mercoledì 15 maggio 2019

Angst di Peppe Murro


Aprì gli occhi di scatto e si mise in piedi lentamente, quasi con fatica.
Si guardò intorno: cielo e terra erano completamente neri; li divideva soltanto una sottile linea di luce. Si meravigliò della perfetta geometria di quell’orizzonte: né cielo né terra avevano increspature, perfettamente lisci e levigati da sembrare falsi o dipinti.
Abbassò lo sguardo quasi non ce la facesse a sostenere quella visione opprimente.
Vide le sue mani, vide i suoi piedi.
E quasi un urlo di meraviglia e di sgomento gli scoppiò dentro, come fosse incapace di arrivare alla gola.
Era lì, su un piedistallo circolare di un bianco accecante, sopra quello che gli sembrò un monolite che scendeva in basso fino a scomparire al centro di un abisso circolare buio e indefinito. Per quanto spingesse lo sguardo non riusciva a trovare un particolare, un qualcosa che gli desse la misura di quel nero entro cui era sospeso: un orribile, indefinito cerchio oscuro al cui centro c’era lui e il monolite (lo chiamava così, ma a quanto sapeva era una colonna altissima che sprofondava nell’oscurità del niente).      
Sì, non c’era altro che lui al centro di quel vuoto conficcato nel nero circolare della terra e del cielo.
Era troppo meravigliato e sgomento per chiedersi qualunque cosa, ma ora aveva un quadro preciso della sua situazione: un vuoto nero con lui al centro di una base bianca conficcata lì in mezzo, fra quel cielo e la terra appena divisi da una striscia sottile di luce.
Si accorse di tremare di un tremore freddo. E poi le domande che gli urtavano premendo nella testa: Dove era? E cos’era quel posto così indescrivibile? E poi, perché era lì? Come ci era arrivato?
Sentiva l’orrore dell’abisso, la percezione paurosa e terribile, irragionevole di essere circondato dal vuoto.
Alzò lo sguardo come per convincersi che per quanto orribile quella situazione era reale e magari c’era una via d’uscita. Guardò a fondo fino a perdersi nella confusione di quell’ oscurità in cui era sospeso e la cosa gli parve stupida e inutile: era nero il cielo, cupo come la terra.
Un nodo gli saliva alla gola impedendogli persino di piangere e disperarsi: non capiva il senso di tutto questo, e neppure se tutto ciò fosse un suo incubo. Sì, forse lo era; di sicuro lo era.
Si pizzicò le guance, infantilmente, provò a chiudere gli occhi come per un sogno al contrario: stava sognando, certo.
E forse sognò, come fosse la sua liberazione: davanti a lui si stendeva un mare fosco e pigro, con onde melmose che si increspavano appena senza schiume, come a rabbrividire. E il cielo incombeva tetro e buio di burrasca sulla sua testa. E lui, lì, al centro di un scoglio, circondato a perdita d’occhio da quel mare che non gli pareva neppure ostile, tanto era l’indifferenza dei suoi movimenti.
E ancora quel senso di angoscia opprimente, quella sensazione di essere dentro un non-luogo, una circolarità perfetta e insensata, misteriosa.
Come per risvegliarsi riaprì gli occhi e un vortice lo prese: l’abisso, il mare, il suo inutile scoglio o monolite stavano lì ai suoi piedi; l’abisso era lì che lo circondava.
L’abisso era lì, col suo artiglio di gelo sull’anima.