
Contrazione.
Alla
prima contrazione Marco aveva già troppi motivi per bestemmiare.
Quello spasmo della gamba sinistra era all’ultimo posto nella
lista delle preoccupazioni. Dall’alto la contraerea pisciava raggi
spargibudella, linee porpora che rendevano il cielo verde un gessato,
la palude corrosiva inghiottiva lui e la sua armatura dalla vita in
giù, il sergente lo considerava un imbecille e alla prima occasione
l’avrebbe sacrificato, e dalla foresta di tronchi secchi intorno
alla palude potevano arrivare in quello stesso momento le truppedella
Nestlé-Cola a sterminarli come se tirassero alle paperelle di un
Luna Park. E il vento, quel vento avrebbe fatto impazzire i sassi.
Marco
si stupì. In quell’inferno l’idea anacronistica del gessato
restava nella sua mente.
Doveva
essere concentrato, aveva il cuore a mille e il sapore di metallo in
bocca, eppure quel cielo scuro con le righe verticali porpora gli
ricordava un abito gessato.
Lui
si era sposato con un gessato.
Quindi
non fece caso alla prima contrazione.
Era
un novellino: seconda missione. Nella prima non aveva nemmeno
combattuto. Era nelle retrovie. Aveva visto i lampi nel cielo e il
combattimento sullo schermo.
Trentasette
anni ed era un novellino, alla sua seconda battaglia. Il sergente
aveva vent’anni. E probabilmente aveva combattuto un centinaio di
campagne. Il sergente non aveva una moglie e un figlio a casa da
sfamare. Sapeva cosa significasse combattere, ma non sapeva cosa
significasse doverlo fare per poter comprare il cibo per la
propria famiglia.
Contrazione.
Alla
seconda contrazione ogni altra cosa perse importanza.
Marco
sgranò gli occhi, e iniziò a contare per un riflesso automatico.
Era un cardiologo, non un soldato, eppure non esitò un attimo. Il
cuore che batteva come un tamburo africano, il respiro roco veloce e
spezzato, le urla del fango fritto dai raggi porpora tutto intorno
non aiutavano il conteggio. Tre, quattro, cinque. Sei secondi. Le
armature cibernetiche erano uno schifo, tutti i sistemi più
dispendiosi erano stati disinnescati per risparmiare, eppure era
ovvio, ovvio che quella contrazione non dipendeva
dall’armatura difettosa. Essere un medico aveva dei vantaggi.
C’erano più cose di cui avere paura.
Nove,
dieci. Undici secondi. Mentre contava seguiva il plotone avanzando
veloce nel fango, se fosse rimasto indietro lo scudo mimetico non lo
avrebbe coperto e sarebbe stato un bersaglio. Bastava un raggio e per
lui la guerra sarebbe finita.
Chiese
alla sua armatura un check medico. Scansione virus.
“Crepa!”
rispose il modulo dello scan medico nella sua mente.
Qualche
genio di graduato aveva avuto la splendida idea di programmare
risposte offensive dall’attrezzatura militare per far aumentare la
rabbia e quindi l’adrenalina nei soldati. E “Crepa!” aveva
sostituito il vecchio demoralizzante “Modulo non funzionante,
impossibile eseguire”.
Quindici
secondi, e…
Contrazione.
Sapeva
cos’era. Ci aveva lavorato sei mesi prima per la Virtual Toys, un
capannone anonimo sulla Tiburtina. Era il virus per arene da
combattimento. Un bonus per i giocatori che arrivavano al ventesimo
livello. Potevano spruzzare il virus nelle paludi nemiche e far
partire il cronometro. In cinque minuti ogni armatura cibernetica
veniva ridotta a un bloccodi
metallo inutile.
E
se l’era beccato anche lui.
“Soldato,
che cazzo di problemi hai?” gli urlò il sergente, puntandogli
contro un braccio di metallo, quaranta chili di canne da fuoco ben
armate allineate sulla fronte di Marco.
“Nessuno,
signore. Nessuno.”
Era
in prova. Era sacrificabile. Non poteva permettersi di avere
problemi. Il sergente non sapeva nulla del bisogno di un lavoro per
mantenere la propria famiglia.
“E
allora stai al passo o abbandona la squadra e vaffanculo!” gli
ringhiò. Vent’anni, un centinaio di campagne.
Marco
strangolò tra i denti la risposta che gli era salita spontanea e la
sostituì con un “Sissignore” fulminando il sergente con lo
sguardo.
Quindici
secondi. Se lo scan medico fosse stato attivo avrebbe trasmesso i
dati dell’infezione al sergente e lui sarebbe stato abbandonato e
disintegrato. Era un uomo fortunato. Magari la manciata di minuti che
gli restava sarebbe bastata a fargli terminare la missione. Doveva
solo stare attento alla contrazione. Duecento settantadue chili di
carne e acciaio possono crollare giù come corpo morto se l’arto
inferiore si contrae nel momento sbagliato. E presto il virus avrebbe
infettato il resto del sistema.
Marco
seguiva gli altri soldati, chino per resistere al terribile vento
laterale, ondeggiando per tenere il ritmo nei liquami corrosivi della
palude infetta.
Contrazione.
“Missione”
risuonò nella sua testa. Se gli ufficiali spiegavano perché la sua
squadra si trovava lì significava che l’obiettivo era vicino. A
giudicare dalla contraerea e dall’enorme marcia di quindici minuti
dal portale di sbarco a lì, ormai dovevano essere a pochi passi
dall’obiettivo. “La Nestlè-Cola ha terminato la costruzione di
un portale di sbarco per farscendere
su questo settore le nuove truppe corazzate di demoni. Armature con
intelligenza artificiale, senza ospite umano. Non sono ammesse dal
contratto di guerra vigente ma nel tempo necessario a presentare un
reclamo alle super partes loro avranno annientato gran parte delle
nostre forze infliggendoci gravi danni economici. Il vostro compito è
rendere inoperativo il portale di sbarco. Abbiamo inviato tre
squadroni conmissione
suicida a Nord dell’area per attirare le forze nemiche di guardia
al portale. Voi siete a Sud. Gli scanner indicano che è rimasto solo
un guardiano nemico nell’area. Si tratta di un Veterano Argento, è
richiesta massima attenzione. Vi stiamo fornendo lemappe
aggiornate con i piani d’attacco. Buona fortuna soldati.”
Nel
cuore dell’uragano. Marco non poteva impedirsi di tremare. Pochi
minuti allo scontro. Pochi minuti e il virus avrebbe terminato la sua
opera. Una gara a tempo. Non attese l’ordine del sergente, iniziò
subito a correre verso la sponda della palude, a pochi metri. Tempo.
Era un novellino e non aveva tempo. Il sergente urlò una bestemmia
vedendolo, puntò il braccio attivando i puntamenti delle armi.
Sparò. Non aspettava altro.
Ma
erano passati quindici secondi.
Contrazione.
Marco
cadde violentemente in avanti, lo spasmo l’aveva preso un attimo
prima di appoggiare tutto il peso sulla gamba destra in corsa. I
microrazzi sparati dal sergente gli passarono a pochi centimetri
dalla nuca e esplosero contro un nero tronco d’albero sullariva,
tre metri avanti, nel momento in cui Marco sprofondava tutto nella
melma acida della palude. Era totalmente sommerso quando le difese
automatiche reagirono all’esplosione, avvenuta fuori
dall’occultamento dello scudo. Dalle torrette anti intrusione
mimetizzate partì immediatamente un’unica onda sonica. L’onda
nell’aria avanzava a una velocità differente che nel liquido.
Tutto quello che si trovava immerso fu spostato di pochi millimetri
una frazione di secondo prima di tutto ciò che si trovava sopra la
superficie della palude. Il colpo fu tremendo per Marco ma fu letale
per la sua compagnia. Marco annaspando riuscì a trovare un appiglio
per rimettersi in piedi dopo più di dieci secondi. Emerse
inghiottendo aria come se fosse rimasto immerso per minuti. Quando
riuscì ad aprire gli occhi vide ciò che restava dei suoi compagni.
Le loro gambe erano rimaste in equilibrio, ben piantate dal proprio
peso. La superficie del liquido viscido, ora rossa, era interrotta
dai disegni ovali simili a entrografie mediche. I busti e il resto
dei corpi, caduti sotto l’effetto del vento cometronchi
tagliati, stavano lentamente affondando. Erano stati segati come da
una lama, loro e tutto ciò che sporgeva dalla palude.
Lo
avrebbero licenziato per questo.
Poi
pensò che non era colpa sua. Era stato il sergente a far scattare le
difese, non lui.
Era
stato quell’imbecille ragazzino rincoglionito a sbagliare.
Spontaneamente
Marco fece il gesto dell’ombrello in direzione di ciò che restava
di quelcretino
del sergente. Lo fece troppo forte, la mano metallica sinistra
ammaccò l’acciaio dell’incavo del gomito destro e rimase
incastrata. Non poteva più muoverla.
Marco
bestemmiò.
Non
era religioso, quindi non aveva senso per lui bestemmiare un dio.
Usava bestemmiare la causa di tutti quei problemi, colui che aveva
trasformato l’Italia in una terra invivibile per stupidi interessi
personali. Bestemmiò quindi il Presidente del Consiglio, e corse
sulla riva.
Era
l’ultimo superstite, quindi lo scudo di mimetizzazione si era
spostato su di lui.
Contrazione.
Più
lunga di prima. Due secondi con la gamba inutilizzabile. E la
contrazione aveva preso anche il bacino.
Pochi
minuti. Porco Presidente.
Rotolò
in terra e perse tre secondi preziosi per cercare di staccare la mano
sinistra dal braccio destro. Niente da fare. Aveva una funzionalità
limitata, era prossimo alla fine e per far saltare il portale prima
dell’invasione dei demoni avrebbe dovuto affrontare un Veterano
Argento. Ci volevano duecentocinquanta vittorie di fila e cinquemila
soldati uccisi per meritarsi il titolo di Veterano Argento. C’erano
meno di cento Veterani Argento nell’Universo. Il gradino superiore
era il massimo a cui si poteva aspirare, Veterano Oro,cinquecento
vittorie e diecimila soldati. Si raccontava che ci fossero solo tre
aspiranti al titolo ma nessuno l’aveva mai ottenuto. E ora lui,
novellino, avrebbe dovuto affrontare un Veterano. Lottando senza
mani.
Esaminò
il radar alla ricerca di movimenti intorno a lui: nulla.
Si
rialzò e corse prudentemente nella direzione indicata dalla mappa
nella sua testa.
Obiettivo
a cinquanta metri. Il vento lo spingeva in avanti con una forza
tremenda.
Magari
il Veterano era andato anche lui verso Nord dove le squadre suicide
movimentavano la scena…
Chiese
all’armatura un check del danno agli arti superiori in cerca di un
modo per liberarli.
“Crepa!”
Il
portale era davanti a lui. Sotto il cielo verde gessato di porpora il
portale appariva come una porta girevole d’albergo alta sette
metri. Il vento ululava e fischiava intorno a esso. Controllò sul
radar, nessun corpo in movimento nell’area. Esaminò le armi a cui
riusciva ad accedere. Il lanciagranate del braccio destro era
operativo. Forse. Sarebbe bastato. Aveva due granate in buono stato.
Corsa
contro il tempo.
Ora
la diffusione del virus sarebbe stata esponenziale, la sua armatura
sarebbe stata disattivata entro un minuto, due al massimo.
Corse
verso il portale stringendo i denti. Non c’era il tempo per pensare
ma non poteva fare sbagli.
“Avaria.
Scudo mimetico terminato per esaurimento energia. Crepa.” Annunciò
l’armatura.
Perfetto,
un tempismo perfetto. Peggio di così che altro poteva…?
Contrazione.
Mentre
correva. Una contrazione orrenda, potente, tutto il fianco destro dal
tallone di plastacciaio alla spalla in finto titanio. Per non perdere
l’equilibrio cadde in ginocchio ruotando su se stesso, e lo vide.
Il
Veterano Argento era alle sue spalle, a dieci metri. La sua armatura
era un capolavoro di apparente argento brunito interrotto solo dal
simbolo della Nestlè-Cola, alto almeno cinque metri, agile come un
felino e con tutti i sistemi funzionanti. Lo fissava tenendolo sotto
mira.
Marco
indossava un insieme di pezzi riparati che formavano un’armatura di
tre metri e mezzo intorno al suo corpo standard da marine, e in
questo momento era senza nient’altro che due granate, in ginocchio
con un gesto spudoratamente offensivo rivolto al Veterano.
Non
c’è manuale di guerra che dica cosa fare in questi casi.
Il
Veterano, bello e potente come un dio, avanzò. Una dozzina di
puntini di luce rosso rubino danzavano sulle parti vitali
dell’armatura di Marco. Il Veterano non aveva fretta.
“Hai
coraggio a farmi quel gesto, soldato.”
Marco
non poteva peggiorare oltre la sua situazione. Quindi alzò il dito
medio della mano destra.
“Sei
finito, stronzo” disse calma la voce tuonante del Veterano. Con la
sua mano brunita strinse quella dell’armatura di Marco e la
stritolò, il dito medio si accartocciò come carta stagnola.
Dalle
spalle splendenti si aprirono a coda di pavone dei supporti, ognuno
con in cima un cannoncino.
“Sai
quanti soldati ho ucciso?” si prese il piacere di chiedere il dio.
“E
tu sai quanti ne ho uccisi io?” rispose Marco.
In
quel momento accanto alla porta girevole d’albergo, in mezzo alla
foresta pietrificata, sotto il cielo verde di quel luogo alieno, con
un dio che stava per ucciderlo, con i demoni che sarebbero arrivati a
minuti e un virus che avrebbe terminato l’opera a momenti, risuonò
la sirena della pausa pranzo.
Laurentina,
in prossimità del raccordo. Zona di uffici e squallore. Un luogo in
cui non si mangia, al massimo ci si nutre. L'unica domanda è sempre
la stessa: restare nell'affollata sala comune della ditta o uscire e
fare una fila enorme per conquistarsi un panino dal venditore
ambulante?
Marco
era a metà della fila. Il tempo splendido della primavera romana e
il fornetto a microonde aziendale rotto avevano deciso per lui.
Chiuse gli occhi, il riverbero del sole riflesso sui vetri del
grattacielo di uffici di fronte al suo gli riscaldava il viso, ed era
unabella
sensazione. Migliore del tenere per quattro ore un casco immersivo
ben aderente alla faccia.
Con
gli occhi chiusi la realtà era lontana, confusa, per metà composta
dal verde gessato porpora del cielo e dalla palude acida, per metà
rivelata dall'odore di hamburger e dal vocio degli altri ragazzi. E
da un ritmo vicino, debole, acuto.
Aprì
gli occhi. La ragazza dietro di lui non era bellissima, ma aveva
un'aria sbarazzina, viva, che sembrava colorarla tra tutte le facce
grigie degli altri impiegati. E aveva gli auricolari bianchi
dell'iPod che si lasciavano sfuggire quel briciolo di ritmo. Cin
titìn, cin titìn. Uno swing.
La
cosa buffa è che quasi sorrideva. Unica tra tutti i ragazzi in fila.
Insomma, se si era lì ad aspettare il panino la ragione era una
sola: si lavorava a progetto sottopagati, supersfruttati e senza
futuro. E non c’era nulla da ridere. Specie per Marco, unico
trentasettenne in un mare di ventenni.
Eppure
la ragazza dietro di lui quasi sorrideva. Venticinque anni e quasi
sorrideva. E spandeva intorno quello swing.
La
musica veniva da un apparecchietto della Apple, un i-qualcosa. Marco
sapeva che i nomi delle diavolerie Apple iniziavano tutti con la i ma
li confondeva sempre. Eppure ricordava bene i vecchissimi spot della
stessa ditta: “Cambieremo il mondo, uno alla volta”.
Più
o meno. Sì, il mondo era cambiato, ma la ragazza con l’i-qualcosa
era in fila come tutti.
La
ragazza gli sorrise.
A
lui, proprio a lui.
D’altronde
Marco la stava fissando mentre sorrideva ai propri ricordi. Oddio,
non voleva certo che lei pensasse che lui fosse il classico
quarantenne al rimorchio…
“Scusa,
ho sentito la musica e stavo ricordando la vecchia pubblicità di
quell’i… i… icoso.”
Lei
rise. “iCoso. Mi piace iCoso. Quale pubblicità?”
Una
ragazza di buonumore tra gli uffici di Laurentina è rara come un
posto di lavoro a tempo indeterminato.
“Uh,
Think Different, ma a te non dirà nulla… La IBM fece una campagna
pubblicitaria chiamata Think, e la Apple la stese con Think
Different... E c’era quello slogan, cambieremo il mondo uno alla
volta. Qualcosa così. Beh, con te un po’ ci sono riusciti. Seil’unica
che sorride, qui.”
“Solo
perché è un bel giorno per me. Di solito mordo. Mi chiamo Sonia. Ma
tu sei un pubblicitario?”
“No,
sono solo un cardiologo. Marco, piacere.”
“Maremma
zucchina, un cardiologo davvero? E a quale Call Desk lavori, al
Recupero Crediti” disse indicando il grattacielo di fronte, quello
che rifletteva il sole, “al War Desk,” indicò alle loro spalle,
“o alle intercettazioni?”
“Li
ho fatti tutti e tre. Ora sono nel War Desk.” Stava per dire
“Secondo giorno, sono in prova” ma un minimo di amor proprio
glielo impedì.
“Maremma
partigiana! Figooo! Io sono solo nel Recupero Crediti…”
“Davvero?
Quello sì che è infernale!”
“Scherzo
Marco, sono un’operatrice di War Desk anch’io! Maremma cicoria,
sei al terzo piano? NC contro ACSA? O GreenPeace contro WWF?”
“NC
contro ACSA. La peggiore.”
Intanto
era quasi arrivato il loro turno dal venditore.
“Già.
‘No schifo’. Non hanno una lira, Marco. Non so mica se ci
pagheranno. Di questi tempi vai sul sicuro solo se combatti per il
Vaticano.”
“Ho
sentito che la guerra va avanti da un mucchio. Almeno tre giorni.
Incredibile. Se avessero avuto i soldi avrebbero fatto una guerra
vera, non questa virtuale. Sai? Nel mio reparto abbiamo quasi tutti i
sistemi disattivati per risparmiare.”
“Ma
dai, non credo lo facciano solo per risparmiare. Una guerra vera
avrebbe un effetto negativo sull’immagine della società, quindi
sul valore delle azioni. Beh meglio così, no? Non muore nessuno e
noi abbiamo un lavoro.”
Sonia
in punta di piedi stava cercando di vedere cosa offriva il banchetto.
Mortadella Pirelli. Quasiprosciutto cotto con tracce di vera carne.
Formaggi sintetici. Similporchetta. Pane per celiaci al mais
riciclato. Ciriole di schiuma di pane. Il tipo di cibo che possono
permettersi gli impiegati.
Ordinarono
due panini e una bottiglietta di acqua ACEA, e si sedettero fianco a
fianco sul marciapiede del parcheggio aziendale, tra una bicicletta e
una vecchia Renault 4 da cui gocciolava in terra olio di colza.
Il
sole era incantevole sulla schiena.
Parlarono
di come le paludi fossero piene di virus, si lamentarono del fatto
che lo scenario fosse stato messo su col materiale gratuito ma
scadente degli studenti dei corsi di Progettazione di Mondi Virtuali,
risero del fatto che i propri compagni di squadra potevano essere
ovunque nel mondo, in un ufficio con un casco immersivo in testa, in
una delle nazioni più povere dove gli impiegati venivano pagati una
miseria. Come l’Italia.
Poi
Sonia chiese: “Senti, non metterti a ridere, non ho mai combattuto
con la ACSA. NC so che sta per Nestlé-Coke, e sono in guerra per
mantenere il monopolio di mercato in Sud America. Ma la ACSA cosa
maremma cicuta è?”
Marco
si calò definitivamente nell’appagante ruolo del più esperto. Il
sole, una compagnia stimolante, un po’ di cibo sullo stomaco, un
lavoro anche se pessimo e in prova, lo fecero sentire all’altezza
del ruolo.
“ACSA
è l’acronimo di Associazione Consumatori Sud Americani.
Ufficialmente vogliono impedire la zozzeria della tirannia di mercato
della Nestlé-Cola, ma in realtà vogliono acquistare spazi per i
propri prodotti, bibite gasate, acqua e dolciumi. Non sono migliori
dei primi.”
“Ah
ecco”
“Posso
farti una domanda, Sonia?” Era ormai ora di rientrare, la minimale
pausa pranzo stava terminando.
“Vuoi
domandarmi se ho un ragazzo, eh? Sì, ce l’ho, e non è una scusa
per non accettare appuntamenti da te.”
“No,
no, ferma! Sono sposato, no, figurati… Mi sei simpatica ma non,
certo che non… Insomma volevo solo chiederti il motivo per cui per
te oggi è una bella giornata!”
“Oh
maremma sgangherata come un uscio rotto… Scusa, che figura!
Scusascusa! Beh… Oggi se va bene mi confermano, sai? Mi passano a
contratto biennale!”
A
Marco poteva entrare una pallina da tennis intera in bocca. Contratto
biennale. Era quanto di più simile ai vecchi contratti a tempo
indeterminato esistesse.
“Com…
Complimenti! Auguri!”
“Già.
E l’iCoso è il regalo che mi sono fatta in anticipo proprio per
questa promozione.”
“Grande!
Andrà tutto bene, Sonia, andrà tutto bene.”
“Già,
ma devo vincere solo l’ultimo incontro.”
Si
erano rialzati e stavano tornando verso il portone del grattacielo.
“Beh,
smetti di sorridere allora se devi vincere una guerra, e digrigna i
denti! Prendi qualche droga per aumentare l’aggressività, una
volta collegata?”
“No,
no, oggi no: ho il ciclo. Mi basta quello. Ora sorrido, ma una volta
collegata è un’altra storia.”
“Già:
mordi.”
Ascensori
aziendali, ma solo per dirigenti. Marco e Sonia si persero nella
folla di impiegati che salivano le scale per guadagnarsi la propria
minuscola postazione. Un gesto, un ciao perso nel rumore, un ultimo
sorriso confuso tra le mille facce serie.
Sirena.
Fine pausa pranzo.
Marco
era pronto, il casco che indossava tornò a proiettare immagini, i
sensori sulle sue mani pilotavano il corpo standard da marine nella
realtà virtuale e l’altrettanto virtuale armatura danneggiata
intorno a quel corpo.
Di
colpo fu di nuovo nel campo da guerra creato dagli studenti di
Progettazione Mondi Virtuali, con tanto di cielo verde e raggi
spargibudella porpora. Di colpo la sua mente reagì dandogli un forte
sapore di metallo e fango in bocca, di colpo rivisse accelerati gli
ultimi venti secondi di combattimento. E finalmente si ritrovò nella
stessa disperata situazione di prima.
Solo
che ora la pancia piena, il sorriso della ragazza, il suo calarsi nei
panni dell’esperto operatore di War Desk gli davano un’energia
che prima non possedeva. Immaginò suo figlio davanti a un monitor a
vedere questa scena e decise di non arrendersi all’inevitabile sconfitta.
“Guarda papà che sa fare”.
Il
Veterano lo teneva sotto mira e stava per vaporizzarlo. L’armatura
di Marco era un blocco di metallo quasi inservibile ormai. Entro
cinque secondi sarebbe stato distrutto dal dio nemico, entro dieci
secondi l’armatura sarebbe stata distrutta dal virus, entro trenta
secondi il livello sarebbe stato distrutto dall’arrivo dei demoni
dal portale. Ma lui era un cardiologo, e per mestiere aveva imparato
a non arrendersi sino all’ultimo battito di cuore.
Sganciò
le due granate, ma senza lanciarle. Caddero come se il loro supporto
danneggiato si fosse rotto. Controllò la traiettoria, poi diede i
due impulsi: si lanciò in avanti e contemporaneamente uscì
dall’armatura. I soldati virtuali entravano in quelle armature
fittizie economiche da uno sportello sulla schiena che poi si
richiudeva a protezione. E lui, o meglio il suo corpo virtuale da
marine standard, si catapultò in terra mentre l’armatura saltava
in avanti, contro il Veterano. I razzi saettavano dalla coda di
pavone sulle spalle del dio d’argento brunito iniziando il loro
spettacolo di distruzione, e l’armatura abbandonata iniziò a
fumare e a lanciare brandelli intorno. Marco nascosto dalla propria
armatura raccolse la prima granata, la disinnescò e la lanciò
dentro lo sportello posteriore da cui era appena uscito. Poi raccolse
la seconda granata e correndo come un pazzo col vento alle spalle la
disinnescò e la lanciò nel portale urlando un poco professionale
“fanculoooo!” e rotolando subito a terra.
Il
Veterano tra il fumo e le fiamme delle proprie armi si rese conto di
cosa era accaduto.
Mollò
la presa sull’armatura vuota, ma troppo tardi. Un attimo prima
dell’esplosione che distrusse armatura e Veterano d’Argento il
dio brunito riuscì a dire con la sua voce sintetica “E mi mancavi
solo tu per diventare un Veterano d’Oro e avere il contratto,
maremma
zoccola!”
Marco
si fece piccolo piccolo mentre tutto intorno a lui il mondo diventava
un inferno di fiamme e una scritta confermava che la missione era
completata e il periodo di prova superato.
Ecco un bel racconto di Gianni Sarti (cui diamo il benvenuto su Pegasus Sf), magistralmente scritto e con un finale davvero sorprendente.
RispondiEliminaBel racconto di fantascienza, articolato con maestria, interessante nella sua tematica.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Splendido racconto! L'idea di base è ormai abbastanza inflazionata e il finale si lascia intuire in anticipo, ma la struttura, l'acume nelle considerazioni del protagonista e uno stile impeccabile ne fanno un gioiellino. Benissimo anche il ritmo, grazie al quale il racconto mi ha preso dalla prima all'ultima parola.
RispondiEliminaSauro Nieddu
Proprio bello. Bello stile, tosto, storia divertente, ambientazione spettacolare... Ma davvero esistono altre ambientazioni in cui la nestlè-cola combatte una guerra virtuale contro i sudamericani servendosi di precari di call center? Ancora complimenti.
RispondiEliminaMi scuso in anticipo se la domanda non era rivolta a me.
EliminaRiguardo all'originalità, non mi riferivo a quello che hai citato; piuttosto all'idea delle multinazionali che si armano per delle vere e proprie guerre che è abbastanza frequente. La virtualizzazione della guerra è presente in diverse opere, tra cui anche una puntata di Star Trek (in cui però le conseguenze sono pagate in vite, e non in moneta). Inoltre, l'incontro tra nemici - uomo e donna anche in quel caso - in cui a uno dei due manca una vittoria per raggiungere un obbiettivo importante, mi ha ricordato "La settima vittima" di Robert Sheckley (in cui però lo scontro è tutt'altro che virtuale).
Il mio appunto non voleva essere una critica a Gianni, visto che tirar fuori delle idee originali è ormai quasi impossibile e del resto, da quanto ho scritto, credo venga fuori il mio apprezzamento per le qualità del racconto.
Sauro Nieddu
Ottimo racconto e bella idea. Molto dinamico nella descrizione della battaglia.
RispondiEliminaBravissimo.
Antonio Ognibene
Grazie a tutti, non mi aspettavo un riscontro così positivo per questo racconto senza pretese!
RispondiEliminaIn realtà tempo fa mi avevano commissionato un racconto per una antologia di fantascienza militare, erano richiesti tecnoguerrieri contro nemici orrendi, sarei finito accanto a racconti di esperti in supersoldati e letto da lettori avidi di mech tech brutt zozz. Ma io, che la cosa più militare che conosco è lo slogan "l'unico generale che ci piace si chiama sciopero", l'unica cosa che sono riuscito a pensare immaginando questi scaricatori di porto intrappolati nelle mega armature era la domanda "E se gli scappa la pipì?".
Così ho fatto il racconto più militare che la mia indole mi ha concesso: questo. Beh, no, una prima versione era troppo psichedelica (gli sfondi da guerra a basso prezzo degli studenti in scenari virtuali comprendevano biciclette che covavano il loro nido di piccoli tricicli e scempiaggini simili) e l'ho riscritto imponendomi serietà. :)
L'antologia non è più andata in porto, maremma editrice, ma vederlo su Pegasus SF non è da meno. :)
Complimenti a Sauro per aver scovato il palese omaggio a Robert Sheckley! ;) E un grazie alla mia amica toscana Monica per avermi insegnato usi e abusi de "Maremma XXX". :D
Great blog posst
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