lunedì 30 settembre 2013

TRENTASEI ORE di Donato Altomare



Il prof. Rocco Salvemini rilesse i risultati. Non credeva ai suoi occhi: ce l’aveva fatta!
- Ma chi? - chiese a se stesso, - chi?
Avrebbe potuto far tornare in vita un uomo del passato.
Rilesse puntigliosamente il tabulato. Reinserì, quasi fosse la prima volta e non la centesima, i dati bio-fisici, quelli astronomici e quelli logo-crono-sintetici. Poi diede il via all’elaboratore. Attese otto lunghissimi interminabili minuti. Ma il risultato fu lo stesso. Non potevano esserci dubbi. Era possibile. Una massa relativamente grande qual era quella del Sole doveva creare deformazioni al tempo, una vera distorsione temporale.
La più entusiasmante incredibile conseguenza era che, contrariamente a quello che tutti gli scienziati affermavano, il passato poteva essere mutato. Dal giorno prima sino a cinquemila anni addietro. Richiamando in vita qualcuno, purché non fossero passati più di cinque giorni dalla sua morte. Bisognava soltanto collocare il cursore tridimensionale su determinate coordinate spazio temporali e il gioco era fatto.
Il prof. Salvemini era un biochimico, esperto anche in fisica astronomica. Aveva scoperto che, ripercorrendo il tempo a ritroso, accadeva un fatto strano, era possibile avviare una mirata autogenerazione cellulare... una grossa parola per dire semplicemente che sarebbe stato in grado di ridare la vita a un essere umano poco dopo la sua morte e nel suo tempo. L’unico guaio è che l’esperimento avrebbe confuso tutto, anche il presente, quindi non sarebbe stato più in grado di ripeterlo. Insomma, avrebbe potuto intervenire una sola volta, richiamando in vita UN SOLO ESSERE UMANO
Si morse le labbra: CHI? Einstein? Alessandro Magno? Cesare? Mozart? Michelangelo? O suo padre? Chi?
Non aveva una risposta. Doveva anche fare attenzione. Un corpo bruciato non poteva essere richiamato in vita. Mozart... Mozart era finito in una fossa comune e ricoperto da tonnellate di terra praticamente subito dopo la sua morte. Se l'avesse richiamato in vita sarebbe morto soffocato. Non avrebbe potuto far rivivere Giovanna D'Arco, arsa sul rogo, ma Napoleone sì, non era stato sepolto immediatamente. Come Federico II…
Un brivido gli attraversò tutto il corpo. Fortuna che quella scoperta era stata fatta da lui. Metti che... che l'avesse fatta qualcun altro e magari avesse richiamato in vita uno Stalin... un... un Hitler... no, quest'ultimo no, era morto carbonizzato. Almeno così si diceva.
Scosse il capo. Era assurdo. Era stato più facile fare quella incredibile scoperta piuttosto che decidere CHI richiamare in vita. Uscì sul balcone dove la luce del tramonto illuminava le cupole e le torri degli innumerevoli ed eterogenei luoghi di culto di Roma.
No... doveva farsi una semplice domanda: doveva pensare a se stesso o all’intera umanità? A che sarebbe servito richiamare in vita un Verdi morto già molto anziano? Pensò ai grandi uomini. Ghandi, Luter King, Leonardo da Vinci. No... anche lui troppo canuto. Ma poi... quale certezza poteva avere? La sua scelta avrebbe mutato l'umanità in bene o… in peggio?
Il tempo passava, ma nessuna soluzione albeggiava convincente.
Rientrò che era buio. Si risedette per l'ennesima volta al computer.
Il cursore si muoveva in attesa di essere bloccato. Troppa responsabilità. Troppa.
Sì, avrebbe potuto rinunciare e dimenticare tutto. Ma un qualsiasi altro mondo sarebbe stato meglio di quel mondo senza Dio. Troppe brutture, troppa cattiveria. Con l’ingiustizia dilagante.
Già, doveva farlo, ma perché avrebbe dovuto decidere lui? Non avrebbe ricordato nulla, il passato modificato avrebbe resettato anche la sua mente, cancellando tutto quello che sapeva e immettendo la nuova realtà, frutto d’un passato mutato.
Già, perché doveva decidere lui e non il… Caso che governava l’intero universo?
A caso premette il tasto bloccando il cursore.
Il Caso avrebbe deciso per lui.
Lesse sul display.
36 ore, più o meno.
Chi sarebbe rivissuto trentasei ore dopo la sua morte?
Peccato che non avrebbe mai conosciuto la risposta.
Qualcosa intorno cominciò a mutare.


Fu svegliato dalle campane della vicina Cattedrale.
Aveva la testa pesante e una strana sensazione di smarrimento.
Si alzò da letto, sbadigliò stirandosi e corse in bagno.
Si vestì con la solita meticolosità e si sedette al computer. Strano, l'aveva lasciato acceso. Spense l'apparecchio e pensò che sarebbe stato meglio uscire a godersi la splendida giornata.
Ancora le campane. Già, era la Domenica delle Palme.
Tra qualche giorno avrebbe dovuto sopportare la via crucis del venerdì santo con sua madre. Vabbe', gli toccava.
Poi Pasqua, con i suoi riti... 'dopo tre giorni... resuscitò da morte...'
Prima o poi l'avrebbe detto a sua madre, la storia dei tre giorni era una balla. Gesù era morto, secondo la tradizione, nel pomeriggio del venerdì ed era risorto prima dell'alba di domenica.
Altro che tre giorni.
Fece rapidamente i calcoli...
Un giorno e mezzo.
Più o meno… 36 ore.

domenica 29 settembre 2013

FANTASCIENZA HORROR


Indubbiamente Alien è stato uno tra i più avvincenti film di fantascienza horror.
Fu diretto nel 1979 da Ridley Scott e interpretato dalla brava Sigourney Waver nel ruolo di Ellen Ripley.
A esso seguirono, sempre con la stessa attrice, Aliens – scontro finale (1986 - diretto da James Cameron); Alien 3 (1992 – diretto da David Fincher); Alien – la clonazione (1997 – diretto da Jean-Pierre Jeunet).
Alien è unanimemente considerato migliore degli altri tre.

venerdì 27 settembre 2013

IL TEST DELL'IGNORANZA E DELL'AMNESIA di Ismael Rodríguez Laguna



(Agradecemos a Ismael Rodríguez Laguna por regalarnos otro su cuento.
¿Qué podría pasar si conociéramos nuestro futuro por adelantado? Esta agradable lectura nos da la respuesta.
 Ringraziamo Ismael Rodríguez Laguna per regalarci un altro suo racconto.
Che cosa potrebbe accadere se conoscessimo il nostro futuro in anticipo? Questa piacevole lettura ci da la risposta.)

Bussano alla porta.
L’ho sognato? Apro gli occhi.
Bussano alla porta.
Cazzo, che ora è? Corro ad aprire e trovo Elena, con in braccio Hugo.
– Carlos, devi tenerlo tu oggi. Ho avuto un imprevisto sul lavoro, mi spiace. Grazie! – dice mentre mi consegna Hugo e si gira verso la sua automobile.
Mi stropiccio gli occhi.
– Papà! – dice Hugo.
– Ciao, Hugo… – riesco a malapena ad articolare.
Avrò dormito due ore al massimo. Mi sono coricato molto tardi, pensando all’incarico che mi ha dato l’università. Questa faccenda mi sta davvero ossessionando.
In breve, la storia è questa. Alcuni professori del mio dipartimento hanno creato una macchina che permette di vedere il futuro.
Sì, avete sentito bene. Già lo so cosa pensate. Che è una bugia. Un inganno, come quella veggente del mio paese natale, le cui previsioni consistevano sempre nel dire che il cliente l’avrebbe citata per truffa. Se la citazione non avveniva, allora non accadeva niente, a parte che si era intascata i soldi pagati dal cliente per la previsione. D’altra parte, se la citazione ci fosse stata, al processo avrebbe potuto argomentare che la sua predizione era stata corretta, sicché non c’era stata nessuna truffa.
No, non sto parlando di una cosa così, sto parlando di una macchina basata su complessi principi fisici che permette realmente di vedere il futuro. Ti siedi in una piccola sala di proiezione, e un video generato dalla macchina ti mostra a velocità accelerata tutto quello che succederà nella tua vita da quel momento fino alla tua morte. Un programma analizza l’importanza delle immagini, cercando di valutare la novità rispetto a quanto già mostrato prima e aggiusta la velocità di visualizzazione in funzione della suddetta novità. Per esempio, la prima volta che l’individuo frigge un uovo in padella, la velocità di proiezione rallenta un poco. Tutte le volte successive in cui l’individuo frigge un uovo nello stesso modo, la telecamera va più veloce, ritenendo la scena meno rilevante. Allo stesso modo, per quasi tutto il tempo in cui l’individuo dorme, la proiezione avanza a velocità estremamente rapida.
Impressionante, vero? Ma c’è un problema. Anzi, due. Il primo che si è introdotto nella sala di proiezione e ha schiacciato il bottone per vedere tutto il suo futuro ha subito un infarto dentro la stanza pochi secondi dopo aver premuto il bottone. È morto in pochi minuti. Più tardi si è scoperto che soffriva di cuore. L’infarto fu attribuito all’emozione di trovarsi in un momento così importante per la scienza. Due settimane più tardi, un secondo membro del gruppo si offrì per introdursi nella sala di proiezione e vedere il suo futuro. Schiacciò il bottone e riuscì a vedere la proiezione intera, cosa che gli portò via circa venti ore. Tuttavia, pochi secondi dopo aver lasciato la sala di proiezione fu colpito da un ictus che lo lasciò in coma. A quanto pare, nella sua famiglia c’era predisposizione genetica. Un mese dopo uscì dal coma ma riportò dei danni cerebrali. Non ricordava niente di ciò che aveva visto in quella macchina. Nemmeno di averne avuto una qualche relazione.
L’università ha aperto un’inchiesta. Me ne ha messo a capo, perché conosco i principi fisici che permettono alla macchina di funzionare, ma non ho fatto parte gruppo che l’ha sviluppata.
Sebbene la macchina sia molto sofisticata, la sala di proiezione annessa alla macchina non è più che una stanza con un pulsante e un monitor ordinario. Pertanto non dovrebbe contenere nessun pericolo.
Decisi di fare l’esperimento preliminare che avrebbero dovuto eseguire i miei colleghi. Capisco che, a loro come a me, non deve essere sembrato che una stanza con un bottone e un monitor potesse essere pericolosa. Tuttavia le circostanze erano cambiate. Introdussi un cane nella stanza e lo legai in posizione tale che dovesse guardare lo schermo. Schiacciai il pulsante e uscii dalla stanza.
Da fuori potei osservare come il cane guardava lo schermo, almeno a tratti. Alla fine della proiezione, circa cinque ore dopo, slegai il cane. Al di là dell’irritazione per essere stato tenuto tanto tempo legato, era in perfetto stato di salute.
Ammetto che è impossibile che ciò che è capitato a quelle due persone che hanno premuto il bottone sia una casualità. Tuttavia, il cane è uscito illeso. Che differenza corre tra una persona che cerca di vedere il proprio futuro in video o che faccia la stessa cosa un cane?
Non trovare la risposta a questa domanda è ciò che mi ha tolto il sonno stanotte.
***
Continuo a ragionarci sopra mentre dò la colazione a Hugo.
Non capisco.
È anche una sfortuna che oggi Elena non possa occuparsene e che l’asilo di Hugo sia ancora chiuso. Proprio oggi!
Devo concentrarmi.
All’inizio ho fatto un errore concettuale riguardo a ciò che fa realmente quella macchina. Credevo che mostrasse solo un futuro possibile, che in seguito si potesse evitare comportandosi in modo diverso. Invece il futuro che ti mostra la macchina è quello vero, che realmente accadrà, l’unico possibile. Ve lo spiegherò come l’hanno spiegato a me il primo giorno dell’inchiesta, quando sono entrato nella stanza della macchina. Questo è ciò che mi dissero.
– Carlos, capisci che ciò che capita a qualunque persona da oggi al giorno della sua morte dipende da tutto ciò che esiste in questo momento in questa stanza, in questa città, in questo pianeta e in tutto l’universo, no? – mi disse il responsabile del progetto.
– Sì, certo – risposi.
– Se in questo preciso istante avessi un biglietto della lotteria in tasca, la macchina che predice il futuro terrà conto dell’esistenza di questo biglietto nella sua previsione, perché il futuro sarebbe diverso se alla fine il biglietto risultasse vincente.
– È chiaro, dovrebbe prendere in considerazione la possibile influenza del biglietto nel futuro.
– Allo stesso modo, se in questo momento ci fosse nell’aria un virus dell’influenza, una previsione del tuo futuro dovrebbe tener conto di questo virus, perché grazie a quello potresti entro pochi giorni essere a letto con la febbre.
– Certo.
– Ecco, come avviene per gli altri oggetti, anche la stessa macchina che predice il futuro influisce sul tuo futuro, e la sua influenza dev’essere messa in conto per fare una previsione. Se entri nella stanza della proiezione e guardi il tuo futuro, il fatto di averlo visto lo condizionerà, allo stesso modo in cui lo condizionerebbe avere un biglietto vincente o contrarre l’influenza in questo istante.
– Che vuoi dire?
– Ti farò un esempio. Mettiamo che la macchina ti mostrasse mentre sali su una nave, vai in un’isola sconosciuta nella quale nessuno è stato da cento anni, ti metti a scavare a dieci metri dalla prima palma e trovi uno scrigno con un tesoro. Dopo aver visto la proiezione che ti mostra questa cosa, uscirai a imbarcarti per andare in cerca di quest’isola e alla fine troverai il tesoro, cosa che non avresti mai fatto se non avessi visto la proiezione. Quello che voglio dire con questo esempio è che, se guardi le previsioni della macchina, il tuo avvenire sarà conseguenza di aver visto il futuro. Cioè, la macchina non ti mostra il futuro che avresti se non lo avessi visto nella macchina. Al contrario, ti mostra il futuro che sarà conseguenza di aver visto questo stesso futuro nella macchina.
– E non si poteva costruirla in modo tale che mostrasse l’avvenire che avresti se non lo vedessi nella macchina?
– E come si fa? Come diciamo alla macchina che ci predica il futuro, tenendo conto di tutto lo stato attuale dell’universo tranne una sua parte minuscola, per esempio un biglietto della lotteria, o alcuni virus che ci sono nell’aria o, mettiamo caso, una macchina che predice il futuro? La macchina prende in considerazione lo stato attuale dell’universo come un tutto indivisibile. Per questo vede il futuro reale, non il futuro che avremmo se togliessimo un pezzo di universo che abbiamo nel presente. E la macchina non è che un altro pezzo di quell’universo completo.
– Ok, credo di aver capito adesso. Se la macchina mi dice che entro una settimana farò una certa cosa, è perché sa che farò questa cosa nonostante – o grazie al fatto di – aver visto una settimana prima che l’avrei fatto.
– Esatto.
Questa conversazione mi chiarì le idee. Sicché il futuro che mostra la macchina è quello vero. Non è un futuro ipotetico, è ciò che realmente accadrà, ed è inevitabile. Ok, e quindi?  Cos’ha a che vedere col fatto che le persone che guardano il loro futuro abbiano un futuro brutto, come di fatto è successo con le uniche due persone che lo hanno fatto?
Questo non lo capisco.
***
Cammino per i corridoi della facoltà. Hugo mi segue divertito facendo rumori con la bocca mentre fa oscillare avanti e indietro un aeroplanino giocattolo che ha in mano. Infine entriamo nella sala della macchina. Voglio rivedere tutto da vicino.
Quindi, il futuro che mostra quella macchina è inevitabile.
E se volessi evitarlo?
Ok, può essere che non voglia evitarlo se il futuro mostrato è buono, come nell’esempio del tesoro. Però, anche così: chi sopporterebbe di passare il resto della sua vita facendo tutto esattamente come sa già che andrà a fare? Indipendentemente dal fatto che in quel futuro ci siano cose buone o perfino se tutte le cose sono buone, che tipo di persona rinuncerebbe a sfidare un destino che conosce in anticipo, almeno una volta nella sua vita? Chi non cercherebbe qualche volta di scegliere la strada B, semplicemente perché sa di essere condannato a scegliere A? Chi non cercherebbe mai di fare qualcosa di diverso, semplicemente per sentirsi libero? E ancora: chi non cercherebbe di evitare la malattia o l’incidente che sa in anticipo che lo ucciderà?
Non credo che esista nessuno che per il resto della sua vita, poniamo decine di anni, si rassegni a fare ciò che sa che farà, tutto esattamente uguale, senza cercare mai di fare qualcosa di diverso. Qualcuno potrebbe sottomettersi docilmente al suo destino preannunciato forse per qualche minuto, qualche ora, non so, al massimo giorni, però: il resto della sua vita? Diavolo! Ribellarsi sarebbe tanto semplice quanto alzare un braccio che non aveva alzato nella previsione, dire una parola che non aveva detto, fare un semplice passo nella direzione B che non aveva fatto. Quali incredibili casualità potrebbero impedirgli, anno dopo anno, senza rimedio, di fare qualcosa di diverso fosse anche solo una volta? Potrebbe una serie di sorprendenti casi fortuiti farlo desistere dal ribellarsi contro la previsione per centinaia, migliaia, decine di migliaia di tentativi di fare qualcosa di diverso? È realmente plausibile che ci siano centinaia, migliaia, decine di migliaia di casualità che lo impediscano?
D’altro canto la predizione della macchina è autentica, nessuno può evitare di fare quello che dice la previsione!
Un momento…
Ce l’ho!
Infine lo comprendo! Ora capisco!
Mi spiegherò. La macchina mostra futuri reali. Tuttavia, un futuro in cui un essere umano resta fino al giorno della sua morte senza ribellarsi nemmeno una volta contro la previsione che ha visto anni prima, non è fattibile. Pertanto, c’è una sola possibilità che il futuro mostrato sia reale: che l’individuo non possa ribellarsi. Mi vengono in mente tre opzioni per questo. La prima è che, poco dopo aver visto la proiezione o addirittura prima della sua fine, l'individuo muoia o resti in uno stato vegetativo in cui non possa fare nulla. In questo caso la proiezione sarebbe molto breve, certo. La seconda è che l’individuo dimentichi tutto quello che ha visto. In questo caso non avrà niente contro cui ribellarsi e non potrà evitare il futuro che ha visto. La terza è che l’individuo non capisca quello che ha visto nel suo futuro, e per tanto non abbia nessun motivo di ribellarsi a esso. Queste tre cose sono quello che è successo, rispettivamente alla persona che ha subito l'infarto, a quella che è entrata in coma e poi, al risvegliarsi, non ricordava nulla, e al cane, che è rimasto indenne.
Per tanto questa non è una macchina per vedere il futuro. In realtà è un test di ignoranza o di amnesia. Solo chi non capisce o può dimenticare ciò che osserva, potrà uscirne più o meno indenne. Le altre persone, quelle che capiscono ciò che vedono e sono capaci di ricordarlo moriranno, o cadranno in uno stato che gli farà perdere tutte le capacità di realizzare le azioni che desiderano.
Questo succederà con qualunque altra macchina che provi a fare la stessa cosa di questa. Non è un problema di come è stata costruita. Il problema è quello che fa. Qualsiasi macchina che tenti di fare la stessa cosa sarà, in realtà, un test di ignoranza o di amnesia.
Sono tremendamente felice per la mia scoperta. Devo correre a dirlo al rettore.
Hugo mi tira i pantaloni. Quanto tempo è passato?
– Papà, ho visto un cimena, lì – mi dice. Indica la sala di proiezione.
Resto di ghiaccio.
– C’era un bambino come Hugo che faceva delle cose.
No! No! Dio mio!
***
Ho lasciato l’università. Ho lasciato la città e ho portato Hugo con me.
Hugo non capisce ciò che ha visto in quella proiezione. Per questo è vivo e indenne, com’è successo al cane.
Ciò nonostante, può essere che tra qualche anno il ricordo gli torni in mente.
E che allora capisca.
E che proprio allora succeda l’unica cosa che può garantire che non possa ribellarsi al futuro che ha visto: che muoia o che cada in coma o catatonico per il resto della sua vita.
Devo evitare che ricordi quel giorno. Perciò l’ho allontanato da quel luogo e da tutto ciò che possa ricordarglielo.
Per lo stesso motivo, sarebbe stato opportuno allontanarlo anche da me, darlo a Elena. Ma voglio stargli vicino se un giorno inizia a ricordare, per dirgli proprio in quel momento qualcosa che distolga la sua attenzione da quel ricordo.
Siamo insieme in macchina. Oggi Hugo avrà il suo primo giorno di scuola.
– È curioso, papà – dice Hugo. – È come se avessi la sensazione che questo l’ho già vissuto.
Il mio battito accelera. Cerco di avere un tono di voce più tranquillo possibile.
– Questo si chiama déjà vu, credere che abbiamo già vissuto prima una situazione presente. A tutti è capitato qualche volta, è normale. Hai preso tutti i libri?
– Sì papà.
Un attimo dopo Hugo scende dalla macchina ed entra a scuola.
Poso la macchina accanto a un parco nelle vicinanze e mi siedo su una panchina. Mi tremano le gambe. Abbasso la testa mentre mi copro il viso con le mani.

(Nota introduttiva e traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

giovedì 26 settembre 2013

TRIANGOLI di Giuseppe C. Budetta

Explorer VII rilevò salienti aspetti del pianeta T. Le foto pervenute in redazione permisero di appurare ciò. Le nubi non essere rigonfie sfere, le montagne non coni, le costiere non cerchi. Arcipelaghi, isole e continenti avevano forma omologa, prive di fratture, abissi e pericolose forre. La natura sul pianeta T era tutta spigolosa e multicolore, secondo poche, basilari regole morfometriche. Su T, ci sarebbe uno stretto rapporto tra gli aspetti della natura e la geometria frattale, per cui cose animate ed inanimate sarebbero auto similari, in rapporti costanti, esprimibili con numeri reali.
Tranne la sfericità dell’astro su T, tutto sarebbe triangolare. A detta, ci sarebbero due oceani e tre continenti. Gli oceani sarebbero l’Atlantico ed il Pacifico e non il Pacifico, Atlantico e l’Indiano come qui. Il primo avrebbe per base maggiore la riviera africana e per apice l’istmo tra le due Americhe. Il Pacifico avrebbe per base l’Eurasia, tra la punta siberiana e quella indocinese con vertice tra le Americhe, dalla parte opposta all’Atlantico. I tre continenti sarebbero l’africano con base rivolta all’eurasica punta. L’Eurasia sarebbe divisa da una bisettrice in due parti: la occidentale detta Europa e l’orientale, per intero cinese – siberiana - indocinese. L’americano continente sarebbe costituito da due piastre continentali con la forma di triangoli ottusangoli, uniti ai vertici apicali lungo lo stretto di Panama.
Ci sarebbero isole come l’Australia, il Madagascar e, nell’emisfero settentrionale la Groenlandia; di triangolare forma, l’unica nella planetaria geografia. Penisole, golfi, insenature ed arcipelaghi sarebbero rigidamente triforcuti. Dei poli, il nord sarebbe isoscele, scaleno il sud.
Monti e colline sarebbero per lo più triangoli scaleni, differenti per altezza ed ampiezza di base. In inverno, i vertici più elevati diverrebbero bianchi per la neve. Ammassi nuvolosi si aggregherebbero in ottusangoli od acutangoli lattescenti, nell’azzurrità plananti. Idem per rocce, pietre, scogli e scaglie del mare mosso. Le pianure sarebbero triangoli a simmetria assiale con base sulla linea costiera e punta incuneata tra contrapposte catene montagnose. I laghi azzurri, vari per tonalità ed estensione, rientrerebbero nei parametri dell’unico insieme euclideo come la flora con alberi e fiori di morfologia standard a tre spigoli. Tra la flora, i pini avrebbero una rigida configurazione conica, ma con differente altezza tra albero ed albero. I vegetali non avrebbero tronco, o gambo, o stelo e starebbero fissi a terra, come incollati per la base. Alberi triangolari e verdi sarebbero diversi per obliquità di lato, altezza e tonalità. Ci sarebbero verdi boschi iridescenti, fatti di una variopinta flora a forma di equilateri, d’isosceli, di scaleni, di rettangoli, acutangoli ed ottusangoli. Nell’autunno inoltrato, l’area totale di molti alberi si scolorirebbe ingiallendo, o si riempirebbe di colori accesi. I variopinti fiori avrebbero petali triangolari, differenti in obliquità e foggia. Avrebbero ad isoscele il gambo sghembo con apice infisso a terra. I funghi sarebbero ottusangoli scaleni. Velenosi sarebbero gli equilateri.
La fauna di pesci, rettili, anfibi, uccelli e di mammiferi inutile dirlo, sarebbe triangolare. Gli uccelli in volo sembrerebbero aquiloni colorati. Alcuni pesci nuoterebbero con asse perpendicolare al fondo marino, altri in orizzontale come mantidi. I rettili sarebbero isosceli oblunghi e striscerebbero per una della duplice superficie. I cetacei nuoterebbero in orizzontale come sulla Terra. La vita sub microscopica avrebbe in toto tricuspidale aspetto: batteri, protozoi ciliati ed infusori, miceti e saccaromiceti, virus virulenti e cellule degli organismi superiori. Tutto su T darebbe 180° per somma dei tre angoli interni; l’area risponderebbe alla formula generale della base per altezza e prodotto diviso due.
In campo umano, ci sarebbero due razze: gli acutangoli e gli ottusangoli. In questi due grandi insiemi della euclidea geometria, si distinguerebbero popoli rettangolari, equilateri, isosceli e scaleni. Nel vertice A, avrebbero bocca per il transito d’alimenti ed aria. In B, ci sarebbe deflusso dell’urina e dello sperma se maschi o solo urina, se femmine. L’accoppiamento sessuale avverrebbe per contatto dei due vertici B, il maschile e l’omologo femminile. In prossimità dell’angolo B, ci sarebbe nelle femmine la zona uterina. Il vertice C sarebbe il culo e servirebbe all’uopo per cacare.
Il dialogo tra triangoli umani avverrebbe illuminando l’angolo buccale apicale. Luci di diversa durata e intensità di voxel comporrebbero parole e frasi. L’intervallo tra emissioni luminose corrisponderebbe a pause di silenzio. Su T, l’insieme dei triangoli equilateri deterrebbe l’effettivo potere in base alle leggi della similitudine geometrica. I matrimoni avverrebbero tra simili individui: equilateri con equilateri, isosceli con isosceli e scaleni con scaleni.
Ammesse le coppie di differente altezza, ma dello stesso insieme. Le più stabili sarebbero coppie di triangoli rettangoli con eguale ipotenusa, sottomessi alla relativa legge pitagorica. Le coppie a simmetria assiale, o centrale sarebbero anche compatibili.
I matrimoni riusciti sarebbero tra equilateri ad angoli congruenti, a due a due proporzionali o simili con lati proporzionali ed opposti ad angoli isometrici, oppure con angoli isometrici opposti a lati proporzionali. Essendoci la democrazia, ammessa sarebbe la copula tra triangoli dissimili: equilateri e scaleni, isosceli ed equilateri, scaleni e isosceli. Questi tipi di accoppiamento sarebbero sterili in base alle leggi geometriche che su T condizionerebbero la genetica. Su T, divorzi e separazioni sarebbero numerosi tra coppie isoscele e scalene; le più stabili quelle tra equilateri, pur se differenti in area, perimetro ed altezza.
In particolare, gli equilateri rettangolari avrebbero mente quadrata, adatta per gli studi economici, la statistica e la matematica. Gl’isosceli con spiccata altezza sarebbero atleti, ottimi nuotatori e acrobati. Gli scaleni sarebbero temuti perché artisti, imprevedibili e creativi.
I geni avrebbero bisettrici perpendicolari con rette secanti di lunghezza tra 5,2 e 5,3.
I parlamentari di T eletti secondo la legge di Carnot, nell’emanare leggi, osserverebbero le regole fissate nei teoremi del coseno, della bisettrice semplice e della bisettrice all’angolo esterno a parallele rette. I popoli di T adorerebbero un Dio uno e trino, simboleggiato nella perfezione della equilatera triangolarità: al vertice ci sarebbe il Padre, alla base di destra il Figlio ed a sinistra dell’euclideo spazio lo Spirito Santo. Amen.
Il quoziente intellettivo QI dei triangoli umanoidi sarebbe collegato alla morfometria e si otterrebbe moltiplicando l’altezza per la distanza della base dal baricentro diviso tre, numero perfetto. Si otterrebbe un range oscillante tra 8 e 9. Negli animali domestici, sarebbe possibile ricavare il QI con la stessa formula. Le scimmie avrebbero un Q.I. tra 5 e 6. Il triangolo elefante avrebbe Q.I. tra 7 e 8, l’equino tra 4 e 5. Nessuna specie per fortuna eguaglierebbe l’umano QI.
Gli esseri animati si sposterebbero lungo la loro base, strisciando su strette docciature. Queste strisce su cui deambulare sarebbero state tracciate per terra, poi con il progresso sarebbero stati allestiti sottili binari tra loro intrecciati e intersecati. Un umano di T avrebbe detto: è stato come mettere le scarpe. Per evitare che i continenti si riempissero di binari, si sarebbe stabilito che il percosso debba avvenire solo in determinate aree. Le rimanenti sarebbero state riservate a zona verde. Uomini, cani, gatti, cavalli e selvaggina si sposterebbero, scivolando con la rispettiva base lineare sui binari. Se uno esce fuori, cade di lato, o s’incrina su un angolo, muore frantumandosi. In verità, alcuni auspicavano da tempo lo sfondamento del rigido spazio euclideo. Pur sperandoci tanto, nessuno era riuscito ad infrangerlo.
Da un punto di vista evolutivo, i triangoli deriverebbero da rettangoli, o quadrati per suddivisione lungo le diagonali. Secondo altre teorie matematiche, i triangoli si sarebbero evoluti dalla quadruplice frantumazione di rombi irregolari. Altri sarebbero del parere che derivino, o da divisioni multiple di poligoni regolari o viceversa, per riduzione graduale della lateralità degli stessi poligoni regolari. La tesi più accreditata – confortata dal rinvenimento di fossili del Triassico - li vorrebbe derivati da quadrilateri trapezoidi con angoli adiacenti supplementari per incremento progressivo dell’altezza e riduzione della minore base. In epoche ancestrali, la geometria prevalente su T sarebbe stata dunque la trapezoidale, accresciutasi gradualmente fino a trasformarsi nella definitiva triangolare. Ciò sarebbe avvenuto anche per flora, fauna, microbi e virus. Tant’é.
Terrestri economisti affermano che questo tipo di evoluzione sia erronea ed alla fin fine dannosa. Sostengono che non c’è bisogno d’incapsulare gli umani nei rigidi schemi della geometria euclidea. Basta conferire il potere economico, politico e sociale a pochi predestinati. Basta rendere l’economia ferrea e retta da leggi indeformabili come veri binari. In questo modo, gl’individui vivono secondo schemi pre-determinati, illudendosi di essere liberi, unici e felici, o quasi.


martedì 24 settembre 2013

IL FORESTIERO di Fabio Calabrese

Griffin era arrivato alla sommità del passo. Se nelle prime ore del mattino l'aria era stata frizzante o decisamente fredda nonostante la stagione, ora che il sole era alto nel cielo sgombro di nubi, faceva caldo.
Si guardò in giro: era una fortuna essere completamente solo, non c'era nessuno tranne la lontana e sottile sagoma scura di un condor che stava approfittando di qualche corrente ascensionale per librarsi apparentemente senza sforzo oltre le vette, e che si stagliava contro il cielo color cobalto.
Nonostante ciò la cosa gli richiese un piccolo sforzo soprattutto psicologico, era rompere definitivamente con una parte della sua vita, uscire dal guscio, dalla crisalide.
Si tolse i guanti, poi le bende che gli avvolgevano la faccia. Il cappello e gli occhiali scuri, quelli li posò sullo zaino prima di rimetterseli, quelli proteggevano dal sole, non solo dagli sguardi curiosi. Prese dallo zaino la crema solare e se la spalmò accuratamente sulle mani, sulla faccia, sul collo, sulle parti scoperte. Sotto il sole andino gli eritemi venivano anche se non si vedevano, ed erano quanto meno pruriti fastidiosi, lo sapeva già.
Si guardò le mani: con il dorso spalmato di crema erano appena visibili come fantasmi traslucidi, ma ormai la cosa non aveva più importanza.
Si rimise lo zaino in spalla, il cappello, gli occhiali, poi appallottolò le bende e le buttò oltre il ciglio del burrone.
Riprese la strada che ora scendeva e diventava meno faticosa, anche se bisognava stare attenti, perché si restringeva mano mano che s'incuneava nella stretta valle. Il sentiero era ripido, e bisognava prestare molta attenzione a dove si mettevano i piedi, a rischio di fare un volo fino giù al fondovalle, un volo che, a differenza di quelli dei condor, sarebbe stato certamente l'ultimo.
Continuò a scendere: a mezza costa lo strapiombo si faceva meno ripido e il sentiero un po' più largo e agevole. Vide che nella parte bassa della valle dove il declivio si addolciva erano stati praticati dei terrazzamenti per sfruttare con cura la poca terra disponibile. Campi e orti – gli parve – coltivati a mais e patate, più qualche verdura locale che non riuscì a identificare.
Griffin passò vicino a un appezzamento dove c'era un campesino curvo sulle zolle. L'uomo alzò la testa verso di lui.
Doveva essere stato il rumore dei suoi passi a farlo voltare, forse magari l'odore del nuovo venuto perché i suoi occhi – Griffin lo poteva vedere molto bene – spiccavano come due lunette di un bianco madreperlaceo sulla faccia abbronzata, interamente composti di cornea, senza né cristallino né pupilla.
“Ola gringo”, disse l'uomo, “Buenos dias”.
“Gringo?” replicò il forestiero. “No soy yanqui, soy ingles, me llamo Griffin”.
Bueno”, rispose il nativo. “Y su nombre? Io soy Pedro”.
“Griffin”, disse ancora l'interessato. “Griffin y nada mas”.
Griffin rimase un po', mentre scambiava due parole con il contadino, a osservare come affascinato il gioco delle mani e della vanga dell'uomo sul suolo del campo: per compensare la sua menomazione, doveva conoscere a memoria la posizione di ogni zolla, di ogni sasso, di ogni filo d'erba. Cominciava a essere persuaso che tutto quel che aveva sentito dire su quel luogo era vero.
Il contadino gli confermò che il villaggio era giù nel fondovalle, ancora una mezz'ora di cammino per una persona in buone condizioni fisiche.
Dopo averlo salutato, Griffin si voltò ancora una volta a fissarlo. Era la prima persona dopo tanto tempo che lo aveva guardato – beh, non guardato, considerato – come un essere umano e non come un fenomeno da baraccone o un'anomalia di cui avere timore.
Il paese, riuscì a vederlo quando ci fu quasi davanti: sembrava come mimetizzato, le case erano fatte con sassi, argilla e canniccio come se fossero rattoppate con materiali che formavano gli accostamenti cromatici più strani. Era ovvio che fosse così, si disse, per quella gente la sensibilità cromatica non aveva importanza, nemmeno riusciva a immaginare che cosa fosse.
Molte teste si girarono verso di lui: uomini e donne di diverse età, anziani, bambini, tutti avevano gli occhi biancastri come quelli di Pedro, eppure parevano perfettamente consapevoli della sua presenza, avvertivano i suoi passi, forse il suo respiro.
Non sapendo come rompere il ghiaccio, si girò verso la soglia di un'abitazione e domandò:
Agua, por favor”.
Dalla penombra della soglia sbucarono due mani che gli porsero un orcio di terracotta colmo di acqua. Griffin bevve, e man mano che beveva si rendeva conto dell'arsura che la sua lunga escursione gli aveva messo in corpo, ma la sete fisica ne celava un'altra, più profonda, più antica, di voci, di contatti, di calore umano.
Gracias”, quasi balbettò. “Muchas gracias”.Improvvisamente se li trovò tutti attorno, una folla vociante di uomini, donne, bambini, soprattutto tanti bambini che schiamazzavano. Per un istante, si sentì gelare il sangue, era come il rinnovarsi di un incubo che credeva di essersi lasciato alle spalle. Poi capì, non erano ostili, solo curiosi, la normale curiosità della gente di un villaggio sperduto e quasi privo di contatti con il mondo esterno, al raro arrivo di un forestiero.
E parlò, nel suo spagnolo smozzicato raccontò quella parte della sua vita di cui poteva dire.
Hombre, Griffin ingles, tu es loco”, commentò un paesano, “Se vuoi venire a vivere in questo posto dimenticato da Dio”.
“Zitto Luis!”
Una ragazza, una giovane donna si era fatta largo in mezzo alla folla. Si avvicinò a Griffin e gli passò una mano sul viso.
Lui la guardò con attenzione: lei era giovane, molto bella, di una bellezza statuaria se non fosse stato per gli occhi bianchi privi di sguardo, ma aveva qualcosa, come la saggezza di una divinità millenaria, una di quelle deità i cui lineamenti scolpiti non sono scalfiti dal trascorrere dei secoli. Gli sembrò che quelle dita sondassero sotto la sua pelle, dentro di lui, fino a raggiungere le profondità dell'anima con un senso misterioso sconosciuto ai vedenti.
“Tu sei un hombre bueno”, sentenziò la donna che più tardi Griffin seppe chiamarsi Isobel. “Ma hai molto sofferto, la vita non è stata tenera con te”.
Dopo quelle della donna, altre mani sfiorarono il suo volto. Griffin lasciò fare: pareva un modo normale di comunicare e riconoscersi fra persone cieche; era quasi ironico pensare che anche se avessero avuto una vista perfetta, nessuno di loro avrebbe potuto guardarlo in faccia.
Passato il primo momento di curiosità, la folla cominciò a diradarsi. Uno dopo l'altro i paesani tornavano alle loro incombenze, e Griffin non poté fare a meno di sorridere: trovarsi in mezzo a una folla e non doversi nascondere, e non rischiare un linciaggio, era una novità per lui.
Dopo un po' di tempo, era rimasto solo con Isobel.
“Hai un posto dove riposarti e da mangiare?”, chiese la donna.
“Ho una tenda che potrei montare in qualsiasi spazio libero”, rispose Griffin. “E ho del cibo in scatola”.
“Così potrai dire malissimo della nostra ospitalità”; disse lei, “Non mi sembra proprio il caso, vieni a casa mia”.
“Ma la tua famiglia...”
“Non ho famiglia, vivo da sola”.
Fu lei a prenderlo sottobraccio e a fargli strada. Una volta di più, Griffin notò con stupore quanto poco la loro menomazione sembrasse essere di impedimento a quella gente. Lei si muoveva con passo sicuro come se ci vedesse, o come se conoscesse a memoria ogni ciottolo della strada.
La casa della donna era forse più dimessa delle altre, ma Griffin non ci fece caso: mangiarono dividendo le provviste dello zaino di Griffin e il pasto che Isobel aveva già preparato per sé: tortillas e patate bollite. Isobel commentava entusiasta ogni boccone di carne in scatola: per lei, era una prelibatezza esotica.
Poi lei gli fece posto sul suo giaciglio per la siesta: un saccone riempito di foglie secche di mais, ma Griffin non si accorse certo della scomodità. Quanto tempo era che non stringeva una donna al suo fianco?
Nel pomeriggio passò un ragazzo ad annunciare che gli anziani del villaggio volevano parlare con “Griffin, el ingles”.
* * *
La stanza era in penombra, e Griffin che stentava a orientarsi, incespicò e dovette essere aiutato a non cadere: era paradossale che dei ciechi dovessero prestare un simile aiuto a una personavedente, ma per loro evidentemente le condizioni di illuminazione non avevano importanza.
Erano una dozzina di persone, uomini e donne, dai volti e dalle mani rugose, vestivano gli stessi abiti che portavano i segni di infinite rattoppature degli altri campesinos, ma a Griffin parvero quasi degli antichi senatori romani; le orbite degli occhi senza iridi accentuavano la somiglianza con antiche statue e busti.
“Abbiamo saputo”, disse un uomo, “che intendi stabilirti qui da noi. È vero? È questa la tua intenzione?”
“Si,” rispose Griffin, “se siete disposti ad accettarmi”.
“Posso chiederti il perché?”, aggiunse l'uomo. “Questo è un posto dimenticato da Dio dove gli stranieri arrivano piuttosto mai che di rado. Hai forse problemi con la legge?”
“Ho un brutto passato alle spalle”, replicò Griffin. “Io non ho fatto del male, ma molto male è stato fatto a me”.
Il vecchio sospirò, e gli altri anziani si strinsero attorno a lui, come se in mancanza della vista si svolgesse fra loro una conversazione telepatica, ma sicuramente avevano già discusso il suo caso prima di convocarlo.
“Il tuo passato ti appartiene”, disse l'uomo. “È solo tuo. Noi ti giudicheremo da come ti comporterai d'ora in poi. Sappi però che siamo gente povera, non abbiamo nulla da offrirti tranne quello che ti guadagnerai col tuo lavoro”.
“Mi sta bene”, rispose Griffin.
“Allora bien venido. Abbiamo saputo che c'è un interesse fra te e Isobel. Questo va bene per noi: è rimasta sola da quando due anni fa è morto suo padre. Lei ha bisogno di un uomo, e la sua casa e il suo campo hanno bisogno di un uomo”.
* * *
Il tempo passava e la vita di Griffin aveva finito per assestarsi su di una nuova routine. Quando gli anziani del villaggio avevano “benedetto” in maniera molto informale la sua unione con Isobel, erano stati molto chiari: se voleva far parte della comunità, “el ingles” doveva lavorare sodo come tutti loro. Griffin aveva imparato a sue spese quanto fosse faticoso il lavoro dei campi. I nativi coltivavano mais, patate e manioca che costituivano la base della loro dieta. Allevavano anche qualche animale: pecore e alcuni lama, che usavano soprattutto per il latte e la lana. La loro principale fonte di carne a cui attingevano di rado, era rappresentata dai porcellini d'india, le cavie che tenevano in stie come si fa con il pollame. C'era anche la casa di Isobel che, quando vi si era stabilito, era semi-diroccata: aveva un bisogno disperato della mano, del lavoro, della forza fisica di un uomo.
In un angolo della parte più diroccata della casa, là dove c’era un muro che era crollato, sepolto sotto una montagnola di resti di vecchio mobilio e calcinacci, Griffin trovò un pezzo di specchio. Difficile capire come fosse arrivato fin là, di certo, un oggetto del genere non era di alcuna utilità né a Isobel né agli altri abitanti del villaggio. La polvere di calcina che gli si era depositata addosso rendeva visibile la sua fisionomia. Dopo anni, rivide la sua faccia: era un po’ invecchiato, le rughe attorno agli occhi si erano approfondite, ma il suo aspetto non gli dispiacque, era più sereno, più rilassato di quanto fosse stato da moltissimo tempo.
Il tempo passava, e Griffin, l'inglese, era ormai diventato parte della comunità. A sera, i paesani al ritorno dal lavoro dei campi si riunivano nella piazza e conversavano. Da poco dopo il suo arrivo, Griffin era diventato senza volerlo il centro dell'attenzione. Tutti quanti volevano sapere del mondo esterno, e lui raccontava delle sue esperienze, delle cose che sapeva del mondo di fuori, e presto cominciò ad aggiungerci anche cose scritte nei libri che aveva letto e storie di fantasia; i libri che quella gente non sapeva nemmeno cosa fossero. C'erano uomini robusti, donne attraenti ed anziani dal volto rugoso che lo ascoltavano estasiati come bambini.
D'inverno accendevano un fuoco in mezzo alla piazza, e lui raccontava stando accanto al fuoco. Gli spettatori dei suoi racconti le fiamme guizzanti non le vedevano, ma erano attratti dal calore, e sapevano posizionarsi alla distanza giusta: nonostante i timori di Griffin, non accadde mai che qualcuno si scottasse.
Il tempo passava e il ventre di Isobel assumeva una rotondità sempre più pronunciata. Era passato poco meno di un anno dall'arrivo di Griffin nel paese dei ciechi, quando arrivò il momento del parto. L'anziana donna, la levatrice che fu mandata a chiamare sembrava sapersi orizzontare benissimo. Soprattutto in un caso come quello, l'acuita sensibilità tattile pareva compensare egregiamente la cecità. Non chiese nemmeno a Griffin di lasciare la stanza che costituiva l'unico ambiente della casa, non aveva nemmeno l'idea che lui potesse vedere, o che esisteva una cosa come la visione.
Griffin aveva atteso il momento in preda all'ansia e all'eccitazione. La sofferenza di Isobel lo mise a disagio, ma soprattutto voleva vedere gli occhi del bambino.
Il piccolo era nato con la testolina già coperta da una sottile peluria nera e ricciuta. Griffin aspettò con impazienza che aprisse gli occhi: aveva le iridi di un nero intenso. Ci vedeva? Quando si era girato verso Isobel per attaccarsi al suo seno, Griffin avrebbe giurato che l'avesse guardata, ma voleva esserne sicuro. Gli passò la mano davanti agli occhi senza ottenere alcuna reazione. Ah già, se n'era quasi dimenticato, non avrebbe potuto vederla in ogni caso! Raccolse un bastoncino di legno e lo passò davanti al naso del bambino. Non c'era dubbio, il piccolo lo seguiva con lo sguardo. Suo figlio ci vedeva!
Crescendo, il bambino si sarebbe accorto che poteva vedere tutti tranne suo padre, ma per lui sarebbe stata una cosa normale. Si soffermò ad assaporare quella parola: normale, normale, normale!
Griffin prese in braccio suo figlio. In quel momento, l'uomo invisibile era un uomo felice.

lunedì 23 settembre 2013

ILLUSTRAZIONE DI FRANCO BRAMBILLA

                                              



(Con immenso piacere pubblichiamo una stupenda illustrazione di Franco Brambilla, al quale si devono molte copertine di romanzi di fantascienza, specialmente per la nota collana editoriale URANIA. Ringraziamo Franco di aver aderito al nostro invito a inviarci qualcuna delle sue opere. - Pegasus Sf)



Vi invio la copertina dell'Urania di settembre "macchine infernali" di K.W. Jeter. Una delle "rare" copertine steampunk che mi è capitato di realizzare da quando ho iniziato a collaborare con Urania Mondadori nel 2000.

                                        Franco Brambilla

domenica 22 settembre 2013

EPPUR CI AMA di Sauro Nieddu



                           


Ci sono persone che al risveglio ricordano alla perfezione quello che hanno sognato, in ogni dettaglio; io non faccio parte di questa categoria. Di rado, una volta o due l’anno, capita che sopravviva al risveglio qualche frammento sfuocato della mia attività onirica. In tutta la mia carriera di dormitore, i sogni che ricordo con una certa precisione si possono contare sulle dita di una mano.
È per questo motivo che quel giovedì, svegliandomi con la trama di un sogno chiara nella memoria, rimasi alquanto stupito; il ricordo era così vivido che inizialmente mi trovai a credere che appartenesse a un fatto reale. Capii subito che così non poteva essere; nella vita reale non mi era mai capitato di trovarmi sospeso in quella sorta di vuoto nebbioso, né che mi parlasse Madre Terra in persona.
Passato il primo momento di stupore, smisi di pensarci e mi preparai in tutta fretta per andare al lavoro. Fu una giornata pesante e la sera ero così stanco che dovetti deludere Sara; proprio non me la sentivo di uscire. Contrariamente alla maggior parte dei nostri amici, il matrimonio non ci aveva ancora indotto ad abbandonare i ritmi da single. Del resto la nostra unione era stata ufficializzata appena da qualche mese...
Fatto sta che appena rientrato a casa, dopo una cena leggera e due aspirine, filai a letto senza neanche dare un’occhiata ai notiziari, come invece facevo d'abitudine. Sara mi sussurrò qualcosa all'orecchio, mi diede un bacio sulla punta del naso e se ne uscì da sola.
Mi svegliai steso sul parquet e con un gomito dolente; dovetti estendere e flettere il braccio una decina di volte per essere certo che non ci fossero danni. Guardai verso il lato di Sara, certo di averla svegliata col fracasso della caduta, ma nonostante fossero appena le sei (era raro che Sara si alzasse prima delle nove) trovai la sua metà del letto deserta. Solo allora riuscii a capire la causa del capitombolo; Dannazione pensai una vita senza sogni e adesso che ne ricordo uno, finisco per ripeterlo ogni notte.
Mancava appena un quarto d'ora alla sveglia e anche se fossi tornato a letto avevo forti dubbi che sarei riuscito a godermi quella manciata di minuti. Decisi di scendere subito in cucina; se non altro mi sarei concesso un po' di calma a colazione.
Sorpresa delle sorprese, Sara, non solo si era alzata presto, ma era anche intenta a prepararmi la colazione (di solito era piuttosto lunga a carburare, al mattino). Quando entrai in cucina, lei armeggiava attorno ai fornelli dandomi le spalle. Mi avvicinai in silenzio e la immobilizzai in un abbraccio coprendole la nuca e il collo di minuscoli baci. Lei si divincolò quel tanto da riuscire a voltarsi, e nonostante sulle sue labbra aleggiasse un pallido sorriso, gli occhi erano cerchiati, arrossati; ha pianto! Pensai sbalordito (Sara era una tosta; era più nelle sue corde demolire tutto quello che aveva attorno, che mettersi a frignare).
«Che c'è tesoro, non stai bene?»
Lei mi guardò con un'aria smarrita.
«Sto bene...» disse rivolgendomi ancora quel sorriso incerto «... ho solo fatto un brutto sogno.»
La baciai ancora, stavolta sulle labbra, con tutta la tenerezza che avevo in cuore, poi lasciai che continuasse quel che stava facendo e apparecchiai il tavolo con le nostre tovagliette personalizzate.
Quando finalmente ci mettemmo a sedere uno di fronte all'altra, visto che lei non accennava a parlare fui io a prendere l'iniziativa.
«Ti va di raccontarmi il tuo incubo?»
Lei aggrottò la fronte in un’espressione sorpresa.
«Incubo? In realtà non si è trattato di un incubo, neanche di un brutto sogno...»
«Allora perché piangevi?»
«Era un sogno triste; ho sognato di essere sospesa in una specie di nebbia luminescente. Pian piano, in mezzo alla foschia ha iniziato a formarsi l'immagine della Terra, come nelle fotografie scattate dallo spazio...»
Io trasalii e per poco non mi andò di traverso il caffè; sembrava lo stesso sogno che avevo fatto io per due notti di fila.
«Che c'è?»
«Niente, scusa; il caffè era troppo caldo. Continua, sembra interessante.»
«La Terra si è messa a parlarmi, la sua voce era carica di sconforto. Diceva di essere tremendamente dispiaciuta, diceva che non si era accorta della nostra presenza sulla superficie, di quello che eravamo diventati. Poi ha detto che lei ci amava tutti, che non avrebbe mai voluto farci del male. La sua voce allora ha iniziato a trasudare dolore. Ha detto; se avessi saputo, non avrei mai chiesto all'altro di venire. Spero che mi perdonerete perché siete i miei figli e so che anche voi mi amate, ma ora non posso più far nulla, l'altro viene a me e non posso più fermarlo. Mi dispiace! In quel momento mi sono svegliata.»
«Beh? Non sembra niente di così brutto...»
«È vero, ma quando ho aperto gli occhi, mi sentivo ancora piena dell’angoscia della Terra. È questo che mi ha fatto piangere. Era... era come se fosse tutto vero.»
Non le dissi di aver sognato la stessa cosa; in quel momento mi sembrava già abbastanza depressa. Eppure per tutta la giornata restai a chiedermi com’era possibile che i nostri sogni fossero tanto simili. Anche se simili non è il termine adatto; i sogni erano assolutamente identici, e la Terra aveva detto a entrambi le stesse cose, parola per parola.
Pensai che dipendesse da una sorta di telepatia; a volte capita tra persone che sono particolarmente vicine tra loro; un po' come accade alle ragazze che vivono a stretto contatto e che finiscono per sincronizzare i loro cicli mestruali...
Fu solo la sera, quando sedemmo sul divano a guardare assieme il telegiornale, che capii quanto mi ero sbagliato; a quanto pareva, non eravamo solo noi due, ma almeno un altro paio di miliardi di persone, a condividere lo stesso sogno.
A quel punto la scienza si era fatta un'idea di cosa cercare, e buona parte dei suoi adepti si gettò a testa bassa nella ricerca. Dopo qualche settimana furono decodificate alcune lievi anomalie nel campo magnetico planetario, e divenne certo che non si trattava di un caso di isteria collettiva; la terra stava realmente comunicando col genere umano.
Non ci volle molto perché qualcun altro notasse che lo schema delle anomalie elettromagnetiche era anche un ottimo modello per analizzare certe piccole fluttuazioni del campo gravitazionale, fino allora rimaste inspiegate; la terra non solo era in grado di comunicare, ma lo faceva su più livelli.
 L'unica cosa non del tutto chiara, era il significato del messaggio; cos'era "l'altro" di cui parlava la Terra? E perché era tanto addolorata per la nostra sorte? L'altro, molto probabilmente, doveva essere un corpo celeste, ma in che modo avrebbe potuto danneggiarci? Qualcuno ipotizzava che si riferisse al sole, una cui attività particolarmente intensa avrebbe causato gravi danni all'umanità, qualcun altro pensava si trattasse di un asteroide pronto a impattare contro il pianeta. Altri ancora ritenevano che una cometa carica di sostanze tossiche sarebbe passata abbastanza vicina da avvelenare l'atmosfera. Qualche scettico si ostinava ancora a credere che fosse tutta una messa in scena, nonostante tutti avessero ricevuto nel sonno, almeno una volta, la visita della Terra.
A un mese dall'inizio delle comunicazioni, un astronomo dilettante fu il primo ad avvistare il pianeta che aveva appena fatto il suo ingresso nel sistema solare. Il corpo estraneo era poco più piccolo di Marte e viaggiava verso la terra a una velocità ritenuta impossibile fino a quel momento; l’attesa dell'impatto fu calcolata in poco più di cinque giorni.
Solo allora si può dire che il messaggio fu compreso appieno e senza possibilità di interpretazioni contrastanti. A dire il vero gli scienziati, almeno per i primi tre giorni dopo l'avvistamento, continuarono a sostenere che il pianeta non era necessariamente destinato a investirci; la sua traiettoria concedeva ancora un certo margine di probabilità. Però, checché ne dicessero loro, anche un bambino di quattro anni sa fare due più due...
Eravamo nel cortile, io e Sara, sdraiati sui nostri materassini da spiaggia a osservare il cielo; il pianeta vagabondo era già più luminoso di Venere, e nonostante non ne avesse ancora oltrepassata l'orbita, anche di Marte; era bianco come la luna e rifletteva la luce ch'era una meraviglia. Supposi che l'impatto sarebbe avvenuto nelle prime ore del mattino, anche se non potevo averne la certezza perché tutte le fonti di notizie si erano prosciugate all'improvviso, e i calcoli astronomici non sono mai stati il mio forte.
Sara mi prese la mano, e sussurrò con un tono sognante:
«Sai Robby... nonostante tutto non riesco a rattristarmi. Ho sempre pensato che la Terra dovesse odiarci per tutto quello che le abbiamo fatto; tutto il cemento, l'inquinamento, le bombe atomiche... e ora, anche se stiamo per morire, il pensiero che ci ami tanto, mi scalda il cuore.»
Io strinsi la sua mano con rinnovato vigore, serrai la mascella, e continuai a fissare quel puntino luminoso nel cielo che cresceva a vista d’occhio.

venerdì 20 settembre 2013

MARGIAH di Paolo Secondini


Da circa mezzora Vic Toraim vagava per le strade di Nork, sul pianeta Gejal IV, non riuscendo a orientarsi per via della nebbia e del buio della notte. Per di più la sua conoscenza della città era molto approssimativa, essendovi stato in precedenza pochissime volte.
Lo tormentava la voglia di bere e mangiare a sazietà, come ormai non faceva da tempo. Gli pareva di avere nello stomaco una voragine che bisognava riempire al più presto.
A un tratto voci e rumori gli giunsero distintamente agli orecchi.
Finalmente! pensò, dopo un breve sospiro. Proprio ciò che cercavo!
Affrettò l’andatura e giunse davanti a una taverna di infimo ordine, come attestavano i muri bisunti, l’insegna scrostata, i vetri incrinati delle finestre e i molti rifiuti ammucchiati accanto alla porta di ingresso. Da essi emanava un odore pungente, insopportabile.
Vic Toraim sembrò non badarci. Era un tipo poco esigente e abituato ad ambienti anche peggiori di quello.
Di tanto in tanto, stanco di vagabondare per la galassia a bordo della sua astronave Randar X-125, atterrava su qualche pianeta o satellite naturale. Di solito non si fermava per molto: glielo impediva la sua attività di mercenario, che svolgeva a favore di chiunque, umano o alieno, fosse disposto a pagarlo profumatamente.
La permanenza a Nork – nel cui porto spaziale era giunto da poco – sarebbe durata il tempo di rifornirsi di viveri e carburante, di riposare per qualche ora o, al massimo, per un giorno intero. Poi sarebbe di nuovo partito per mondi lontani, a lui noti o completamente sconosciuti.
Toraim si avvicinò alla porta della taverna e, proprio sul punto di aprirla, ebbe un istante di esitazione…

Rivide, nella sua mente, la Locanda di Kaab, gremita di baldi e valorosi miliziani.
Seduti ai tavoli, bevevano birra o liquori assieme a graziose ragazze dai vestiti sgargianti, dalle forme e dai modi procaci; parlavano di guerre, di missioni rischiose, dei duri addestramenti militari, dell'onore di indossare la gloriosa divisa della Forza Uxiale.
A un tratto si fece silenzio, si abbassarono le luci e sul palcoscenico apparve lei, la splendida Margiah, con un abito scuro che luccicava di lustrini, dai lunghi capelli ondulati e rossi come il cielo infuocato del tramonto, dagli occhi grandi, sereni, di un azzurro intenso.
Vagò con lo sguardo sui volti di quanti, innamorati di lei, l'ascoltavano attenti, rapiti, mentre intonava, con voce suadente, Il Fiore di Lilit.
Margiah!

All’improvviso la scena svanì dalla mente di Toraim, lasciando però nel suo animo un senso profondo di nostalgia.
Il mercenario emise un sospiro, poi, con forza, serrò le mascelle.
Dov’erano adesso quei valorosi miliziani che, come lui, avevano spesso rischiato la vita in battaglia o azioni pericolose?... Dov’era la splendida Margiah, in quale pianeta, piccolo o grande, della galassia di Vega?... Su quali volti ora si posava il suo sguardo appassionato, e quali cuori il suo canto melodioso accarezzava dolcemente?
Toraim scosse la testa, come a scacciarvi i fantasmi della propria giovinezza. Poi spinse con decisione la porta della taverna e indugiò un momento sull’uscio, le mani appoggiate ai battenti di legno.
Il vociare confuso all’interno si spense di colpo. Quasi tutti gli astanti, in piedi o seduti, volsero gli occhi verso di lui. Dopo averlo squadrato da capo a piedi, giudicato persona della risma alla quale essi stessi appartenevano, tornarono a bere, a parlare, a molestare le cameriere, che mostravano di sopportare ogni cosa con infinita pazienza.
La forte esalazione di vino e birra delle peggiori qualità procurò a Toraim un lieve capogiro, per quanto egli fosse un bevitore per nulla disprezzabile.
La taverna era piena del fumo di una friggitrice, dalla quale emanava un odore pungente di carne bruciata. Sembrava che la nebbia, che invadeva le strade di Nork, fosse penetrata nel locale.
Facendosi largo tra i molti avventori e le cameriere che, senza sosta, andavano a destra e a sinistra, avanti e indietro, portando vassoi con piatti, boccali e brocche di vetro o terracotta, il mercenario raggiunse un tavolo libero, in un angolo poco illuminato.
Desiderava starsene in pace e non attirare, possibilmente, l’attenzione di nessuno.

* * *

La taverna era un locale piuttosto lungo, dai muri sporchi come all’esterno, dal soffitto basso e fatto con travi di legno annerito, da cui pendevano lampade a olio irradianti una tremula luce giallastra.
Volgendo solo la testa, il mercenario vagò con lo sguardo all’intorno. Frasi spezzate, pronunciate con voce alterata dal vino o dalla birra, gli giunsero chiare agli orecchi.
«Quella baldracca di Tyra fa la smorfiosa con tutti, ora che Sadlos…»
«Chi, quel farabutto dalla pelle olivastra?»
«Già! Proprio lui!»
«Ho sentito che è stato rinchiuso nel penitenziario di Rakmon.»
«Riuscirà a fuggire anche da lì, vedrete. È soltanto questione di tempo.»
«Io spero che vi marcisca, quella canaglia! Anni fa, durante una rissa, mi colpì alla guancia con il pugnale. Guardate: mi fece un ricamino niente male!»
«Vorrei proprio vederlo adesso, costretto a lavorare a furia di frustate.»
«Senza vino né birra…»
«Né quella baldracca di Tyra… Eccola là che se la ride, piena di alcol come una botte.»
«Lasciala fare, Polk, è vecchia e sdentata. Che si goda la vita, finché è in tempo!»
Bastò a Toraim girare la testa in un’altra direzione, per sentire parole e frasi diverse.
«Il colonnello Demistrel?... Accidenti! Un tipo in gamba!»
«Un po’ vecchio, non credi?»
«Vecchio senz’altro ma in gamba!»
«Ci puoi scommettere, Dawal. Io lo conosco.»
«Tu conosci Demistrel?»
«Ho combattuto ai suoi ordini nella battaglia di Rasmor. Ero fuciliere.»
«Si starebbe tranquilli su questo pianeta se quei maledetti hilderiani…»
«Tu pensi che quei rinnegati possano rappresentare una seria minaccia per il nostro mondo?»
«Lascia perdere quei maledetti, Klom. Bevi. Non pensare ad altro.»
«A tutto penserà Demistrel.»
«È in gamba, vi dico. Il miglior ufficiale che abbia conosciuto in vita mia.»

* * *

Una cameriera si avvicinò a Toraim e rimase un istante a osservarlo. Era giovane e molto graziosa, i capelli ramati e lunghi fino alle spalle, gli occhi azzurri, il seno racchiuso in un’attillata camicetta color malva.
«Che bevete?» domandò con un vago sorriso sulle labbra, probabilmente lo stesso che rivolgeva a chiunque per apparire cordiale.
«Che cosa mi consigliate?» rispose il mercenario, senza entusiasmo.
«Solo vino e birra serviamo qui dentro. Siete fortunato: non dovete scervellarvi troppo per scegliere ciò che preferite.» Sorrise di nuovo, forse per farsi perdonare la lieve impertinenza. «Volete che vi porti della birra?» aggiunse, subito dopo. «Viene direttamente da Alghéar. È speciale, sapete? Ed è anche molto robusta. Parecchi, al primo boccale, finiscono stesi sul pavimento… Oh, non dovete vergognarvi se capiterà anche a voi!»
Questa volta, più che sorridere, ella rise apertamente, mostrando una fila di denti smaglianti e perfetti.
«Tanto per cominciare portatemi pure un boccale di birra, ma che sia veramente robusta come dite,» fece Toraim strizzando l’occhio.
«Lo sentirete voi stesso, non dubitate,» esclamò la ragazza sorridendo ancora.
Ancheggiando, si diresse in fondo al locale.
Il mercenario volse di nuovo lo sguardo nella taverna e ascoltò, ma senza interesse, altre parole, altre frasi, pronunciate da quanti gli sedevano intorno.
Non chiedeva di meglio che riposare, ristorarsi, senza pensare a niente, specialmente ai tanti problemi che lo tormentavano da un pezzo, come anche all’urgenza di procurarsi continuamente denaro per vivere.
Dopo alcuni momenti tornò la cameriera. Depose sul tavolo un boccale e un bicchiere e fece per andarsene.
«Versate!» lui la fermò con voce decisa.
La ragazza rimase a guardarlo, poi, lentamente, scosse la testa.
«Non è compito mio,» esclamò. «Le mani le avete. Potete versarla voi stesso.»
Toraim non rispose. Fissò la cameriera con occhi di ghiaccio, dai quali emanava una forza magnetica irresistibile. Non gli fu necessario pronunciare altre parole per farle cambiare atteggiamento.
«Siete proprio un bel tipo, sapete?» lei disse prendendo il boccale dal tavolo. Versò la birra nel bicchiere. Appena lo ebbe riempito, glielo porse. «Da dove venite? Non mi pare di avervi mai visto prima di adesso. Ricorderei una faccia anche a distanza di anni. Ho una buona memoria.»
«Non vorreste bere con me?» domandò il mercenario eludendo le sue osservazioni.
«Bere con voi?» si stupì la ragazza. Per un istante volse la testa in fondo al locale, quindi tornò a osservare lo straniero. Gli sorrise. «Berrei volentieri con voi, dal momento che siete simpatico, ma…» Si interruppe e, con un cenno del capo: «Vedete laggiù quel brutto grassone pelato? Quello in grembiule che frigge la carne dietro il bancone?... Si chiama Erog. È il proprietario di questa taverna. Dovreste chiedere a lui se posso sedermi al vostro tavolo e bere con voi. Senza il suo permesso…»
«Vi prego!» la interruppe Toraim, risolutamente. «Bevete un goccio di birra.» E spinse il bicchiere sul tavolo verso di lei. «Per conto mio mi servirò dal boccale.»
La ragazza lo guardò di nuovo con una espressione sbalordita.
«Siete sordo per caso?» disse alla fine. «Di certo non conoscete quel porco di Erog! È capace di uccidermi!…Ucciderà anche voi. Statene certo.»
«Per un bicchiere di birra? Credo che al vostro padrone manchi del tutto il senso delle proporzioni… Sedete, vi prego!... Non bevo da anni con una ragazza graziosa come voi. Mi dareste una gioia immensa, più di quanto possiate immaginare.»
La cameriera, lusingata da quelle parole, non poté fare a meno di sorridere. Ciò nonostante esitò. Ancora una volta ella volse lo sguardo in fondo al locale, e rimase a guardare più a lungo il grasso taverniere. Anche da quella distanza poteva vederne il viso arrossato e bagnato di sudore, l’espressione perennemente cattiva nei suoi occhi.
«Sono sicura che accadrà qualcosa di spiacevole,» disse tornando a fissare lo straniero. «Ma in fondo, alle risse sono abituata. Una in più, una in meno… Non sembrate il tipo che abbia paura di Erog. Dovreste averne, invece. Quando si arrabbia è una belva furiosa.»
«State tranquilla. Non ci saranno problemi di alcun genere.»
«Lo spero davvero!» disse la cameriera e ingollò un sorso di birra.
Sul momento sembrò che la forte bevanda non avesse causato il minimo effetto. Ma subito dopo, ella fece una smorfia di disgusto e tossì con violenza.
«Mi dispiace!» disse Toraim crollando la testa. «Ho l’impressione che la birra non sia di vostro gradimento. Vi ho costretta…»
«Oh, non datevi pena! Non è colpa vostra.» Tossì ancora. «In ogni caso, siete stato gentile a invitarmi.»
Si cacciò due dita tra i seni e trasse una piccola fiala di colore arancione. Tolse il tappo e versò poche gocce nel bicchiere che spinse sul tavolo verso lo straniero.
«Omaggio della casa!» esclamò la ragazza. «Per ricambiare la vostra cortesia.»
«Ambrosya?»
«Pura al cento per cento.»
Il mercenario fischiò debolmente.
«Roba che scotta!» disse.
«Già!» lei annuì. «Ho sempre una grande paura che me la trovino addosso. Le autorità sono poco indulgenti con chi fa uso di droga. Qui a Nork, per una piccola dose possono darti fino a sei anni di prigione. Per una quantità giudicata considerevole si rischia l’ergastolo; addirittura la vita, se si è recidivi.» Scosse la testa gravemente. «A mio parere, i magistrati sono troppo severi.»
«Non avete pensato sia meglio farne a meno? Una bella ragazza come voi non dovrebbe rischiare così tanto. Sarebbe un peccato se…»
«Cosa volete che vi dica?... Per niente al mondo mi priverei di un po’ di ambrosya. Mi basta ingerirne un paio di gocce per sentirmi subito un’altra persona, come se…» Si interruppe. Emise un sospiro. «Con le parole non sono capace di spiegarvelo, ma penso che voi…»
«Conosco perfettamente il suo effetto,» rispose Vic Toraim e, preso il bicchiere, lo scolò d’un fiato.
Fu come ingoiare del fuoco liquido.
Alla sensazione di intenso bruciore seguì, immediatamente, un’altra di potenza inaudita. Sentì i muscoli del petto e delle braccia contrarsi autonomamente, e una grande energia sprigionarsi da tutte le fibre del suo corpo. In quel momento avrebbe affrontato, senza timore, una decina di avversari, sicuro di batterli.
«Come vi sentite?» chiese la ragazza, lo sguardo fisso negli occhi dell’uomo.
Lui rispose con un’altra domanda, altrettanto precisa:
«Fate uso di droga per difendervi da Erog?»
La ragazza esitò un momento, prima di rispondere.
«Lo avete capito!» Annuì. «Ma quel bastardo ne assume più di qualsiasi altro. Ne è pieno in ogni momento della giornata, anche adesso. Lo sanno tutti e tutti lo temono per questo, perfino i gendarmi, che molto di rado mettono piede qui dentro.» Tacque un momento per asciugarsi con la mano il sudore sulla fronte. «Fa uso di droga per sedare le risse che scoppiano frequentemente nel locale, per strapazzare per bene quelli che non pagano il conto o urlano o danno fastidio alle inservienti… ma anche per fare i suoi sporchi comodi, quella carogna.»
Vic Toraim rimase a osservare gli occhi della ragazza. Erano meravigliosi e brillavano come due puri lapislazzuli.
«Non mi sembra che abbiate molta simpatia per il vostro padrone,» disse alla fine.
«È un porco, ve l’ho detto! Si prende con noi certe libertà che non dovrebbe.»
«Con voi cameriere, intendete?»
Lei annuì, in silenzio.
«Non fate nulla per ribellarvi?» chiese il mercenario.
«Ci scaccerebbe. E trovare un altro lavoro in questa città non è facile.»
Vic Toraim scosse la testa.
«E così preferite che il vostro padrone…» Si interruppe, non volendo apparire scortese. Aggiunse: «In ogni caso, se posso darvi un consiglio, cercate di non abusare di ambrosya. Anzi, fareste bene…»
«Senza di essa non riuscirei a svolgere questo lavoro nemmeno per un’ora. Tutte noi inservienti, qui dentro, ne facciamo uso.» Per un attimo volse lo sguardo intorno. «Avete visto quanti clienti? È sempre così, in ogni momento della giornata. C’è molto da fare continuamente. Un po’ di ambrosya è quel che ci vuole per…»
La voce, roca e profonda, giunse improvvisamente.
«Lurida scansafatiche, credi che i clienti siano disposti ad aspettare i tuoi comodi?»
La ragazza volse la testa e incontrò il viso di Erog, la cui espressione non differiva da quella di un feroce mastino.
«Vedo che te la spassi, piccola sgualdrina!» ringhiò il taverniere. «Alza il sedere da lì, se non vuoi che ti frusti a dovere. Torna immediatamente fra i tavoli.»
Toraim guardò biecamente il grassone che, immobile, le mani sui fianchi, schiumava di rabbia. Notò che era un uomo massiccio, tarchiato, sulla cinquantina, con spalle e braccia robuste, ma con una pancia flaccida, enorme. Aveva la fronte e le guance imperlate di sudore.
Del suo aspetto colpì il mercenario un piccolo tatuaggio sull’avambraccio sinistro, raffigurante due lettere rosse dentro un quadrato azzurro: una f e una u maiuscole.
Era quello il simbolo della Forza Uxiale, di stanza sul pianeta Voskel, nel settore X32-KL della galassia di Vega.
Significava in sostanza che quell’individuo era stato, un tempo, un miliziano della Grande Alleanza Interplanetaria, un uomo in cui, durante il periodo d’addestramento, erano stati inculcati alti ideali e valori: libertà, giustizia, onore, spirito di abnegazione.
Osservandolo, Toraim stentò a credere di avere di fronte un ex miliziano, praticamente un suo commilitone, benché non lo avesse mai visto né incontrato in vita sua.
Mentre la ragazza si alzava dalla sedia, il mercenario fece sentire la sua voce, calma e possente.
«Restate dove siete. Non vi ho detto di andarvene. Se lo faceste, sarebbe un atto di scortesia nei miei confronti.»
Lei lo guardò, le mani poggiate sul piano del tavolo e una espressione basita sul viso. Lentamente volse la testa verso il taverniere. Non sapeva come comportarsi, ma capiva che, tra breve, sarebbe successo il finimondo.
«Allora, ti decidi ad alzarti e servire i clienti?» sbraitò il padrone.
«Ha già deciso!» fece Toraim con pieno controllo dei suoi nervi. «Tornate senza voltarvi al vostro bancone. Eviterete un sacco di guai.»
Il taverniere fissò lungamente il viso dell’uomo che si era permesso di parlargli in quel modo. Dopo avere serrato le mascelle, gonfiò il petto stringendo i pugni con forza, le braccia distese lungo i fianchi.
«E voi chi diavolo siete?» ringhiò alla fine. «Bevete tranquillo la birra e impicciatevi dei fatti vostri.»
«È proprio quello che faccio, se ancora non l’avete capito. La ragazza è con me, è mia ospite. E non voglio che voi la trattiate sgarbatamente. Né ora, né mai!... Ve lo ripeto: tornate in fondo al locale a occuparvi dei vostri clienti. Ve lo consiglio per il vostro bene.»
Intorno al tavolo, all’improvviso, si era fatto il vuoto.
Molti avventori erano in piedi e distanti di alcuni passi, non volendo essere coinvolti nella rissa imminente. Qualcuno, addirittura, cominciò a incitarla.
«Che cosa aspetti, Erog, a dargli una lezione? Fagli vedere chi sei.»
«Soltanto con noi sei capace di usare i tuoi modi gentili?» disse un altro. «Accarezza anche il suo viso con quelle tue luride manacce.»
«Non avrai per caso paura?» fece un terzo. «Credo che l'ambrosya abbia del tutto rammollito, oltre al cervello, anche i tuoi muscoli.»
«Dài, Erog, saltagli addosso, maledetto bastardo!»
«Su, forza, forza!»
«Muoviti, brutto grassone!»
«Avanti!»
Spinto da quelle parole, il taverniere si slanciò, sbuffando come una belva, contro Toraim. Questi, che si aspettava quell’attacco, gli affibbiò con il piede una tremenda pestata all’addome, che lasciò il povero Erog senza fiato, piegato in due, la saliva che gli colava agli angoli della bocca. Il mercenario si alzò lentamente dalla sedia e, con un pugno ben assestato alla punta del mento, spedì all’indietro il taverniere che, cadendo su un tavolo, lo fracassò con il peso del corpo, assieme a bicchieri, piatti e boccali.
«Alzati!» lo incitò un avventore piuttosto deluso dalla rapida fine dello scontro. «Che aspetti a dargli una lezione?»
«Avanti! Avanti!» disse un altro.
«Tirati su, bestione!»
Ma Erog non rispose, né si mosse, immerso com’era nel mondo dei sogni.
Due colpi soltanto lo avevano messo fuori combattimento: due colpi che, sicuramente, egli avrebbe ricordato per un pezzo.
Gli occhi di tutti si volsero allora a scrutare il viso dello straniero, dal quale non traspariva alcuna emozione, tranne una espressione di imperscrutabile durezza.
Videro l’uomo avvicinarsi alla ragazza, che poco prima sedeva al suo tavolo, e farle una a carezza sulla guancia.
«Fatemi un fischio,» lo sentirono dire, «se quel bestione al risveglio vi darà fastidio.» Poi, volgendo lo sguardo verso Erog: «Credo, purtroppo, che la voglia di fare il prepotente non gli passerà facilmente! »
La ragazza sorrise allo straniero e rimase a guardarlo mentre, a piccoli passi, usciva dal locale.

* * *

Appena il mercenario fu all’aperto, si avviò lentamente lungo la strada. Ma dopo pochi metri si fermò, si volse e stette a fissare, con occhi assorti, la porta della taverna.
Vide di nuovo…

alcuni baldi e valorosi miliziani seduti ai tavoli nella Locanda di Kaab. Ridevano rumorosamente alterati dall'alcool, dalle luci, dalla viva allegrezza dell'ambiente, insieme con belle ragazze dai capelli fluenti, dagli occhi chiari e lucenti come rugiada, dalle forme e dai modi procaci.
A un tratto si fece silenzio, si abbassarono le luci e sul palcoscenico apparve lei, la splendida Margiah. L’orchestra mandò le prime note e lei, con voce suadente, melodiosa, intonò Il Fiore di Lilit.
Tutto successe all'improvviso.
Il capitano si alzò dalla sedia visibilmente ubriaco. Le gambe malferme, avanzò barcollando nel locale, urtando i tavoli e rovesciando bicchieri e bottiglie.
Prima che qualcuno capisse le sue intenzioni, salì sul palcoscenico, fu addosso a Margiah. La strinse voluttuosamente con forza e tentò di baciarla sul collo, sulla bocca, sulle spalle, mentre lei, gli occhi sbarrati e urlando dal terrore, cercava disperatamente di liberarsi dal suo abbraccio.
Qualcosa scattò in Vic Toraim come una molla e lo indusse ad alzarsi dal suo tavolo, a correre verso il palcoscenico.
Furente, si scagliò sul capitano colpendolo ripetutamente con i pugni. Era cieco di rabbia. Lo avrebbe di certo ammazzato se alcuni miliziani non fossero accorsi per separarlo dall’ufficiale, che ormai si accasciava senza difese, inerte, il volto imbrattato di sangue.
Ancora stravolto dall'ira e respirando con affanno, Toraim ascoltò le voci dei propri commilitoni che, intorno a lui, lo incitavano a fuggire per evitare l’arresto e l’inevitabile condanna a morte, prevista in caso di aggressione agli ufficiali della Forza Uxiale.
Fu costretto dunque a scappare, ad abbandonare il suo mondo, i suoi compagni, a non rivedere la splendida Margiah… a non indossare mai più la gloriosa divisa della Grande Alleanza Interplanetaria, di cui era stato sempre orgoglioso e che, in ogni circostanza, aveva saputo onorare.
Per guadagnarsi da vivere non gli restò che mettere a frutto le sue qualità acquisite in anni di militanza nella Forza Uxiale, offrendosi, dietro compenso, a chiunque avesse bisogno dei suoi servizi.
Cominciò, da quel momento, la sua rischiosa carriera da mercenario e il suo inarrestabile vagabondare per la galassia di Vega.

Vic Toraim scosse la testa, poi sospirò e riprese a camminare per le strade di Nork, ancora immerse nella nebbia.