. Gli corriamo appresso, ma siamo sempre in anticipo o in ritardo di un attimo.
Danziamo, fino allo sfinimento. Stiamo per cadere. Riposo che ci perderà. Immobili, presto ci consumeremo.
Il fuoco volteggia, intorno a noi. Velocità sconvolgente. Onda su onda, il fuoco si espande.
Giriamo. Giriamo. Le nostre ombre si proiettano all’esterno. Presto! Dobbiamo raggiungerle. Le fiamme rinserrano la loro stretta. La nostra ombre svanisce. Abbiamo oltrepassato la barriera. Il fuoco non è altro che un riflesso danzante all’interno delle colonne.
Gli organi iniziano un gioco desolato, mentre la città fonde, consumata dal fuoco delle immagini. Quelle immagini ch’essa proietta, al levar del sole, come ricordo di quelli che la popolarono.
Dalla parete vetrificata, non resta che una massa indistinta, opaca. Noi la aggiriamo. I cespugli di cristallo si incrostano di una materia nerastra e si sbriciolano.
Caos di lave rosse e nere. Discarica. Campi di scorie stridenti, scricchiolanti sotto i nostri piedi. L’Equipaggio risale delle pendici che dividono delle faglie. In fondo a un sentiero cola e gorgoglia una massa vischiosa, leggera come un impasto, scagliata di tanto in tanto da un’eruzione. La colata si spande, precipita fino a un terrapieno, dove, rallentata, si ferma. Transitando, forma delle bolle. Che presto si gonfiano. Divenute sfere traslucide, si ricoprono di una membrana. Dalla bolla nasce un uovo. L’uovo è un occhio la cui pupilla descrive un cerchio completo. La parete si fa sempre più pallida. La macchia nera accelera la sua rivoluzione. Poi torna al centro. Gira su se stessa. All’esterno scaturiscono degli pseudopodi che, subito, si articolano, si ramificano, si allacciano per formare un reticolo. Ma ecco che, lacerando le loro giunture, si individualizzano. Sono altrettanti nuclei che si modellano per concentrazione di materia e che si sviluppano, sicché una sfera vicina si colma di una granulazione lattea e bucherellata, che diffonde una polvere di spore.
Indecise, balbettanti, le forme di vita prodotte dalle sfere interagiscono l’una con l’altra. Non appena le loro periferie entrano in contatto esse lottano e, quasi subito, si compenetrano. Oppure degenerano. Il flusso di semenza disperso non tarda a raffreddarsi. Affinché si attivino le funzioni vitali generatrici di calore, sarà loro al più presto necessario ottenere un livello di complessità sufficiente. Le forme dunque ingaggiano una gara disperata contro il freddo, contro la morte. Fino al momento in cui non sono ricoperte da una nuova colata, così bruciante da consumarle. Su questo terreno cauterizzato dove si accanisce la vita, un sole bistro, venato d’antracite, lampeggia, tanto che il camino, attraverso le scorie, emette una voluta di fumo.
Il cielo acquista toni carnali. Cade una pioggia sanguigna. E presto il suolo fertilizzato germina.
Accade allora un curioso fenomeno di desquamazione. A placche, il tappeto vegetale si gonfia. Si innalza, poi si stacca dal suolo. Trasportate da un turbine, le scaglie volano e danzano, come foglie secche. Per disporsi su un asse mediano. Farfalle, ali senza corpo. È la terra spogliata che, ora, germoglia. La nube di sfumature effimere e multicolori scende, si posa più lontano e ricompone un altro motivo vegetale.
Il territorio si estende in giganteschi polipai, arborescenze madreporiche. Intrichi di corallo e di spugne sempre più densi, terreni spugnosi in cui l’Equipaggio avanza penosamente. Rigidi rami, taglienti che si alternano con masse molli dal tocco gelatinoso. Quando, per sbaglio, rompiamo uno di quei rami, esso sanguina. Anche le spugne sono imbevute di questo liquido rosso.
Piove senza posa. La crescita sembra rallentare. Il suolo ha bevuto il sangue; si ricopre di una schiuma che potrebbe essere una varietà di spuma che emette sbuffi sotto i nostri passi. La stessa sostanza si deposita sui nostri vestiti. La toglieremo a scaglie. Ma poi la lasceremo fare, avendo constatato che essa assorbe il liquido rosso e che in seguito, privata di cibo, subito si secca.
Giunti, e non senza fatica, sulla cima di un poggio, dominiamo una conca occupata da uno stagno i cui successivi livelli si percepiscono in un digradare di rossi. Immediatamente, la massa liquida si dilata, ricoprendo la prima gamma del color limone. Il sangue freme, scoppia in semi, si abbatte sulle sponde. Poi viene il reflusso. Di riva in riva esala un lungo sospiro. La marea è come una respirazione. Le rive dello stagno sono allo scoperto, eccetto qualche sbuffo di schiuma. Si distingue, comunque, sulla riva destra una specie di ala macchiettata di rosa che freme sotto la luce.
Lungo la riva, raccogliamo dei baccelli trasparenti che costellano l’invaso. Queste piccole lenti biconvesse contengono bizzarre efflorescenze. Che siano i frutti dei cespugli di cristallo visti nella città degli uomini fiamma? Nelle nostre mani, i baccelli emettono dei crepitii simili a quelli dello zolfo bollente. Si aprono. Se ne vede staccare una corolla o piuttosto aprirsi delle labbra che palpitano, leggere, sotto le nostre dita piegate per trattenerle. Una pressione. E muoiono. Non ne resta che un fragile involucro. Ma se apriamo le mani stando attenti a non sgualcirle, esse sfuggono. Vorticando, si posano sul bruno limone sul quale si allargano, si gonfiano, si aprono e liberano una polvere d’oro che sembra polline.
Dirigendoci a destra, abbandoniamo lo stagno. Dalla sua superficie emerge una fitta vegetazione, rilucente, che ricorda enormi banchi d’alghe. Ciò che, da lontano, ci era parsa come un’ala ora ci sembra come un’escrescenza carnosa proliferante a vista d’occhio. Da tutte le parti, emergono prolungamenti, dita così flessibili e così mobili che le si crederebbe di caucciù. Delle dita che palpano la riva, esplorano il mondo esterno a vantaggio di una forma nascente. Una vita che cresce tanto rapidamente che, presto, le sue appendici tattili ci circondano, ci attirano, ci percepiscono. Queste migliaia di appendici appartengono indubbiamente a una colonia di individui uniti da un’unica membrana. Corpo collettivo che ci avviluppa e sta per assorbirci. Forse siamo già all’interno di questo organismo. No. Restiamo alla superficie, trattenuti da una sorta di cordone sanitario.
Non potendo liberarci, cerchiamo di penetrare lo sbarramento. Così vedremo ciò che ci attende al di là. Più che una barriera, a trattenerci è una specie di rete. Impossibile oltrepassarla. Ci lascia ancora una certa libertà di manovra, ma abbiamo l’impressione che essa rinserri le sue maglie, impercettibilmente. Istintivamente, ci raggomitoliamo.
Facciamo evoluzioni tra i flagelli. Che vibrano, come fanno gli anemoni di mare. Presto, inclinandosi tutti secondo lo stesso angolo, ci fanno scivolare sulla loro superficie. Verso quale destinazione? Non esercitiamo alcuna presa su queste umide protuberanze, viscose. C’è forse una possibilità che, finalmente, esse ci espellano e che, risalendo, noi…
Sotto la membrana trasparente, azzurrognola, un liquido incolore irrigha i tessuti, similmente al mare che in profondità inumidisce le sabbie. Un’altra linea di difesa si prepara, dall’altra parte della parete: dei corpi violetti, d’apparenza spugnosa, si riuniscono e varcano la parete per osmosi. Si dispiegano a semicerchio. Sorpresa. Non ci attaccano ma ci respingono lungo la membrana che sembra dissolversi. Gli siamo passati attraverso, e in buona compagnia. Questo ci conduce all’entrata di un budello, prima di svanire tra i tessuti.
Un alone verdastro rischiara una volta rosa. Lungo questo corridoio fluttua un tenue vapore. Subitamente, la parete diviene a sua volta traslucida. Gli anelli che la compongono si stagliano in bruno sul rosa pallido venato di bianco. Sembra illuminata dall’esterno. Dall’atra parte si abbozzano dei contorni, delle ombre delicate. Tutto un universo suggerito. La luce si smorza, intercettata dai rilievi. Strutture color carne, di un rosso più intenso nei punti ombreggiati. Sembrano provenire, per il loro intrico, dalla foresta vergine e, per la loro complessità, da una sala macchine. Tronchi e tubature collegati da liane. Ora, è l’Equipaggio che illumina il proprio cammino. Ciascuno di noi diffonde una fosforescenza che ci fa sembrare fari luminosi. Questa luce avvolge interamente i nostri corpi. Incredibile che essa si liberi così bene attraverso i vestiti. Mentre un denso flusso, appiccicoso, ci trascina, distinguiamo sempre meglio la volta. In avanti e indietro, al contrario, la visibilità si riduce a una distanza che si potrebbe valutare come tre o quattro metri, diciamo l’altezza di due corpi umani. Ma non disponiamo di alcuna altra scala cui commisurarci. Non ci avranno rimpicciolito alle dimensioni di questo microcosmo?
 Lunghe setole tappezzano la membrana. Ondeggiano seguendo i voleri della corrente. Noi ruzzoliamo nelle loro pieghe che frenano la nostra deriva col loro contatto leggermente adesivo. Al nostro passaggio si strappano dei ciuffi. Tra le setole fluttuano ombre. Tutta una popolazione indistinta abita questi recessi. Delle particole fini in sospensione in un liquido diffondono un luce bianca. Dei bastoncelli tracciano dei zigzag o compongono stelle. Si uniscono seguendo regole simili a quelle del domino. Incrociamo calotte trasparenti, fiori ondeggianti in cui petali sono altresì membrane natatorie dove la luce disegna motivi sfuggenti che tinteggiano un accenno madreperlaceo. Dall’ombra alle volte risale una sorta di polipo. Mangia una stella e diventa a sua volta sorgente di luce.
Anche quando è immerso per tre quarti il nostro corpo continua a emettere una luce che colora di rosso il paesaggio circostante. Ma mentre la brillantezza dello scenario si fa più viva, il nostro alone s’indebolisce. Percepiamo tutto il volume di queste cavità dove i flutti si attardano. E, per contrasto, ci sembra che la nostra taglia diminuisca ancora. Nei passaggi difficili, ci raggruppiamo, per moltiplicare la nostra intensità luminosa. I nostri occhi abituati alla penombra distinguono la palpitazione delle cartilagini, i battiti regolari della parete.
Passiamo davanti a grotte popolate di esseri albini che, al nostro avvicinarsi, riguadagnano le profondità. Abbiamo appena il tempo di intravederli. Quelli che si erano allontanati troppo per poter ritrovare subito la loro strada producono uno schermo d’ombra che li protegge dalla luce emessa dai nostri corpi. Si direbbe che si siano trasformati in anelli di fumo opaco. I quali, invece di dissiparsi, si solidificano, prendendo la consistenza di un disco colloidale. Li si può prendere, facendo attenzione, ma dietro non c’è più niente.
In cambio, ci sono altre specie attirate dalla nostra scia di luce. Senza dubbio stavano aspettando questa illuminazione per riprodursi. Davanti a noi, una pila di anelli si disfa per liberare i suoi componenti. E ciascuno di essi forma, a sua volta, un’altra colonna che si scompone di nuovo.
I flutti fanno ondeggiare anche dei pennacchi formati da ciglia argentee che, con un movimento grazioso, assorbono i corpi degli esseri albini.
Altri esseri sedentari hanno inserito i loro peduncoli nei rilevi della parete grumosa. Solo occasionalmente si spostano, invitati dalla corrente, e si danno a una specie di cabotaggio fuori del corso principale. Alcuni, che vanno alla deriva, si attaccano alle pieghe dei nostri indumenti. Questi cespugli animati recano, all’estremità dei loro rami, bolle che si staccano e vagano, leggere come bolle. Quando ci urtano, scoppiano.
Spinti da una contro corrente che viene inspiegabilmente dalla parete, andiamo incontro a una coltre vischiosa. Cerchiamo di evitarla. Ma un turbine afferra l’Equipaggio nello stesso istante della coltre. Sprofondiamo in una sorta di muco. Ma subito, la corrente si inverte. La corrente si spinge verso la parete e ci conduce a dei ciuffi rosa che sbattono rapidamente le loro ali. Sono queste che provocano le correnti. Già ci palpano. Insieme al menu di piccoli esseri, ingoiano anche il muco che esse stesse hanno prodotto. Ma senza dubbio noi siamo troppo voluminosi o troppo coriacei. Ne restiamo fuori, ondeggiando lungo le ramificazioni, quasi immobili. Gli sforzi che facciamo per liberarci purtroppo sono pari alla forza che ci attira. I ciuffi ora si apprestano a digerire i loro bottino. Il flusso è cessato. Approfittiamo della calma che sarà di breve durata per tornare alla corrente principale. Ma anche i ciuffi non tardano a espellere il liquido assorbito. Così il reflusso ci libera.
Questa volta, siamo aspirati verso la parete opposta. E quasi ci fracassiamo su una griglia d’osso tesa attraverso una gola spalancata. Una bocca e, dietro di essa, un ventre a forma di tasca, un animale che si limita a questo. Ma la griglia, simile ai fanoni di una balena, serve da filtro. E noi le sfuggiamo.
Malgrado la sua trasparenza, il flusso che ingrossa e ci trasporta non può essere che sangue: trasporta enormi grumi, amassi di fibrine che ci squilibrano e che occorre evitare.
Vorticando, stanno per agglutinarsi sulla riva. Attenzione! Non lasciamoci trascinare verso quel caos semovente o ne saremo avvinghiati, soffocati. I ciottoli ruotano su se stessi, urtano sulle sponde con un suono morbido. Da una piega della parete esce una nuvola di animaletti di un biondo dorato. Che spaventosa ingordigia! Per questa loro voracità la massa di fibrine sparisce a vista d’occhio.
Dietro di noi, non resta che un scintillare dorato. Ondeggiamo secondo i voleri del sangue. Ma questo, al minimo muoversi, ci entra dal naso, ci soffoca. E quando ci si sforza di riprender fiato in un’atmosfera densa come un flutto, non si può fare a meno di bere una sorsata esagerata. Una volta, dieci volte, lo risputiamo. Ma finiamo per inghiottire. E ciò che allora accade, non ce lo aspettavamo: ci tornano le forze. Poi anche se l’Equipaggio continua a lasciarsi trasportare, smette di essere un giocattolo per la corrente. Inoltre, il flusso si fa più regolare, più calmo. Respiriamo meglio.
Ecco l’uscita dal tunnel. Ma invece di aprirsi nella luce, si chiude o piuttosto termina in una specie di sfintere che sta per espellerci. La corrente accelera. Il muscolo si dilata, ci avvolge, ci lancia.
E' come un setaccio che abbiamo oltrepassato. Il soffitto della galleria si abbassa, le pareti si rinserrano. La pressione sulle nostre tempie cresce. Poi le gallerie inanellate si ramificano. Molto velocemente, si perdono in un groviglio di fini canali. Qui, vorremmo lottare contro la corrente, ma non ci sono appigli da nessuna parte in questo ambiente colloso, ricolmo di liquido. Poco a poco, il flusso ci disperde.
Si impantana tra gli acquitrini tra i quali ci areniamo, sgocciolanti, appiccicosi. Titubanti, barcollanti, finiamo per raggiungere un canale la cui corrente ci contenderà a questo fango che invece ci aspira. Ci lasciamo scivolare; poco importa dove ci conduce il flusso.
Transitiamo davanti a isole rosse e irte di capsule gelatinose che distinguiamo appena. Preso da un mulinello, l’Equipaggio danza come tappi di sughero. Spesso, si tocca il fondo sul quale si scivola. Un’asperità ci trattiene come relitti. Poi il livello del liquido aumenta. I naufraghi ripartono. Diritto verso la punta dell’isola. Davanti a noi si innalza la costa, luminescente, simile a una gengiva su cui sono piantati rari mozziconi di dente – delle capsule bizzarre. Al loro livello, dei punti si illuminano attraverso la rossa penombra. Tre punti. No, quattro. Stiamo per ammarare a destra. Ma una contro corrente ci devia. È a sinistra che doppiamo il capo. I punti si sono mossi. Ci seguono. Pensiamo a segnali lanciati al nostro arrivo per prevenire dei misteriosi predatori di relitti. In effetti, i punti sono un doppio paio d’occhi. Nel mentre transitavamo vicino alle capsule, li abbiamo scorti mentre si muovevano. Molto netti, si staccavano da una massa indistinta. Uno sguardo intenso. Occhi di gatto.
Ancora delle isole. Le abbiamo raggiunte. Ci sono delle capsule trasparenti, altre opache. Nelle prime, abbiamo intravisto corpi mummificati che mantengono qualcosa di un’apparenza umana.
Prigionieri trascinati come noi fino a questi bassi fondi per morirci incistati. L’Equipaggio saluta questi visitatori che ci hanno preceduto, mentre sfila tra i loro sarcofaghi. E testimoni del nostro fallimento, essi ci rendono gli onori.
L’Equipaggio è caduto in una tasca di tessuto fibroso la cui pareti battono. Dietro di esso, un valva si chiude, poi scompare. Non c’è più nessuna traccia dell’orifizio da cui siamo entrati. Neanche una cicatrice. Dall’altra parte si apre una seconda valva che emette un flusso di sangue. È di poco che abbiamo evitato quella cataratta. Ma la prossima o la seguente ci sommergerà. Che fare? I nostri occhi cercano un rifugio. Lassù, una passerella! Come raggiungerla? Abbiamo una sola possibilità, nient’altro: aspettare un flusso che ci spinga, che ci lanci fino al parapetto e là, aggrapparci!
Un onda ci afferra. Il torrente ci solleva. Attenzione! Ci siamo. Quasi. Hop! Le nostre mani brancolano. Cercano di afferrare. Scivolano. Vortichiamo. Il flusso ci riprende.
Questa volta, sì! L’abbiamo presa! Che sollievo! Il sangue continua a salire. Sale sopra il parapetto, ci schizza. Teniamoci forte! Un riflusso. Infine, riprendiamo fiato. Se così si può dire – in questa atmosfera rarefatta, tiepida, soffocante.
Flusso. Il sangue risale ancora più in alto. Sta per sommergere la passerella, per portarci via, gettarci verso altre paludi. Non è stata che una tregua. Laggiù ci attendono le capsule. Sarcofagi!
Il sangue affluisce. Sale inesorabilmente. Sciaborda. Uno schizzo ci colpisce. Rasentiamo la passerella per appiattirci contro la parete, così da offrire meno resistenza. Ai nostri piedi si apre una cavità. Ci entriamo, a ventre piatto. Sguazzando nelle mucosità. Il suolo è tappezzato di filamenti vibranti che entrano in azione. Il loro solleticare fa rabbrividire di disgusto. Rabbiosi, le schiacciamo a colpi di pugno, sotto le ginocchia. E, malgrado questo, progrediamo.
La cavità sbocca su una vasta grotta irta di stalattiti retrattili che, a intervalli regolari, rientrano nella volta. Si direbbe, d’altra parte, che essa si abbassi e si sollevi. Ma la penombra che qui regna non ci permette di controllare. Presto, qualche luminescenza comincia a insistere sulle asperità di questi denti enormi, piantati in mezzo al palato.
Sul pavimento della grotta, ci imbattiamo nel resto di una dentatura che anch’essa doveva armare questa «mascella» inferiore. Ma questa è fissa. O almeno, non si è mossa da quando siamo entrati. In fondo alla grotta, sotto un piano tagliato, stalattiti e denti sono saldati. Nella penombra si intravedono fantasmagorici scompigli. Come se si stesse cercando, in modo puerile, di distrarre la nostra attenzione dalla cosa essenziale: la ricerca dell’uscita.
Questa volta siamo incastrati. Ci ronzano le orecchie. Da non credere? Sì, è una voce che si propaga sotto la volta. Crea dei volumi. Paesaggi sonori. Ma purtroppo subisce delle distorsioni che la rendono incomprensibile. Attraversa lo spazio, tuona. Si precisa:
«Vi aspettavo. L’uomo è penetrato nella mia circoscrizione dell’universo. Ma nulla mi sfugge. Misuratore dello spazio e del tempo, io sono e non sono. Fatto a modo mio, che non è il vostro. Sono prima e dopo. Al di qua ma anche al di là della durata. Fra le stelle morte e le nebulose a venire, veglio.»
Terminando la frase, un po’ nasale, la voce si deforma a causa dello sgocciolio. Prosegue:
«Voi non mi vedrete, ma io vi distinguo: cinque protuberanze autonome che fanno un corpo solo. So cosa siete venuti a fare. Molto lontano, nelle pieghe del cosmo, esistono mondi, le cui forme si evolvono così lentamente da sembrare immobili. Il giorno succede alla notte, nient’altro. Non stupisce che l’uomo fugga questa routine! Ma nello specchio degli astri non cerca che il suo riflesso, il suo simile. Per allacciare con lui il legame della competizione e dell’odio che lo caratterizzano. Voi vi annunciate col fuoco, col ferro o col pensiero, e il resto che ne segue. E gli altri sopraggiungono, a legioni. Ma avete preteso troppo dalla vostra potenza e dalla vostra malizia.»
L’Equipaggio vorrebbe replicare a questo processo alle intenzioni. Ciò che essi sono venuti a ricercare sulle Miriadi, non è il loro doppio, ma lo sconosciuto, l’inatteso, il mai visto, l’impossibile. La nostra voce resta sorda, appiattita. Annaspa, soffoca. Non può rivaleggiare con colui che tuona al di sopra delle nostre teste:
«Vediamo se sapete rispondere a questa domanda: chi è il primo, il seguito e il tutto?»
Non siamo certo venuti a fare dei giochi da oratorio, a risolvere, sotto nuove maschere, i vecchi enigmi. Ma ecco la nostra risposta:
«Siamo noi i primi, il seguito e il tutto: l’Equipaggio.»
«Ben detto! Era una delle risposte. Il primo, il seguito e il tutto, può designare altrettanto bene le Miriadi – uno e molteplice – o il Misuratore. Una risposta a tre facce. Come vedete, gioco a viso aperto. Avrei potuto dire: non c’è che una risposta. Sono io quella risposta. Io, e null’altro. Ma sarebbe una risposta degna dell’uomo e del suo egocentrismo.»
Dopo un silenzio, la voce scende di un livello:
«Eccovi prigionieri di una gola vivente e smisurata. Che fa al contempo funzione di mura e di guardiano. Siete prigionieri in questa capsula per un altro viaggio, che però è immobile.»
La volta.
«Se pensate che quelle punte acuminate sopra le vostre teste stanno per triturarvi, per ridurvi in poltiglia, vi sbagliate. Questi organi tattili sono strumenti di osservazione e di misura. Determinano la vostra posizione. Presto, scenderanno fino a toccarvi. La forma e la pressione della volta si modificheranno. Vedete, le nostre tecniche valgono quanto le vostre. E attenderemo senza darci pena il raffinarsi del vostro sadismo. A dire il vero, mi prendo la rivincita. Mi avete obbligato a circoscrivermi nella durata, a rivestire una certa opacità per opporla alla vostra. Mi avete obbligato a esistere. Ma so mettermi in gioco. Vi lascio una possibilità. Solo, mi batterò con voi, contro l’Equipaggio al gran completo, in una partita a scacchi. La giocheremo con le vostre regole, ma con i miei pezzi e sulla mia scacchiera. Potete constatarlo: le punte sono rientrate, lo spazio della vostra prigione non si restringe più. Al contrario, le pareti sfumano, la luce si smorza. Non vi sentite più oppressi. E affinché la partita sia leale, potrete disporre di tutti i nostri mezzi. Siate miei ospiti e non miei prigionieri. Se vincete, siete liberi di proseguire il vostro viaggio. Se perdete, vi tratterrò, vi imbalsamerò e vi incapsulerò. L’Equipaggio figurerà tra i trofei delle Miriadi. Ora, precisiamo qualche particolarità del nostro gioco. Voi non toccherete i vostri pezzi. Vi accorgete, del resto, che non si può fare. Si sposteranno da soli, seguendo gli impulsi della vostra volontà. E perché questa si sviluppi chiaramente secondo le strade da voi scelte – è affar vostro – consultatevi. La prima partita non conta. Vi servirà per familiarizzare col gioco e di affinare le vostre tattiche. Pronti?»
Dissolvenza. Le pareti sono svanite. Sipari ondeggianti che si stagliano su uno sfondo da cinerama. Chiarezza. Sta nascendo un giorno. Siamo nuovamente in uno spazio indefinito. La volta si riduce a vapori che, lentamente, si colorano. Rosso da una parte, bianco dall’altra. Due soli si levano, uno di rame l’altro di lucido argento. Ogni astro libera dall’ombra la propria corte di pianeti che immerge nella sua luce: due di essi sono sormontati da calotte di ghiaccio, alti due non lasciano apparire che i loro anelli. Da ogni lato scocca una cometa che descrive una spirale prima di venirsi a sistemare vicino al sole del suo colore. È seguita da altri due pianeti, più pallidi, con la loro corona di satelliti. Una pioggia di asteroidi si ripartisce nei due campi avversi. Il rosso e il bianco si ordinano su una scacchiera dalle caselle alternate di luce e di ombra. Sole-re, regina-cometa, alfiere con l’elmo di ghiaccio, torre bardata di satelliti, anello-cavaliere, e scintillanti meteoriti per pedoni. Poco a poco i pezzi prendono posto. Ma continuano a girare su se stessi.
«Onore ai nostri ospiti,» dice il Misuratore. «A voi la scelta del campo.»
 Prendiamo il rosso, per sfidarlo.
Su una scacchiera di vetro giocano i toni sontuosi e delicati dell’aurora, i cui piani si intersecano, si compenetrano e confondono le loro sfumature. Ogni pezzo resta al di sopra della propria casella, che essa tinge leggermente. La sua luminosità tende a propagarsi nel senso di marcia. Il sole, che ora sembra di materia cristallina e nel quale si vedono passare riflessi di fiamma, da la tonalità, il suo chiarore all’ambiente. La cometa, la figura più brillante, dalle forme fluide attorno a un centro incandescente, irraggia in ogni direzione. Sotto la sua cappa di ghiaccio scintillante, l’alfiere emette, lungo la sua diagonale, luci intermittenti, salmone o bluastro, a seconda della sua squadra. La torre, d’ambra e d’alabastro, traina i suoi quattro satelliti che si spostano come lenti di un faro nel corso della loro lenta rivoluzione. Gli anelli trasparenti proiettano delle luci aranciate o lattee. I meteoriti, esplorati dagli irraggiamenti delle figure, stanno in guardia.
Apertura classica. Da ogni parte, i pedoni del sole sono avanzati di due caselle. Il Misuratore gioca l’anello del re. Questo pezzo, a differenza di quello tradizionale, non salta. Fluttua. La sua struttura gassosa gli permette di attraversare gli ostacoli che trova sul suo cammino. Si mantiene sfumato e lascia dietro di sé una scia di vapore.
In risposta facciamo uscire l’anello della regina.
Perché avvenga il movimento è sufficiente che la decisione sia formulata con tacito accordo (stiamo ben attenti a non svelare i nostri piani). Non manchiamo certo di allenamento, quante partite abbiamo disputato da poco, tra un viaggio e l’altro! Ma, questa volta ci diamo alla lotta con sfiducia. Sapremo comandare un meccanismo celeste che non obbedisce che alle proprie stesse leggi? Ci sapremo giocare senza che sia esso a giocare noi?
La trasmissione del pensiero è una disciplina di cui l’Equipaggio conosce tutti i contorni. Ma qui i nostri calcoli si coordinano imperfettamente. Cosa che ci preoccupa. Ora fiutiamo le prime astuzie del Misuratore: farci dubitare della nostra coesione, ricordarci che siamo diversi, ognuno col suo passo, il suo ritmo, il suo stile. È vero, nascono dei contrasti mentre prepariamo la nostra mossa. Le variabili si affollano nei nostri spiriti. Si confondono. Bisogna scegliere.
Alla fine ci sembra che uno scacco manovri da solo, prima che l’intero Equipaggio abbia consolidato una decisione. Lasciato aspettare, ha scelto da solo. Oh! Non ha tradito le nostre intenzioni. Non agisce a favore dell’avversario. Anticipa. La mossa delizia alcuni, sconcerta altri. La figura obbedisce ai suoi stessi impulsi. Manifesta la sua indipendenza. Creando una situazione ci mette davanti al fatto compiuto. Altre volte, essa prende una fortunata iniziativa che avevamo preventivato, senza però svilupparla; noi avremmo, a torto o a ragione, optato per un’altra variante. Gli asteroidi si comportano con una certa noncuranza, quando non si mostrano recalcitranti. Così giochiamo una partita nella partita, contro i nostri stessi pezzi. Essi sentono che non siamo capaci di controllarli. Forza! Dobbiamo affermarci, esercitare delle scelte più chiare e più rapide. Proseguiamo il dispiegamento delle nostre truppe.
Gli avversari si osservano.
Ma a dire il vero, lo spettacolo, le evoluzioni ci assorbono più delle nostre tattiche. Il Misuratore lo sa; ne gioisce.
Ogni pezzo interposto capta la luce che si diffonde lungo la colonna, la fila o la diagonale. Si incorpora; rompe o ravviva la tinta. Ne risultano combinazioni che si possono analizzare e che regalano nuove dimensioni al gioco. Per degli occhi preparati si dispiega tutta una strategia dei colori.
La cometa, risplendente, attira gli sguardi. Si sposta a velocità variabile, ora folgorante, ora lenta e maestosa. Avanza di colpo, e ripiega solo se minacciata. Tra le altre figure, gli alfieri sono i più rapidi con i loro spostamenti lineari. Se, per se stesse, le meteoriti intervengono poco nei giochi di luce, però si rivelano molto sensibili alle variazioni di illuminazione. Rubano i toni all’ambiente. In presenza di una figura diversa, si scolorano o si coprono, al contrario, di riflessi incendiati. Si rischia di sbagliarsi, di fare il gioco dell’avversario. E abbiamo anche la sfortuna di perdere un alfiere il cui fulgore ci nascondeva un pericoloso asteroide.
Preso, un pezzo si estingue, scompare dalla scacchiera. Permane un alone sul quale si staglia il nuovo occupante della casella. Quest’ultimo brilla di un fuoco più vivo che ha rubato alla sua vittima. Alla mossa seguente, l’alone svanisce.
Ammettiamolo. Quest’azione per soggetti interposti ci inquieta. Abbiamo l’impressione che la cosa ci sfugga. Ma il vero scontro si gioca contro l’influenza del Misuratore.
L’avversario bluffa. Senza dubbio, ma fa progressi. Fino a qui, la sua tattica ci sembra sconnessa. Lancia attacchi sporadici, impulsivi. Il suo piano di insieme non si rivela. Ma, anche se, da parte nostra, ci barcameniamo, lui occupa terreno. Ha fatto saltare la nostra linea di meteoriti. Dopo uno scambio svantaggioso al quale ci ha costretto (abbiamo perso una torre per catturare uno dei suoi anelli), si è saldamente stabilito al centro.
Attraverso le colonne scoperte, attacca. Ci confonde. Affonda, non esitando a esporre la cometa; lancia l’anello che gli resta in fughe temerarie.
Ma la sua audacia è profittevole. Ci paralizza. Siamo sulla difensiva. L’avversario ha il campo libero.
Le nostre posizioni cadono, una dopo l’altra. Una torre bianca entra in azione. Sul quadrato formato dai nostri pezzi attorno al sole rosso si delinea il pericolo. Proteggiamo la meteorite che copre il sole, senza la quale esso sarebbe messo in scacco dall’anello d’argento alla prossima mano. E la nostra cometa? Inchiodata da un alfiere bianco.
Accerchiati, vogliamo tentare l’arrocco. L’alfiere ce lo impedisce; obbligherebbe il nostro sole a rischiare uno scacco. La cometa bianca ci si avvicina. Non possiamo parare la doppia minaccia. Scacco. Curioso! Il nostro sole impallidisce. Poi diviene terreo.
È chiaro, siamo battuti. La ragione avrebbe voluto che abbandonassimo. Ma l’Equipaggio lotterà fino alla fine. Costringiamo il Misuratore a darci scacco. E lui lo fa.
Era da prevedere. Abbiamo perduto la prima partita. Comunque, abbiamo valutato l’avversario. Il suo gioco denuncia un essere sicuro di sé, disinvolto, che dalla sua vittoria avrà una scusa per rischiare ancor di più.
Contiamo sulle sue imprudenze. Incoraggiamolo.
«Quando volete, signori. A voi i bianchi. Quando giocano vincono, si direbbe.»
I pezzi hanno ripreso la loro posizione di partenza. I bianchi e i rossi stanno per scambiarsi di posto. Si dirigono gli uni verso gli altri. I ranghi si confondono, come in una parata.
Ecco. Nello schema delle caselle, ombre e luci s’invertono. Tutto è a posto.
In apertura, il Misuratore attacca. La sua cometa discende in diagonale a minacciare la meteorite del re. La temerarietà del nemico diviene insolente. Ma per contenere la sua avanzata ci è sufficiente spostare l’anello. L’avversario frappone l’alfiere. La nostra torre entra in linea. Il Misuratore non ha scorto la manovra? Sta per sacrificare l’alfiere? Per trarne quale vantaggio?
L’anello prende l’alfiere. La cometa vibra, danza, poi rapidamente batte in ritirata. Il Misuratore esita. La sua offensiva ha fallito. Perde del tempo prezioso. E l’iniziativa la prendiamo noi.
Attacchiamo a nostra volta, senza posa.
Ora è il nostro vantaggio che valutiamo. Insieme, scateniamo più rapidamente la nostra minaccia, facciamo il più rapidamente possibile la valutazione di tutte le possibilità. Ogni nostra mossa è fruttuosa.
Il sacrificio di un pedone ci consente di aprire nel dispositivo nemico una breccia nella quale le nostre forze si infiltrano.
Scacco al sole. Braccato, l’astro perde di lucentezza. Il Misuratore ci blocca per mezzo della cometa catastroficamente ripiegata. Scacco al sole e alla cometa. Il Misuratore deve sacrificare la seconda. Scacco al sole. La sua luminosità diminuisce gradualmente. Lento e pesante, si sposta. Scacco. Il sole nemico si trascina sulla casella vicina. Sospingiamolo fino al bordo.
Scacco matto!
Il Misuratore è caduto nella sua stessa trappola. Siamo liberi!
Il gioco si spegne.
Esplode una risata.
Notte.

(Traduzione di Giorgio Sangiorgi)

 

 

 

 

1 commento:

  1. Ciao Pierre Jean, tu sai quanto io e tutti i lettori di Pegasus siamo felicissimi, ogni volta, di poter leggere i tuoi bellissimi racconti. Bellissima anche la traduzione di Giorgio Sangiorgi.

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