martedì 24 settembre 2013

IL FORESTIERO di Fabio Calabrese

Griffin era arrivato alla sommità del passo. Se nelle prime ore del mattino l'aria era stata frizzante o decisamente fredda nonostante la stagione, ora che il sole era alto nel cielo sgombro di nubi, faceva caldo.
Si guardò in giro: era una fortuna essere completamente solo, non c'era nessuno tranne la lontana e sottile sagoma scura di un condor che stava approfittando di qualche corrente ascensionale per librarsi apparentemente senza sforzo oltre le vette, e che si stagliava contro il cielo color cobalto.
Nonostante ciò la cosa gli richiese un piccolo sforzo soprattutto psicologico, era rompere definitivamente con una parte della sua vita, uscire dal guscio, dalla crisalide.
Si tolse i guanti, poi le bende che gli avvolgevano la faccia. Il cappello e gli occhiali scuri, quelli li posò sullo zaino prima di rimetterseli, quelli proteggevano dal sole, non solo dagli sguardi curiosi. Prese dallo zaino la crema solare e se la spalmò accuratamente sulle mani, sulla faccia, sul collo, sulle parti scoperte. Sotto il sole andino gli eritemi venivano anche se non si vedevano, ed erano quanto meno pruriti fastidiosi, lo sapeva già.
Si guardò le mani: con il dorso spalmato di crema erano appena visibili come fantasmi traslucidi, ma ormai la cosa non aveva più importanza.
Si rimise lo zaino in spalla, il cappello, gli occhiali, poi appallottolò le bende e le buttò oltre il ciglio del burrone.
Riprese la strada che ora scendeva e diventava meno faticosa, anche se bisognava stare attenti, perché si restringeva mano mano che s'incuneava nella stretta valle. Il sentiero era ripido, e bisognava prestare molta attenzione a dove si mettevano i piedi, a rischio di fare un volo fino giù al fondovalle, un volo che, a differenza di quelli dei condor, sarebbe stato certamente l'ultimo.
Continuò a scendere: a mezza costa lo strapiombo si faceva meno ripido e il sentiero un po' più largo e agevole. Vide che nella parte bassa della valle dove il declivio si addolciva erano stati praticati dei terrazzamenti per sfruttare con cura la poca terra disponibile. Campi e orti – gli parve – coltivati a mais e patate, più qualche verdura locale che non riuscì a identificare.
Griffin passò vicino a un appezzamento dove c'era un campesino curvo sulle zolle. L'uomo alzò la testa verso di lui.
Doveva essere stato il rumore dei suoi passi a farlo voltare, forse magari l'odore del nuovo venuto perché i suoi occhi – Griffin lo poteva vedere molto bene – spiccavano come due lunette di un bianco madreperlaceo sulla faccia abbronzata, interamente composti di cornea, senza né cristallino né pupilla.
“Ola gringo”, disse l'uomo, “Buenos dias”.
“Gringo?” replicò il forestiero. “No soy yanqui, soy ingles, me llamo Griffin”.
Bueno”, rispose il nativo. “Y su nombre? Io soy Pedro”.
“Griffin”, disse ancora l'interessato. “Griffin y nada mas”.
Griffin rimase un po', mentre scambiava due parole con il contadino, a osservare come affascinato il gioco delle mani e della vanga dell'uomo sul suolo del campo: per compensare la sua menomazione, doveva conoscere a memoria la posizione di ogni zolla, di ogni sasso, di ogni filo d'erba. Cominciava a essere persuaso che tutto quel che aveva sentito dire su quel luogo era vero.
Il contadino gli confermò che il villaggio era giù nel fondovalle, ancora una mezz'ora di cammino per una persona in buone condizioni fisiche.
Dopo averlo salutato, Griffin si voltò ancora una volta a fissarlo. Era la prima persona dopo tanto tempo che lo aveva guardato – beh, non guardato, considerato – come un essere umano e non come un fenomeno da baraccone o un'anomalia di cui avere timore.
Il paese, riuscì a vederlo quando ci fu quasi davanti: sembrava come mimetizzato, le case erano fatte con sassi, argilla e canniccio come se fossero rattoppate con materiali che formavano gli accostamenti cromatici più strani. Era ovvio che fosse così, si disse, per quella gente la sensibilità cromatica non aveva importanza, nemmeno riusciva a immaginare che cosa fosse.
Molte teste si girarono verso di lui: uomini e donne di diverse età, anziani, bambini, tutti avevano gli occhi biancastri come quelli di Pedro, eppure parevano perfettamente consapevoli della sua presenza, avvertivano i suoi passi, forse il suo respiro.
Non sapendo come rompere il ghiaccio, si girò verso la soglia di un'abitazione e domandò:
Agua, por favor”.
Dalla penombra della soglia sbucarono due mani che gli porsero un orcio di terracotta colmo di acqua. Griffin bevve, e man mano che beveva si rendeva conto dell'arsura che la sua lunga escursione gli aveva messo in corpo, ma la sete fisica ne celava un'altra, più profonda, più antica, di voci, di contatti, di calore umano.
Gracias”, quasi balbettò. “Muchas gracias”.Improvvisamente se li trovò tutti attorno, una folla vociante di uomini, donne, bambini, soprattutto tanti bambini che schiamazzavano. Per un istante, si sentì gelare il sangue, era come il rinnovarsi di un incubo che credeva di essersi lasciato alle spalle. Poi capì, non erano ostili, solo curiosi, la normale curiosità della gente di un villaggio sperduto e quasi privo di contatti con il mondo esterno, al raro arrivo di un forestiero.
E parlò, nel suo spagnolo smozzicato raccontò quella parte della sua vita di cui poteva dire.
Hombre, Griffin ingles, tu es loco”, commentò un paesano, “Se vuoi venire a vivere in questo posto dimenticato da Dio”.
“Zitto Luis!”
Una ragazza, una giovane donna si era fatta largo in mezzo alla folla. Si avvicinò a Griffin e gli passò una mano sul viso.
Lui la guardò con attenzione: lei era giovane, molto bella, di una bellezza statuaria se non fosse stato per gli occhi bianchi privi di sguardo, ma aveva qualcosa, come la saggezza di una divinità millenaria, una di quelle deità i cui lineamenti scolpiti non sono scalfiti dal trascorrere dei secoli. Gli sembrò che quelle dita sondassero sotto la sua pelle, dentro di lui, fino a raggiungere le profondità dell'anima con un senso misterioso sconosciuto ai vedenti.
“Tu sei un hombre bueno”, sentenziò la donna che più tardi Griffin seppe chiamarsi Isobel. “Ma hai molto sofferto, la vita non è stata tenera con te”.
Dopo quelle della donna, altre mani sfiorarono il suo volto. Griffin lasciò fare: pareva un modo normale di comunicare e riconoscersi fra persone cieche; era quasi ironico pensare che anche se avessero avuto una vista perfetta, nessuno di loro avrebbe potuto guardarlo in faccia.
Passato il primo momento di curiosità, la folla cominciò a diradarsi. Uno dopo l'altro i paesani tornavano alle loro incombenze, e Griffin non poté fare a meno di sorridere: trovarsi in mezzo a una folla e non doversi nascondere, e non rischiare un linciaggio, era una novità per lui.
Dopo un po' di tempo, era rimasto solo con Isobel.
“Hai un posto dove riposarti e da mangiare?”, chiese la donna.
“Ho una tenda che potrei montare in qualsiasi spazio libero”, rispose Griffin. “E ho del cibo in scatola”.
“Così potrai dire malissimo della nostra ospitalità”; disse lei, “Non mi sembra proprio il caso, vieni a casa mia”.
“Ma la tua famiglia...”
“Non ho famiglia, vivo da sola”.
Fu lei a prenderlo sottobraccio e a fargli strada. Una volta di più, Griffin notò con stupore quanto poco la loro menomazione sembrasse essere di impedimento a quella gente. Lei si muoveva con passo sicuro come se ci vedesse, o come se conoscesse a memoria ogni ciottolo della strada.
La casa della donna era forse più dimessa delle altre, ma Griffin non ci fece caso: mangiarono dividendo le provviste dello zaino di Griffin e il pasto che Isobel aveva già preparato per sé: tortillas e patate bollite. Isobel commentava entusiasta ogni boccone di carne in scatola: per lei, era una prelibatezza esotica.
Poi lei gli fece posto sul suo giaciglio per la siesta: un saccone riempito di foglie secche di mais, ma Griffin non si accorse certo della scomodità. Quanto tempo era che non stringeva una donna al suo fianco?
Nel pomeriggio passò un ragazzo ad annunciare che gli anziani del villaggio volevano parlare con “Griffin, el ingles”.
* * *
La stanza era in penombra, e Griffin che stentava a orientarsi, incespicò e dovette essere aiutato a non cadere: era paradossale che dei ciechi dovessero prestare un simile aiuto a una personavedente, ma per loro evidentemente le condizioni di illuminazione non avevano importanza.
Erano una dozzina di persone, uomini e donne, dai volti e dalle mani rugose, vestivano gli stessi abiti che portavano i segni di infinite rattoppature degli altri campesinos, ma a Griffin parvero quasi degli antichi senatori romani; le orbite degli occhi senza iridi accentuavano la somiglianza con antiche statue e busti.
“Abbiamo saputo”, disse un uomo, “che intendi stabilirti qui da noi. È vero? È questa la tua intenzione?”
“Si,” rispose Griffin, “se siete disposti ad accettarmi”.
“Posso chiederti il perché?”, aggiunse l'uomo. “Questo è un posto dimenticato da Dio dove gli stranieri arrivano piuttosto mai che di rado. Hai forse problemi con la legge?”
“Ho un brutto passato alle spalle”, replicò Griffin. “Io non ho fatto del male, ma molto male è stato fatto a me”.
Il vecchio sospirò, e gli altri anziani si strinsero attorno a lui, come se in mancanza della vista si svolgesse fra loro una conversazione telepatica, ma sicuramente avevano già discusso il suo caso prima di convocarlo.
“Il tuo passato ti appartiene”, disse l'uomo. “È solo tuo. Noi ti giudicheremo da come ti comporterai d'ora in poi. Sappi però che siamo gente povera, non abbiamo nulla da offrirti tranne quello che ti guadagnerai col tuo lavoro”.
“Mi sta bene”, rispose Griffin.
“Allora bien venido. Abbiamo saputo che c'è un interesse fra te e Isobel. Questo va bene per noi: è rimasta sola da quando due anni fa è morto suo padre. Lei ha bisogno di un uomo, e la sua casa e il suo campo hanno bisogno di un uomo”.
* * *
Il tempo passava e la vita di Griffin aveva finito per assestarsi su di una nuova routine. Quando gli anziani del villaggio avevano “benedetto” in maniera molto informale la sua unione con Isobel, erano stati molto chiari: se voleva far parte della comunità, “el ingles” doveva lavorare sodo come tutti loro. Griffin aveva imparato a sue spese quanto fosse faticoso il lavoro dei campi. I nativi coltivavano mais, patate e manioca che costituivano la base della loro dieta. Allevavano anche qualche animale: pecore e alcuni lama, che usavano soprattutto per il latte e la lana. La loro principale fonte di carne a cui attingevano di rado, era rappresentata dai porcellini d'india, le cavie che tenevano in stie come si fa con il pollame. C'era anche la casa di Isobel che, quando vi si era stabilito, era semi-diroccata: aveva un bisogno disperato della mano, del lavoro, della forza fisica di un uomo.
In un angolo della parte più diroccata della casa, là dove c’era un muro che era crollato, sepolto sotto una montagnola di resti di vecchio mobilio e calcinacci, Griffin trovò un pezzo di specchio. Difficile capire come fosse arrivato fin là, di certo, un oggetto del genere non era di alcuna utilità né a Isobel né agli altri abitanti del villaggio. La polvere di calcina che gli si era depositata addosso rendeva visibile la sua fisionomia. Dopo anni, rivide la sua faccia: era un po’ invecchiato, le rughe attorno agli occhi si erano approfondite, ma il suo aspetto non gli dispiacque, era più sereno, più rilassato di quanto fosse stato da moltissimo tempo.
Il tempo passava, e Griffin, l'inglese, era ormai diventato parte della comunità. A sera, i paesani al ritorno dal lavoro dei campi si riunivano nella piazza e conversavano. Da poco dopo il suo arrivo, Griffin era diventato senza volerlo il centro dell'attenzione. Tutti quanti volevano sapere del mondo esterno, e lui raccontava delle sue esperienze, delle cose che sapeva del mondo di fuori, e presto cominciò ad aggiungerci anche cose scritte nei libri che aveva letto e storie di fantasia; i libri che quella gente non sapeva nemmeno cosa fossero. C'erano uomini robusti, donne attraenti ed anziani dal volto rugoso che lo ascoltavano estasiati come bambini.
D'inverno accendevano un fuoco in mezzo alla piazza, e lui raccontava stando accanto al fuoco. Gli spettatori dei suoi racconti le fiamme guizzanti non le vedevano, ma erano attratti dal calore, e sapevano posizionarsi alla distanza giusta: nonostante i timori di Griffin, non accadde mai che qualcuno si scottasse.
Il tempo passava e il ventre di Isobel assumeva una rotondità sempre più pronunciata. Era passato poco meno di un anno dall'arrivo di Griffin nel paese dei ciechi, quando arrivò il momento del parto. L'anziana donna, la levatrice che fu mandata a chiamare sembrava sapersi orizzontare benissimo. Soprattutto in un caso come quello, l'acuita sensibilità tattile pareva compensare egregiamente la cecità. Non chiese nemmeno a Griffin di lasciare la stanza che costituiva l'unico ambiente della casa, non aveva nemmeno l'idea che lui potesse vedere, o che esisteva una cosa come la visione.
Griffin aveva atteso il momento in preda all'ansia e all'eccitazione. La sofferenza di Isobel lo mise a disagio, ma soprattutto voleva vedere gli occhi del bambino.
Il piccolo era nato con la testolina già coperta da una sottile peluria nera e ricciuta. Griffin aspettò con impazienza che aprisse gli occhi: aveva le iridi di un nero intenso. Ci vedeva? Quando si era girato verso Isobel per attaccarsi al suo seno, Griffin avrebbe giurato che l'avesse guardata, ma voleva esserne sicuro. Gli passò la mano davanti agli occhi senza ottenere alcuna reazione. Ah già, se n'era quasi dimenticato, non avrebbe potuto vederla in ogni caso! Raccolse un bastoncino di legno e lo passò davanti al naso del bambino. Non c'era dubbio, il piccolo lo seguiva con lo sguardo. Suo figlio ci vedeva!
Crescendo, il bambino si sarebbe accorto che poteva vedere tutti tranne suo padre, ma per lui sarebbe stata una cosa normale. Si soffermò ad assaporare quella parola: normale, normale, normale!
Griffin prese in braccio suo figlio. In quel momento, l'uomo invisibile era un uomo felice.

4 commenti:

  1. Piacevole scrittura, come il solito, quella di Fabio Calabrese. Azione e suspense in questo racconto.

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    1. Avvincente. Scrittura funzionale e nello stesso tempo accattivante per una narrazione che tiene sulla corda e incuriosisce.

      Giuseppe Novellino

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  2. Bella rielaborazione di un classico, scritta e ambientata molto bene. Me la sono gustata dall'inizio alla fine con la curiosità di scoprire il destino riservato a Griffin da Fabio; decisamente gli è andata meglio che non nel romanzo originale... da segnalare che, per chi non conoscesse l'opera di Wells, il finale è decisamente a sorpresa.
    Sauro Nieddu

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  3. Suggestivo e romantico.
    Il finale è proprio diverso da quello del racconto originale, ma l'epilogo di questa versione rivisitata mi è piaciuto molto. Se il racconto originario avesse avuto un'altra conclusione, questo sarebbe stato un ottimo sequel.

    Antonio Ognibene

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