giovedì 5 luglio 2018

QUIESCENZA di Fabio Calabrese

Samuel Bosch interruppe lo zapping con il telecomando per aprirsi una nuova lattina di birra virtuale.
La birra virtuale, gli venne da pensare, era davvero un'invenzione stupenda: in pratica non si trattava che di acqua colorata, ma che conteneva in sospensione delle nanoparticelle che oltre a formare la caratteristica schiuma, facevano sentire al palato il gusto della birra vera, e se se ne bevevano grandi quantità, produceva l'effetto euforizzante tipico degli alcolici, ma non c'erano gli atroci mali di testa del doposbronza, e tanto meno le conseguenze a lungo termine dell'alcolismo o del consumo abituale di alcool.
Dopo aver tracannato il contenuto della lattina, la schiacciò e la gettò in un angolo.
“Prima o poi dovrò decidermi a fare un po' di pulizia”, pensò.
Prima o poi. Il fatto era che la sua casa si stava trasformando in un porcile, e a lui non importava per nulla. Se fosse stata viva la sua povera Clara, pensò, avrebbe sofferto a vedere la casa ridotta in quelle condizioni, lei aveva la fissazione per l'ordine e la pulizia, ma ora non cambiava nulla: Clara non c'era più, e questa era una delle cose a cui Sam si era dovuto abituare con sofferenza e fatica.
Sam Bosch era pensionato e vedovo: i figli si ricordavano di lui soltanto facendogli una telefonata per Natale. Nessuno veniva mai a trovarlo, poteva tenere la casa in disordine quanto voleva.
Riprese in mano il telecomando.
L'apparecchio che aveva di fronte era un televisore, come erano televisori quelli dalla metà del XX secolo in poi, ma confrontare l'uno con gli altri era come confrontare un Jumbo Jet con trabiccolo fatto di tela e tubi per bicicletta dei fratelli Wright.
L'apparecchio era del tipo a proiezione di realtà virtuale. In condizioni ottimali di messa a fuoco, si vedeva e si viveva tutto quanto era stato registrato da una telecamera esattamente come a essere proprio lì sul posto.
Sam premette il telecomando, e di colpo il salotto di casa si trasformò in una giungla lussureggiante, una giungla senza fiori ma con felci gigantesche, quelle strane piante chiamate equiseti, e vari tipi di conifere. Sam comprese subito di aver trovato uno dei vari sequel di Jurassic Park, il venticinquesimo o il ventiseiesimo, pensò.
Una frotta di piccoli sauri gli venne incontro correndo: erano bestie all'incirca delle dimensioni di un pony. Prodotti con tecniche di clonazione, probabilmente. I grandi tetrapodi, apatosauri e diplodochi che non era conveniente clonare, e i carnivori la cui clonazione era proibita, potevano essere degli animatronics o anche delle simulazioni di computer graphic, ma quei sauri lì erano con tutta probabilità dei cloni, dei veri organismi viventi che erano ripetutamente usati nei film della serie.
Sam provò un moto di orgoglio e quasi di affetto verso quelle creature. Aveva trascorso la vita nei laboratori di clonazione, la vita lavorativa almeno, prima di arrivare alla quiescenza; quelle creature erano un po' suoi figli.
Un sauro che sembrava una lucertola ritta sulle zampe posteriori e delle dimensioni di un cavallo, si diresse dritto verso Sam e il divano su cui era seduto, ma all'ultimo momento scartò dirigendosi verso destra.
Questa era una cosa che si notava facilmente: quei nuovi televisori avevano una certa capacità interattiva, potevano modificare entro certi limiti la proiezione del programma, in questo caso in modo da non creare interferenze fra la pellicola e lo spettatore.
Dietro il branco di sauri in fuga comparve una bestia di grosse dimensioni e dall'aria feroce, un tirannosauro. Sam sapeva bene che quello era con tutta probabilità un animatronic o addirittura un'immagine virtuale generata da un computer e sovrapposta al filmato, e in ogni caso non era fisicamente lì, ma faceva impressione lo stesso.
Il sauro si fermò a due passi da lui e spalancò la bocca enorme emettendo un ruggito. Questa naturalmente era una ricostruzione di fantasia, perché nessuno sapeva quali suoni emettessero realmente i dinosauri decine di milioni di anni prima. Se anche fosse stato un animale vero, gli venne da pensare, era una fortuna che la realtà virtuale riproducesse le impressioni visive e uditive ma non quelle tattili od olfattive, perché i grandi carnivori avevano in genere un alito micidiale a causa dei brandelli di carne delle loro prede che marcivano negli spazi fra i denti. Questa era in genere un'arma in più nel loro arsenale: se non ammazzavano la preda con il morso, l'ammazzavano con la setticemia. Alcuni, come il varano di Komodo, basavano la loro strategia di caccia proprio su questo.
Il tirannosauro ruggì di nuovo e avventò le mascelle proprio verso Sam, richiudendole con uno scatto secco.
Per un istante Sam fu avvolto da uno sfarfallio luminoso: il programma doveva avere un difetto. Comunque, si era stufato di quella bagarre preistorica.
Agguantò il telecomando e premette un pulsante cambiando canale a caso. Stavolta si trovò proiettato in uno studio televisivo.
Riconobbe la persona intervistata: era l'attore Silver Stallion che sapeva, proprio in quel periodo era impegnato nelle riprese di Rambo XXVIII.
“I miei legali”, stava dicendo l'attore, “Hanno raggiunto un accordo con quelli di Selvie Stahl. A me rimane il personaggio di Rambo, a lui quello di Rocky”.
A Sam venne da sorridere. La clonazione di personaggi dello spettacolo era una faccenda delicata, e lui era orgoglioso di averci lavorato. Ricordava quando la sua azienda aveva cercato di clonare Marilyn Monroe. Dopo un certo tempo si erano accorti con sbigottimento che l'embrione era maschio. Un più attento controllo aveva rivelato che il materiale genetico etichettato come “Marilyn” proveniva da un uomo, un certo Manson.
“Mi scusi”, chiese l'intervistatore all'attore, “Ma lei non pensa che se oggi le produzioni cinematografiche e televisive, tra sequel, prequel e remake, presentano una grande ripetitività e scarsa creatività originale, soprattutto sequel di sequel di sequel, questo non sia anche dovuto al fatto che la maggior parte degli attori sono cloni di divi del passato”.
“Capisco cosa vuol dire”, rispose Silver Stallion, “Ma tenga presente che una volta la maggior parte degli attori erano figli d'arte e per un nome nuovo inserirsi non era più facile di adesso. Noi cloni abbiamo rispetto ai figli naturali il vantaggio di una garanzia in più di aver conservato le qualità dei nostri originali”.
L'attore prese poi a parlare della nuova pellicola: nel cast ci sarebbero stati George Clone e Colin Seventh.
Sam cambiò di nuovo canale. Questa volta era uno spettacolo musicale, c'era un duo che si stava esibendo, due cantanti italiani, Romano e Albina, erano anche loro due, ovviamente, dei cloni. In realtà Albina non era proprio italiana. A Sam pareva di ricordare che il suo originale era stata un'americana, figlia di un attore hollywoodiano un tempo famoso, gli sembrava che si chiamasse Tower.
Non aveva voglia di sentire musica, fece di nuovo zapping. Questa volta capitò su di una serie di spot pubblicitari ma non cambiò canale. Ignorando le dimostrazioni di efficienza di una cucina robot e di un'automobile che si guidava da sé che si svolgevano intorno a lui, Sam si abbandonò ai propri pensieri. Provava una certa fierezza per aver lavorato nel campo della clonazione, che al presente era uno dei settori produttivi più dinamici. Essa, era ovvio, aveva applicazioni non soltanto nel mondo dello spettacolo.
La clonazione era spesso usata a fini medici: partendo da una coltura di cellule prelevate a un paziente, era possibile far crescere organi per sostituire quelli difettosi: cuore, polmoni, fegato, reni intestino, pelle, muscoli, scheletro, praticamente ogni parte del corpo umano poteva essere sostituita, c'era solo un inconveniente: i costi elevati e la tempistica lunga per far crescere gli organi in vitro. I ricchi vi avevano accesso facilmente, garantendosi di fatto una sorta d'immortalità, sostituendo uno per volta gli organi che si rivelavano difettosi, ma chi non aveva i loro mezzi doveva accontentarsi di soluzioni di ripiego.
Samuel Bosch ad esempio aveva scoperto anni prima di avere un tumore ai polmoni, regalo di una vita di fumatore eccessivo, e il trapianto di polmoni era fuori dalla sua portata economica. Glieli avevano sostituiti con un paio uscito da una stampante 3 D.
Funzionavano abbastanza bene, a parte qualche volta in cui gli mancava il respiro, se non faceva sforzi eccessivi, e lui di sforzi non ne faceva proprio, né eccessivi né moderati.
La prima volta dopo l'operazione che aveva avuto un attacco di tosse, si era spaventato. Espettorare muco nerastro non è la cosa più bella del mondo, ma si a l'abitudine a tutto.
“E' semplicemente carbonio”, gli aveva spiegato il dottore, “ibra di carbonio che costituisce il materiale con cui sono stampati i suoi polmoni. E' chiaro che con il tempo andranno incontro a un certo deterioramento”.
“Dottore”, aveva chiesto, “Cosa significa col tempo?”
“Dai quattro ai dieci anni, con una media di sei-sette prima di morire per insufficienza respiratoria. Questo è il tempo che le rimane da vivere”.
Era stato...era stato, si fermò un attimo a pensarci, cinque anni prima.
L'idea di morire non lo spaventava, era un'alternativa preferibile a un'esistenza vuota di pensionato solitario.
Prese un'altra lattina di birra virtuale.
“Quando sarò morto”, pensò, “Troveranno il mio corpo e vedranno che ho lasciato questa casa veramente uno schifo”.
Ma in realtà si rendeva conto che non gliene importava nulla.

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