sabato 29 giugno 2013

OLTREMARE di Paolo Secondini e Luca Filippi

  - Devi farlo tornare a qualsiasi costo... Non posso vivere senza di lui... lontano dal suo amore.
     La voce implorante di Charlotte tradiva l’angoscia che la tormentava da tempo. Il suo gracile corpo era scosso da un tremito lieve, come a volte le capitava.
     Senza aspettare risposta, distolse lo sguardo dal vecchio sacerdote che era con lei, e lo volse verso le acque tranquille del mare. Quella vista parve calmarla. Emise un sospiro profondo e sentì la mano del prelato stringerle un braccio con dolcezza. Si girò di nuovo a guardarlo. Aveva gli occhi lacrimosi, ma di un limpido blu cobalto, come il colore degli occhi del suo amato Massimiliano.
      - Altezza - disse in tono sereno il sacerdote. - Non credete sia meglio rientrare? Tra poco sarà buio, e già soffia una brezza fastidiosa, piuttosto fredda.
    Charlotte non rispose; improntò le labbra a un lieve sorriso. Poi, dopo avere gettato ancora un’occhiata alle acque del mare, si volse a guardare, alle sue spalle, la bianca facciata della villa, che il sole morente tingeva di un pallido rosa. Quella lussuosa dimora - lei ricordò - era stata eretta sopra un’altura abitata da alcuni eremiti, i quali, scacciati senza pietà da quel luogo di preghiera, avevano lanciato, come si diceva, terribili maledizioni. In queste Charlotte non aveva mai creduto. Ma a volte rabbrividiva, ripensando alla sorte di Massimiliano, fucilato come un nemico nel lontano Messico.
      Massimiliano!
      Si rammaricò di non avergli dato un erede; di non essergli stata vicina nell’ultimo istante della sua vita; di non avere potuto baciare per l’ultima volta le sue labbra.
“Amore mio!” pensò Charlotte. “Perché il nostro destino è stato tanto crudele? Perché la vita ha voluto impedirci di essere felici?”
   - Vi prego, Altezza - disse di nuovo il sacerdote, spingendola avanti con dolcezza, - è meglio rientrare. La vostra salute mi preoccupa.
L’ansia del vecchio prelato pareva sincera. Ancora una volta lei non rispose, ma acconsentì annuendo con il capo.
      Quel prete, che Pio XI aveva messo al suo fianco, le era di grande conforto. Era la sola persona che, con parole e modi cortesi, le rendesse ancora gradita l’esistenza. Sembrava che Charlotte non potesse più vivere senza sentire la sua voce, senza la sua comprensione, senza il continuo incitamento a non avvilirsi, a reagire con coraggio alle varie difficoltà della vita. E Charlotte, che aveva bisogno di lui, lo cercava solitamente nel luogo dove l’anziano sacerdote passava il suo tempo: la cappella della villa.
     Una sera il prelato, mentre era in preghiera ai piedi dell’altare, si girò di scatto, sentendosi chiamare da Sua Altezza. Fece per alzarsi ma lei, andandogli incontro a passi veloci, si gettò ai suoi piedi.
     - Devi farlo tornare a qualsiasi costo. Ti scongiuro! - implorò Charlotte, con voce rotta dall’emozione. - Solo tu, padre Arduino, puoi farlo. Prega il tuo Dio, quel Dio che è stato crudele con me, che lo faccia tornare... Ti supplico!... A te certamente darà ascolto.
     - Rialzatevi, Altezza. Sono io che vi supplico... Vi supplico con umiltà di non essere ingiusta con Dio. Nessuno conosce i disegni della sua mente imperscrutabile.
      Aiutò Charlotte a rimettersi in piedi poi, guardandola intensamente negli occhi:
      - Voglio aiutarvi, Altezza. Farò quello che posso per alleviare il vostro dolore. Vedervi così mi rattrista, mi addolora profondamente. Voglio che abbiate ancora fiducia nella vita e, soprattutto, nel vostro unico Dio, al quale voi siete molto cara, più di quanto possiate immaginare.
Dopo averle accarezzato una spalla con dolcezza, padre Arduino condusse Sua Altezza presso l’altare e, fissandola negli occhi:
    - Quando mi vedrete cadere per terra, controllate che il mio vecchio cuore non abbia più battiti, chiudetemi gli occhi e sussurratemi in viso il nome del vostro amatissimo sposo.
Lì per lì Charlotte non capì il senso di quelle parole. Ricambiò inebetita lo sguardo del prete, le labbra semiaperte.
      - Vi prego - ripeté il prete, - fate come vi ho detto. La vostra salute mi sta a cuore, Altezza. Voglio che finalmente voi ritroviate la pace, quella pace che posso donarvi soltanto in un modo... Non abbiate paura. Fidatevi di me.
      Detto questo, padre Arduino si segnò e prese a biascicare una preghiera. Il suo sguardo parve fissare un punto imprecisato della cappella, mentre i suoi occhi si dilatavano, diventando di un blu ancora più intenso. A un tratto cessò di pregare, sospirò, poi, con lentezza, si accasciò a terra.
     D’istinto Charlotte si portò le mani alla bocca, quasi volesse trattenere un grido. Rimase un istante a fissare il corpo del sacerdote, che non dava più segni di vita. Con trepidazione si piegò sulle ginocchia e, dopo aver constatato la morte di padre Arduino, gli chiuse le palpebre con la punta delle dita. Infine, sussurrò sul suo volto - come le era stato detto - il nome che sempre avrebbe custodito nel cuore: Massimiliano.
* * *
  Il principe Philippe guardò sua sorella, imperatrice abdicataria del Messico, principessa reale del Belgio, e non la riconobbe. Da un po’ ella aveva sul viso un’espressione un po’ strana, indecifrabile, a volte stralunata.
     - È così da quando è stata trovata accanto al vecchio cappellano, morto di infarto mentre pregava - informò la dama di compagnia, anziana vedova di un conte belga, mentre si aggiustava la crinolina. - Era un uomo strano, il prete... Le voci, Altezza, dicevano che fosse un santone o una sorta di stregone... che parlava con i defunti...
    Philippe si avvicinò al parapetto a picco sul golfo. Affacciandosi, fu colto da grande malinconia, e sentì il castello di Miramare gravargli addosso come un’oscura minaccia.
      Da quando Charlotte era tornata dal Messico, dopo che l’imperatore Massimiliano era stato ammazzato, senza che nessun monarca d’Europa - neppure Francesco Giuseppe, suo fratello - avesse mosso un dito per salvarlo, lei non era più stata la stessa.
      - Fate venire la carrozza, riportiamo Charlotte a casa - ordinò il principe rientrando in villa.
Sua Altezza, che proprio in quel momento scendeva una imponente scalinata, sentì Philippe pronunciare quelle parole.
      Tese la mano alla sua destra per appoggiarla sul braccio di Massimiliano che era al suo fianco. Si girò a guardarlo; gli sorrise. Ricordò in quel momento le parole di padre Arduino: “Voglio che abbiate ancora fiducia nella vita e, soprattutto, nel vostro unico Dio.” Come poteva non averne, ora che il suo amatissimo sposo era di nuovo con lei?
    Mentre scendeva la scalinata tutti si volsero a guardarla, chi scuotendo la testa, chi con espressione pietosa negli occhi. Sua Altezza non ci badò, né le diede fastidio la compassione degli altri.
    La carrozza era già pronta davanti all’ingresso della villa. Quando Charlotte la raggiunse, attese che Massimiliano le porgesse la mano per aiutarla a salire. Sedettero l’uno vicino all’altra, felici come un tempo.
Poi la carrozza si mosse e, dopo un po’, il bianco castello sul mare scolorò nella bruma.

venerdì 28 giugno 2013

IL ROSETO di Sergio Bissoli

                                                                                                      
Sono da poco tempo venuto ad abitare in questo villaggio.
È una località tranquilla, senza niente di interessante nei dintorni. Non ci sono bellezze naturali, né storiche, né paesaggistiche. La campagna si stende piatta intorno a noi e il villaggio è formato da casette più o meno uguali.
Forse l’unica cosa bella qui è il roseto che appartiene alla casa dei miei vicini.
La casetta è color bianco ed è abitata da tre vecchietti, due fratelli e una sorella. Davanti alla facciata ci sono tre cespugli di rose, vecchi e rigogliosissimi. Non sono un esperto di fiori, ma non avevo mai visto prima rose così belle e grandi.
Una mattina noto che il cespuglio al centro appare ammalato; fiori e foglie sono appassite ed è evidente che la pianta sta soffrendo. Dopo alcuni giorni i petali cadono per terra e in circa una settimana l’arbusto diventa secco, con i rami gialli.
La vecchia Ida, che tutti i giorni innaffia le rose, si mostra molto dispiaciuta.
Ma un’altra disgrazia, molto più grave, colpisce la casa. Le finestre sono chiuse questa mattina e vedo arrivare gli uomini delle pompe funebri. Poco dopo vengo a sapere che Giuseppe, il fratello più anziano, è morto di infarto questa notte.
Conosco poco i miei vicini ma, per cortesia, alcuni giorni dopo partecipo al funerale.
Durante i mesi estivi quando apro le finestre al mattino resto ad ammirare le rose che spiccano come arabeschi colorati sullo sfondo bianco del muro. La vista del roseto in fiore mi dà un piacere vivo come la visione di un quadro o l’ascolto di una musica.
Poi col passare del tempo, il cespuglio di destra diventa raggrinzito; i petali cadono, i rami si piegano…. Forse qualche parassita sta divorando le radici della pianta.
Quando il cespuglio si secca e muore, il signor Arturo lavora sotto il sole tutto il giorno per sradicare la pianta, portare via i rami e livellare il terreno.
Quella fatica è stata eccessiva per il vecchio Arturo, poiché adesso egli si trova a letto ammalato di polmonite. Pochi giorni dopo vengo a sapere che l’uomo è morto.
Adesso è rimasto un solo cespuglio di rose e mi consolo a guardarlo. Ho perfino trasferito la mia scrivania vicino alla finestra.
Una mattina Ida mi chiama per chiedermi un favore, così restiamo a parlare un po’. Le faccio i complimenti per le rose stupende e per l’amore con cui le cura.
Allora lei depone l’annaffiatoio e mi fa questa confidenza:
«Quei cespugli li piantò nostra mamma, che aveva la seconda vista. Piantò un cespuglio di rose per ogni figlio nato e li dedicò a noi. Quando il primo cespuglio si seccò, mio fratello Giuseppe morì. Quando si seccò il secondo, morì mio fratello Arturo. Adesso anche l’ultimo cespuglio rimasto incomincia a deperire…. E anch’io non mi sento bene…»
In realtà il roseto non è più tanto rigoglioso.
Nei giorni seguenti la pianta lentamente diventa floscia, ingiallisce, finché si secca.
La vecchia Ida muore di aneurisma pochi giorni dopo.

giovedì 27 giugno 2013

IL NANO di Massimo Licari




Cari amici, vorrei prima di tutto dirvi che siete tutti molto bravi. Dico sempre a mio figlio di andare in paese a casa di Don Germano, il nostro parroco, per controllare sul suo computer se c’è qualcosa di nuovo e sono davvero felice quando trova una nuova storia. Don Germano gliela fa stampare e lui viene a casa a leggermela.
Io non so leggere, perché ho cominciato a lavorare nei campi da ragazzino. Però mio figlio l’ho mandato a scuola. Dico sempre a mia moglie che coi tempi che corrono, un figlio istruito è una buona cosa.
Fa la seconda media e si impegna tanto. Ogni giorno fa venti chilometri per andare a scuola e altri venti per tornare indietro.
Gli ho detto di andare da Don Germano a scrivere su Internet (lui mi ha detto che si chiama blog) per chiedere il vostro aiuto. Quelli mi stanno perseguitando, e voi, che siete istruiti, magari mi potete aiutare.
Questa storia è cominciata sei mesi fa.
Ero nella stalla a mungere le mucche quando ho sentito un boato. La stalla ha vibrato e gli animali si sono spaventati. Figuratevi che la Carolina ha ricominciato a dare il latte due settimane dopo per lo spavento che si è presa.
Vado fuori a vedere che cos’è successo e vedo un gran fumo in mezzo al campo di mais.
Porca miseria, mi sono detto, un incidente nel mio campo di mais. Ma poi ho pensato che la strada passa molto più avanti.
Anche la Maria, mia moglie, era corsa fuori, ma gli ho detto di rientrare a casa e lasciare fare a me.
Così sono andato nel campo di mais.
C’erano pezzi di metallo tutto intorno.
Ho pensato che forse era caduto un aereo.
Insomma, giro tutto intorno e a un certo punto vedo un bambino per terra.
Cioè, all’inizio pensavo fosse un bambino.
Ma quando mi sono avvicinato, ho visto che c’era qualcosa di strano.
Aveva un vestito color argento e un casco come quello che usa il Luigi quando va in moto.
Io non sapevo cosa fare, perché sono capace di curare una mucca se si fa male, ma non un bambino.
Stavo per tornare a casa per andare a chiamare il dottore quando il bambino si è messo a sedere.
Meno male, ho pensato, sta bene. Anche perché il dottore sta a quindici chilometri da casa, e ci vuole più di un’ora per portarlo qui.
Quello si è tolto il casco e allora ho pensato che forse non stava davvero bene.
Aveva occhi molto grandi e la testa un po' schiacciata.
Ho pensato che forse aveva preso una gran botta, ma come si fa a schiacciare la testa senza rompere tutto?
Così ho capito che forse era nato un po' strano.
L’ho guardato meglio e mi sono accorto che aveva tre dita in ogni mano.
Povero figlio, ho pensato, chissà che dolore per i genitori avere un bambino con la testa schiacciata e gli occhi così grandi. E poi gli mancano due dita in ogni mano. Povero figlio.
Pensate che non era nemmeno capace di parlare.
Lui si è alzato e ho capito due cose: non era un bambino, perché altrimenti avrebbe pianto per l’incidente, e comunque non stava tanto male.
Infatti ha cominciato a raccogliere tutti i pezzi di metallo che stavano lì intorno.
Allora l’ho aiutato.
Si, mi aveva rovinato il mais, ma non potevo essere crudele con un nano deforme. La natura era stata già tanto severa con lui, potevo trattarlo male anche io?
Abbiamo raccolto tutti i pezzi fino al tramonto e poi gli ho detto che dovevo tornare a casa.
Maria si preoccupa se non torno a casa al calare del sole.
Lui mi ha fatto capire che restava lì ad aggiustare la sua automobile.
Cioè, all’inizio pensavo fosse un’automobile.
La mattina dopo mi ero quasi scordato del nano. Sono andato nella stalla, come sempre, e poi ho preso il trattore per andare a prendere l’acqua dal canale in fondo al campo.
Quando sono passato vicino al mais mi sono ricordato.
E così sono andato a vedere che cosa stava facendo.
Doveva aver lavorato tutta la notte, perché aveva quasi aggiustato l’automobile, cioè, quel coso strano, insomma, mi avete capito?
Però aveva bisogno di aiuto, così mi sono messo lì e mi sono scordato di andare a prendere l’acqua. Ho lavorato con lui tutto il giorno.
Alla fine sembrava contento.
Ho capito che gli serviva qualcosa, ma lui non poteva parlare, e come faccio a sapere cosa ti serve?
È venuto con me, fino quasi a casa, ma non è voluto entrare dentro. Ho pensato, meglio così. Povero figlio, non è colpa tua, ma magari Maria si spaventa.
Mi ha indicato la stalla e gli ho detto di andare pure. Forse voleva vedere le mucche, non so.
Invece ha lavorato a un aggeggio strano per due giorni.
Alla fine era tutto a posto.
Mi ha fatto capire che voleva farmi un regalo.
Io ho pensato che un regalo poteva anche andar bene, visto che mi aveva rovinato mezzo campo di mais.
Non so che cosa abbia fatto, ma da quel giorno io non ho più bisogno della corrente dell’Enel. Ho perfino staccato i fili.
Lui è partito una sera dopo il tramonto. È salito sul quel coso e io ho pensato: dove vuole andare se stiamo in mezzo al mais? Mi rovina l’altra metà del campo.
E invece quello è salito in cielo in un attimo. Quella automobile volava!
E così ho ricominciato la mia vita, nella stalla la mattina e nei campi tutto il giorno.
Ma senza pagare l’Enel.
E quelli mi hanno cominciato a perseguitare.
Sono venuti a dire che è impossibile che non mi serve l’elettricità, che non posso farmela da solo. Ma io non faccio niente.
Non gli ho fatto vedere quell’aggeggio, perché è un regalo e non voglio che il nano, semmai tornerà, si offenda. L’ha dato a me, mica a quelli dell’Enel.
Allora, amici, vi chiedo di aiutarmi.
Che cosa devo fare per convincerli a lasciarmi stare?

mercoledì 26 giugno 2013

LA MONTAGNA di Maurizio Setti

Non mi pareva vero, avevo quasi raggiunto la cima ed ero felice come un bambino che muove i primi passi. Per arrivare fin lassù l'escursione non è stata affatto semplice anzi, ho dovuto assistere alla perdita dei mie due compagni di cordata, impotente e impassibile. Prima uno e poi l'altro li ho visti precipitare in fondo a quel crepaccio. È stato orribile. Loro imploravano aiuto ed io li osservavo sconcertato e confuso senza muovere un dito. Poi come se niente fosse ho arrotolato la corda, ho messo lo zaino in spalla e ho proseguito il cammino.
Ad ogni passo che facevo pensavo ai due disgraziati e alla loro tragica fine, ma io sentivo il bisogno quasi mistico di andare avanti, come se una forza irresistibile mi spingesse da dietro. Il sole era alto e cocente e quasi le mie gambe stavano cedendo alla tentazione di afflosciarsi e riposare. Mancavano ormai pochi metri alla guglia in granito, simbolo della vetta che stavo scalando e già il mio cuore aveva raggiunto il picco delle palpitazioni. Non avevo più saliva in gola, ma il traguardo era ormai prossimo e mentre mi stavo pregustando l'idea dell'impresa personale, già immaginavo i titoli sui giornali: Trio di alpinisti tenta l'impresa impossibile, solo uno ce la fa.
Pensavo alle interviste e alle comparsate nei vari talkshow e tutto ciò mi stava gasando portandomi a toccare quasi il cielo con un dito. Ero proprio a due passi dalla croce e intravedevo già il riflesso del sole che rimbalzava sul metallo del simbolo cristiano.
Un ultimo sforzo, e tutto avrebbe avuto finalmente un senso. Stavo per toccare il basamento della croce, quando da dietro sento afferrarmi un piede, e con forza sovrumana tirarmi giù. Non potevo credere ai miei occhi, stavo scivolando sempre più in fondo e non capivo chi o cosa mi stesse afferrando. Vedevo la cima allontanarsi sempre più, cominciai ad urlare, a implorare aiuto, cercando qualche appiglio tra i sassi e le sterpaglie ma tutto pareva essere contro di me. A un certo punto mi blocco rimanendo sospeso a mezz'aria. Sono appeso ad una corda e non posso né scendere né salire. Poi guardo in basso, giù nel crepaccio e intravedo due corpi accasciati l'uno accanto all'altro: sono i miei due compagni di cordata. Cerco con le poche forze che mi rimangono di arrampicarmi fino al ciglio del burrone, sto quasi per mettermi in salvo quando ai miei lati vedo due corde perfettamente tirate.
Qualcuno sta salendo! Mi sta raggiungendo! Ora li vedo, sono loro...ma com'è possibile?
I miei compagni erano lì accanto a me, stavano salendo così rapidamente che non mi sembrava realmente e umanamente possibile. Cercavo di fuggire ma invano, uno di loro mi addenta un piede e non lo molla, sentivo la pelle strapparsi di dosso; urlavo agonizzante dal dolore, forse l'unica via di fuga sarebbe stata quella di tagliare di netto le corde dei compagni. Li avrei condannati a morte una seconda volta, ma ciò non rappresentava ormai più alcun problema. Sfoderai il mio inseparabile coltellino Opinel dalla guaina e con un colpo secco separai la corda del primo compagno in due parti, poi mi voltai di lato e feci la stessa cosa col secondo compagno.
Li vedevo precipitare giù nel crepaccio, destinati inesorabilmente a soccombere negli inferi della terra, nessuno li avrebbe mai più trovati. Mentre mi pregustavo tutto ciò, un moschettone mi colpì una mano, poi di seguito una piccola manciata di sassi mi franò addosso. Alzai la testa e vidi moschettone dopo moschettone, staccarsi dalla roccia ogni appiglio che mi consentiva di rimanere sospeso a mezz'aria come un salame. Vidi che la mia corda era legata incomprensibilmente con le altre due; il cuore mi salì in gola, mentre vedevo cadere i due disgraziati mi rendevo conto che precipitavo insieme a loro.
Ero spacciato, condannato dal mio stesso cinismo e dal desiderio insanabile di arrivismo.
Prima di schiantarmi al suolo girai l'Opinel verso di me, e...

martedì 25 giugno 2013

LA CADUTA di Sauro Nieddu




Nonostante la strada fosse tortuosa, dall'alto del valico si riusciva a vedere che il primo tratto della discesa era deserto. Il ciclista innestò il rapporto più duro e spinse con violenza sui pedali. Era raro trovare così libero quel tratto della strada costiera, almeno con l'alta stagione alle porte. Giorgio era deciso ad approfittare dell'occasione; niente lo esaltava di più che sentire la strada correre veloce sotto le ruote sottili della sua bicicletta, le vibrazioni tramettersi lungo la forcella dall'asfalto rugoso direttamente alle sue mani. L'instabilità del mezzo lo faceva sentire appeso a un filo, ma allo stesso tempo lo inebriava la sua capacità di tenere il controllo.
Prese rapidamente velocità, ma imprecò tra sé e sé, quando a causa della traiettoria d'ingresso troppo stretta, alla prima curva fu costretto a tirare i freni più del dovuto; avrebbe perso cinque o sei chilometri orari per tutto il rettilineo. Si congratulò invece con se stesso per la perfezione, forse dovuta alla scarsa velocità di entrata, con cui disegnò il tornante successivo. Nella veloce semicurva a destra, da fare senza toccare i freni, buttò l'occhio sul tachimetro; ottantanove all'ora, e si sentivano tutti. Si preparò alla piega del doppio tornante che lo attendeva, immaginando la bici come la mina di un compasso che disegnava la curva ideale. All'improvviso una lepre balzò dal ciglio della strada proprio sul suo punto di frenata. Giorgio aveva troppa esperienza per provare a staccare in extremis o evitare l'ostacolo, il suo destino era di centrare il rosicante in pieno per poi cadere; era inevitabile. La ruota anteriore s'impennò nello scontro, vide il bordo della strada corrergli incontro mentre cercava di buttarsi a terra. L'urto lo aveva però sbalzato dal sellino, e  nel breve tempo a disposizione non riuscì ad accennare una reazione. Assieme alla bicicletta, scavalcò il basso muro in pietra e finì giù per la scarpata.
Quando aprì gli occhi, era steso su un fianco, il sole aveva da poco superato lo zenit e gli arroventava il lato del viso esposto. Sentiva un’arsura tremenda. Poi venne il dolore e perse nuovamente conoscenza.
Rinvenne, non doveva essere passato molto perché il sole non si era quasi mosso. Sentiva un tremendo dolore al torace, e anche il braccio sinistro doveva essere rotto. La sete lo attanagliava, provò a muovere la testa per vedere dove fossero la bicicletta con la borraccia, ma era immerso nella macchia e la visibilità era limitata ad appena qualche decina di centimetri. Stringendo i denti per la sofferenza guardò in alto, ma neanche la strada era in vista. Lucido in maniera incongruente, si rese conto che era molto probabile che lui stesso non fosse visibile dalla strada. Inutile aspettarsi un soccorso, quindi; se voleva uscire da quella situazione, avrebbe dovuto farlo da solo. Sentì una macchina passare da qualche parte sopra di lui, provò a chiamare ma il torace, sottoposto allo sforzo, gli rimandò indietro una fitta di dolore che lo fece svenire ancora.
Si stava facendo sera, quando si riebbe. Nonostante il dolore e il braccio rotto, la frescura lo incoraggiò a trascinarsi in cima alla rupe. Solo allora si ricordò di avere le gambe, erano l'unica parte che non doleva. Se ne ricordò solo nel momento in cui provò a usarle per strisciare più agevolmente ed esse non risposero, provò a toccarle col braccio buono, ma era come toccare delle pietre, fredde e immobili; nella caduta doveva aver picchiato la schiena. Da lì fu un delirio continuo. Per un momento ebbe la sensazione di una luce che lo avvolgeva poi ancora il vuoto. Al nuovo risveglio si trovò davvero circondato da una luce violetta e tenue.
Fece uno scatto con la testa, per lo stupore; la sofferenza era svanita. Si accorse di trovarsi su una sorta di tavolo, dalle braccia e dalle gambe spuntavano i tubi di una flebo. Girò il capo a destra e a sinistra per capire dove si trovasse, ma la luce era davvero troppo fioca perché lo sguardo arrivasse fino alle pareti della stanza. Riuscì però a vedere che ai suoi lati c'erano altre figure umane stese sui tavoli, tutte, come lui, aggrovigliate nei tubi, tutte incoscienti. Pareva un ospedale, era stato salvato dunque. Non sentendo più dolore provò a inspirare profondamente, e non sentì alcuna fitta. Incoraggiato da questo primo esperimento, mosse il braccio sinistro e anche questo eseguì gli ordini senza trasmettergli alcun dolore. Allarmato, si chiese quanto tempo fosse passato dall'incidente. L'allarme cessò, mutato in una vaga speranza; provò a muovere le gambe, ormai date per spacciate, e si rese conto che anch'esse erano tornate a funzionare. Gioì della scoperta inaspettata. Si chiese poi in che razza di ospedale lo avessero portato, ne aveva visti tanti, di persona e al televisore, e mai uno che somigliasse a questo, poi vittima della stanchezza emotiva, si addormentò.
Si svegliò per un attimo sdraiato sulla pancia, sentiva una strana sensazione alla schiena, quasi qualcuno lo stesse grattando, la luce violetta era ancora più debole e gli consentiva appena di vedere il tavolo di fianco al suo. Udì come una musica, o forse delle voci, ma erano troppo liquide e svelte perché si distinguessero parole; una nenia monotona e ossessiva. Vide il suo vicino di letto voltarsi dalla sua parte, aprire gli occhi. Lo sguardo era carico di terrore, vuoto di ogni volontà. Le palpebre gli si serrarono e tornò l'oblio del sonno.
Si svegliò sulla sua bicicletta, pedalava verso casa sotto il sole cocente. Sentì la testa girargli e dovette chiudere per un attimo gli occhi; com'era finito di nuovo in sella? Come in quella stessa strada dove per poco non era morto? Durò un istante, poi dovette riaprirli per non finire di nuovo a terra, ma all'atto stesso di farlo si rese conto che in realtà non li aveva mai chiusi. Non sentiva più dolore né fatica per la pedalata, non sentiva il suo corpo. Cercò di voltarsi, ma il suo sguardo non si mosse, fisso sulla strada davanti a lui. Benché il suo corpo apparisse calmo e rilassato sul sellino, la sua mente fu invasa dal panico; come poteva essere? Cos'era successo? Il panico sembrò scemare mentre si accostava a casa. La mente tornò razionale e provò mille spiegazioni per ciò che gli stava accadendo. Fu solo dopo il suo arrivo però, dopo che ebbe parcheggiato la bicicletta nel garage, che il panico raggiunse l'acme; quando sentì la sua voce chiedere in tono normale, ma con un timbro vagamente alieno:
- Sara! Oggi ben cento chilometri... sai che fame! Che mi hai fatto per pranzo?

lunedì 24 giugno 2013

FRANKENSTEIN


Nato dalla penna della scrittrice Mary Shelley (Londra, 30 agosto 1797 – Londra, 1º febbraio 1851), Frankenstein incarna la figura dello scienziato solitario, incompreso, folle, spinto nelle sue ricerche e nei suoi esperimenti da finalità spesso egoistiche e moralmente riprovevoli.
Sebbene dotato di grande cultura e intelligenza, di straordinarie qualità scientifiche, egli è, senza dubbio, un personaggio negativo che, pur di raggiungere i suoi scopi, agisce al di fuori di ogni sensibilità, di ogni regola e logica umane: un personaggio mostruoso, dunque, che suscita un senso di orrore e di ripulsa.

domenica 23 giugno 2013

UN FASTIDIOSO STRIDIO di Danilo Concas


Nell'ora di punta serale, la strada statale 131 era intasata dal traffico; peggio che stare in coda, durante una giornata afosa d'agosto, sulla via del mare. Infatti stava pure diluviando.
In mezzo a quel fiume di auto che procedevano lentissime, e sommersa dal frastuono di decine di clacson, Elisa guidava per tornare a casa dopo una faticosissima giornata di lavoro. Non vedeva l'ora di giungere a destinazione e di fare una bella doccia calda; poi si sarebbe seduta davanti alla TV e avrebbe bevuto un tè bollente. Quel pensiero soltanto bastò a rilassarla.
Dopo aver superato la deviazione causata da un tamponamento, proseguì spedita lungo la strada che percorreva tutti i giorni, fino a parcheggiare l'auto sotto casa sua e prendere l'ascensore che la portava al suo piano. Girò la chiave nella toppa e quando si richiuse la porta alle spalle si sentì pervadere dal benessere. Finalmente a casa.
Circa venti minuti dopo usciva già dal bagno, avvolta in un morbido e caldo accappatoio.
Con uno scatto secco il bollitore elettrico si spense; Elisa versò l'acqua in una tazza e vi mise a bagno il filtro metallico contenente l'ottima e costosa mistura di tè, comprata nel recente viaggio in Turchia insieme a suo marito Piero. Quando avevano bevuto quel nettare, erano stati d'accordo che era migliore di qualunque altra bevanda avessero mai assaggiato, caffè compreso. Ne comprarono un sacchetto da un chilo, pronti a sfidare qualunque ufficiale alla dogana pur di portarselo a casa.
Mentre alla TV trasmettevano il suo programma preferito, Elisa girò il cucchiaino nella tazza, lentamente, respirando l'aroma che evaporava dal liquido e rilassandosi.
Quando bevve il primo sorso, sentì una leggera nota amarognola, come un retrogusto di muffa, che non riusciva però ancora a nascondere il sapore divino di quell'infuso. Forse aveva preso un po' di umidità, pensò, ma avrebbe potuto essiccarlo mettendolo per pochi minuti nel forno.
Un ragazzo stava litigando con la sua bella, in TV, quando il rumore si udì per la prima volta; era distante e impercettibile, ma ugualmente fastidioso. Per un po' Elisa non ci fece caso, e andò a versarsi un'altra tazza di tè; poi abbassò il volume e tese l'orecchio verso la porta. Era un suono intermittente, simile a quando si passa un dito su un vetro pulito, e andava su e giù di tono con regolarità. Lasciata la tazza sul tavolo, Elisa si alzò, andando nel piccolo corridoio che collegava la cucina all'ingresso. Si fermò vicino alla libreria, trattenendo involontariamente il fiato per localizzare meglio la fonte di quel rumore. Proveniva dall'ingresso.
Pensò subito a un topo che, in qualche modo, era riuscito a entrare in casa salendo fino al quarto piano del palazzo; e dire che giù nel cortile c'erano abbastanza gatti da scongiurare una simile evenienza. Tornò indietro e prese una scopa dalla cucina, così sarebbe stata pronta ad ammazzarlo quando fosse saltato fuori. Mentre avanzava, il rumore si faceva sempre più distinto e vicino, finché fu certa che provenisse dal mobile in noce dove teneva la sua collezione di cristalli Swarovski. Con cautela e un po' di batticuore, Elisa accostò l'orecchio all'anta spiovente del mobile, sentendo il rumore vicinissimo. Si allontanò di qualche passo e, usando il bastone della scopa come leva, sollevò completamente l'anta. Non era un topo.
Qualche tempo prima, l'interno del mobile era stato modificato in modo tale che l'apertura dell'anta accendesse dei faretti sui cristalli, provocando una fantastica esplosione di colori. Ora, le varie figure stavano ferme tra lo sfavillare delle luci riflesse dalle innumerevoli sfaccettature, tranne una. L'orsetto col cuore rosso in braccio si fermò, mosse la testa, le fece l'occhiolino e riprese a pattinare sulla superficie di vetro del lago in mezzo ai cigni.
Elisa sentì il freddo impadronirsi delle sue membra e la testa farsi leggera. Continuava a fissare quell'allucinazione, perché solo di questo poteva trattarsi, con la scopa ben stretta in mano, senza riuscire a prendere una decisione su come comportarsi. Poi trovò la forza di agire, dando un colpo secco all'anta che si richiuse. Intanto lo stridio continuava, entrando di prepotenza nella sua mente e rendendo quella visione più reale che mai.
Nonostante il rumore si sentisse ancora, Elisa cercò di ignorarlo e si chiuse in cucina, alzando il volume del televisore al massimo; con uno sforzo di volontà enorme, convinse se stessa che quanto aveva visto e sentito era stato un parto della sua fantasia, causato dallo stress del lavoro che, ultimamente, era davvero troppo.
Ci voleva un'altra tazza di tè.
Mentre sorseggiava la bevanda e seguiva i volteggi di una coppia di ballerini, trattando quanto accaduto come un sogno lontano, notò sul muro proprio dietro alla TV un riflesso iridescente che si muoveva, poi si sentì toccare due volte una spalla.
La tazza volò via e si ruppe sul pavimento, quando lei balzò su dalla sedia e si girò allo stesso tempo. Il fiato le rimase intrappolato nei polmoni e la gola si strinse lasciando uscire solo un gemito strozzato.
Davanti a lei c'era l'orsetto di cristallo, con le solite fattezze ma alto quanto un bambino. E la stava salutando.
Elisa scappò via e si rinchiuse nella vicina camera da letto, infilandosi sotto le coperte e tappandosi le orecchie per non sentire i forti colpi dati alla porta. Non poteva essere reale, proprio no. Qualcuno le stava facendo uno scherzo di cattivo gusto; era sicuramente così.
Quando i colpi alla porta cessarono, Elisa tirò fuori la testa da sotto le coperte e guardò tutt'intorno alla stanza, vedendo che era vuota. Sentì dei brividi e stava sudando; doveva avere la febbre. La febbre! Come aveva fatto a non pensarci prima? Da qualche parte aveva letto che un aumento eccessivo della temperatura interna corporea portava inevitabilmente a delirio e allucinazioni.
Un colpo fortissimo che proveniva dall'ingresso la costrinse a uscire dal giro dei suoi pensieri e ad aprire, tutta tremante, la porta della camera. Subito, sentì nuovamente quello snervante stridio aggredirla, e si prese la testa fra le mani.
«Bastaaa!» urlò.
Come risposta, le porte di tutta la casa presero a sbattere contemporaneamente, e lo stridio si alzò d'intensità andando sempre più veloce. Elisa era sull'orlo della pazzia e scoppiò a piangere, mentre le sue urla disperate rimbalzavano violente sui muri.
Ben presto la disperazione divenne odio. Un odio profondo e feroce per quell'orsetto che gli stava causando tutto questo. Ma l'avrebbe pagata. Eccome se l'avrebbe pagata.
Col viso rigato dalle lacrime e il naso gocciolante, Elisa raggiunse la cassetta degli attrezzi che stava sullo scaffale dell'andito. Frenetica, cercò il martello, impugnandolo poi ben stretto. Pazienza per quello schifoso orsetto. Qualcuno le avrebbe regalato un altro cristallo per sostituirlo.
Digrignando i denti e respirando affannosamente, si diresse decisa verso l'ingresso, trovandovi la porta principale spalancata e l'orsetto che, sorridente e con la testa simpaticamente reclinata su un lato, la stava aspettando.
Elisa gli si avventò contro, e lo tempestò di terribili martellate date con furia cieca, finché il pavimento non fu ricoperto di scintillanti pezzi di cristallo. Lei cadde a terra, in ginocchio, esausta e respirando rumorosamente. Dai suoi occhi colava il mascara, trasformando il suo viso nella grottesca maschera di un demone.
«Pattina adesso, bastardo! Pattina adesso!» urlò, all'indirizzo del pavimento. Poi si appoggiò al muro e iniziò a ridere istericamente. E più rideva, più la scena che aveva davanti era divertente.
Certo, aver ridotto a pezzi quello stronzo di orsetto era stato appagante. Ma vedere Piero a terra con un martello conficcato in testa, era un vero spasso.

venerdì 21 giugno 2013

LA PRINCIPESSA di Massimo Licari


Faccio il tassista da anni e ne ho viste di tutti i colori.
Ho scelto di lavorare di notte perché il traffico di giorno mi fa impazzire. E poi, così, riesco ad avere diverse ore libere durante la giornata che posso dedicare alle mie cose.
Mi è capitato di portare a casa ubriachi, prostitute, donne che piangevano e vecchi che si erano perduti nella grande città.
Ma quello che mi è successo la settimana scorsa, non lo dimenticherò mai più.
Non sono riuscito a raccontare a nessuno questa storia e ho fatto fatica a decidermi di scriverla sul blog.
Alla fine mi sono convinto perché qui non mi conosce nessuno, se non per nome, e difficilmente qualcuno potrà associare il mio nome al taxi che guido.
Forse è un atteggiamento un po' vigliacco, ma non voglio che la gente mi indichi quando mi vede dicendo:
«Ecco il visionario».
Non sono un visionario, lo giuro, e non bevo mai quando guido.
Sono un tassista serio, io.
Beh, martedì scorso, la centrale passa una chiamata.
«Corso Lodi 52, corso Lodi 52».
Mi trovo in viale Umbria, così decido di prenderla io.
«Rosso 32 per corso Lodi 52».
«Avanti rosso 32».
«Cinque minuti e sono lì. Chiudo».
Imposto il tassametro e mi avvio verso la mia destinazione.
Ricordo benissimo l’ora: le tre e zero tre del mattino.
Arrivo a destinazione e vedo, accanto al bar Re Artù una coppia che aspetta.
Lui un tipo sulla trentina, maglietta e jeans, lei, invece, una bellissima donna, che sembrava più vecchia di lui, forse sui quaranta, ma decisamente affascinante.
Bruna, con uno chignon tenuto fermo da una rosa bianca e dei pendenti che brillavano nella notte. Aveva un lungo vestito da sera, con un generoso spacco che lasciava intravedere lunghe gambe bianche e affusolate, rese ancora più lunghe dai sandali con tacco a spillo.
Aveva delle movenze che non riesco a definire in modo diverso da donna nobile.
Rimasi affascinato a osservarla mentre si avvicinava con il suo compagno alla macchina.
Di notte, a meno che i clienti non abbiano delle valige da sistemare nel bagagliaio, preferisco restare in macchina ad aspettare che salgano. Mi sento più protetto.
Come ho già detto, ne ho viste di tutti i colori.
Insomma, lui si avvicina allo sportello, lo apre e lei si accomoda. Richiude, fa il giro della macchina e sale dall’altra parte.
«Buona sera. Ci porti in corso XXII marzo,» mi dice lei.
«Benissimo,» mi limito a rispondere. Sono cinque minuti di strada, ma a quest’ora meglio di niente.
Inserisco la marcia e parto.
In tanti anni di lavoro ho imparato che a volte i passeggeri hanno voglia di parlare, soprattutto se sono soli. Quando invece sale una coppia, raramente vogliono essere disturbati. Si mettono a parlare sottovoce e ti escludono completamente dalla loro vita.
Così ho messo della musica in sottofondo, giusto per rendere più confortevole il loro e il mio viaggio.
Lui doveva aver bevuto parecchio. Li riconosco al volo quelli come lui. Pieni come otri, un po' instabili nel camminare, ma che cercano di darsi contegno. Molto diversi da quelli che cominciano a fare casino in mezzo alla strada fermando le auto che passano.
«Dove mi porti?» chiede lui mentre giro a sinistra per andare verso il centro città.
«Andiamo a prendere la mia auto e poi ti porto a casa mia,» dice lei.
«Wow, che bello! E dove abiti, principessa?»
«Fuori città, poi vedrai.»
«Sei davvero bellissima,» gli dice lui.
Lei non dice nulla.
«Che ci facevi sola soletta al bar?” chiede lui dopo qualche istante di silenzio. Non so se l’alcol sta salendo o se si sta lasciando andare perdendo quel minimo di contegno che ha cercato di mantenere, ma le ultime parole sono quasi biascicate.
«Ti stavo aspettando,» dice lei.
Lui fa una risatina che ha una nota stridula.
Decisamente, l’alcol sta salendo.
Svolto a sinistra e sono arrivato a destinazione. Accosto sulla destra e blocco il tassametro a quindici e cinquanta.
«Tieni pure il resto,» mi dice il tizio porgendomi una banconota da venti.
«Questa è la mia serata fortunata. Ho una principessa tutta per me,» aggiunge.
Lo sento armeggiare con la maniglia e, dopo qualche tentativo andato male, riesce ad aprire lo sportello.
La tentazione è forte e non riesco a resistere, così sposto leggermente lo specchietto retrovisore per vedere la donna che sta aspettando che lui le apra lo sportello.
Un singhiozzo mi blocca il respiro.
Quella che vedo nello specchietto non è la ragazza con lo chignon e la rosa bianca, ma una vecchia canuta e spelacchiata.
La pelle del viso è coperta di piaghe e rughe e i denti sono neri e appuntiti.
Ha uno sguardo malvagio che, quando incontra il mio, mi fa letteralmente trasalire.
«Oddio!» vorrei dire, ma un nodo alla gola mi impedisce di articolare qualsiasi suono.
Lo sportello si apre e lei scende.
Li vedo dirigersi a braccetto verso una macchina dall’altra parte della strada.
Lui è malfermo sulle gambe, lei è di nuovo bellissima con lo chignon e la rosa bianca.
«Forse ho avuto un’allucinazione,» penso.
E continuo a pensarlo fino a giovedì, quando nella cronaca leggo di un tizio che è stato trovato morto in mezzo a un campo. Hanno scritto che probabilmente qualche animale gli ha mangiato la faccia. Io credo di sapere com’è andata veramente.
Ma a chi posso raccontare questa storia?