sabato 31 ottobre 2015

COMPLESSO DI COLPA di Carlos M. Federici

dipinto di P. Picasso
Il dottore Van Erth tornò ad occupare la stessa sedia.
Il Matto lo guardò.
-Parli – disse gentilmente il medico- L’ascolto.
Il Matto stese le braccia verso di lui; il suo volto era distorto in un'espressione febbrile e ansiosa.
-Lei mi ascolterà? Mi crederà? Nessuno mi presta attenzione! Dicono che sono pazzo!... Lei mi sembra diverso. La salvezza del mondo dipende da Lei!
- Capisco - disse il dottore Van Erth. – Parli pure.
L'uomo aveva gli occhi fuori delle orbite. Gridò:
-Ci stanno invadendo, dottore! I marziani! So che sembra pazzesco... ma è vero! Li ho visti!
-Ah... Li ha visti? E come sono?
-Uguale a noi... Come tutti, come voi, come me... Ma infinitamente più intelligenti, più avanzati. Se vedesse la cosmonave! Essa è... fantastica. E le loro armi...
Il dottore Van Erth si rilassò sulla sedia.
-Mi racconti tutto.
-Della loro tecnica? Oh... che ne so io! Io non sono un uomo di scienza... Posso solo dirle che la nave sembrava un piatto enorme; che volava senza produrre un suono... Le armi erano in grado di vaporizzare un ombú in una frazione di secondo, senza rumore neanche... Non so più. Come posso spiegarmi meglio? Sono così strani per noi!...
Il dottore Van Erth emise un breve sospiro.
-Lei  deve credermi! -un lampo di astio apparve negli occhi del matto, vedendo che il medico gli rifiutava la sua attenzione. È la verità! Deve informare il Presidente! Il Ministero della Difesa, l'Esercito! La Centrale Atomica! Siamo stati invasi! Capisce? Il nostro mondo è perduto! I marziani sono di gran lunga superiori alla nostra razza! Quale probabilità abbiamo? Assolutamente nessuna salvezza! È un orrore! La Morte! La Fine! La Fine!...
Con un gesto rassegnato, il dottore Van Erth si alzó dalla sedia. Con l’indice premette un pulsante nascosto. Entrarono due infermieri corpulenti.
-Un altro attacco - disse il medico-. È sempre lo stesso.
Mentre gli infermieri tenevano fermo il matto, a questi fu fatta  un’iniezione di sedativo. Van Erth andò incontro ad altri medici nella stanza accanto.
- Allora dottore? –lo interrogò uno di loro.
-Senso di colpa – sentenziò Van Erth-. Non c’è alcun rimedio. Lo schema classico: mania di persecuzione e identificazione psico-morbosa con l'ego della sua vittima. Il soggetto ha preso l'identità dell’altro. È una forma di auto-punizione...
- E Lei non ha appreso niente di concreto... circa la sua tecnica, le sue braccia?
-Niente! –rispose scontroso il dottore Van Erth. - Maledizione! L’unico Marziano catturato vivo dall'inizio dell'invasione... ed è completamente folle!

   
Nota: Questa storia è stato originariamente pubblicata nel numero 8 di "Nuova dimensione" (marzo 1969), la rivista spagnola emblematica della SF in cui pagine, su cui avvenne il mio debutto a livello internazionale. Quarant'anni più tardi e con i disegni del mio buon amico, lo scomparso Eduardo Barreto, con un mio adattamento del testo, si è eseguita una versione in forma di fumetto.

Carlos M. Federici

                   

giovedì 22 ottobre 2015

CIO’ CHE FECE, TRA L’ALTRO, NEMESIO DOPO PRANZO di Giuseppe Novellino

Dopo pranzo, Lino Nemesio uscì a fare il pedone.
La zona in cui viveva, dichiarata A.C.A.V. (Area di Conservazione dell’Antica Viabilità), era abbastanza vasta, comprendeva sei isolati e un giardinetto pubblico in cui ci andava praticamente nessuno, tranne qualche collaboratore domestico extracom  per i bisogni del cane. L’area verde appariva assai trascurata e sporca (un vero merdaio). I suoi tre lati erano lambiti da un traffico intenso e congestionato, a causa dei rallentamenti provocati dalla zona A.C.A.V.
Nemesio si avviò verso quel luogo.
Un pallido sole faceva filtrare la sua luce dorata attraverso la nebbiolina di polveri sottili che avvolgeva gli edifici.
Camminava lentamente sul marciapiede, tenendo le mani in tasca.
I veicoli transitavano sui due sensi del largo vialone. Si beccò solo un “pedocchio!” da un motociclista incazzato.
Arrivato nel giardinetto, andò a sedersi su una panchina che sembrava meno sgangherata, a ridosso di un folto cespuglio di lauro grigio di polvere.
A un certo punto vide avvicinarsi una giovane donna dai lineamenti orientali, che tratteneva a stento un grosso dalmata. Ma quella subito cambiò direzione.
Evidentemente non voleva interloquire con un “pedocchio” solitario, nostalgico dei giardini pubblici.
Poi udì un ronzio alle sue spalle.
Si girò di scatto. Era una zanzara, uno di quei nuovi mezzi volanti monoposto in dotazione ai vigili urbani. Avevano certamente un nome tecnico, ma la gente, abituata da qualche mese a vederli sfarfallare sotto le finestre e sopra le arterie congestionate dal traffico, li chiamava semplicemente con il nome dell’insetto portatore della malaria.
Era atterrato proprio accanto alla panchina dove Nemesio stava seduto placidamente.
Il vigile scese dal mezzo e gli si avvicinò, togliendosi lentamente uno dei guanti.
- Pedone? – chiese.
Nemesio annuì senza scomporsi. Che cosa poteva temere in fondo? Stava facendo il pedone solitario, in una zona regolamentare, ed era approdato in un angolo di verde pubblico.
- Documenti – fece l’altro con freddezza.
Nemesio li esibì.
 L’agente osservò la carta di identità per un lungo momento, poi gliela rese. – Mi faccia vedere il cellulare, prego.
Nemesio portò meccanicamente la mano alla tasca del giubbotto, tastò e si accorse che l’apparecchio non c’era. Frugò in un’altra tasca con lo stesso risultato. – Temo di averlo dimenticato a casa.
L’agente lo fissò con gli occhi socchiusi e con una severa espressione in faccia.
- Sono uscito a fare una passeggiata – tentò di giustificarsi Nemesio - una breve camminata fino a questo giardinetto.
- Il fatto che lei è un pedone in uscita di piacere rende meno grave l’infrazione. Comunque devo farle la multa.
Essere pescati con il cellulare scarico aveva un peso, ma senza era addirittura impensabile.
- Non potrebbe chiudere un occhio – supplicò Nemesio. - Torno subito a casa. – E nel dire ciò si alzò in piedi.
- Mi spiace, ma abbiamo ordine di essere severi.
- Tolleranza zero?
- Sì – disse il vigile estraendo il blocchetto elettronico delle multe. – Lo sa che il cellulare deve essere sempre in tasca della persona che esce di casa? Soprattutto se usa un veicolo di qualsiasi tipo. Lei è a piedi, d’accordo, ma non cambia granché. – Mentre scriveva sul blocchetto, soggiunse. – Lei mi sembra un po’ arretrato. Se le dà fastidio portarsi in tasca l’apparecchio, potrebbe montarne uno bionico nella calotta cranica. È una protesi che non dà particolare fastidio… Si tratta solo di sopportare una minuscola antenna sopra l’orecchio sinistro.
Nemesio sapeva che quella recente applicazione era stata promossa dal cavaliere Aristide Di Vairo, da diciotto anni presidente del consiglio dei ministri, e da cinque lustri padrone della telefonia nazionale.
- Sono centoventi eurofigure. Paga subito?
- Non ho i soldi con me.
- Allora le lascio copia cartacea del verbale. Potrà pagare per via telematica, ovviamente.
Nemesio afferrò il pezzo di carta, senza reprimere un moto di stizza.
L’altro parve non accorgersi. Prima di congedarsi disse.
- Le consiglio di rientrare subito in casa. Non può andare in giro senza il cellulare.
- Va bene – grugnì Nemesio.
Si avviò verso casa mentre il vigile saliva sulla sua zanzara e si preparava a decollare.

sabato 10 ottobre 2015

L’ANGELO DI LEGNO di Fabio Calabrese

Erano le prime ore del pomeriggio di sabato. La stazione dei carabinieri di Colleselva appariva tranquilla e silenziosa. La stazione era una palazzina a due piani; al pianterreno erano in funzione il servizio di piantone, il centralino, la macchina sempre pronta per eventuali emergenze, ma negli uffici al primo piano c'era solo il maresciallo Morelli, seduto alla scrivania, che rimuginava sugli ultimi eventi. La maggior parte dei militi aveva già raggiunto la famiglia per il fine settimana.
Esaminando i fascicoli che aveva davanti, Morelli provava uno strano senso d'inquietudine. Colleselva era uno di quei luoghi dove non accade mai niente. Più volte nel corso degli Anni Morelli aveva desiderato un caso importante, la cui soluzione gli procurasse uno scatto di carriera, e ora, all'improvviso, nel giro di meno di ventiquattro ore, si trovava per le mani un furto con scasso e un omicidio.
Senza queste circostanze così insolite, sarebbe andato anche lui a casa per il fine settimana, ma ora... non aveva ancora neppure pranzato. Quasi senza accorgersene, mordicchiò nervosamente il cappuccio della penna a sfera che teneva in mano. Certo, i due delitti erano collegati, ma quella era una faccenda davvero strana!
Venerdì mattina era arrivata la telefonata del parroco della chiesa di Santa Maria, la chiesa del paese, che segnalava un furto. Morelli si era recato sul posto con la pattuglia.
Il parroco, Morelli lo conosceva già, era un ometto smunto e nervoso che appariva in preda a una forte agitazione. Era il solito problema, pensò il maresciallo: l'Italia era piena di capolavori artistici, spesso disseminati in chiesette di paese, e non c'erano quasi mai sistemi antifurto adeguati. Tuttavia non gli risultava che lì ci fossero opere d'arte di valore. Durante la seconda guerra mondiale, il paese si era trovato sulla direttrice di marcia degli alleati che risalivano la Penisola, e i Tedeschi che contrastavano la loro avanzata palmo a palmo, ed era stato letteralmente raso al suolo, compresa la chiesa che era stata disfatta in un mucchio di macerie, travi, mattoni e calcinacci, e poi ricostruita nel dopoguerra. Lì pensava che non ci fosse nulla che avesse più di settant'anni.
“Cosa è stato rubato?”, chiese.
Il parroco gli mostrò il portone che presentava evidenti segni di scasso, poi lo condusse attraverso la navata centrale fino all'altare maggiore che si trovava vicino all'abside. Di fianco all'altare sulla destra c'era una nicchia ora vuota che, il maresciallo l'aveva ben presente, solitamente ospitava una statua lignea, un angelo, alta una cinquantina di centimetri.
“L'angelo”, disse l'ecclesiastico, “Hanno rubato l'angelo”.
“Si tratta di un oggetto di valore?”, chiese Morelli.
“Vuole scherzare, maresciallo?”, replicò il parroco, “L'angelo di Jacopo da Colleselva è praticamente l'unico oggetto antico della chiesa, è di fattura cinquecentesca ed è scampato intatto al bombardamento del 1944”.
“Quindi”, rispose Morelli, “Dobbiamo presumere che il ladro sapesse bene quello che faceva, e questo ci orienta verso il furto su commissione”.
I suoi uomini procedettero ai rilievi del caso. Il portone della chiesa era stato forzato verosimilmente con un piede di porco, un attrezzo metallico piuttosto grosso che aveva sfasciato la serratura e profondamente scheggiato il legno. Sulla nicchia invece non c'erano tracce: la statua dell'angelo era semplicemente poggiata, non fissata sul suo sito, e il ladro non aveva fatto altro che prenderla. Non c'erano impronte digitali, il ladro aveva probabilmente indossato dei guanti. Lungo la navata furono trovate delle impronte; erano di scarponi del tipo più usato in campagna, forse erano del ladro e forse no, erano di taglia 42.
“Il ladro è probabilmente un uomo. Se le impronte di scarpe sono le sue, è di altezza media. A giudicare da come è stato scassinato il portone, deve essere di costituzione piuttosto robusta. Non è che questo restringa molto il campo delle indagini”.
 Più tardi, il maresciallo passò a trovare il professor D'Alessandro. Quest'ultimo era un insegnante in pensione ed era un po' lo storico locale. Anni prima aveva scritto una monografia su Colleselva. Se c'era qualcuno che sapeva tutto quanto era possibile sapere sull'angelo di legno, aveva pensato Morelli, era certamente lui.
Il professore aveva un paio di occhiali dalla montatura spessa e una bianca chioma leonina, sebbene dovesse aver superato i settant'anni, si muoveva con passo ancora elastico e aveva uno sguardo vivace.
“Maresciallo, venga!”
Il professore fece strada a Morelli fino a uno studio ingombro di libri e di carte, con un'affollata libreria dove era stipata una quantità di volumi dietro a una scrivania piuttosto in disordine.
“Così”, disse, “Hanno rubato l'angelo di Jacopo da Colleselva!”
“Jacopo da Colleselva”, chiese Morelli, “Cosa mi può dire di lui?”
“On beh”, rispose il professore, “Jacopo è la nostra gloria locale, è stato uno scultore vissuto nel quindicesimo secolo. Nel mio libro ne ho parlato diffusamente, e c'è una storia interessante proprio riguardo all'angelo”.
“Me la racconti”, disse Morelli.
“Lei saprà che l'angelo è sopravvissuto sia all'incendio del 1716 sia al bombardamento del 1944. Fu ritrovato fra le rovine della chiesa miracolosamente intatto, nemmeno una scheggiatura, sebbene dell'edificio non fosse rimasto niente di intatto”.
“Mi parli dell'incendio settecentesco”, chiese il maresciallo.
“In realtà non c'è molto da dire. Nel 1716 la vecchia chiesa andò a fuoco per motivi non precisati, magari che so, una candela accesa venuta a contatto con un paramento. L'incendio fu furioso, durò diversi giorni e distrusse tutto quanto. L'angelo fu ritrovato intatto fra le travi carbonizzate, nemmeno annerito a quanto dicono”.
“Mi diceva di Jacopo”, chiese il maresciallo.
“Oh si”, disse il professore, “L'artista ci ha lasciato un diario dove ha parlato diffusamente di questa statua, un documento davvero prezioso, di cui ho riportato ampi stralci nella mia monografia. E' una storia curiosa. Pare che Jacopo abbia avuto un contrasto col curato dell'epoca circa il pagamento di un precedente lavoro, e che non gli fosse stato dato interamente quanto pattuito, e per questo fu molto indeciso se accettare o no un nuovo incarico, alla fine decise di fargli una statua, “ma lignea”.
“Ma lignea”, chiese Morelli, “Che significa?”
“Beh, probabilmente il precedente lavoro era in materiale più pregiato, marmo forse. Jacopo pensava, credo, che scolpendo la statua in materiale più economico, sarebbe stato più facile stavolta accordarsi sul prezzo”.
Il professore prese un volume dalla libreria.
“Ecco, guardi”, disse, “Questa è una copia del mio libro. Qui c'è una foto di una pagina del diario di Jacopo, ed è proprio quella dove parla dell'angelo”.
Morelli concentrò la sua attenzione sull'immagine. Sebbene si trattasse di una scrittura quattrocentesca, era sorprendentemente chiara, una specie di onciale carolingia. Trovò il punto di cui il professore gli aveva parlato. “Ma lignea”? Lo spazio tra il “ma” e la parola successiva era quasi inesistente, e la “e” era solo un trattino senza occhiello.
“Io direi”, commentò, “che abbia voluto dire di aver fatto una statua maligna, forse qualche stregoneria per vendicarsi del modo in cui era stato trattato in precedenza”.
“Ecco, non volevo dirglielo”, replicò D'Alessandro, “Volevo che ci arrivasse da sé, anche se non è questa l'interpretazione che ho avallato nel mio libro. Guardi, un paio di mesi dopo ha annotato:
“Consegnato Angel Legna al curato di Santa Maria. Sono quasi pentito, questa volta sono stato pagato regolarmente”.
“Angel Legna”, commentò Morelli, “Aveva dato un nome proprio alla statua”.
“Si”, disse il professore, “Ma non è tutto. Ci faccia caso, “Angel Legna” è un palindromo, cioè un'espressione che rimane uguale se letta da sinistra a destra o da destra a sinistra”.
"E allora?”
“I palindromi sono spesso usati nelle formule magiche, come il famoso “Sator Arepo Tenet Opera Rotas”. Ci faccia caso. Leonardo Da Vinci è stato il caso più eccezionale ma non è isolato. A cavallo fra quattrocento e cinquecento gli artisti sono più o meno tutti un po' scienziati, un po' alchimisti, un po' maghi”.
“Si”, chiese Morelli, “Ma ci sono racconti di fatti soprannaturali legati a questa statua?”
“Veramente, non che io sappia”, rispose il professore, “A parte la misteriosa sopravvivenza della statua all'incendio e al bombardamento, ma questo significa poco. Tenga presente che l'angelo era collocato in un luogo sacro, all'interno di una chiesa. Questo avrebbe tenuta bloccata qualsiasi influenza diabolica. Lei avrà presente i gargoyle, le statue demoniache che nel medioevo venivano messe nelle chiese. Per spaventare gli spiriti maligni, si dice. Per questo o per impedire loro di nuocere?”
La conversazione fu interrotta dallo squillo del telefonino di Morelli. Il maresciallo aveva lasciato detto di non essere disturbato salvo emergenze.
Si affrettò a rispondere.
“Maresciallo, sono il vicebrigadiere Livotti. Abbiamo un omicidio. Ho mandato la volante a prelevarla”.
La pensione Belsito non era di certo un ambiente lussuoso, offriva appena un posto letto decente e passabilmente pulito a commessi viaggiatori e gente del genere. La tenutaria era una donna sui quarant'anni che avrebbe avuto un aspetto anche piacevole senza quel pallore innaturale e quello sguardo fisso; chiaramente era in stato di shock.
Vedendo la divisa di Morelli, disse con voce atona:
“Stanza 102, primo piano. Andate voi. Io non ci salgo un'altra volta”.
Livotti informò il suo superiore che era stata lei a ritrovare il cadavere.
Appena arrivato di sopra, Morelli si apprestò a vedere uno spettacolo raccapricciante: si sentiva fin dalle scale l'odore del sangue che si andava rapprendendo.
La porta della camera era aperta, e il passepartout era infilato nella serratura dalla parte esterna, mentre la chiave del cliente era ancora appoggiata sul comodino accanto al letto. Il corpo dell'uomo era disteso sul letto e non era un bello spettacolo, era coperto da grandi ferite slabbrate come se fosse stato sbranato da una belva. Grandi macchie di sangue si stavano rapprendendo fra le lenzuola.
“La proprietaria mi ha detto che ha aperto lei con il passepartout e che la stanza era chiusa dall'interno”, disse Livotti, e indicò la finestra con li vetro sfondato, “Sembra che l'assassino sia entrato e uscito dalla finestra”.
“No, brigadiere”, disse Morelli che si era avvicinato alla finestra, “Non entrato, solo uscito. Guardi i frammenti di vetro giù in strada, invece non ci sono vetri nella stanza”.
“Ma allora”, chiese Livotti, “Come è entrato?”
“Solo in un modo, deve averlo portato o fatto entrare la vittima”.
“E' un bel salto”, disse il sottufficiale, “Dev'essere un tipo atletico”.
"Chissà”, commentò Morelli, “Forse è volato”.
 “Volato, e che cos'è, un uccello?”
“Un uccello o forse un angelo. In ogni caso dubito che sia un essere umano. Guardi come è conciato il morto, sembra l'opera di un animale da preda”.
Identificare la vittima non fu difficile, aveva lasciato la carta d'identità alla portineria della pensione, si trattava di un certo Righi, e aveva diversi precedenti per furto, negli ultimi tempi pareva essersi specializzato nei furti di opere d'arte. Anche le suole degli scarponi coincidevano con le impronte ritrovate nella chiesa, pareva il candidato ideale come autore del furto dell'angelo. Già, ma chi o che cosa l'aveva ucciso, e l'angelo dov'era finito?
Un'idea il maresciallo Morelli se l'era fatta, ma per accettarla i suoi superiori e i giudici avrebbero dovuto avere una forte credenza nel soprannaturale. Cosa avrebbe dovuto mettere nel rapporto, cosa avrebbe dovuto raccontare loro, che Jacopo da Colleselva che era un po' artista e un po' stregone aveva scolpito per vendetta una statua maligna, un gargoyle sotto le sembianze di un angelo, rimasta prigioniera per secoli dentro l'edificio sacro, ma che aveva rivelato un'indole sanguinaria appena tolta da là? Come avrebbero potuto credergli?
Cosa si sarebbe potuto fare con una creatura del genere? Non certo metterla in cella, forse bruciarla se la si fosse potuta catturare. E adesso dov'era?
Guardò le fotografie che gli aveva dato il professor D'Alessandro. Foto dell'angelo fatte in tempi diversi e da prospettive diverse. Certo, poteva dipendere dalla prospettiva o essere l'effetto della suggestione, ma gli sembrava che da una all'altra l'angelo non fossa mai esattamente nella stessa posizione, che dall'una all'altra si fosse impercettibilmente mosso.
Un dubbio gli attraversò la mente: una creatura del genere era in grado di capire che per lei certi uomini rappresentavano un pericolo maggiore di altri, magari almeno in una certa misura leggere i pensieri?
Un rumore gli fece alzare gli occhi; un rumore poco fuori della finestra, un rumore come un frullo d'ali ma con qualcosa di legnoso.

 

lunedì 5 ottobre 2015

IL DIARIO di Peppe Murro

Guardava il mare verde che si stendeva silenzioso verso l'ovest della terra dei Legs: lì scendevano i due soli quando si coloravano di fuoco e si nascondevano per la lunga notte delle terre.
Accovacciato sulle sue ginocchia, aveva stretto il suo viso fra le mani sino a sfiorare gli occhi con le dita: chissà, si chiedeva, se c'è qualcuno o qualche terra al di là del mare, quel mare ostile anche se mai in burrasca, ma pauroso, con la sua calma piatta, le sue nebbie e il movimento lento di palude.
Gli anziani dicevano che oltre il mare non c'era nulla, solo il vuoto e la morte e qualcuno asseriva che la linea d'orizzonte dove scendevano i soli era in realtà una cascata infinita che si perdeva nel vortice del cielo: sentiva un brivido di paura a quel pensiero, anche se non riusciva a distogliersi da quella domanda, se mai ci fosse qualcosa o qualcuno dall'altra parte del mare, se pure esisteva un'altra parte. Mai nessuno aveva tentato di saperlo: quel mare misterioso celava mostri e morte e quasi un religioso divieto lo ricopriva; poteva guardare i suoi tramonti incendiare il cielo ma doveva tenersi dentro quella domanda inusitata e per molti blasfema. Non tentare l'ordine delle cose, così dicevano gli anziani, e quel mare da sempre era proibito coi suoi misteri e le sue onde brevi e silenziose.
Non era contento, sentiva che non gli bastavano quelle risposte, ma non sapeva che fare, se non cercare di scacciare via quel disagio che aveva catturato i suoi pensieri insoddisfatti.
Ormai il cielo era diventato una tenue linea arancione lungo un mare nero e fra poco sarebbe arrivata la prima esangue ora della notte: si alzò quasi di scatto, guardò lontano verso ovest e si avviò lungo la spiaggia, prendendo a calci la sabbia.
Il grido e il dolore furono pressoché simultanei, alzò la gamba prendendosi il piede dolorante mentre cercava di capire cosa fosse successo...cosa diavolo aveva colpito? guardò con attenzione in basso, si piegò per cercare a tentoni mentre si sforzava di non pensare al piede dolorante. Spostò la sabbia, infilò le mani più sotto, fece un largo gesto come a spazzolare e...ecco, qualcosa toccò, con uno spigolo duro: è lì che aveva sbattuto il piede. Scavò attorno la sabbia con curiosità crescente e una fretta inspiegabile.
Alla fine era lì, liberato dalla sabbia che lo aveva semisepolto: un contenitore di qualcosa, una specie di scatola chiusa, non molto grande, di una materia strana. Aveva dimenticato ogni cautela nel toccarlo, ma ora lo prese una giustificata preoccupazione, era pericoloso? gli avrebbe in qualche modo fatto male l'averlo toccato?
Il contenitore era lì, inerte. Lo punzecchiò con un bastone e non successe nulla; provò ad urlare, non successe nulla. Si decise infine ad infilarlo nel suo sacco, anche perché la notte stava scendendo più rapidamente e doveva tornare al villaggio  che già mostrava la sua luce rassicurante.
Camminava guardando ogni tanto il suo sacco con pensieri divisi fra curiosità e una preoccupazione sempre più labile: cos'era? conteneva qualcosa? qual era il suo segreto?
Appena arrivato, cercò di assumere un'espressione normale, rificcando indietro quello strano pulsare che si sentiva dentro. E si guardò intorno, fingendo noncuranza, a scoprire se mai qualcuno avesse intuito il marasma che provava: non accadde nulla, qualcuno lo salutò distrattamente, qualche altro fece un gesto a cui rispose con falsa euforia. Andò vicino al fuoco, prese un pezzo di cibo che addentò con accanimento, aveva fame. Si guardò ancora intorno, cercando con avidità Shervaz, l'anziano del villaggio.
Fu quasi felice di non vederlo, a quell'ora di sicuro si era già ritirato nella sua capanna: meglio, avrebbe condiviso solo con lui quella scoperta. E sperava che almeno da lui gli venissero delle risposte.
Buttò un osso sul fuoco, prese il sacco e si diresse verso la capanna dell'anziano.
Spostò la tenda con rispettosa leggerezza, entrò chiamando, mentre la luce balbuziente di una fiamma gli mostrava a tratti l'interno della capanna. Guardò con attenzione e lo vide. Il vecchio era seduto in un angolo, appena discosto dal fuoco.
Alzò la testa come a chiedergli ragione di quella visita, mentre lui si avvicinava col sacco, schiarendosi la voce: «Oggi,sulla spiaggia, ho trovato questo,» ed aprì il sacco, mostrandogli il contenitore. Gli parve ci fosse un lampo negli occhi del vecchio, mentre tendeva la mano.
Chiese solo, però, con un tono che gli sembrò molto stanco: «Veniva vento dal mare?»
«No, Sherv… c'era una calma quasi opprimente, come ogni giorno,» fu la risposta.
Il vecchio guardava il contenitore, rigirandolo fra le mani, quasi incurante di come il giovane ne seguisse i gesti con una curiosità che sfiorava l'ansia: «Cos'è? di che è fatto?»
Il vecchio taceva, mentre rigirava l'oggetto con la fronte corrucciata: «Eri solo? Ne hai parlato con qualcuno?»
«No, solo io e te sappiamo di questo,» rispose il giovane, sentendo come all'improvviso un senso di importanza. Gli era piaciuto rassicurare il vecchio, anche se la sua faccia pensosa in qualche modo non lo rendeva tranquillo. Cos'è? gli sarebbe piaciuto chiedere ancora, ma tacque: sapeva quando era meglio tacere.
D'improvviso, con uno scatto, il contenitore si aprì quasi facendolo sobbalzare: il vecchio infilò la mano e tirò fuori qualcosa che assomigliava a un libro, uno di quello che erano gelosamente custoditi in quella capanna.
Shervaz lo aprì con cura, con una mano che sorprendentemente gli sembrò improvvisamente leggera, sfogliò qualche pagina, mentre la sua espressione diventava sempre più dolorosamente cupa.
«Cos'è?» chiese quasi con forza il giovane.
L'anziano continuò ancora un po' a sfogliare: «È la morte,» disse, «è il male,» e senza dargli modo di rispondere o reagire scagliò quei fogli sul fuoco.
Sorpresa rabbia sgomento accompagnarono il suo grido, mentre il giovane tentava le fiamme: «Ma perché? Che hai fatto? Perché?»
E senza riflettere mise le mani sulla fiamma cercando di salvare quell'oggetto che si consumava in uno sfrigolio leggero di cenere.
Riuscì a strappare qualche foglio al fuoco, mentre sentiva il dolore lampeggiare sulla sua pelle: raccolse quanto poté, lo strinse al petto e fuggì via, inseguito da un inutile: Fermati, pazzo, del vecchio.
Corse a nascondersi, ansimando d'ansia e di dolore, cercò ai limiti del villaggio l'angolo più nascosto. Si guardò il petto, sporco di cenere nera, con brani di carta bruciacchiata appiccicati al suo sudore:doveva sapere cos'era, doveva capire il comportamento dell'anziano.
Delicatamente prese in mano quei fogli e la sua prima sorpresa fu che i caratteri erano identici ai loro anche se la lingua era diversa. Cosa c'era scritto?
Voleva capire e intuì che forse il solo che poteva aiutarlo era il vecchio Shervaz: di sicuro doveva sapere qualcosa che gli nascondeva.
Tornò alla capanna, il vecchio lo guardò con un'aria stanca: «Sapevo che saresti tornato
«Devi insegnarmi quella lingua, io devo leggere quei fogli, altrimenti tutti sapranno che cosa ho trovato.»
«Vi troverai solo altre domande, o solo orrore.»
Non lo guardò neppure, certo che non valeva la pena insistere: «Siedi!» gli disse.
E così, per tutta la durata della lunga notte della terra dei Legs, il giovane imparava, scavando da un libro del vecchio che gli aveva posto come sola condizione che solo alla fine avrebbe letto i fogli  trovati.
E un giorno, mentre il primo dei soli si annunciava alle spalle della terra, schiarendo di un tenue viola il cielo, il vecchio chiuse il libro e lo guardò. Non disse nulla, lui si alzò con un gesto che voleva essere di ringraziamento e di soddisfazione, ed uscì dalla casa dell'anziano.
Non c'erano che flebili rumori nel villaggio, un'aria sonnacchiosa sembrava coprire ancora tutto come una coperta calda. Si avviò, respirando forte, verso la riva del mare. Lo trovò ancora scuro, quasi terribile; si sedette e aspettò.
D'un tratto il cielo sembrò squarciarsi di luce, e il secondo sole fece scivolare strisce dorate sul mare,che diventava a mano a mano sempre più livido e opalescente, come ogni giorno.
Stava lì, di fronte a lui, quel mare che lo inquietava col suo movimento di palude (Il Melmoso lo chiamavano i ragazzi nella loro gioiosa irriverenza); aprì il sacco e tirò fuori con cura pezzi di fogli bruciacchiati. Ora poteva togliersi ogni curiosità, se lo era meritato, Provò anche ad ordinarli, ma era una fatica impossibile. Cominciò a leggere
«...se si alzasse un po’ di vento… sono giorni che mi pare di non essermi mai mosso… devo…»
Troppo poco per capire, ne prese con cura un altro: «Gli anziani dicono che dove sorge il sole non c’è che orizzonte, e qualcuno afferma che da lì c’è un baratro…»
«...che volevo partire mi hanno dato del matto, predicendomi che sarei morto nel nulla… Devo sapere se…»
Maledì in cuor suo l’anziano e il fuoco, anche se cominciava a capire: dove tramontano i due soli esiste un’altra terra, quel mare non è infinito e loro non sono soli;e  tra quell'altra gente c’era stato qualcuno che aveva tentato il mare e, ora ne era certo, era morto nella traversata.
Continuò a leggere.
«...sono stanco, forse davvero non esiste un’altra terra…. paura di… non ho più forza di scriv…»
Con un nodo alla gola, come se avesse perso un fratello, prese l’ultimo foglio:
«...ho visto l’alba dei due soli allargarsi sul mare, ne ho visto lo splendore e la desolazione; forse questo mi ripaga del…»
«...ho sete…»
Sentiva lacrime, provava rabbia, eppure si sentiva sollevato: di la dal mare c’era un’altra terra e forse quel mare ostile, livido e crudele poteva essere vinto.
Si alzò in piedi, lasciò cadere l’ultimo foglietto annerito.
Guardò il mare: da lì avrebbe avuto le sue risposte, o forse lì avrebbe incontrato il suo destino.

venerdì 2 ottobre 2015

PEGASUS INTERNATIONAL - Francese 4






SERENA GENTILHOMME
Moi, Salvatore, ton Sauveur


 
Ma Maria,
Tout va bien.
08h00 : emmené notre enfant à la crèche.
08h30 : retour chez nous.
08h33 : debout devant la porte béante de la salle de bain, je t’entends gueuler, sous la douche, notre chanson, Ti amo, dont, désormais, je ne suis plus le destinataire. Toi, tu ne me vois pas, moi, si, malheureusement : derrière le rideau en plastique, tu te déhanches dans une danse obscène – digne de ces putes étrangères qui nous infestent, transformant notre beau pays en bordel. Je me sens plongé dans un de ces cauchemars où les choses et les visages familiers se font méconnaissables, comme ta voix, devenue insupportablement vulgaire depuis que tu as commencé à me tromper avec n’importe qui, via cet engin du diable qu’est Facebook.
Mais pourquoi nous as-tu tellement crottés, notre enfant, ce petit ange, et moi ? Pourquoi nous avoir traînés dans la boue t’exhibant sur ce réseau social – dont, par bonheur, j’ai réussi à te soutirer le mot de passe –  où de tristes individus, soi-disant amis, t’envoient des messages honteux, avec des cœurs et de petits visages grotesques souriant au milieu de nounours volants ? Que manquait-il à ton parfait bonheur ?
Je vais te le dire, moi : rien, même que tu as été protégée par moi comme nulle autre femme. Qui peut se vanter d’avoir un mari qui, malgré son quotidien surchargé – un  pompier étant sollicité à tout moment du jour et de la nuit –  t’assistait en tout, payait toutes nos factures, celles du boulanger comme celles du médecin, chez lequel je t’accompagnais, exigeant d’assister à tes visites afin de préserver ta pudeur d’épouse et de mère, ces titres sacrosaints que tu as obtenus grâce à moi et que tu as honteusement piétinés ? Je t’épargnais même la peine de te rendre chez le coiffeur, puisque le fait de te couper les cheveux moi-même, en plus d’épargner mon argent, me rendait fou de désir : rasée, ta petite tête ressemblait à celle des religieuses chez lesquelles j’ai été élevé jusqu’à mon adoption – enfin, j’imagine, car je ne les ai jamais vues sans voile, malgré mes efforts de les épier quand elles allaient se coucher.
08h35 : allé chercher le chapelet accroché aux mains de la statuette qui surplombe notre lit, celle de la Madone Aux Sept Douleurs, avec ses poignards plantés dans la blancheur immaculée de sa robe couvrant des seins que j’ai toujours devinés : hauts et fermes, pleins de promesses maternelles, comme les tiens, dévoilés la première nuit de mariage et…
08h37 : récitant le chapelet, je contemple tes formes impertinentes, remuant sous le jet que je ressens de plus en plus chaud, pire que le sperme tes bâtards d’amants. À mon corps défendant, je pleure, car, dans quelques minutes, tu n’existeras plus sur terre. Ce sera horrible, pour moi et pour notre enfant – pour lui, surtout –, mais, au moins, je t’aurai évité la mort la plus néfaste, celle de ton âme !
Dans l’église de mon village, en Italie du Sud, il y a une fresque exemplaire, où les Anges du Paradis et la Madone réservent leur meilleur accueil aux Mamans et aux Épouses Fidèles. Tout en bas, les salopes adultères et leurs salauds rôtissent dans les flammes de l’enfer, embrochés par les diables. Ça, c’est de la vérité évangélique, comme je te l’ai toujours répété, et toi, tu étais d’accord sur ce principe… Enfin, tu avais l’air d’être d’accord, au début de notre mariage. Désormais, je me dis que, chez toi, tout était fausseté et hypocrisie, ce à quoi j’aurais pu m’y attendre, mais comment savoir ce que cache une apparence, quand on croit avoir trouvé Celle qu’on a toujours recherchée? La première fois que je t’ai vue, toi – ni belle ni moche, cheveux courts mal coupés, pas de maquillage, petits yeux myopes irradiant une douceur infinie par-derrière d’épaisses lunettes, fagotée dans des vêtements démodés – je t’ai de suite identifiée à l’épouse idéale, la DDD de mes rêves : Dévouée, Discrète, Docile…
Façonnable à l’envi.
Après notre premier baiser d’amour, tu m’as avoué que tu n’étais plus vierge. J’ai été épouvantablement déçu, mais je me suis dit que j’avais une vie entière devant moi pour te façonner, même si, la première nuit de mariage, j’ai vu qu’il y avait du boulot, de ce côté-là : violemment enfourchée, tu bavais de plaisir, tortillant du cul et râlant des mots genre encore, encore, je viens, je viens, des trucs dignes des films porno, et je sais ce que je dis, j’en connais tout un rayon… Le jour d’après, je t’ai dit qu’il fallait que tu te donnes une contenance quand on faisait la chose, et toi, en femme amoureuse – au moins au début de notre mariage – tu as cherché à rester calme et passive, avec un sourire de résignation souffrante peint sur ton visage, identique à celui de la Madone Douloureuse qui a toujours veillé sur nos nuits consacrées par notre lien indissoluble.
Après, notre enfant est venu bénir notre union, accouché dans la douleur, comme la Bible l’impose. Comme on m’avait prévenu que tu voulais la péridurale, je me suis précipité dans la salle de travail en temps utile pour empêcher ce sacrilège, conscient, quand même, que tu avais commencé à glisser sur la pente du péché, en chute libre. Pour réparer, j’ai décidé de te refaire un enfant, me sentant impuissant, dans le sens que mon contrôle sur toi m’échappait. Sexuellement, en revanche, j’étais en forme olympique : jamais je n’ai mieux bandé que pendant ces nuits où je te possédais, toi, absente et rétive, me donnant – enfin ! – la merveilleuse sensation de violer une vierge récalcitrante, toute à son sacrifice.
Mon bonheur n’aura duré que peu de temps, jusqu’au jour où j’ai découvert que tu prenais la pilule en cachette. Je suis allé demander des explications à notre médecin qui s’est bien gardé de m’en donner, sous prétexte du secret professionnel. En revanche, il m’a prescrit des sédatifs que je me suis bien gardé de prendre, même si le stress me dévastait, songeant à ton âme souillée… Le jour d’après, j’ai même affronté l’humiliation d’aller chercher Monsieur le Curé dans sa sacristie pour savoir ce que tu avais pu lui raconter, mais celui-là m’a sorti un autre secret, celui de la confesse. Je me suis abaissé jusqu’à le supplier à genoux, lui notifiant que sa mission est celle de sauver l’âme du pécheur en général et la tienne en particulier, alors il m’a répondu une chose que je savais déjà, que l’Époux doit aimer son Épouse comme le Christ son Église, ce à quoi j’ai riposté que si l’Église n’est plus obéissante au Christ, celui-ci a bien le droit de la punir comme il faut, oui ou merde ? Souriant, Monsieur le Curé m’a dit d’éviter les gros mots et de m’en aller dans la paix du Seigneur. Puis, il a commencé à donner des ordres au sacristain sur comment décorer l’église pour le Saint Noël, mais, comme je ne partais pas, il m’a proposé sa bénédiction que j’ai refusée, bien sûr. Déçu et plein de haine, je suis rentré chez nous, où je t’ai surprise une fois de plus en train de chatter sur ce réseau de merde : éclairé par la lueur livide de l’ordinateur, ton sourire hébété, indécent, m’a donné envie de vomir, et ce fut la tête dans la cuvette, entre deux régurgitations de bile, que je pris ma décision ultime : conformément à mon nom de baptême, Salvatore, je serai ton Sauveur, vu que les autorités compétentes en matière de corps et d’âme avaient refusé de m’aider, se cachant derrière tous ces secrets à la con.
Après cette résolution, je me suis senti en paix, comme je ne l’avais plus été depuis longtemps – calme et détaché, mon esprit s’était composé dans l’invincible patience du Rédempteur. Nuit après nuit, tout au long des heures les plus noires et les plus froides de cet hiver, je suis resté assis sur le balcon de notre chambre, attendant que tu en finisses avec tes sales bavardages. Frissonnant, je fixais un point au-delà des champs qui traînent leur platitude  jusqu’à l’horizon : là dort un canal plein de boue, presque invisible de la route à cause des buissons, mais, pour peu qu’on sache qu’il existe, on peut très bien le surveiller de chez nous. Ce serait ma façon de te tenir constamment sous mon regard : pendant que ton corps se délitera dans la vase, ton âme se purifiera grâce à mes prières, jusqu’à l’instant où elle deviendra aussi luisante qu’une étoile dans une nuit sans lune.
Ça y est. La douche se tait. Tu ne chantes plus. Dans quelques secondes tu sortiras, resplendissante dans ta nudité qui n’est plus la mienne et qui revêt une âme purulente… Avant de t’étrangler, je te ferai réciter l’Acte de Contrition jusqu’au bout, cherchant à ne pas me faire apitoyer par ton désarroi, par ta terreur, mais, dis-moi, ma Marie, que sont quelques instants atroces sur terre par rapport à une éternité de flammes et de tourments ? Grâce à moi, tu passeras tout au plus quelques millénaires au Purgatoire, une vétille…
………………………………………………………………………………..
Tout va bien.
La chose a été plus rapide et plus facile que prévu : l’effet surprise, sans doute.
8h43 : âme épouse sauvée
9h35 : retour chez nous
9h40 : nourri lapins et poules
9h45 : connexion au site Rencontres catholiques que je fréquente depuis toujours et où j’ai posté cette annonce :
Homme seul, sapeur pompier, très croyant et fidèle, cherche femme vierge si possible, catholique pratiquante, simple, maternelle et sans ambitions professionnelles.
Parcourant la liste des profils, je vibre de satisfaction : nombreuses sont les femmes dignes de moi qui m’ont répondu, mais j’ai déjà repéré ma préférée, une ni belle ni moche, mal coiffée, mal habillée, aux yeux très doux derrière ses lunettes de myope…
Façonnable à l’envi.

 
                            


DANIEL FRINI
 LETTRE OUVERTE A DIEU




Monsieur qui êtes au ciel,
 Au nom de tous les hommes qui habitent ce monde – le vôtre – je me permets de m'adresser à votre très haute Divinité avec l'objet suivant :
— exiger la restitution de la côte que Vous avez soustraite à notre père Adam, alors que celui-ci se reposait au centre de loisirs connu sous le nom d'Eden, et
— faire en sorte que l'Histoire reprenne son cours à partir de l'instant précis qui a précédé ce malencontreux événement.
Nous exigeons également l'indemnisation correspondante, plus les intérêts échus depuis la création (conformément aux calculs de l'archevêque Ussher datant de quatre mil quatre avant la naissance de Votre Fils), ainsi que les honoraires et les coûts afférents. Nous nous réservons, en outre, le droit d'intenter, devant les tribunaux du Ciel que vous dirigez, les actions au pénal correspondantes afin d'obtenir compensation pour l'acte répréhensible que vous avez commis et que nous considérons bel et bien comme un vol. Nous sommes certains que Votre Infinie Sagesse n'interférera pas dans l'administration de la Justice.
J'insiste sur le fait que la côte d'Adam, notre côte, nous a été soustraite, volée, dérobée, escroquée. Et, ce qui est bien pire, abusivement utilisée pour créer un triste personnage lequel n'a, depuis lors, fait que perturber le cours normal et paisible de la vie de l'homme.
Notre père Adam était très bien tout seul, et nous sommes certains que Vous l'aviez doté de l'intelligence qui lui permettait d'assurer lui-même la satisfaction de ses besoins sans qu'intervienne dans Votre Création un nouveau personnage qui n'a fait que brouiller les pistes et qui Vous a, entre autres, fait perdre le contact avec l'excellent produit sorti de Vos mains. Nous n'en doutons pas. Vous avez agi correctement en expulsant Adam et la mégère, puisqu'il ne Vous restait pas d'autre possibilité, compte tenu de la règle régissant Votre ciel. Mais nous sommes convaincus que ce choix vous aurait été épargné si la susdite avait eu un autre comportement.
Confiant en votre discernement.

(Traduction : Pierre Jean Brouillaud)


             Né dans la province de Cordoba (Argentine) en 1963, Daniel Frini est ingénieur en mécanique et électronique. Il collabore à la revue en ligne AXXON. Ses récits sont publiés dans différents pays et, notamment, sur le site UN(E) AUTEUR(E), DES NOUVELLES.

 





Pierre Jean Brouillaud
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de 10 à 30 % Plus de 30%
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