giovedì 26 febbraio 2015

L’UBRIACO di Paolo Secondini



Incontrai il vecchio verso le due di notte. Vacillava vistosamente sulle gambe, quasi stentasse a reggersi in piedi.
Un ubriaco! pensai.
Mi avvicinai, le braccia tese, pronto a sorreggerlo.
«Serve aiuto?» domandai.
Mi guardò con piccoli occhi iridescenti, come quelli dei gatti.
«Al mondo, più che a me!» rispose, in modo sibillino, con voce ferma, schietta.
Non mi parve la voce di un ubriaco.
Insistetti.
«Si sente bene?»
«Più di quanto si senta il mondo.»
Ancora il mondo!
Due risposte, le sue, di cui non compresi il significato.
«Il… mondo?» chiesi.
«Questo mondo, certo! Non quello da dove provengo e sul quale vorrei tornare.»
Lo fissai un istante.
«Capisco!» dissi. «Lei non è di queste parti? Viene da lontano?»
Il vecchio sorrise leggermente.
«Lontano, sì, molto lontano, più di quanto possa immaginare.»
«Oh!» l’esclamazione uscì, spontanea, dalla mia bocca.
«Vengo da lassù,» aggiunse, indicando in alto con la mano.
Volsi lo sguardo verso le grandi montagne alla mia destra, le cui cime coperte di neve splendevano sotto i vividi raggi della luna.
«No, non dai monti,» esclamò il vecchio, intuendo il mio pensiero, «ma da molto più in alto, dove il suo sguardo non può arrivare. Vengo…» Si interruppe, crollò la testa. «Non importa. Non potrebbe capire.»
Senza neanche accennare a un saluto riprese il cammino, continuando a vacillare sulle gambe.
Rimasi a guardarlo.
Il vecchio, forse sentendosi osservato, si voltò. Tornò indietro di alcuni passi.
«Sarei voluto partire coi miei compagni,» disse, «molti anni fa, ma hanno preteso che restassi. Chi meglio di me, primo scienziato di classe XJ-340, avrebbe potuto studiare, analizzare, classificare uomini, cose, animali? L’ho fatto volentieri. Era questo, in fondo, lo scopo della mia missione, ma… nel vostro mondo ho visto e imparato anche quello che mai avrei voluto conoscere né, tanto meno, ricordare. La cosa che più mi addolora, mi tormenta profondamente, è che anch’io, pur non volendolo, sono diventato parte di questo mondo. Ormai dispero tornare su Voithel, il mio pianeta di origine, come anche…»
Non finì di parlare, si girò di nuovo e riprese il cammino.
Questa volta non si voltò.
Mi grattai leggermente una tempia.
Scienziato XJ-340… scopo della missione… Voithel… Altro che ubriaco! pensai, mentre seguivo il vecchio con lo sguardo. È soltanto un povero matto, anzi, un matto da legare!
Stetti a guardarlo finché, improvvisamente, scomparve nel nulla.
Per un lungo momento restai con la bocca spalancata e il fiato sospeso. Avvertivo, inoltre, una sensazione di vuoto allo stomaco. Poi scossi la testa e alzai, davanti ai miei occhi, la mano che stringeva la bottiglia. Al suo interno era rimasto un po’ di vino.
«È tutta colpa tua!» esclamai. «A forza di berti, mi hai fatto venire le traveggole. Brutto segno! Meglio che smetta prima che caschi nel fosso al ciglio della strada.»
Stavo per lanciare la bottiglia lontano quando mi bloccai. La guardai e, lentamente, l’accostai alle labbra.
«Ecco,» esclamai, dopo averla scolata. «Giuro che non toccherò più un goccio di vino… questa notte. Lo giuro solennemente.»
E gettai la bottiglia.

venerdì 20 febbraio 2015

FRITTATE COSMOGONICHE di Paolo Durando



(Testi esposti nel 2010-2012 alle mostre/performances del gruppo paradadista di Treviglio DONNA CON FRITTATA)                                                     

Frittata cosmogonica  0
Approntata la padella, lancerai la parola.
Nello strato sottostante, puramente potenziale fino ad allora, cadrà l’uovo-logos. 
Perderai tutto, in quell’istante. Ma è anche vero che, per certi versi, non accadrà nulla e continuerai a controllare la frittata, consapevolmente.
Ci sarà l’irreversibile incremento delle fratture. La tua coscienza sarà infinitesima, nel proliferare di pack di realtà evolventesi. Crepe su crepe in nome della tragedia della differenziazione. Non ne saprai nulla, per eoni. Molti tipi di minerali non sapranno alcunché. E poi i vegetali. Tutto sarà lasciato indietro e depositato in strati. Creeranno il paesaggio. Saranno il tuo passato.
Infine nascerà una minuscola copia di te stesso, che avrai cura di selezionare quale alveo di conoscenza. L’arte  darà una mano ai tuoi episodi, ma sarà solo un mezzo, non un fine. Inizierà, nel corso delle ere,  il viaggio di ritorno a casa. Fino alla ricostituzione della compatta, sapida frittata originaria.
Riporrai l’uovo in bella vista su uno scaffale, accanto agli altri. Guarderai, assicurato, la cucina di sempre.
E dopo? Dopo lancerai la parola.

Frittata cosmogonica  1
Esposti alla forza interferente di una supernova, mescerete una nube gassosa fredda ricca di  idrogeno ed elio.
La vedrete comprimersi verso l’interno. Spingendo viepiù, innescherete il collasso. Vedrete il disco ruotare più rapidamente. Gravità, pressione, campi magnetici, rotazione centrifugheranno il tutto ed ecco delinearsi la prelibatezza preventivata,  la casual-deliberata frittata.
Vedrete, al suo centro, occhieggiare la protostella. Lì la temperatura andrà sempre più aumentando. Poco a poco - perseverando in collisioni e fusioni - acqua e metano, silicati e metalli formeranno piccoli nodi. Più esternamente confluiranno gli  elementi più leggeri, aggregandosi in grossi  globi prevalentemente gassosi.
Avrete cura di mantenere le condizioni adatte e vedrete evolversi dalle masse interne corpi  più estesi. Assisterete, compiaciuti, all’addensarsi di un globo  compatto, dopo i primi due a ridosso del centro. Lo osserverete riconoscenti, timorosi, ricordando qualcosa.
Sarà allora che, precipitando la vostra vista dentro parvenze  tremule, nell’ incapsularsi soffice di tessuti  e gocciolanti spasimi rosei,  vi vedrete nascere.

Frittata cosmogonica 2
Proseguendo nella cottura, mi accorsi delle occasioni di rammarico. Sollevandone porzioni, la massa tornava a  se stessa in plurimi sottigliezze.  Coincidendo in quelle, il mio uno diveniva  due e poi tre. E dopo decine.
Dovevo avere i riflessi pronti per non precipitare nella mia dispersione, per cui assecondai una sola striscia per volta, seguendola nel suo percorso.
Il mio ideale di liscia frittata intatta, a suo totale agio di bollore, mi costringeva a cadere lungo una data vicenda di molecole, una dopo l’altra. Frequentavo in sequenza la successione dei loro risultati relativi,  abbandonando le storie  sconfitte nell’amalgama dove si rovesciavano, in un annodarsi immediato o controverso. Ne restavano tracce  sepolte nei trepidi cunicoli vischiosi, cisti e cicatrici di esperienze negate. 
Non si trattava di scegliere ad incroci e biforcazioni. Ogni bivio scompariva nel momento stesso del suo attraversamento. Mi tuffavo cieco nel filo che, ad ogni alzata di forchetta,  sceglievo di  accompagnare nel suo futuro sommerso. Bisognava fare molta attenzione, perché non potevo compromettere la riuscita della  frittata quale possibilità compiuta, in cui gli adesso mancati non avrebbero prodotto smagliature. Fu un’illusione. Mi ritrovai comunque ammaccato dai  presenti probabili, smarriti, rifiutati. 
Affrontando le serie parallele di delusioni, non mi restava che  perseguire le risoluzioni dell’arte.
Fino a quando, dolorosamente fumante, la frittata non sarebbe stata pronta, alla fine e all’inizio dei tempi.

Frittata cosmogonica 3
 La donna con frittata sapeva di aver sognato se stessa che cucinava la frittata.
Il dubbio che la stava cogliendo in quel momento era se lei non fosse, invece, la donna sognata. Per questo era concentrata sulla consistenza di quanto la circondava, impegnata a cogliere ogni colore della cucina, ogni suono, dall’urto del forchettone sulla padella all’eco lontano di una metropoli in fuga.
Valutava l’intensità tattile dei suoi imperterriti maneggi. Ma  poteva anche darsi che stesse sbagliando in ogni caso, essendo, a sua volta, il sogno della donna sognata.
Riteneva tuttavia che,  in una così estrema eventualità, la labilità delle cose avrebbe dovuto palesarsi senza ombra di dubbio. Di fatto questo non avveniva, parendole che la pregnanza di quanto stava vivendo fosse normale. La sensazione  della crassa umidità dell’aria le dava anzi l’impressione che l’esperienza fosse particolarmente lucida e consapevole.
Questione di slittamenti. Ancora un attimo e avrebbe pensato di essere in una realtà potenziata, una realtà al quadrato. In quel caso lei non  sarebbe stata la donna che aveva fatto il sogno, ma  addirittura colei che la precedeva, il calco originario. 
Era così che la materia avrebbe sfondato il limite del percepito. Cuoca e annessi avrebbero infine coinciso con il proprio farsi.

Frittata cosmogonica 4
I pizzi, le areole, le aiuole. Fuoriescono le parrucche, le bacche, rotolano le verze e le bocce. Precipitano i sostrati, le vicendevoli risorse dei bricchi, le compagini ministerial-peristaltiche, con tutto il seguito delle visioni, delle commende e dei settori imboscati degli accordi ambigui, delle amicizie incaute, base imperitura di falsi amori. Anteposta, presiedi alla devastazione degli albori. Cadono le pitture, le mansioni, le corolle, e con esse le leve, le reti, volatilizzandosi con le mulattiere, le trottole di mirabolanti brevetti, le luci pulsanti e i fragori degli anni.  Emersioni, nel definirsi di frastagliate parabole. Le cavi dai tuorli in suggeriti sbocchi, fiotti di smagliature. Le delinei nella gelatina di adducenti freni. Emersioni annodanti i cerchi, le paffute filiere di variabili al tatto, sotto conati di macchia, lievi musi di feti. Imbevuti resti di frasche e strame, macerati in pois, presentiti romboidi di pus. Avvolgimenti languidi di pennacchi e trecce in forse,  perseguimenti effimeri di imbragate cornici. Quadri e definizioni che si accavallano morendo nel corso degli accorrimenti ansiogeni, nel provvisorio fluire di micragnosi factotum, nella tua indifferenza distratta. D'occasione Pandora.
Frittata cosmogonica 5
Si ingolfarono singolarità-ossessione, nella gran frittata che fu fatta. 
Nazioni, stamberghe, città metropolitane. Felici pochi. Fiori e koala. Ogni individuazione incise sul gusto, sul colore residuo sul mestolo.
Questo fu il nostro modo di essere surfisti dell'amalgama.  Professoresse, arrotini, magistrati, metalmeccanici, preti e merciaie. Le cose e i loro nomi. Le categorie, le opere. I significanti nella rete delle proiezioni, dei desideri, in mezzo alle parole generantesi senza soluzione di continuità.
E le voci distoniche,  le discese nell'idioletto, a precipizio, fino alla monade, al solipsismo di ogni divergenza più o meno poetante.
Ma dietro la scena, se si andava alla ricerca del vero, mitico significato, della sostanza, dell'essenza, ci volgevamo  incontro al non-nulla.
L'opaco,  noioso - fastidioso definitivo ronzio - gran mare dell'essere.

sabato 14 febbraio 2015

PRIMOGENITURA di Peppe Murro



Lo stava guardando corrucciato e pensoso: l'ovale perfetto, chiaro, levigato,.. non c'era bellezza simile ovunque si fosse voltato.
 Fermo, lì, come fosse indifeso, ma da questa silenziosa dolcezza, lo sapeva da tempo, sarebbe nata la vita e finalmente avrebbe avuto compagnia: tanti piccoli che ti si accoccolavano vicino, che ti strusciavano, che cercavano il tuo calore, che giocavano con te! Avrebbero rallegrato la sua solitudine e lui avrebbe insegnato loro a cantare la gioia dell'alba e la malinconia della sera, li avrebbe abbracciati tutti,uno per uno.
E sarebbero cresciuti!  i figli, si sa, non ti appartengono e son fatti per volare via. Poi anche loro avrebbero avuto dei figli ed anche i figli dei loro figli: certo, sarebbero cresciuti belli e numerosi.
Si soffermò un attimo su quel pensiero: beh, troppo numerosi non era il caso, non è che da lui ci fosse molto posto, sarebbero stati piuttosto stretti, avrebbe dovuto magari anche sopportare la loro invadenza. No, sicuramente non era il caso, in troppi non potevano stare lì, gli avrebbero rubato spazio e tranquillità e magari pure rovinato il meraviglioso pavimento morbido della sua casa.
Troppi, decisamente, e poi  vengono altri e pretendono e urlano e puzzano e tu non puoi più stare in santa pace neppure a casa tua.
Gli avrebbero rubato spazio, e tempo, e occasioni; sottratto il cibo e il letto, lo avrebbero umiliato e mortificato e magari anche picchiato, se così gli andava.  Non lo sopportava, non poteva accettarlo !
Erano intrusi, erano un pericolo, una minaccia mortale.
Doveva porvi rimedio, doveva salvarsi da quell'invasione di selvaggi petulanti e vocianti che forse portavano pure malattie....
Guardò di fronte a sé, lo sfiorò: nella sua silenziosa perfezione quasi non sembrava un pericolo mortale... che ipocrita,e dire che poteva essere mio fratello! Ora sapeva che una belva si nascondeva in quel bianco all'apparenza indifeso.
Un colpo secco, deciso, e si sentì subito soddisfatto.

Si girò di fianco per dormire, non si curò neppure di pulirsi il becco.

lunedì 9 febbraio 2015

DIMENSIONE ALIENA di Adriana Alarco Zadra



        
È inutile: non risponde nessuno.
Dal pianeta Marte cerchiamo di comunicare con i passeggeri di una astronave che segue itinerari stabiliti. Non osiamo supporre che sia stata risucchiata da un buco nero, o che si trovi in una parte sconosciuta dell’universo.
Nessun pilota sano di mente non si atterrebbe alle istruzioni dei voli interplanetari, perché sarebbe illegale, impensabile, suicida e senza precedenti.
Mentre cerchiamo l’astronave scomparsa con i radar, le onde magnetiche e i telescopi, sotto l’ impercettibile luce di molte lune, ne osserviamo un’altra  avvicinarsi al pianeta.
La scopriamo per via del cambiamento dell'atmosfera ferma sulla superficie arida e vulcanica. È coperta da uno strato di materia evanescente che l’ha avviluppata durante la sua corsa nello spazio.

La nave viaggia con movimento impercettibile, insolito: al suo interno si sono sviluppati e moltiplicati voraci bruchi e vermi.

Questi organismi sconosciuti si nutrono di materia organica e inorganica, per poi trasformasi in mostruosi coleotteri che mangiano di tutto. Poi, quando non ci sarà più niente di cui nutrirsi, si divoreranno tra loro, se prima non scopriranno la base spaziale con i suoi occupanti, che seguono il processo attraverso obiettivi incredibilmente potenti.



martedì 3 febbraio 2015

CELESTE DIVA Valérie Bédard



Celeste era una vera bellezza, una bellezza pari soltanto alla sua stupidità. 
   Quando chiedevano ai suoi padroni di che razza fosse, rispondevano, invariabilmente, scarto di collie: insomma, madre collie, padre ignoto, costata niente.
Sandy, madre di Celeste, sapeva andare a prendere i cavalli di sera e ricondurli nella scuderia. Inoltre, sorvegliava la predetta scuderia, i fienili e la casa dei padroni contro qualsivoglia intruso, a due o più zampe. Era anche un’infallibile procacciatrice di selvaggina. Insomma, se esaminata dal Ministero, se la sarebbe cavata a pieni voti.
Dal canto suo, Celeste, a un dato momento, aveva impedito la fuga d’un gatto sedendoci sopra. Tali furono i fastigi della sua carriera canina.
Ma Celeste era tanto bella! Occhioni d’un castano screziato, una lunga criniera bionda da far invidia alle più stupende indossatrice, zampe sottili d’un bianco virginale, e, per soprammercato, indole d’una squisita gentilezza! Dolce, bella, sottile… e scema.
 Figuratevi lo stupore della sua padrona quando, una gelida sera di gennaio, mentre tutta la frazione di Saint-Thomas de Saint-Séverin-de-Proulxville dormiva al bagliore della sorgente luna piena, Celeste scappò.
Certo, tutti i cani scappano prima o poi, direte voi… Ebbene no, appunto. I suoi padroni avevano sempre ritenuto Celeste troppo scema per solo pensare a fuggire un domicilio familiare tanto comodo, e, soprattutto, il divano di velluto blu di cui aveva mangiato  il bracciolo in un momento di smarrimento – ma era tanto bella che l’avevano perdonata.
La padrona di Celeste s’infilò un colbacco, un paio di stivaloni e, profondamente offesa, si mise a pedinare la delinquente sulle prode del fiume des Envies, dormente sotto una spessa crosta di ghiaccio in quella bella serata invernale. Non era difficile : il giorno prima, era nevicato e la luna rischiarava tanto il paesaggio che sarebbe stato possibile leggerci un libro. Dopo un chilometro di marcia, la padrona si sentì ridicola, chiamò la cagna per l’ultima volta e ritornò a casa bestemmiando al punto di compromettere la salvezza dell’anima sua.
Nel frattempo, per via del plenilunio, la frazione Saint-Thomas dormiva malissimo. Nelle stalle, si formavano amicizie contro natura, come quella dello stallone di Prima Trudel con la capra di suo cognato Roger. Taccio delle altre.
E la bella Celeste correva, correva…
Sulla riva del fiume, Ti-Guy Brouillette sorvegliava la sua sfilza di trappole, imprecando. Ti-Guy era proprio un brutto ceffo : in paese, tutti lo evitavano il più possibile. Era un miscredente inacidito e alcolizzato che sua moglie aveva lasciato sporadicamente dapprima e difinitivamente poi dopo quindici anni di matrimonio per il peggio e per il peggio. I figli non gli parlavano più ed avevano voluto assolutamente essere diseredati. Ti-Guy trasferiva la propria rabbia contro il genere umano e la creazione in generale sulle malcapitate bestie da lui intrappolate. Le pelli non gli rendevano un granché, ma era il fatto di trovar lupi, volpi, lontre o magari coyote agonizzanti in una delle sue trappole che lo mandava in sollucchero e lo spingeva ad uscire nonostante le intemperie, soprattutto a delle ore in cui i parrocchiani hanno la decenza di starsene a letto.
Quella notte, la sfilza di trappole era completamente vuota, e Ti-Guy dava in escandescenze.
 Sudato fradicio nonostante il freddo, avanzava sulle prode fluviali, nella neve molle, arrancando – due giorni prima, aveva scambiato le racchette di marcia contro una cassa di ventiquattro birre. Il fiume serpeggiava ed attraverso i meandri scorrevano fonti da cui bisognava guardarsi, anche nel più profondo rigore invernale. Il ghiaccio traditore poteva assottigliarsi per un balordo privo di racchette, e Ti-Guy non era abbastanza ubriaco da dimenticarselo.
Uscendo da un cumolo di neve particolarmente coriaceo dietro un argine, ansimando come un brocco e sudando come dieci, fu stupefatto al punto di smettere di bestemmiare di botto.
Sul ghiaccio del fiume, una stupenda fanciulla conduceva una ronda silenziosa con cinque grandi coyote sfiancati. Su due zampe, con la lingua fuori, formavano un girotondo con la bella, tenendosi tutti per la zampa o per la mano – tranne il coyote al quale mancava una zampa anteriore, che Ti-Guy Brouillette avrebbe potuto restituire : trovata a brandelli nell’autunno scorso in una trappola, penzolava adesso sullo specchietto retrovisore del suo vecchio pick-up – giacente nel deposito auto municipale da due mesi, dopo essere stato rimosso dalla pubblica sicurezza quebecchese.
Tutti sembravano seguire una musica turbolenta, inaudibile per Ti-Guy : saltavano, facevano un passo avanti ed uno indietro, in modo sincopato, ma sempre all’unisono. Il più curioso ricordo che l’uomo conservò di questo ballo demoniaco, ma mai sgraziato, fu l’assenza assoluta d’indumenti sul corpo della ragazza : niente berretto di lana per coprire le fluenti chiome bionde, niente… proprio niente, da nessuna parte. Normalmente, Ti-Guy sarebbe stato pervaso da pensieri volgari e bassamente libidinosi alla vista di cotanta prestanza femminile, ma, nella fattispecie, si sentiva molto a disagio. Dopo qualche altra  giravolta, si sentì decisamente inquieto. Benché accovacciato in un banco di neve, si sentiva scovato. Quando arrivava davanti a lui, la ballerina gli scoccava il suo più bel sorriso. Se i suoi occhi verdi screziati d’oro non fossero in forma di mezzaluna, se i canini non fosssero stati tanto impressionanti, la creatura gli sarebbe parsa desiderabile. Era la nudità totale della fanciulla à -32°, congiunta alla presenza dei coyote ,che gli dava fastidio. Si sentiva perfino un po’ colpevole per via della zampa nel pick-up. (Ti-Guy Brouillette non si era mai sentito colpevole da quel Natale 1973 in cui aveva dato fuoco all’abete per vedere se avrebbe bruciato sul serio).
Inndietreggiò piano piano fino al promo meandro del fiume, quindi corse a perdifiato per boschi e per campi, fino a casa sua.

Quando sorse l’alba, i padroni trovarono Celeste sdraiata sulla soglia del portone. La rampognarono copiosamente, dandole, tra l’altro, della svergognata e della femmina da cani da slitta. Celeste entrò in casa con l’aria contrita e la coda tra le zampe, si acciambellò sul divano di velluto blu e dormì per due giorni di fila.
La mattina stessa, Ti-Guy Brouillette telefonò al 1-800 degli Alcolisti Anonimi, un’associazione che frequenta assiduamente ancora oggigiorno. Non è mai ritornato  sul luogo delle trappole : il vecchio pick-up et la zampa di coyote sono ancora al deposito. In paese, si dice che gli succede perfino d’essere beneducato. Ma tutti sanno che le ciarle di paese lasciano il tempo che trovano…

(Traduzione dal francese di Serena Gentilhomme)