mercoledì 30 ottobre 2013

LA MADRE DI VETRO di Annalisa Seveso




         Josy diede un’ultima occhiata fuori della finestra. La luce verde stava a indicare che su Plutone mancava meno di mezz’ora al calare della sera e il tramonto avrebbe portato con sé il momento della verità. Un lungo sospiro per cercare di calmare i nervi, ma senza grandi risultati. Presto la ragazza avrebbe sentito il suono della sirena, un suono che avrebbe echeggiato per tutto il palazzetto intergalattico dello sport e avrebbe indicato l’inizio delle gare.
Maya, madre di Josy e sua allenatrice, entrò  nel camerino e le si avvicinò con fare sicuro. Il viso della donna era una maschera arcigna, i suoi occhi erano impenetrabili e fissava la figlia come se fosse una persona qualsiasi e non sangue del suo sangue. Non era mai stata una mamma amorevole, se ne rendeva conto, ma era certa di aver comunque fatto un ottimo lavoro, sapeva che sua figlia aveva bisogno di essere temprata per poter dare il massimo. In questa fase della sua vita la sua Josy aveva bisogno di una guida, di una valida allenatrice. Avrebbero avuto tempo per le smancerie madre e figlia, ma solo dopo che Josy fosse riuscita ad aggiudicarsi la medaglia con il cuore di plutonio. Il trofeo intergalattico di pattinaggio su vetro era una competizione per cui allenava la sua bambina fin da quando Josy aveva compiuto il primo periodo di rivoluzione orbitante attorno al Sole e così, a soli duecentoquarantotto anni le aveva comperato i suoi primi pattini per vetro e glieli aveva infilati di prepotenza ai piedi senza chiederle se fosse una cosa che le piaceva o meno.
Josy non aveva mai avuto scelta, si era sempre sentita intrappolata dai desideri di una madre ambiziosa che aveva fallito il suo sogno e adesso cercava riscatto puntando tutto su di lei.
- Allora? Sei pronta? Hai già fatto i tuoi esercizi di meditazione? Pensi che questo make up sia adeguato? - le domandò la donna corrugando la fronte e mostrandole un’espressione ancor più intransigente.
Josy si limitò ad annuire. Sapeva di aver lavorato sodo, sapeva di essere brava, ma il suo numero era frutto solo del suo impegno, non di una reale attitudine per quello sport. Lei non era uno di quei talenti innati che infilano i pattini e facevano scintille. Diede uno sguardo alla locandina e non poté fare a meno di scuotere il capo mentre guardava le fotografie delle altre concorrenti. Alla gara si erano iscritte Mruska detta la trottola, campionessa degli ultimi mondiali di Venere; Amaranta, conosciuta da tutti come la fata del vetro proveniente da Mercurio. Ma quelle che la impensierivano più di tutte erano le sorelle Cassandra e Jessica da Giove.
- Bene - convenne la mamma prendendo dalla console il pennello da trucco e dandole un ultimo colpo di luce per accentuare il suo bel colorito argenteo. I capelli color porpora erano stati raccolti in un nodo semplice, ma curato e fissati con tanta di quella resina che non si sarebbero mossi neppure se fosse arrivata una tempesta di meteoriti. - Prendi una di queste - disse poi alla figlia allungandole una piccola confezione nera dove due fialette facevano bella mostra di sé. Ognuna conteneva uno strano liquido ambrato molto denso. - Dovrai prendere una di queste circa dieci minuti prima dell’esibizione.
- Di cosa si tratta? - domandò sgranando gli occhi preoccupata. Non poteva credere che sua madre fosse disposta a spingersi tanto in là pur di farle ottenere la vittoria. - Dimmi che non è quello che penso?!
- Oh, avanti, non fare la piagnucolona, Josy. È un prodotto sicuro. Sono mesi che ci sto lavorando e posso garantirti che ho avuto modo di vedere che è davvero un portento. Nessuno riuscirà a batterti, ma soprattutto nessuno sarà in grado di scoprirti quando ti faranno le analisi. Qui dentro c’è una sostanza di tonico mentale per la concentrazione, uno stimolante per aumentare le tue capacità fisiche e un pizzico di equilibrio. La mia laurea in biogenetica ha dato i frutti che ho sempre sognato.
- Oh…io… mamm… - stava per protestare la ragazza, ma la donna sollevò un braccio e con lo sguardo le intimò di tacere.
- C’è troppo in gioco, non lo capisci, razza di stupida che non sei altro! Non vuoi vincere?
- Sì, ma voglio farlo onestamente - rispose lei raddrizzando le spalle e fissando la madre con aria fiera. Lei non era una disonesta.
- Vinci questa gara per me, portami a casa quel dannato trofeo e ti giuro che ti lascerò libera. Una fiala per la gara e l’altra per domani in caso di ex aequo con altre concorrenti. Vinci per me e potrai ritirarti dalle gare anche subito dopo il concorso.
Josy non poté credere alle sue orecchie. Sarebbe stata libera, finalmente libera dopo tanti anni di lavoro, sgridate, inflessibilità. Avrebbe finalmente avuto del tempo per se stessa, anzi meglio, si sarebbe iscritta al college più lontano che conosceva e se ne sarebbe andata di casa una volta per tutte.
- Lo farò, ma a una condizione.
Maya la fissò senza parlare. Stava aspettando di conoscere le condizioni della figlia, ma le sapevano entrambe che le avrebbe concesso qualsiasi cosa in cambio della vittoria.
- Devi promettermi che non ti rimangerai la parola e che mi lascerai libera di riprendere gli studi.
- E sia! - confermò allungandole la mano e stringendola con energia. Le due donne si studiarono ancora per qualche istante, poi Maya si avviò all’area riservata agli allenatori, mentre Josy restava in camerino e fissava la sua immagine allo specchio. Quando si sarebbe rivista non sarebbe stata più la stessa, sarebbe diventata una bugiarda arrivista, ma sarebbe anche stata libera.
Senza rimuginare ancora prese entrambe le fiale e le infilò nello scollo del costume, poi si avviò ai monitor per osservare le esibizioni delle sue colleghe. Erano tutte davvero molto brave, ma lei avrebbe vinto. Era determinata a portare a casa quel maledetto premio. Uno sguardo all’orologio. Mancavano poco meno di dieci minuti prima della sua esibizione.
Stando attenta a non farsi vedere prese una fila e ne bevve il contenuto. Era viscido e dal sapore ripugnante eppure a lei parve buono, forse perché era la chiave per la salvezza.
Entrò in pista Amaranta, con quella sua grazia innata. Scivolava sul vetro mentre le lame di diamante dei suoi pattini facevano vorticare attorno a lei una delicata polverina scintillante. Era stata data come favoriva e Josy non ne era affatto sorpresa, quella mercuriana era davvero favolosa. Forse aveva sopravvalutato le gemelle di Giove, forse era Amaranta il nemico da battere. Chissà se fosse riuscita a vincere subito quel giorno? No, niente spareggio, niente sconfitte si disse Josy afferrando anche l’altra fiala e bevendone il contenuto. La sua felicità valeva più di qualsiasi coppa, medaglia o regola e lei voleva afferrarla quel giorno stesso.
Pochi istanti e toccò a lei. Entrò in pista e iniziò a pattinare con una grinta e una lucidità che non aveva mai avuto prima. Tutto era semplice e chiaro. Aveva una coordinazione, una leggiadria, una lucidità sconvolgenti, proprio come le aveva detto sua madre. Stava per terminare la sua esibizione con una serie di due Salchow e avrebbe chiuso con un quadruplo Axel quando avvertì una terribile fitta che dallo stomaco le risalì fino alla gola. Sopraffatta dal dolore Josy si accasciò a terra e iniziò a urlare e a contorcersi sotto lo sguardo sgomento del pubblico.
Le sue braccia iniziarono ad allungarsi e ad assottigliarsi, mentre sentiva le lame del pattini che le si conficcavano nei piedi incorporandoli come se fossero improvvisamente diventati parte del suo corpo. Anche il costume di scena iniziò a fondersi con la sua pelle. Il dolore era insopportabile, il suo respiro sempre più stentato e davanti ai suoi tutto stava diventato sfuocato e confuso.
Sua madre le fu accanto in pochi istanti.
- Che hai fatto? Cosa hai fatto, stupida che non sei altro? Hai preso entrambe le fiale non è vero? - urlò schiaffeggiandola. Non provava nessun dolore per sua figlia, solo furia, rabbia. - Ora dovrò ricominciare tutto daccapo! - Strillò. Quando si voltò vide che molte persone si erano avvicinate a lei a alla figlia, inclusi i medici e la polizia. Maya si scostò per farli passare così che potessero visitare la ragazza, ma anche perché doveva trovare il modo di mescolarsi alla confusione per lasciare il palazzetto e scomparire dalla circolazione. Avrebbe trovato altrove un’altra ragazza da allenare, pensò mentre si tirava il cappuccio della tuta fin sopra la testa e lo chiudeva. A testa bassa camminò fino all’uscita, salì su un taxi e diede al conducente l’indirizzo dello spazioporto, partenze intergalattiche.
Josy venne trasportata d’urgenza all’ospedale per mutanti. Dopo diversi giorni venne dichiarata fuori pericolo e trasportata in una stanza comune dove si trovò davanti tre ragazze dall’aspetto e le menomazioni simili alle sue.
Una di loro le si avvicinò, le sorrise e le porse la mano.
- Ciao, sono Selena. A quanto pare Maya ha colpito ancora - disse mesta scuotendo il capo in segno di disapprovazione. - Anche tu sei stata reclutata dopo una serie interminabile di prove e competizioni?
- No, io ero semplicemente sua figlia. Piacere, sono ciò che è rimasto di Josy.

domenica 27 ottobre 2013

ALESSANDRA di Donato Altomare



 Sarà viltà o coraggio, sarà una forma stupida di fuga o una chiara dimostrazione di coerenza, ma la morte resta qualcosa di immenso che non si può affrontare col cuore pesante e la mente offuscata dal dolore. Alessandra però è giovanissima, e per questo, non accetta alternative. La sua decisione non è frutto d'una scelta ponderata, ma del desiderio inconfessabile di scrollarsi di dosso quel peso che l'opprime. E non è certo in grado di capire la differenza fra il giusto e l'errato, così, per quanto inconsciamente tenti di trattenerlo, il sottile filo della verità le sfugge tre le dita troppo impacciate.
Quella mattina non ha pensato al suicidio, anzi, crede di aver ben assorbito l'assalto della disperazione e ricacciato tra le pieghe del passato quell’incredibile storia. Ma la sua meta doveva essere il primo piano d'un alto edificio. Premere il pulsante del primo o del decimo non fa differenza. E' strano come la vita sia appesa a un filo tanto sottile. A volte basta soltanto cambiar pulsante...
Fa freddo lassù. Due colombi disturbati le lanciano un'occhiataccia prima di librarsi in volo a disegnare spirali nell'aria. Li guarda compiere ampi cerchi, mentre scendono verso la strada sottostante, e un brivido la scuote tutta.
Trenta metri più basso la vita continua in tutta la sua monotona varietà. Lei agisce con decisione. Sale sul parapetto e, incurante delle urla di qualcuno che da una finestra di fronte l'implora, allarga le braccia quasi fossero ali. Imita il volo degli uccelli.
Si lancia.

Nono piano
Aria.
Una fresca zaffata d’aria le riempie le nari e le solleva la gonna mettendo in mostra le giovani gambe ossute. Aria. Si sente sospesa.
Un campanello d'allarme echeggiò nella sala senza pareti né soffitto. Nessuno fu colto alla sprovvista, erano tutti al proprio posto. Come sempre. Furono subito resi edotti dell’emergenza e furono diffuse tutte le informazioni del caso. Bisognava salvare quella giovane donna. A qualsiasi costo. Per fortuna avevano tempo. Avrebbe toccato l'asfalto della strada tra circa tre secondi.
Aria.

Ottavo piano
Ancora niente. Il Comando delle Operazioni ha chiesto tempo. Gliene è stato concesso a sufficienza, un secondo e mezzo per decidere e uno per intervenire. Mezzo secondo di riserva. Il Comando ha evidenziato alcune perplessità sulla riuscita dell'operazione. Non per il tempo, che è sufficiente, ma perché alla ragazza manca la volontà di sopravvivere. Il Capo Carismatico ha ordinato di agire in ogni caso.
Lei ha gli occhi sbarrati, le labbra livide e il volto arrossato.
Ma ancora non chiede di vivere.

Settimo piano
I dintorni furono esplorati. L'attenzione si puntò sul telone di un camion vuoto che stava sopraggiungendo. C'era però una difficoltà, l'asta centrale. La ragazza l'avrebbe urtata in pieno con conseguenze letali. Inoltre l'autista correva troppo e avrebbe oltrepassato il punto d'impatto. Bisognava farlo rallentare e sterzare un po’ a destra. Il Capo Carismatico ordinò di correre il rischio, e che tutto fosse calcolato con assoluta precisione. Non ammetteva errori. Certo, un insuccesso sarebbe stato fatale, ma non c'era paura nella sua voce. Poi la sua mente si chiuse in attesa.

Sesto piano
Senza storia. Il Comando Operazioni ha elaborato l’azione.

Quinto piano
Tutto è pronto. Ma restava il fatto che lei voleva ancora morire. Poi il miracolo.
La mano di Alessandra, spinta dal vento, accarezza il ventre. Un momento... forse... SI', URLA...VUOLE VIVERE. Per se stessa, per colui che porta in grembo, per il mondo intero immerso nel buio e per la vita, anche se spesso si crede che non meriti di essere vissuta, vuole vivere per gridare in faccia alla gente il suo orgoglio, vuole vivere non perché teme la morte, ma perché ha solo quindici anni.
E la morte è sempre in anticipo.

Quarto piano
La mente del Capo Carismatico emette una specie di sospiro di sollievo. E' felice, ma il pericolo che non tutto vada bene c'è sempre. Mille domande si intrecciano. Forse avrebbe dovuto seguire un'altra via, forse un’altra apparizione. Forse avrebbe dovuto usare un medium.
No, non avrebbe potuto diffondere il Messaggio di salvezza scendendo dall'astronave o comparendo dal nulla agli uomini. Assolutamente no. Per questo aveva scelto la via più "normale". Doveva nascere uomo.
Un altro Uomo.
Dalla Sala Controllo diedero l’OK. Tutto è pronto. Iniziano i lunghi centesimi di secondo di preparazione. Per fortuna la ragazza pare come svegliatasi dalla mortale indifferenza. Vuole vivere e questo avrebbe facilitato l'operazione. Ancora la mente del Capo Carismatico insegue altri pensieri per lasciar scorrere il tempo. Sì, il momento per nascere era quello giusto, come pure la donna. Ma come avrebbe potuto immaginare che invece di felicità avrebbe portato in lei disperazione? Gli riusciva difficile capirne la ragione. Procreare, in qualsiasi parte dell’Universo, era l’atto più bello, più straordinario che si potesse compiere. La nascita di un figlio era, su qualsiasi pianeta, quanto più vicino al concetto di eternità. Ma la mente di Alessandra gli aveva portato strane “notizie", a lui incomprensibili. Pareva che... insomma pareva che la disperazione della ragazza fosse dovuta al fatto che nessun uomo… aveva ancora sfiorato il suo corpo acerbo. 
Eppure c’era vita nel suo ventre.

Terzo piano
Lei chiude gli occhi. Il maglioncino marrone di morbida lana le delinea il giovane seno e il ventre appena appena accennato. I capelli tirati all’in su sferzano l'aria quasi cerchino disperatamente un appiglio, come scuri artigli su una parete di ghiaccio.
Piange.
Il Capo Carismatico “assorbì" quel pianto. Buon segno, ottimo segno. Il rimodellamento della Terra sarebbe partito dall’annichilimento d’ogni genere di pianto. Ma c’era bisogno del Messaggio. Senza il Messaggio il pianeta non avrebbe avuto una seconda nascita e sarebbe tornato a involversi verso la morte. Sarebbero bastate poche parole, la spiegazione della Forza Prima, l’esaltazione di quella Interiore. E l’impossibilità di nascondere i propri pensieri. Così l’umanità si sarebbe salvata. Ma qualcuno avrebbe dovuto portare il Messaggio.
Il Nuovo Nato.
Intanto il Comando Operazioni attendeva pazientemente. Ancora tre lunghi decimi di secondo. In un angolo, dalle inesistenti pareti, qualcuno parlava con voce cantilenante. Forse supplicava i Creatori.

Secondo piano
Un impulso violento scuote la mente di un cane. Uno scatto deciso verso la strada a incrociare le ruote del camion. Tutti osservano con ansia crescente l'azione, temono la lentezza dei riflessi umani. Per fortuna ogni cosa si svolge secondo il piano. Il conducente lo vede, d’istinto tenta di evitarlo e sterza leggermente, mentre pigia il freno con forza. Troppo. Non deve bloccare l'automezzo, solo farlo rallentare. Occorre intervenire. Una penna rotola giù e si infila sotto il freno. Lo blocca in parte.
Il Capo Carismatico capì che l’azione era stata opportuna e perfetta. Peccato abbia comportato la morte del cane, stritolato dalle ruote.

Primo piano
Il telone si avvolge come un sudario intorno al corpo della ragazza. Uno sbuffo di polvere annuncia l'impatto. Il telone tiene e la salva. Li salva, lei, il Bambino-Messaggio e il mondo intero.
Le menti si unirono in un impeto d'esaltante gioia. Esultarono. Il Comando Operazioni ricevette le congratulazioni del Capo Carismatico e il suo caldo senso di felicità. Ma il tempo di esultare doveva essere breve, bisognava preparare la Venuta. Il Capo Carismatico riordinò le funzioni operative e impose: continuate. Poi si chiuse in se stesso per riflettere.
Qualcosa gli diceva che laggiù… là fuori… la sua missione non sarebbe stata per nulla facile.

venerdì 25 ottobre 2013

PIANETA DI SERVIZIO di Giuseppe Novellino



      Malkda guardava attraverso l’oblò.
     La tempesta asturiana aveva ormai toccato il massimo grado di intensità. Fra poco i venti di origine magnetica si sarebbero placati e la sottile polvere di piriastrite, dai riflessi argentei, si sarebbe di nuovo depositata sulla superficie del piccolo pianeta disabitato. Successivamente una perturbazione subatomica avrebbe esercitato i suoi influssi imprevedibili.
     A Malkda piacevano quei momenti di pausa, causati dall’instabilità atmosferica. La sua dimora climatizzata le dava un senso di sicurezza e di protezione mentre all’esterno infuriava la burrasca. E poi c’erano quei bei colori cangianti, creati dalle sottili e volteggianti particelle di minerale combustibile.
     Momenti come quelli rappresentavano solo una magra consolazione.
     Da un po’ di tempo Malkda sentiva di scivolare nell’apatia. La vita monotona su Astur, nel sistema di Tauri, stava diventando insopportabile. Vedeva solo astronauti di passaggio e quel suo compagno e collega. È vero, godeva di qualche passatempo e di un po’ di sesso liberatorio. Ma poi c’era l’inconveniente di trovarsi tra i piedi quei maledetti robot addetti ai servizi e alla manutenzione delle pompe di rifornimento. Una noia mortale. Ormai si era pentita di avere seguito Marikdo Jan su quel corpo celeste solitario.
     La fredda luce di Tauri tornava a rischiarare la superficie arida e irregolare, su cui si stendevano le costruzioni della stazione di servizio. Ad un tratto risuonò l’avviso di atterraggio. Qualcuno arrivava. Alla buon’ora!
     - Malkda – risuonò la voce di Marikdo Jan, – apri il locale e attiva i robot cucinieri. Quella gente sarà affamata. Io intanto preparo la pompa 7/B con bocchettone ipercubico. Si tratta di una nave da Orione. Forse sono quegli invertebrati schifosi, abili commercianti e imbroglioni, in viaggio verso Herculis, o addirittura verso Proxima  o Sole.
    La donna ebbe un fremito. –  Non ne vedo da almeno cinquecento asturgici. – Una specie di nausea cominciò a formarsi in un angolo remoto del suo apparato digerente.
    Invece non si trattava degli sgradevoli molluschi.
    Sull’altro lato del bancone, c’era adesso un essere umanoide, come lei: muscoli lucidi, mascella quadrata sporca qua e là di olio, capelli biondi tagliati cortissimi. Indossava uno strano pantalone bisunto, con le spalline che passavano sopra un poderoso petto nudo. Doveva essere un terrestre, un appartenente a quella razza piuttosto primitiva che da poco tempo aveva iniziato la sua avventura nello spazio. Su quel pianeta di servizio e di rifornimento non era ancora passato nessuno di loro. Malkda riconosceva la razza per averla vista sull’enciclopedia galattica.
     Accese il traduttore istantaneo che portava appeso al collo e azionò la funzione “lingua terrestre”. Una bella conversazione ci stava bene con quell’individuo così attraente.
     - Desidera?
     - Vorrei un hamburger ben cotto con patatine e tanto ketchup.
     - Subito, signore.
     Lei andò nel retro per dare gli ordini al robot cuciniere. Guardò dall’oblò e vide sulla pista l’astronave del terrestre. Incredibile! Si chiese come avesse potuto viaggiare, nell’iperspazio, un velivolo tanto assurdo.
    
* * *

     Era stato un colpo di fulmine.
     Malkda poteva dire di essersi innamorata. Lui non aveva la coda, ma questa poteva considerarsi l’unica differenza degna di nota, a parte il colore della pelle che faceva un piacevole contrasto con il blu elettrico di lei.
     Adesso guardava il suo uomo sotto la pensilina. Era a torso nudo, con quel berretto ridicolo su cui campeggiava una conchiglia gialla, simbolo della ditta di carburante che erogava con quel tubo nero e flessibile.
     Malkda diede un’occhiata allo squallido paesaggio: rocce rosse, colline sassose piene di arbusti  e piante spinose dalla vaga forma umana. Il tutto sotto un sole spietato, che creava colori tanto diversi da quelli di Astur, nel sistema di Tauri.
     Accanto alla bassa costruzione, correva un nastro d’asfalto con una riga gialla nel mezzo. E su di esso, ogni tanto, transitava uno di quei veicoli che lui chiamava automobili.
     Gli si avvicinò:
     - Che stai facendo? – chiese con l’aiuto del traduttore istantaneo che riproduceva tutte le lingue della Galassia.
     - Sto preparando la cisterna – rispose lui con noncuranza. – Nel pomeriggio arriverà il rifornitore della Shell.
     Malkda raccolse la lunga coda serpentina e si sedette all’ombra, su uno sgabello di metallo.
     - Continuo a chiedermi come tu abbia potuto portarmi in questo fetido buco – disse lei dopo un momento.
     - Lo sai che non ti ho portato io. Ti ho trovata lungo la strada, in pieno deserto, a cinque miglia dalla mia stazione di servizio. – Si girò verso di lei, pulendosi le mani con uno straccio unto. – Mi sei piaciuta subito. Sei una vera attrazione. Credo che tu possa fare la mia fortuna.
     - Quante volte ti ho detto che tu mi hai prelevato su Astur, il pianeta di servizio e di rifornimento dove lavoravo con Marikdo Jan! O meglio io mi sono innamorata di te e non ho saputo resisterti. Ti ho seguita, senza pensare che sarei caduta dalla padella nella brace.
     Lui sorrise. – Io quel pianeta me lo sono sognato. Nel sonno, ogni tanto viaggio con la mia personale astronave lungo le rotte della Galassia. Sarà per via di quei libri che ho sempre letto fin da bambino. – Le si avvicinò: - Ma tu sei reale, in carne e ossa. Sei piovuta dal cielo… Sei la mia gattina blu.
     - Tu mi hai mentito – disse lei. Era imbronciata. – Hai detto che mi avresti portato in giro per la Galassia, mi avresti fatto vedere cose meravigliose. Invece…
     - Sei capitata a cinquantadue miglia da Warm Springs-Nevada, in questa stazione di rifornimento. – Le mise le mani sulle spalle e la guardò con quell’espressione che di solito le rivolgeva quando andavano a letto.
     - Non pensi che possa annoiarmi a starmene in questo posto? – insistette lei. Prima, su un pianeta di servizio… Oggi sotto un sole spietato che sbiadisce il colore della mia pelle.
     Lui le diede un colpetto sui fianchi e disse:
     - Vai in cucina a preparare qualcosa. I conduttori dell’autocisterna saranno affamati.
     Mentre Malkda andava verso la porta dell’autogrill pensò che, prima o poi, sarebbe passato qualcuno… e l’avrebbe portata via di lì.

giovedì 24 ottobre 2013

SCRIVERE FANTASCIENZA , SECONDA PARTE di Fabio Calabrese




Anni fa, scrissi un articolo, Scrivere fantascienza , che fu poi pubblicato sul n. 42 di “Futuro Europa”, nel quale mi dedicai ad un tipo di operazione abbastanza inedito, quello di esaminare la fantascienza non dal punto di vista del critico, del lettore, del fruitore come si suole fare nella maggior parte dei casi, presupponendo l'opera letteraria come dato, ma dal punto di vista dell'autore nel momento in cui si accinge a scrivere. Un simile lavoro, ovviamente, era solo il primo passo di un discorso che richiederebbe ben altra ampiezza. Proveremo ora a tornarci sopra e ad aggiungere almeno qualche tassello a questo ideale mosaico.
Si dice che la caratteristica del genio sia la capacità di vedere le connessioni che sfuggono all'intelligenza comune. L'intelligenza cammina: talvolta corre, altre volte procede lentamente e a fatica; il genio vola.
Se questo è vero, Fabio Calabrese un genio sicuramente non lo è.
L'esempio che sto per farvi è quello di una vicenda nella quale la mia mancanza di genialità o semplicemente d'intuito ha brillato in una maniera lampante.
Un'altra idea, nella quale non c'è nulla di nuovo, è che quando si tratta di descrivere o di constatare dati di fatto, le persone fanno presto ad accordarsi, e che le dispute più acrimoniose che dividono l'umanità sono dispute intorno alle parole; il che avviene quando chiamiamo la stessa cosa con nomi diversi (ad esempio, quello che per alcuni è “sovversione dell'ordine costituito e delle norme tradizionali” per altri è“giustizia sociale”), oppure quando diamo a cose diverse lo stesso nome (ad esempio per alcuni alla catenella di uno sciacquone od a barattoli riempiti di sterco, purché esposti in un adeguato contesto museale può essere dato il nome di “arte”, mentre per altri no); ora, noi sappiamo, la linguistica ci insegna che l'estensione di significato di una parola è sempre convenzionale/arbitraria, cioè dipende da come e quanti parlanti si accordano (o non si accordano) per usarla.
Tenete presente tutto ciò e vedete come nell'esempio che sto per farvi ho dimostrato una desolante mancanza non dico di genialità, ma semplicemente d'intuito. Per anni mi sono trovato coinvolto in una disputa sul significato da dare alla fantascienza senza quasi sospettare che questa parola cara a molti di noi sia usata in due significati molto diversi ed addirittura opposti.
Una ragione in più per la quale non sarei dovuto cadere nella trappola né tanto meno rimanervi invischiato per anni, è il fatto che diverso tempo fa mi apparve chiaro che per quanto riguarda l'heroic fantasy un contenzioso analogo poteva essere risolto in maniera simile.
In un articolo di diversi anni fa, Il giorno che Conan incontrò Aragorn, pubblicato sul supplemento al n. 26/27 , 1999, di “Yorick” mi era capitato di notare come il termine “fantasia eroica” o “heroic fantasy” (se si preferisce) viene a coprire significati addirittura opposti: lo si nota facilmente mettendo ad esempio questa definizione di Alex Voglino:
[L'heroic fantasy è] "Quel genere di narrativa fantastica in cui è possibile riconoscere l'aggancio ad un elemento trascendente, il riferimento a valori di ordine metastorico" (1); accanto a quella di Giuseppe Lippi:
"Il trono di Aquilonia, i tesori di Valusia sono di cartapesta, non sono premi preternaturali. Essi appartengono al regno della vita e della morte, non all'ordine 'metascientifico e metastorico” (2).
La soluzione del busillis è semplice: stiamo parlando di due cose diverse, la fantasy metafisica, tolkieniana e quella non metafisica, howardiana, riconosciamo che sono due cose diverse. Si risolverebbe forse il problema riservando alla seconda la denominazione di “Sword and sorcery”.
Possibile che non mi sia venuto in mente per anni che alla base di molti dei dibattiti più acrimoniosi della fantascienza non ci sia un'ambiguità dello stesso genere?
Uno degli episodi per me più sgradevoli di un'intera vita dedicata alla fantascienza, si lega ai nomi di Ugo Malaguti e Stefano Carducci. Sembra che il periodo in cui ho pubblicato con frequenza le mie collaborazioni sulla rivista della Perseo (poi Elara) Libri “Futuro Europa” siano servite quanto meno a rilanciare la critica e la saggistica fin allora languenti su questa pubblicazione. Con mia grande sorpresa, un bel giorno, mi sono trovato bersaglio di una serie di attacchi roventi da parte di un altro collaboratore della stessa, Stefano Carducci. Al riguardo, sia chiaro, se qualcuno si mette a “fare le pulci” con attenzione ai testi di qualcun altro, su pagine e pagine, qualche affermazione un po' azzardata, impulsiva, imprecisa o contraddittoria si trova sempre (si cita talvolta una frase attribuita al cardinale Richelieu: “Datemi due righe scritte da un uomo, lo farò impiccare”).
La cosa più amaramente ironica fu quando incontrai di persona Stefano Carducci venuto a Trieste con il team della Perseo Libri per la presentazione della mia antologia personale Occhi d'argento. Era sorpreso dal mio risentimento. Ma come? Non avevo capito che era tutta una trovata di Ugo Malaguti per attirare l'attenzione su “Futuro Europa”? Non ce l'aveva con me – diceva – ed io non dovevo avercela con lui, era tutta una parte in commedia!
Quel che mi rincresce di più, a posteriori, è che una persona intelligente come Stefano Carducci si sia prestata ad un'operazione di così basso livello.
Io adesso non ho rivangato questa storia che per un motivo: in uno di quegli articoli si trova buttata lì un'osservazione importante che merita senz'altro ulteriori approfondimenti (vi ho detto che Carducci è una persona intelligente):
“L'importanza della scrittura nei racconti di SF con il tempo colma in parte la distanza con la letteratura alta, permettendo l'ampliamento di quella fascia di ambiguità, sempre esistita nel genere, che permette ad alcuni il salto nell'editoria non di genere ... così si sono formate diverse linee narrative a partire da tradizioni letterarie diverse, a volte incompatibili, che hanno trovato tutte uno spazio utile di applicazione in un format nato per tutt'altri scopi” (3).
La fantascienza, in altre parole, nascerebbe come filiazione un po' particolare della narrativa di avventura, con la presenza, data la tematica fantastica, di sufficienti elementi di ambiguità da consentire man mano l'inserimento di elementi provenienti da tradizioni letterarie diverse, dalla satira alla pornografia (Farmer e Miglieruolo, suppongo), fino alla letteratura cosiddetta alta. E' una concezione storicamente tutt'altro che infondata, (si pensi alla vicinanza tra Salgari e Verne) anche se io ho l'impressione che Carducci sottovaluti “di brutto” sia la componente scientifica, sia quella che potremmo chiamare la “curiosità futurologica”, ossia, per dirla con Asimov, il desiderio di rispondere, almeno con l'immaginazione, alla domanda “Come sarà il mondo dopo la mia morte?”.
A posteriori, devo riconoscere che alcune critiche di Carducci coglievano in una certa misura nel segno, anche se è forse il tipo di errore in cui tutti incorriamo: non posso pretendere che l'approccio di Fabio Calabrese alla fantascienza sia l'approccio alla fantascienza o che sia a priori più valido di quello di chiunque altro.
Per discuterne, però, ed anche come punto di partenza per esaminare altre possibilità, sarà però il caso di focalizzarlo meglio.
Anche questa è una storia che ho già raccontato, in particolare nell'articolo di cui questo vuole essere una continuazione o una ripresa. Per sommi capi, io penso che la molla che mi ha sempre spinto sia la curiosità. Mi sono spesso chiesto come faccia la maggior parte della gente a non rendersi conto del fatto che viviamo in un mondo in rapida trasformazione a fronte degli stili di vita relativamente statici delle generazioni che ci hanno preceduto, e che queste trasformazioni sono indotte dallo sviluppo scientifico e tecnologico (di cui – sia chiaro – non sono un feticistico adoratore, che può riservarci conseguenze tanto disastrose quanto positive: si pensi all'inquinamento, alla devastazione ambientale, all'esaurimento delle risorse energetiche e delle materie prime).
La fantasia e lo strumento letterario mi sono sempre sembrati il mezzo più idoneo per bruciare i tempi, per cercare di capire cosa il futuro ha in serbo per noi.
Anche il dato anagrafico è importante. Quaranta/cinquanta anni fa, ai tempi della mia adolescenza, la situazione era alquanto diversa da quella di oggi: sicuramente non c'era la percezione che, appena dopo l'impresa lunare ci saremmo dovuti confrontare con abissi di vuoto incommensurabile al punto di tarparci le ali, dentro e soprattutto fuori dal sistema solare. In compenso, all'epoca non erano neppure intuibili i nuovi “mondi virtuali” che sarebbero stati creati dall'informatica.
Se si tiene presente questo, io credo si possa capire la mia “pignoleria”, l'insistenza sulla correttezza del dato scientifico, le distanze interstellari, l'insuperabilità della velocità della luce e tutto il resto, la mia idea – in ultima analisi – della fantascienza come uno strumento per scattare istantanee attendibili del nostro futuro.
Ma ci possono essere altri approcci.
E' chiaro che, partendo da un punto di vista come quello che ho delineato, a quarant'anni dallo sbarco sulla luna, veniamo ormai a trovarci in una secca o forse ad un bivio: chi cerca nella fantascienza la previsione futurologica, non potrà più credere all'avventura spaziale: sapiamo che gli altri pianeti del sistema solare sono morti ed inabitabili e che il resto dell'universo è separato da noi da incolmabili abissi di vuoto, si dedicherà forse alla FS sociologica, ad esplorare le possibilità dell'ingegneria genetica o della realtà virtuale, ma gli appassionati di fantascienza vecchia maniera è difficile che si rassegnino a questa sentenza.
Non lo scopro ora io, l'aveva già osservato Renato Pestriniero anni fa su di un bell'articolo apparso su “Futuro Europa”, Le nuove costellazioni:
“E la vecchia fantascienza fatta di astronavi gigantesche, pianeti infidi e alieni imprevedibili? Nessun problema, per chi la vuole essa è sempre là, viva e verde, disponibile a far sognare e a far passare un’ora di relax (…) io direi di lasciar pure al marziano il suo bel colore verde pisello”.
“Non intendo distinzioni di serie A e di serie B di un unico prodotto, ma proprio due espressioni diverse di quell’unico prodotto, due modi di vedere e di parlare che si sono venuti a creare naturalmente, due linguaggi che hanno creato grammatiche e sintassi proprie. Ognuno è libero di raccontare quello che vuole e come vuole, ma ognuno è altrettanto libero di sentirsi appartenente a una filosofia anziché a un’altra” (4).
Due fantascienze; il caso è assolutamente analogo a quello del dualismo heroic fantasy – sword and sorcery; strano come al vostro poco geniale amico ci siano voluti anni per accorgersene.
Alcune persone, tra questi Donato Altomare, che non è solo un ottimo autore, ma è prima di tutto una persona squisita ed un amico carissimo, mi hanno talvolta immeritatamente elogiato per il mio “non seguire le mode”, per il mio non essermi mai fatto tentare dai vari filoni che di volta in volta sono emersi nella fantascienza: new wave, cyberpunk, steampunk, connettivismo e via dicendo. Come se partendo da un approccio così vincolato ai contenuti come è il mio, fosse stato possibile fare diversamente!
In generale, però, magari ci si dovrebbe chiedere come mai nella fantascienza filoni e correnti siano possibili.
A suo tempo, la nostra "Continuum" aveva dedicato un numero speciale, il n. 26 ad esaminare la nuova corrente letteraria fantascientifica del connettivismo. Apprezzando ad ogni modo il doveroso lavoro d'informazione e documentazione che si è sobbarcato allora il nostro Roberto Furlani, onestamente, per quel che riguarda questa nuova corrente della quale ammetto di non avere una conoscenza approfondita, mi pare tuttavia che potrebbe essere fatta valere la stessa obiezione che si può sollevare nei confronti di altre che l'hanno preceduta, il cyberpunk, lo steampunk e risalendo nel tempo fino ad una trentina d'anni fa, la new wave; ossia, in qualsiasi settore dello scrivere esiste un rapporto variabile tra stile e contenuti, tra l'importanza da accordare all'uno od agli altri.
Siamo sicuri che per quanto riguarda la fantascienza, che è un genere che si colloca in una posizione un po' peculiare, si possa realmente accordare maggior importanza allo stile rispetto ai contenuti? Tutte queste correnti che di quando in quando hanno cercato di lavorare sulla fantascienza operando sull'innovazione stilistica hanno davvero apportato qualcosa di essenziale?
Perché non sorgano malintesi, sarà bene precisare subito un paio di punti. Innanzi tutto, ed è storia nota, il cyberpunk in particolare, magari non si può dire abbia apportato, ma certamente è nato da un'innovazione contenutistica fondamentale, un vero e proprio nuovo campo d'azione per la fantascienza rappresentato dalla realtà virtuale e dai nuovi mondi virtuali creati, o fatti percepire come possibili, dalla rivoluzione informatica, ma, d'altra parte, è anche vero che esso, oltre a non rappresentare l'unico modo di trattare le tematiche della realtà virtuale, perlopiù si è limitato ad aggiungere alla fantascienza il linguaggio dei programmatori informatici come un nuovo barocchismo semantico, producendo una serie quasi infinita di imitatori (vogliamo dire di "cloni") dei due caposcuola, William Gibson e Bruce Sterling, mostrando i segni di una forte ripetitività.
Ben s'intende, non si tratta qui di considerare giustificata né tanto meno raccomandare una qualche sorta di sciatteria stilistica. Il livello, per intendersi, che John Campbell come direttore di "Astounding" pretendeva già settant'anni fa dai suoi autori come correttezza linguistica e come efficacia narrativa rappresenta un risultato acquisito una volta per tutte, e non è ammissibile il ritorno a quella fase pionieristica della science fiction nella quale la novità del genere e la supposta brillantezza delle idee inducevano (od almeno così si supponeva) i lettori a digerire un linguaggio stentato e/o pagine e pagine di tediose descrizioni di macchinari avveniristici.
Diciamo subito, allora, che bisogna distinguere fra quello che è un livello normale di competenza stilistica, che dovrebbe essere un "ferro del mestiere" per qualunque autore che voglia presentarsi decentemente al pubblico (il che però non esclude che talvolta autori anche contemporanei scivolino talvolta al disotto di questo livello, Greg Egan, ad esempio, ma sorvoliamo), e quella che è una ricerca stilistica più o meno elaborata ed esasperata, che talvolta si pretende sia l'ubi consistam di una narrazione, a scapito di contenuti, idee e intreccio narrativo. Io adesso lascerò impregiudicato se tale formula produca risultati di un qualche rilievo nel mainstream che sembra vivere soprattutto di sperimentalismi linguistici (e tuttavia conosce, in parallelo con ciò, un massiccio allontanamento del pubblico dalla lettura), ma essa mi sembra del tutto inapplicabile, od applicabile solo con risultati disastrosi, alla fantascienza.
Stile e contenuti: la questione è annosa e forse insolubile; si può ricordare che - ormai è un secolo fa o giù di lì - Francesco De Sanctis polemizzava su tale materia con Benedetto Croce, e a Croce che sosteneva "Lo stile è l'uomo", ossia il diritto, quasi il dovere di foggiarsi un proprio stile ed un linguaggio personali, replicava "Lo stile è l'argomento", cioè sono i contenuti, la materia trattata, in definitiva, a determinare la scelta fra le possibili soluzioni stilistiche, il che è come dire che i contenuti, le idee, il "plot" narrativo sono l'elemento più importante. Io non pretenderò di elevarmi al disopra di questi due illustri padri se non della nostra letteratura, quanto meno della nostra critica letteraria, anche se mi rendo conto di essere un desanctisiano, forse uno dei pochi, fra i tanti crociani che oggi pullulano nella fantascienza, italiana e non.
Probabilmente è questione in primo luogo di sensibilità personale, ed allora cercherò di farvi capire quale è in proposito la mia.
Per illustrarvelo, forse la cosa migliore è raccontarvi un episodio che mi è accaduto qualche tempo fa. Avevo terminato di redigere un racconto incentrato sul relitto di un'astronave aliena custodito in una base segreta (un racconto che avrete forse già letto su "Continuum"). Cosa c'era di più naturale, data la somiglianza di questa tematica con la storia della leggendaria Area 51 dove sarebbero custoditi i resti dell'UFO precipitato a Roswell (posto che una cosa del genere sia mai davvero accaduta!) che intitolare il racconto Area 52?
Ho mandato il racconto a Roberto Furlani, che mi ha subito avvisato che, cosa che mi era sfuggita, sul n. 20 di "Continuum" era stato pubblicato un racconto di Vittorio Catani intitolato L'area 52, e la presenza dell'articolo in quello di Catani, assente invece nel mio, non riusciva a fare una gran differenza fra i due titoli. Poco male! La riga dei numeri, per fortuna, è infinita, e ho ribattezzato il mio pezzo Area 61.
La cosa sorprendente, però, è che i due racconti, quello di Vittorio e il mio, sono tanto diversi quanto si può immaginare possano essere due racconti di fantascienza: il mio è un "classico" hard, mentre quello di Vittorio è chiaramente "letterario - introspettivo". Io non credo di fare alcun torto a Vittorio Catani, che, oltre ad essere un bravissimo autore è anche una persona estremamente amabile e gentile, che ha incoraggiato "Continuum" fin dai suoi primissimi sforzi, dicendo che il suo modo di scrivere fantascienza è molto diverso dal mio, diverso e probabilmente più valido, vista la massa di pubblicazioni, di consensi, di premi letterari che ha raccolto in questi anni. La diversità è inevitabile e necessaria: un'orchestra che non disponesse di archi, fiati e percussioni ma di un solo tipo di strumenti, avrebbe un repertorio assai limitato e monotono, e la stessa cosa vale per "l'orchestra" della fantascienza italiana (e di quella mondiale, a maggior ragione).
Ma è il mio strumento, se mi permettete, quello che conosco bene.
Negli Stati Uniti e nel mondo anglosassone esistono numerosi corsi di "creative writing", alcuni dei quali sono dedicati alla fantascienza. Oggi iniziative di questo tipo stanno prendendo piede anche da noi, tra le altre, il seminario organizzato annualmente dalla "Writers Magazine Italia" e da "Delos". Onestamente, non saprei se consigliarveli o meno, anche se ho il sospetto che servano principalmente a sgrezzare chi possiede già il dono della scrittura, ma siano inutili per chi di questo talento è sprovvisto. Ad ogni modo, simili corsi io non ne ho mai frequentati, per quanto riguarda lo scrivere narrativa, penso di potermi definire totalmente autodidatta, come d'altra parte è con ogni probabilità la stragrande maggioranza degli autori, nella fantascienza o altrove.
Tutti noi conosciamo, io penso, il celebre racconto La sentinella di Frederic Brown: C'è un soldato di guardia a vigilare su di un avamposto lontano dal suo pianeta in una guerra contro misteriosi mostri, poi in un colpo di scena finale scopriamo che il soldato è una creatura aliena ed i mostri siamo noi, gli esseri umani. Questo racconto mostra nella sua forma pura ed essenziale la natura del racconto a tesi: si prende un'aspettativa profondamente radicata nel lettore e la si viola in un capovolgimento prospettico. Bene, sostanzialmente, in una vasta gamma di varianti, ma lo schema di base di tutta la mia narrativa è precisamente questo.
Al riguardo, è meglio essere onesti. Moltissimi autori dilettanti, quelli che probabilmente non andranno mai i primi due o tre racconti d’esordio, hanno scritto raccontini di fantascienza che erano/sono dei cloni o delle imitazioni probabilmente inconsapevoli della Sentinella. A questo punto ci sono due possibilità, se non si vuole rimanere in una dimensione dilettantesca o chiudere subito la propria esperienza di autore fantascientifico. O ci s’inventa, si trova, s’impara (ma mi piacerebbe sapere come) un altro modo completamente diverso di scrivere, oppure si stiracchia la formula del racconto a tesi in tutti i modi, la si manipola come plastilina fino a farla diventare qualcosa se non di completamente diverso, perlomeno di molto più ampio. La mia personale soluzione rientra in quest'ultima casistica; da qui anche il fatto di muovermi molto più agevolmente nella narrativa breve che in quella lunga.
Vi farò un paio di esempi per rendervi chiaro il concetto. In nessuno di questi casi potete “rubarmi l'idea”, trattandosi di racconti già scritti e pubblicati. Quelli della mia generazione hanno senz'altro avuto più dei ragazzi di oggi, familiarità con un oggetto oggi caduto in disuso, soppiantato dagli i.pod e dagli mp3, il disco di vinile. Osservando un disco di vinile che gira sul piatto di un giradischi, si nota (si notava) facilmente che la grana delle parti interne del disco è più chiaramente percepibile rispetto al bordo o vicino ad esso; è ovvio, poiché il disco è un oggetto materiale coerente, un punto posto sulla sua circonferenza percorre nello stesso tempo un tragitto doppio rispetto ad uno posto a metà del suo raggio, e si muove quindi ad una velocità doppia.
Facciamo l'ipotesi che l'universo ruoti su se stesso come un disco: questo porrebbe un limite alla sua espansione (che coincide con il tempo stesso), essa troverebbe un limite, non potendo oltrepassare il momento in cui un punto posto sulla sua circonferenza più esterna si muove alla velocità della luce. Un'ipotesi cosmologica, per quanto ardita, non basta per costruire un racconto; una narrazione deve essere collegata all'elemento umano. Cosa farebbe un astronomo che si accorge che il tempo sta per finire? Io ho immaginato che pianterebbe baracca e burattini e si recherebbe a godersi la vita ai tropici, salvo tornare sulla scena all'ultimo momento per vendicarsi di un collega che gli ha danneggiato la carriera. Il racconto è Starlight, pubblicato sull'antologia Strani Giorni, Urania Millemondi primavera 1998.
A volte il processo che porta alla nascita di un racconto è ancora più bizzarro. Ricordo che stavo guardando un programma d'intrattenimento alla TV, uno di quelli dove è possibile chiamare in studio. Arrivò la telefonata di un signore che disse: “Chiamo da Rema in provincia di Roma”.
Bastò per far scattare la scintilla di un racconto. Io immaginai una comunità fondata dai seguaci di Remo, il gemello perdente nella coppia dei fondatori dell'Urbe, dove un giorno capita un giovanotto che è ignaro di essere la reincarnazione dello stesso Remo, e che si ritrova psichicamente spedito nel passato a ribaltare l'esito dello scontro da cui ha avuto origine la Città Eterna. Il racconto, Il tempo di Giano, finalista (terzo classificato) al premio San Marino, è stato pubblicato nel 1999 nell'antologia Le ali dell'impero dell'editrice “Il Cerchio”, ma la storia ha una “coda” ancor più interessante. Nel 2004 fui contattato da Gianfranco De Turris che per conto della Vallecchi stava allestendo un'antologia ucronica di “storia alternativa” dell'Italia da Romolo a Berlusconi. Avevo sottomano, guarda caso, Il tempo di Giano si occupa proprio di Romolo e Remo, e glielo mandai.
L'idea gli piacque, ma c'erano due importanti obiezioni: non si trattava, per prima cosa di una storia propriamente ucronica; per esserlo, sarebbe dovuta essere ambientata fin dall'inizio in una realtà alternativa e non nel nostro mondo presente. In secondo luogo, si trattava di un racconto già edito, e non ci andava l'idea – soprattutto – di “tirare un bidone” ad Adolfo Morganti, organizzatore del premio San Marino, curatore dell'editrice “Il Cerchio” e buon amico di entrambi.
Non c'era che una cosa da fare: mi misi a scrivere un nuovo racconto più marcatamente ucronico, Primavera sacra, che apre l'antologia Se l'Italia pubblicata dalla Vallecchi nel 2005. Essere riuscito non a fare una nuova stesura di un racconto, che sarebbe facile, ma a scrivere un racconto sostanzialmente diverso a partire dalla stessa idea di base di uno precedente, la considero una performance notevole, una prova di raggiunto professionismo nell'arte della scrittura.
La cosa strana è che successive ricerche – anche in internet – non mi hanno permesso di accertare l'esistenza di nessuna località chiamata Rema, ragion per cui devo fare tre ipotesi che vi espongo in ordine di improbabilità decrescente:
1. Quella famosa telefonata in studio era giunta da un mondo alternativo attraverso un worp spazio-temporale (magari “pilotata” da qualcuno per consentirmi di scrivere i due racconti).
2. Si tratta di una località talmente piccola da non essere menzionata da nessuna parte.
3. Ho capito male.
Una conclusione è difficile da trarre, io la affiderei alle parole di Giuseppe Lippi:
“Scrivere [narrativa] non è far di conto e neppure registrare partite doppie, è un processo creativo sofferto” (5).
Un processo sofferto, senza dubbio, ma ogni tanto capace di dare anche delle belle soddisfazioni!
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Note:
1. Alex Voglino: Cosmo Informatore n. 2/86, Nord, Milano.
2. Giuseppe Lippi: Il mio regno per un fantasma, “Alternativa” n. 1-2, Milano 1980.
3. Stefano Carducci: Fantascienza: fra avventura e pornografia, “Futuro Europa” n. 41, Perseo Libri, Bologna gennaio 2005, pag. 122.
4. Renato Pestriniero: Le nuove costellazioni, “Futuro Europa” n. 41, Perseo Libri, Bologna gennaio 2005, pag. 142.
5. Giuseppe Lippi: introduzione a: Francesco Grasso, Nel ventre di Napoli; in Strani Giorni, “Urania Millemondi” primavera 1998, Mondadori, Milano marzo 1998, pag. 264.

martedì 22 ottobre 2013

NAUFRAGO DI SE STESSO di Sergio Gaut vel Hartman



Avevo vissuto in quel corpo per più di sessant’anni, per cui mi risultava molto difficile accettare il nuovo status, quello di un contenitore vuoto, che viene cestinato dopo l’uso.
– Che faranno con… lui? – Non sapevo come chiamarlo, eravamo stati una cosa sola per tanto tempo… Il biotecnico si strinse nelle spalle; sicuramente rispondeva alla stessa domanda più volte al giorno.
– Li mettiamo nel deposito degli usati. Eventualmente viene utilizzato qualche organo, anche se non credo sia questo il caso. Come andava il fegato?  Lei fumava?
– Vuole dire che li congelano? – Non solo non risposi alle domande dirette (di fatto le trovavo offensive): la mia ignoranza in materia accendeva una luce rossa. Avevo paura di sapere. Le immagini di freezer a forma di bara, impilati in magazzini senza luce, mi trafiggevano senza pietà fin dal giorno successivo al trasferimento.
– Congelarli? – L’uomo mi guardò, perplesso. – Perché ci dovremmo accollare questo lavoro? Li colleghiamo ai tubi e li lasciamo lì fino a quando si spegne la candela.
Si spegne la candela! Una metafora bella e spietata.
– Continuano a vivere – sospirai.
L’idea che il mio vecchio corpo marcisse in un deposito maleodorante mentre io iniziavo una nuova vita aveva qualcosa di malsano. In che razza di mostro mi sto convertendo? pensai.
– Vivere, proprio quel che si dice vivere… è azzardato. In linea di massima no, però le funzioni vegetative non si estinguono con il trasferimento; restano scintille di memoria e i ricordi d’infanzia non si cancellano del tutto. Sono abbastanza vivi, suppongo, sebbene, come lei sa, ufficialmente non sono persone.
– Abbastanza vivi – ripetei. – Come dire “un po’incinta”. Abbastanza per meritare rispetto, supporto, conforto e affetto?
– Lei è completamente pazzo! – esclamò il biotecnico. – Invece di godersi il nuovo corpo si affligge per la sorte di quello vecchio. Si attacca così a ogni bottiglia di coca cola che vuota? L’avviso che per questa strada non va da nessuna parte.
Inspirai profondamente e strinsi i pugni:
– Pensavo la stessa cosa fino a un momento fa, prima di rendermi conto che il mio vecchio corpo continua a vivere.
– Preferirebbe che lo uccidessimo? Perché, per quanto ne so, i corpi non muoiono senza l’aiuto di un cancro, o di un arresto cardiaco, o un edema, o un…
Lasciai il tipo a parlare da solo e mi persi nel dedalo dei corridoi di Korps. Camminai così per ore, riflettendo sulla seconda trasformazione cruciale della mia vita.
Avevo avuto bisogno di molti giorni per accettare il mio nuovo corpo e all’improvviso, quando iniziava a sembrarmi naturale avere trent’anni, qualcuno che avrebbe potuto essere mio nonno emergeva dal nulla per reclamare il pagamento di una fattura. Pagamento per cosa? Che cosa avevo rotto? Non ha diritto di esigere niente, considerai, ha vissuto abbastanza. E io vivrò finché non avrò voglia di morire.
Entrai nel deposito inavvertitamente e non scoprii la portata del mio errore fino a quando non fu troppo tardi per correggerlo. Quella che in un primo momento presi per la stanza dove venivano conservate attrezzature in disuso e mobilia danneggiata, risultò essere il luogo dei corpi scartati. Tutti loro - in maggioranza appartenenti a vecchi decrepiti, consumati da malattie visibili -giacevano su sdraio di tela, di faccia alla porta. C’erano cento, mille sdraio appena distinguibili nella penombra del deposito, disposte con indifferenza, preparate per un salto nel vuoto rimandato all’infinito. I volti, inariditi dalla sterile attesa, appena scossi da tremori, rivelavano il fluire del sangue. Ero caduto in mezzo a un incubo alieno.
Guardai con ripugnanza i tubi di plastica collegati alle trachee e le cannule infilate nelle vene degli avambracci. Quei resti sembravano fare forza per liberarsi dai legami, anche se non ci doveva essere nessun buon motivo per farlo. Anche in quelli i cui motivi di trasferimento non si dipingevano in macchie e rughe, si avvertiva la rassegnazione, un’apatica mitezza verso il mondo perduto.
Vinto il primo impulso di fuga, e disposto ad accettare il mio ruolo nel processo del cambiamento di corpo al quale mi ero sottoposto, cercai con lo sguardo quello che ero stato io. Mi era impossibile pensare a lui come a un altro, come qualcosa di separato, differente, estraneo. Forse per questa ragione tardai un’eternità a identificarlo; i miei occhi erano passati oltre, ciechi a quella sagoma inerte, indistinguibile dalle altre che popolavano il deposito.
Mi avvicinai lentamente, temendo che un movimento improvviso avrebbe potuto scatenare una marea di proteste, ma la verità fu che i corpi mi ignorarono e solo pochi manifestarono un sordo fastidio di fronte all’intrusione, muovendo le mani goffamente e ingarbugliandole nelle sonde. Alla fine, quando riuscì a scansare tutti gli ostacoli che mi separavano dal corpo e potei guardarlo faccia a faccia, ebbi un vuoto mentale.
Cercai invano di dirgli che mi dispiaceva, di elaborare qualche frase di discolpa. La rigidità del corpo, la sua serenità impassibile mi inibivano in modo tale che, con mio stupore, dovette essere lui a rompere il silenzio.
– Ti aspettavo – disse il mio ex corpo con voce debole.
– Mi aspettavi? – Non riuscivo a immaginarmi ad aspettare senza fede né sogni, al declino, colui che mi stava sottoponendo a quella sofferenza gratuita. Mi sentii anche in colpa perché la mia presenza lì era una pura casualità.
– Non sei venuto per caso – disse come se fosse capace di leggere nei miei pensieri – e non leggo i tuoi pensieri; in qualche modo continuiamo a essere la stessa persona.
Le parole restarono sospese, vibrando. Era chiaro che si sentiva più me di me stesso; era memoria, ma anche corpo, il corpo originale che mi aveva contenuto, condannato allo scarto per effetto di un gambetto* sinistro, di una giocata che lui, e non io, aveva architettato. Ma quando cercai di contrapporre questo ragionamento, le parole rifiutarono ostinatamente di essere pronunciate. Sapevo ciò che lui stava pensando; aveva aspettato, paziente, imperturbabile, per dimostrare che controllava il mio destino, che ancora adesso continuava a controllarlo. La scena assomigliava pericolosamente a un’altra, vissuta anni prima, quando i miei genitori decisero che dovevo dire addio a un nonno moribondo e sconosciuto. In quella circostanza il vecchio mi fece sentire che io ero responsabile della sua morte, che la mia oltraggiosa giovinezza faceva, in qualche modo, da starter alla sua dipartita.
Il grido lugubre di un altro corpo, serpeggiando rasoterra, venne in mio aiuto. È così che se ne vanno, pensai, con un gemito che si stira e si assottiglia mentre scoprono che questa volta non verranno salvati.
– Me ne andrò con un suono così – disse il mio primo corpo. – Tutti lo facciamo. È come la sirena di una nave che parte.
Nemmeno questa volta fui in grado di replicare. Chi è il naufrago? Per caso la nave è passata di fronte all’isola senza dare segnali?
Osservai i tubi di alimentazione che univano il corpo ai serbatoi e repressi il desiderio di strapparglieli. È preferibile affogare che attendere la salvezza senza speranze. Il mio ex corpo, ancora una volta, scoprì i miei pensieri.
– Forse il naufrago non sono io – disse.
– Io ho tutta la vita davanti – affermai. – Comincio di nuovo, no? – La fragile convinzione delle mie parole si rispecchiò in un gesto goffo e incompleto della mano, come una carezza che sfuma in un impeto di rabbia.
Lui, indifferente, si strinse nelle spalle e abbracciò con lo sguardo gli altri corpi che morivano intorno a noi.
– Cominciare di nuovo – disse, – ma non da zero. Quelli che vengono a congedarsi dal proprio corpo scartato portano sempre con sé le immagini che popolano questo deposito.
– È un rimprovero? – Provai un repentino disgusto per l’atteggiamento del mio vecchio corpo. Dove cercava di trascinarmi? Ero condannato: è questione di giorni, settimane al massimo, avevano detto i medici. Non avevo altra opzione che il trasferimento. Mi ero messo sulla difensiva; una rete invisibile ostacolava i miei ragionamenti, mi immobilizzava.
– Non eri obbligato a venire – disse il corpo. – Perché non godere direttamente della libertà, del corpo sano per la prima volta da tanto tempo? Sarebbe stata la cosa più logica. Però no. Hai sentito l’impulso di pagare il debito, per non avere niente da recriminarti in futuro. Mi sembra un’ottima cosa. Lo avrei fatto anch’io. – Le ultime parole misero allo scoperto un sarcasmo del quale ero sempre andato fiero. Sarei stato capace di conservarlo nella relazione con gli amici di tutta una vita? Come in un gioco: cominciavano a prospettarsi troppe opzioni e non era per niente chiaro il metodo che avrei usato per gestirle. Lasciare i miei ambiti, conoscere nuove persone, abbandonare il pianeta…
– Sono venuto per caso – ripetei sconfortato.
– Sì – acconsentì il mio ex corpo. Aveva perso interesse nella conversazione. O il dolore che sopportava senza darlo a vedere era ricomparso. Io conoscevo molto bene quel dolore. Ci fu un altro gemito. L’agonia circolava come una corrente elettrica tra i corpi. Questa volta il suono fu grigio, piatto, e si sfumò senza forze nell’atmosfera pesante del deposito.
Non c’era più niente. Più niente da dire. Più niente da fare. Più niente da pensare. Più niente da sentire. Era ora di uscire da quel luogo.
Ma non lo feci. Il mio corpo aveva accettato la mia mancanza di responsabilità con una parola vuota, adatta a smontare qualunque argomentazione futura. Fu tale la tensione creata da questo “sì” di compromesso, che fui in grado di spezzarla solo quando allungai la mano e gli toccai la guancia avvizzita con la punta delle dita. Il mio vecchio corpo sussultò, come se i polpastrelli avessero sprigionato una scarica elettrica.
– Che hai fatto? – disse spostando il viso, apprensivo.
– Niente. Cercavo di essere gentile, credo.
– Hai paura, molta paura.
L’accusa era seria, trascendeva la mera diagnosi. Ci furono due lamenti: uno basso, sinistro, l’altro acuto come il gorgheggio di un uccello. Ci sono molti modi di morire.
– Paura? Di che?
– Ci sono infiniti modi di morire – replicò il mio ex corpo usando le stesse parole in modo obliquo. Ignorai la sua osservazione. In ogni caso non sapevo più a cosa facevamo allusione nel nostro dialogo; avevo perso il filo, e forse anche l’interesse. Mi scoprii ipnotizzato dai colori dei tubi di plastica: rosso, blu, verde.
– Non sono io quello collegato ai tubi – dissi.
– Sono falsi – disse il corpo, – una finzione per impressionare i visitatori. Senza un’adeguata messa in scena, l’effetto sulla psiche del trasferito sarebbe debole, povero.
– Falsi? Pensavo che vi alimentassero attraverso i tubi.
– Lo fanno – replicò. – Sono falsi perché fa lo stesso che ci alimentino o che ci lascino morire di fame. Non usciremo di qui; hanno smesso di somministrarci le medicine ed entrano nel deposito solo per  raccogliere i cadaveri tre volte al giorno.
Era una crudeltà, ma non c’era altro modo di farlo. Glielo dissi.
– Non è possibile aspettare la morte del primo corpo; in quel caso il trasferimento non potrebbe essere effettuato.
– Certo, certo – disse il corpo con un tono in cui non si distingueva la tristezza dalla rabbia.
– Ora siamo come specie diverse. – Cercava febbrilmente una scusa per continuare a parlare, e ogni parola provocava l’effetto opposto a quello che si proponeva.
– È il prezzo del progresso. Prima la gente moriva e basta. Ora si violano le leggi della natura, si gioca con il fuoco.
– Non sono mai stato credente – esclami. – La vicinanza della morte ti fa desiderare la vita eterna?
– L’imminenza della morte mi ha costretto a trasferirmi, nulla più – replicò con astio. – O ti ha costretto… o ci ha costretto. Come vedi, questo non ha più importanza.
Un coro di gemiti si levò attorno alle ultime parole del mio ex corpo e finì per soffocarle. Le porte del deposito si aprirono, gli ausiliari entrarono, staccarono i tubi da una decina di cadaveri, li caricarono su una ridicola auto elettrica con movimenti grossolani e uscirono lasciando il luogo impregnato del loro disinteresse, in una drammatica mancanza di emozioni. Dopo alcuni minuti tornarono con una dozzina di corpi scartati in trasferimenti recenti e rifecero gli stessi movimenti in senso inverso. Per dozzine, come le uova.
– Non mi hanno visto – trovai a dire.
– Non sono interessati.
– Potrei essere un ladro, un maniaco.
– I nostri organi non servono neanche ai cani. Gli esperimenti biologici si fanno con la carne fresca, coltivata in cisterne; i corpi malati non servono a niente. ­– Si agitò nella sdraio, infastidito. Ebbi paura che morisse in quel momento. Lui lo avvertì. – Tranquillo – disse, prevenendomi ancora una volta. – C’è ancora tempo.
– Quanto? – La domanda, inaspettata perfino per me, lo commosse.
– Quanto? Non lo so. Ore, due giorni, una settimana, sei mesi. Chi può prevedere con quanta tenacia si aggrappa un corpo alla vita, persino un corpo spogliato della sua anima?
Io non mi sentivo l’anima di nessuno, meno che mai di quel corpo ostinato, sebbene dovetti riconoscere che parlava con saggezza. I medici erano stati tassativi su tutto ciò che si riferiva alla sopravvivenza nel mio vecchio corpo. Però i medici non hanno un dovere imprescindibile verso i pronostici. Qualcuno conosce un medico punito per aver sbagliato una previsione? La porta del deposito, chiusa dopo l’uscita degli ausiliari con il loro macabro carico, mi riportò al mondo reale. Il mio primo corpo guardava senza troppo interesse l’alone di luce e le particelle di polvere in sospensione. Il deposito piombava nell’oscurità. Mi era impossibile stabilire da quanto tempo mi trovavo lì dentro.
– Devo andare – dissi.
– È vero – disse lui.
– Prima che sia troppo tardi.
– La porta non è chiusa a chiave.
– Posso tornare.
– Dipende. E non da me. Se vuoi farlo…
– Voglio dire: ha senso se tu sarai ancora qui quando tornerò.
Si strinse nelle spalle, quasi sprezzante. – Forse sì, forse no. Chi lo sa? Sono Dio per conoscere l’istante esatto? Anche se i miei motivi per restare in vita sono esauriti, non ho il coraggio di finire con le mie mani quello che ho iniziato con la testa, quando ho deciso di trasferirmi. Forse mi aggrappo alla vita perché i corpi sono entità indipendenti, che agiscono per conto loro.
– I corpi agiscono per conto loro – ripetei scioccamente. – Potresti approfittare delle tue ultime ore per scrivere un trattato: Teoria della Ragione Vegetativa.
– I corpi agiscono per conto loro – ripeté ancora una volta. – Il tuo corpo lo sta facendo in questo stesso momento. Perché non te ne vai una volta per tutte? – Sputò le parole con rabbia, sfidandomi.
– Non sono una bestia; posso aspettare finché non ti calmi.
– Scuse, pretesti – disse lui. – Le tue ragioni per restare in questo luogo, accanto a me, aspettando la mia morte, non hanno alcun valore. Ti sei trasferito per liberarti di me, non per farti carico di me. Non sono tuo padre invalido. Vedi altri a fare questo? I corpi muoiono soli; è giusto che sia così. – La voce del mio ex corpo si era fatta via via più acuta nella misura in cui l’enfasi del discorso lo assorbiva. Questo rese molto marcato il contrasto con l’ultimo sospiro di uno che lasciava la vita a pochi passi da noi.
– Non so comportarmi diversamente – dissi senza convinzione. – Posso aspettare ancora qualche minuto. Ho capito che siamo parte di un tutto indivisibile, e che il mio dovere sarà piangerti, provare dolore per te.
– Che patetico! Ma apprezzo il tuo gesto, anche se sappiamo entrambi che non serve a niente.
Chinai la testa. Il suolo del deposito era pieno di polvere ed escrementi dappertutto, tranne dove i corpi scartati muovevano impazienti i piedi. Lì il pavimento era lucido e l’oscurità lottava per vincere la battaglia contro i luccichii furtivi che si levavano da fonti invisibili. Iniziai ad aspettare, ansioso, la seguente ronda degli ausiliari. Feci un calcolo mentale dei morti e cercai di stabilire delle regole di frequenza basandomi sui gemiti, ma desistetti subito scoraggiato, pessimista. Trovavo ogni volta più difficile capire i motivi della mia permanenza in quel luogo, e della mia incapacità di uscire, semplicemente uscire. Ero in una trappola che io stesso avevo costruito e innescato. Il corpo captò il mio stato d’animo e cercò di venire in mio aiuto.
– Non penso di morire oggi.
– Potrei tornare domani – dissi stupidamente.
– È una buona idea. Ma non so nemmeno se succederà domani. Forse non ne vale la pena.
L’alone di luce si stava spegnendo, per cui il deposito era già sommerso in un mare di oscurità. I punti di riferimento erano scomparsi e avrei potuto trovarmi allo stesso modo nel deposito dei corpi scartati come nel cuore di un incubo. Mi feci coraggio, pensando che era possibile svegliarsi anche dal peggiore degli incubi, ma la voce rotta del mio primo corpo mi riportò alla realtà.
– …vai avanti in direzione del tuo naso…
Adesso o mai più. Mi incamminai, e prima di aver fatto il terzo passo, la collera di un corpo urtato nel cammino mi dimostrò che non sarebbe stato un compito semplice.
– Stupido! Guardi dove cammina e porti rispetto a quelli che stanno morendo.
– Mi scusi. Voglio uscire da questo posto.
– Uscire?  – disse; il corpo rise in modo offensivo. – Da qui si esce solo morti.
Era la conferma di quello che avevo iniziato a sospettare: la trappola, che funzionava in modo efficace, mi lasciava dal lato sbagliato.
– Sono un recente trasferito – dissi. – Sono venuto a congedarmi. – Cercai di afferrare con le mani il moribondo, ma questo mi sfuggì, beffardo. Quando parlò di nuovo seppi che non era lo stesso, che un altro occupava il suo posto. Il gioco cominciava a svegliare l’interesse dei condannati.
– Il mio trasferito non è venuto a dirmi addio. Disgraziato. Lasciarmi solo in queste circostanze così dolorose…
– Il mio firmò un’autorizzazione perché mi iniettassero qualcosa per accelerare la faccenda – disse un altro. Un grido stonato spezzò una nuova protesta. I gemiti e i lamenti sgorgavano ora da tutti gli angoli del deposito; i vecchi corpi morivano intorno a me, o fingevano di farlo per mortificarmi.
– A che serve? – ululò una voce femminile. – Ci rende diversi, ci migliora in qualche modo? Se quella cagna venisse a dirmi addio…
– Se ne pentirebbe!– completò un coro alterato. I corpi scartati si dondolavano nelle sdraio di tela producendo suoni di consistenza ruvida, minuscoli rantoli di legno e polvere; il silenzio rotto si era diffuso per tutta la grandezza del deposito riflettendo immagini cieche della morte, la morte vera, la morte certa e assoluta, quella che non possiamo sfuggire come artificiosi saltimbanchi che cambiano il guscio.
– Dove devo andare? – implorai. – Non vedo l’uscita.
– Avanti, con decisione – insistette il mio primo corpo. – Calpestando senza scrupoli, tanto moriremo in ogni caso.
Mi lanciai con furia, ciecamente, ma la reazione dei corpi non si fece attendere. Probabilmente seguendo un impulso illogico si erano alzati dalle sdraio e mi circondavano, bloccandomi il passo. Sentii la pressione di qualcosa di duro, metallico, che cercava la mia carne e la ferocia di una dentatura incompleta che mi mordeva il braccio mentre, persa la moderazione, sferravo pugni in tutte le direzioni. Era inutile: il percorso verso l’uscita, al buio e assediato da corpi senza futuro, mi era precluso.
Seguì un istante di ricordi confusi. Forse caddi, fui calpestato dai corpi inferociti, ricevetti un colpo in testa. O forse no. È impossibile ricostruire gli eventi che mi hanno condotto alla situazione attuale. Ho solo la certezza di un risveglio nell’oscurità e nel silenzio del deposito; dei tubi di plastica che mi collegano a sostanze nutritive; delle centinaia di corpi scartati che mi circondano.
– Era l’unica cosa da fare – dice una voce familiare molto vicina, nascosta nelle pieghe dell’ombra. – Era in garanzia. Anche se nessuna delle ferite è stata mortale.
– Non voglio la tua compassione – lo interrompo. – Ti voglio fuori di qui prima che sia troppo tardi.
­– Ho bisogno che chiariamo alcune cose – dice.
– Non c’è niente da chiarire – replico. – È pericoloso. – Riesco a vederlo per la prima volta: siamo identici, ovviamente, lo stesso modello di corpo. – Solo una domanda: il primo corpo… è morto?
– Sono qui – risponde il primo corpo con la voce piena di crepe, da qualche posto vicino, sulla mia destra.
– Ogni cosa al suo posto, allora.
Mi sollevo affinché il nuovo corpo sappia che mi rivolgo a lui. – Ora conterò fino a dieci e quando avrò finito sarai fuori da questo posto di merda, a vivere la tua vita, la nostra vita.
Scuote la testa, ostinato. Capisco che la trappola è di nuovo innescata e chissà quanti ancora di noi vi cadranno dentro prima di imparare il trucco che permetterà di eluderla.
– Sembra – dice il corpo originale alzando la voce sopra quell’atmosfera carica di marciume – che colui che ha scritto il nostro finale si rifiuti di cambiare una sola riga.
– Forse è un greco – replico con ironia, – uno che ama pensare al Destino con la D maiuscola.
– Di cosa state parlando? – dice il corpo nuovo, sconcertato. – Vi prendete gioco di me? Ricambiate così la mia cortesia? In ogni caso mi fermerò finché non avrò ottenuto delle risposte. Non ho bisogno di spiegarvi…
Smetto di ascoltare le sue parole, anche se continuo a sentirle, mescolate con il ronzio delle macchine e con il battito dei cuori dei corpi. Mi costa immaginare che le ferite abbiano costretto a realizzare un secondo trasferimento in così poco tempo, per cui inizio a ispezionare il corpo con cautela, minuziosamente. Una brutta cucitura mi attraversa il petto e, a tastarla, scopro un dolore acuto al fianco sinistro. Così tanto mi hanno danneggiato i quasi morti? Korps, per difendere la propria reputazione, ha attuato di ufficio e il nuovo corpo conferma il procedimento al risveglio. Non fa una piega. Niente è gratis.
Si apre la porta ed entrano gli ausiliari. Stranamente non ci sono corpi senza vita, per cui vacillano alcuni secondi, in bilico tra i due mondi, ma non tardano a riprendere la loro routine, portando nuovi corpi scartati tra quelli che si trovano già sulle sdraio di tela e collegando i tubi di plastica alle vene dei poveri disgraziati.
– Portatelo via! – urlo con tutta la mia voce. – Non deve stare qui. – Il dolore si intensifica, perdo forze; le mie grida escono soffocate, sorde, incapaci di raggiungere il loro obiettivo.
– Non fanno caso agli scartati – dice il mio primo corpo.
– Risparmiate le forze – dice il corpo nuovo. – Vi tirerò fuori da questo porcile. I miei ex corpi non sono spazzatura.
– Siamo spazzatura – dice il primo corpo.
– Ti supplico: esci! Prima che sia tardi. Vai fuori! – Suona melodrammatico, ma non mi viene in mente un altro modo di farlo reagire. – Resterai intrappolato, prigioniero, come noi…
Il corpo nuovo si spaventa. Gli ausiliari hanno chiuso la porta e il deposito resta in penombra ancora una volta. Nella oscurità crescente i gemiti di tutti noi, corpi scartati, e le proteste del recente trasferito si mescolano fino a farsi indistinguibili.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

* Il gambetto è un'apertura di scacchi caratterizzata dal sacrificio di uno o più pedoni, nella prima fase della partita, in cambio del guadagno di spazio e tempi per lo sviluppo.