giovedì 28 novembre 2013

INTERVISTA A DONATO ALTOMARE di Giuseppe Novellino



1)    Come e perché sei diventato scrittore?
R. E’ importante sottolineare che sono stato, e sono tuttora, un lettore onnivoro, anche se preferisco di gran lunga il genere fantastico. Molti anni fa, ma davvero tanti, mi è capitato di leggere un pessimo racconto di un autore abbastanza noto. Alla fine, con l’amaro in bocca, ho borbottato tra me e me la fatidica frase: anch’io saprei scrivere una stupidaggine come questa. E lo feci. In effetti non mi ero sbagliato, il mio primo racconto era una stupidaggine, ma ormai il germe mi era entrato nel sangue. Poi accadde l’inimmaginabile: un giornaletto scolastico pubblicò il racconto. Era sbalordito anche dalla imperitura fama che avevo acquisito nella mia scuola, per cui continuai. Ed eccomi qui.

2)    Che cosa ti spinge a scrivere fantascienza?
R. Il confine inesistente. Il desiderio di andare oltre. Ma anche di creare mondi ‘nuovi’, dato che quello attuale non è proprio dei più riusciti. Ho una buona fantasia e questo mi permette di sbizzarrirmi e di poter affermare che, nonostante abbia scritto più di duecento racconti e un numero imprecisato di romanzi, saggi, poesie, sketch teatrali, ecc. non ho mai utilizzato la stessa idea. Infine la fantascienza, meglio dire il fantastico in genere, si presta a un gioco mentale che adoro: E se… Ogni tanto mi chiedo: E se avvenisse una cosa strana, oppure non avvenisse una cosa normale… ecc. ecc.. Magari poi nasce qualcosa.

3)    Come Vittorio Catani, sei pugliese. Pensi che quella bellissima terra sia in qualche modo favorevole all’ispirazione fantascientifica?
R. Infinite le ispirazioni, anche se, per quello che mi riguarda c’è anche un’altra ragione della collocazione tutta italiana di tantissimi miei lavori. Anni fa, non rammento se Fruttero o Lucentini che dirigevano Urania, insomma, uno dei due, se ne uscì con la terribile frase: ‘Un disco volante non può atterrare a Lucca’. Io la interpretai in due modi: che gli italiani non sanno scrivere fantascienza, e che non è possibile ambientare le nostre storie in Italia. Da allora, a meno che il narrato non richiedesse necessariamente altro, ho ambientato le mie storie in Italia, e in Puglia. A Bari e a Molfetta, anche dietro casa mia. Un romanzo su tutti: ‘Sinfonia per l’Imperatore’, premio Italia e premio Vegetti, che è incentrato sul Castel del Monte ad Andria, il Castello di Federico II. Non so se sono riuscito a smentire quell’affermazione, ma poco poco direi di sì.

4)    Se hai pubblicato su Urania, sarai stato anche un lettore dello storico periodico. Puoi dirci qualcosa sul tuo personale rapporto con esso?
R. Urania ha la ‘colpa’ della mia passione per la fantascienza. L’ho raccontato altre volte, quindi chi sa la storia mi perdoni. A casa dei miei, mio padre aveva una fornitissima libreria a muro. Tanto alta che raggiungeva il soffitto di oltre tre metri. Mi ero accorto che, mentre i primi ripiani erano fitti fitti di libri ‘classici’, da Verne a Calvino, passando per Verga e Hugo, in cima c’erano pochi libri. Pensai che fossero libri ‘particolari’, che lui voleva tenere in alto lontani dalla mia portata, per cui un giorno, approfittando dell’assenza dei miei, mi arrampicai sulla libreria, dovevo avere 13 o 14 anni, e raggiunsi il ripiano più alto. Pescai a caso e mi ritrovai tra le mani un Urania di cui rammento ancora il titolo: ‘Mondo senza sonno’. Lo lessi e il guaio era stato fatto. Per inciso, appresi più tardi da mio padre che lassù metteva semplicemente i libri che aveva già letto.

5)    Quali sono i tuoi temi preferiti? Che cosa vuoi trasmettere ai lettori con i tuoi racconti?
R. Andiamo in ordine: i miei temi preferiti. Per la fantascienza, mi piace assai l’avventura spaziale tout court, senza ‘messaggi’ impegnativi o moraleggianti. Tipo ‘Vladimir Mei, libero agente’, un romanzo che ha vinto il premio Italia e che mi sono divertito moltissimo a scrivere, tanto che sto scrivendo il seguito. Oppure come Mater Maxima, vincitore del primo premio Urania. Poi mi piace molto la storia alternativa. Ho scritto diversi racconti del genere (in antologie come ‘E se l’Italia’ o ‘Altri risorgimenti’ a cura di De Turris) e ne sto scrivendo altri, ma anche come ‘Il dono di Svet’, romanzo vincitore del secondo premio Urania. Infine adoro l’heroic fantasy, e ho ideato un personaggio alla ‘Conan’, che si chiama L’Artiglio. Anche questo romanzo è stato premio Italia (sì, è vero, sono monotono, ma mi piace…). Ciò che invece non amo molto, anzi per nulla, è il grandguignolesco. Non mi piace chi dice di fare horror proponendo ammazzamenti, evisceramenti, spellamenti, squartamenti, ecc. ecc…menti. L’horror è altro.
Cosa voglio dare ai lettori? Un po’ di spensieratezza, soltanto un po’ di piacere nella lettura e, se possibile, portarli a pensare che forse un mondo migliore potrebbe esserci se soltanto ci impegnassimo un po’ di più. Vedi, ho scritto ‘ci’, perché non appartengo alla categoria di gente che dà sempre agli altri la colpa di quello che accade.

6)    Quali sono i tuoi progetti futuri di scrittore?
R. Perdonami, ma preferisco essere chiamato ‘narratore’, non ‘scrittore’. Oggi gli scrittori si sprecano, ma quelli in grado di narrare ‘siamo’ in pochi. E scusa il modesto gesto di presunzione. I miei progetti sono oltre l’umana  possibilità. Lavoro contemporaneamente a cinque romanzi, mi annoio in fretta e quindi devo passare da un genere all’altro, poi scrivo racconti che mi vengono chiesti e altri che mi piace scrivere. Partecipo a iniziative, manifestazioni e sono membro di giuria di tre o quattro concorsi. Faccio tutto questo perché sono certo che avrò bisogno di almeno altri cento anni per finire tutto ciò che ho iniziato e poiché non ho lasciato mai nulla a metà, è una garanzia di lunghissima vita.  Ma il mio sogno è di vedere ‘Il dono di Svet’ a fumetti, unica ragione per cui ho scritto quel romanzo a episodi. Sto anche inseguendo una specie di follia: riportare come lingua parlata il latino. Ho pubblicato l’unica antologia al mondo di racconti di fantascienza in latino: Omne Ignotum Pro Magnifico (ed. della vigna). Senza poi parlare del fatto che sono stato eletto Presidente della World SF Italia e che mi sto impegnando tantissimo per portare l’associazione ai livelli che merita.

7)    Che cosa pensi del panorama fantascientifico italiano che si presenta oggi sotto i nostri occhi?
R. Penso che il lavoro mio ma, principalmente, degli ‘eroi’ che mi hanno preceduto, ha finalmente dato i suoi frutti. Nei tempi passati, quando ‘confessavi’ di scrivere fantascienza, nel migliore dei casi passavi per uno che ‘crede agli UFO’. Le prese in giro si sprecavano, come i rifiuti di pubblicare qualsiasi cosa di genere. Oggi gli scrittori di fantascienza sono tanti e, incredibile dictu, sono pubblicati anche da case editrici importanti. Merito loro certo, e di quello che scrivono, ma anche merito di chi, a furia di martellate, ha fatto entrare nella ‘zucca’ degli editori che si può scrivere, e quindi leggere, buona fantascienza italiana.

8)    I giovani di oggi, per quanto mi risulta, seguono più il cinema di fantascienza che la letteratura. Che cosa ne pensi?
R. Questo è un tasto amarissimo. In realtà, i giovani d’oggi, nella maggior parte, ma ci sono le preziosissime eccezioni, non vogliono ‘pensare’ e non hanno immaginazione. Loro vogliono soltanto prodotti omogeneizzati, come le pappine che si danno ai bambini piccoli, una questione di pigrizia mentale che porta all’appiattimento. Questo accade nella cinematografia, dove non hai bisogno di immaginare in quanto ci pensano gli altri a dare forma al fantastico, quindi incrementando quella pigrizia che è indispensabile per vendere i loro prodotti. Colpa di una pubblicità millantatrice e ingannevole che ti fa sentire povero, e quindi escluso, che non hai l’Hi Tech di ultimissima generazione. I pochi giovani di carattere emergono, ma vengono falcidiati ed emarginati in quanto oggi è imperante la mediocrità. Prova a riflettere. E’ meglio vendere un prodotto differente a migliaia di persone differenti, oppure vendere lo stesso prodotto a migliaia di persone omologate? Facile la risposta. Non sei nessuno se non sei su facebook o non twitti o non telefoni con l’ultima diavoleria che ti fa anche la barba in macchina, non sei nessuno se non ti mettono su You Tube o non chatti con amici d’oltreoceano. E’ quello che la pubblicità vuole che si creda e agisce sulle menti giovani e la stragrande maggioranza di giovani cade nella rete. Ho faticato una cifra per far capire a mio figlio tredicenne che una certa tuta con un certo marchio è la stessa cosa della stessa tuta senza quel certo marchio. Ma lui quando l’indossa si sente ‘diverso’. Il trucco è tutto qui. I nostri figli sono il nostro futuro. Se ci arrendiamo alla loro omologazione non avremo più un futuro.
Sono sicuro che proprio dalle nuove generazioni di appassionati di fantascienza può venire la riscossa.

9)    Puoi esprimere una tua impressione riguardante il sito Pegasus SF, che ha avuto l’onore di pubblicare dei tuoi racconti?
R. Una domanda difficile con una risposta difficilissima. Come quando si invita un ospite straniero a una manifestazione e gli si chiede che ne pensa del paese che lo ospita. La risposta è scontata. Ma cercherò di non essere retorico. Premesso che sono un entusiasta (e questo molte volte non è un bene), quindi se vedo qualcuno che si impegna nel genere di narrativa che adoro mi faccio in quattro per sostenerlo, per cui ben venga Pegasus SF, anzi, mille e mille Pegasus SF. Tra i suoi difetti c’è quello di tenere i racconti ‘in prima pagina’ solo pochi giorni, cioè di rendere quasi subito obsoleti ottimi racconti che pochi si andranno a prendere la briga di cercarli e leggerli nell’archivio. Tra i suoi pregi c’è quello di avere ottimi lettori fissi che esprimono il loro parere e ti fanno sentire, te scrittore, letto. Perché devi sapere che la cosa peggiore per chi scrive e di passare inosservato. Inoltre la buona scelta dei testi è molto importante per dare spessore alla pubblicazione. Se poi aggiungi il disegno ‘di copertina’ per ogni racconto… beh!, davvero lunga vita a Pegasus SF.

martedì 26 novembre 2013

IL CONNETTORE di Fabio Calabrese


James Tiberius Kirk gettò una fuggevole occhiata alla plancia di comando dell’Enterprise. Kynarus Scolymus, il connettore, continuava a sedere tranquillo nell’angolo che si era scelto. La sua presenza a bordo era per Kirk un motivo d’inquietudine. I gradi che portava sulle spalline dell’uniforme attestavano che costui era del tutto al di fuori della normale catena di comando della Flotta Stellare, non era vincolato dalla disciplina di bordo, libero di fare quello che volesse, anche di esautorarlo in qualsiasi momento dal comando della nave, come se si trattasse di un ammiraglio del grado più alto, se l’avesse ritenuto opportuno.
Poco prima della partenza per quella missione, gli era stato comunicato l’ordine di prendere il connettore a bordo senza una parola di spiegazione, ma finora l’uomo, l’umanoide, la creatura o cosa diavolo fosse, non aveva fatto niente altro che osservare tutto ciò che avveniva a bordo della nave mostrando una sorda di placida, distaccata indifferenza.
In quel momento il tenente Uhra passò sculettando davanti al connettore che continuò a guardare oltre di lei con aria distaccata senza degnarla di attenzione.
Questo aumentò le perplessità di Kirk: Uhra era una classica bellezza dalla pelle scura del tipo che una volta sulla vecchia Terra era definito mulatto, afroamericano, “di colore” e indossava una versione della severa divisa della Flotta Stellare da lei ritoccata in modo da renderla attillata e provocante.
Di solito non solo i maschi umani, ma anche gli umanoidi delle più varie origini e tipi, mostravano un qualche piacevole turbamento davanti a Uhra, ma il connettore proprio niente, indifferenza assoluta.
“È proprio un vegetale”, pensò Kirk.
Kynarus Scolymus del resto era un tipo di umanoide che fino a quel momento il capitano dell'Enterprise non aveva mai visto: aveva l'incarnato di un bel verde clorofilla. Sopra il collo, dei lineamenti paciosi approssimativamente simili a quelli umani erano stampati su di una testa tonda che si allungava un po' nella parte superiore. Sopra quella che per un uomo sarebbe stata la fronte, c'era una serie di squame di forma regolare che scurivano man mano che si saliva verso la parte alta e allungata della testa che a Kirk parve molto simile a un carciofo.
In quel momento però aveva altro da pensare, la missione affidata all'Enterprise era importante e forse pericolosa.
Si rivolse al navigatore.
“Vada via così, signor Sulu”.
L'Enterprise era scesa dalla velocità curvatura alla velocità impulso una volta giunta nel sistema stellare di Kandar, a una decina di unità astronomiche da Kandar 5. Sullo schermo della nave le stelle non erano più vorticanti strisce luminose che si espandevano in tutte le direzioni, ma punti che sembravano venire lentamente incontro all'Enterprise e poi si allontanavano alle sue spalle.
L'uomo a cui James Kirk si era rivolto aveva la pelle olivastra ma molto meno verde di quella di Kynarus Scolymus. Le orecchie appuntite e le sopracciglia stranamente inarcate rivelavano forse un'ascendenza in parte aliena. Un uomo del XX o del XXI secolo vi avrebbe forse notato una strana somiglianza con l'attore Leonard Nimoy.
“Spock”, chiese Kirk al suo primo ufficiale, “lei cosa consiglia di fare?”
“Per prima cosa”, rispose l'interpellato, “io direi di fermarci e studiare la situazione”.
“Porre la nave in orbita stazionaria”, ordinò Kirk nell'interfono.
Spock indicò il cielo davanti alla nave che, invece di apparire nero e trapuntato di stelle, era di un uniforme grigiastro lattiginoso. Nebbia a quel che pareva, ma non c'è nebbia nello spazio, anche le nebulose sono nebbiose se viste da lontano con un cattivo telescopio, altrimenti si comprende che sono ammassi di migliaia di stelle.
“Kandar 5 è lì davanti a noi”, commentò il mezzo vulcaniano, “ma naturalmente non la possiamo vedere, non riceviamo comunicazioni radio e non la rileviamo sui radar”.
“Non la rileviamo sui radar?”, chiese Kirk.
Spock sospirò. Questi umani puri erano così illogici, compreso un uomo intelligente come il capitano Kirk. Perché chiedere di nuovo qualcosa che gli era appena stato detto?
“Quella nebbia”, precisò, “riflette le onde radar come del resto tutte le radiazioni dello spettro”.
Kandar 5, quinto pianeta della stella Kandar, era strategico: c'erano le più importanti miniere della Galassia di dilitium, il minerale usato nei motori a curvatura, perderlo avrebbe significato dover viaggiare fra una stella e l'altra a velocità impulso, impiegare decenni o forse secoli, la Federazione si sarebbe disintegrata. Se ciò non fosse bastato, sul pianeta c'era una colonia mineraria composta da migliaia di persone, con la quale si erano persi i contatti.
“Credo”, disse Spock, “che la Flotta Stellare sia molto preoccupata della situazione, se ci hanno fatto imbarcare un connettore”.
I connettori erano gli esperti nella scienza connettivista, scienza non solo teorica ma dalle importanti applicazioni pratiche. Il connettivismo era nato per collegare i diversi rami del sapere, contrastando la tendenza alla specializzazione e alla frammentazione sempre più marcate delle varie discipline. A un buon connettore non bastava solo avere una cultura enciclopedica, doveva avere la capacità di collegare e trasportare le nozioni apprese in un settore in uno del tutto diverso, applicare alla navigazione spaziale le nozioni di filatelia o numismatica.
“Mi domando”, chiese Kirk, “cosa ce ne facciamo di un connettore se abbiamo la logica impeccabile di un vulcaniano”.
“Ma capitano, anche se la ringrazio per la stima, vuole scherzare? La logica più perfetta non serve a nulla se non si parte da una conoscenza adeguata dei dati. Occorre una cultura enorme su migliaia di scienze, e la capacità di fare le connessioni giuste. Molti anni fa, prima di entrare nella Flotta Stellare, feci anch'io domanda per l'ammissione all'Accademia Connettivista Alfred E. van Vogt & Giovanni De Matteo, e non superai il test di ammissione, poi ho fatto domanda per una normale accademia della Flotta Stellare, quella stessa dove ci siamo conosciuti”.
“Lei bocciato? Spock, mi meraviglio!”
“Ogni anno l'Accademia riceve milioni di domande d'iscrizione da tutti i mondi civili, non accetta più di una dozzina di allievi, e non ne laurea più di quattro o cinque”.
“Finora”, commentò Kirk, “quella specie di carciofo non ci ha dato un grosso contributo”.
“In ogni caso”, rispose Spock, “non ci sono alternative, dobbiamo tentare di raggiungere Kandar 5”.
“Procedere”, ordinò Kirk, “un quarto d'impulso”.
L'Enterprise si addentrò nella nebbia e si fermò quasi subito. La nave incrementò la propulsione senza ottenere risultati.
Kirk ordinò macchine indietro. Nulla, l'Enterprise rimase immobile.
“Cosa consiglia, Spock?”, chiese al suo primo ufficiale.
“C'è solo una cosa da fare”, rispose il mezzo alieno che somigliava stranamente a Leonard Nimoy. “È rischioso ma è l'unica cosa possibile, passare alla propulsione curvatura”.
“Cosa?”, obiettò Kirk. “Ma l'Enterprise potrebbe anche andare in pezzi!”
“Dobbiamo rischiare, è l'unico modo per toglierci di qui”.
Kirk trasmise l'ordine in sala motori. Dopo un po' fu chiaro: la propulsione curvatura era  stata attivata, ma la nave non si era mossa.
“Siamo prigionieri”, commentò Kirk, “Intrappolati come mosche nella tela del ragno”.
In quel momento Kynarus che fin allora era rimasto seduto in un angolo della plancia con apparente indifferenza, scattò in piedi.
“Kirk”, disse, “assumo io il comando”.
Il capitano non disse niente, sapeva che il connettore aveva l'autorità per farlo.
Quest'ultimo si avvicinò alla postazione di Sulu.
“Signor Sulu”, disse, “provi se riesce a scarrocciare leggermente a sinistra”.
Il piccolo asiatico manovrò i comandi del timone, poi annuì.
“Benissimo, ora provi a imbardare di circa trenta gradi rispetto al nostro asse orizzontale”.
I movimenti della nave sembravano casuali e incoerenti, ma una cosa era certa: non erano più intrappolati, si stavano muovendo.
“Adesso”, disse Kynarus, “potete vedere un esempio dell'utilità della scienza connettiva. Sto applicando alla nave le tecniche che un uomo può usare per uscire senza aiuto dalle sabbie mobili”.
“Ma”, replicò il dottor Spock dopo un po', “non stiamo uscendo dalla zona nebbiosa, ci stiamo addentrando sempre di più, non è logico”.
“Spock, chiuda il becco!” 
L'aspetto esteriore di Kynarus Scolymus non mostrava emozioni di sorta, ma dentro di sé provava un'intensa soddisfazione, erano settimane che aspettava il momento di dire quella frase.
L'astronave si muoveva in un moto approssimativamente a spirale con molte irregolarità e deviazioni, verso il centro della nebbia che aveva inghiottito Kandar 5.
James Kirk osservava il connettore che lo aveva rilevato dal comando. Costui ostentava grande tranquillità e sicurezza. Paradossalmente gli vennero in mente alcuni vecchi film di cui era appassionato, e soprattutto i loro spot pubblicitari nei quali aperitivi a base di carciofo erano reclamizzati come blandi sedativi e antistress: “Contro il logorio della vita moderna”, “la forza dei nervi distesi”.
Ora davanti all'Enterprise c'era qualcosa di più scuro che si scorgeva appena contro lo sfondo lattiginoso. Man mano che si avvicinavano, diventava più nitida, a Kirk parve sulle prime una creatura tentacolata che  si contorceva in pigre volute.
“Mio Dio”, pensò  riconoscendola di colpo, “è l'Entità Cristallina”.
Ora si vedeva bene che i tentacoli di quell'essere erano lunghe collane di grossi cristalli. Quella creatura era una delle più pericolose che si potessero incontrare nella Galassia, responsabile di aver seminato il terrore e la distruzione su migliaia di mondi.
“Avviciniamoci ancora”, disse Scolymus, “dobbiamo trovare il centro della creatura. Attenti a evitare i tentacoli se non vogliamo provocare la sua  reazione immediata”.
Lo videro qualche minuto dopo, un enorme cristallo grande come tre uomini, le cui sfaccettature emanavano riflessi violacei.
“Eccolo”, disse Kynarus, “armate i siluri fotonici, non usate i faser!”
Due siluri in rapida successione andarono a colpire il cristallo che esplose.
Kirk e Spock si guardarono stupiti. Non era possibile: l'Entità Cristallina era morta.
La strana nebbia che aveva intrappolato Kandar 5 cominciò a diradarsi.
“Più tardi scenderemo su Kandar 5 e vedremo se ci sono dei superstiti, anche se ne dubito”, disse Kynarus, “Adesso la cosa più importante è distruggere tutti i frammenti dell'Entità Cristallina per evitare che da qualcuno di essi possa riformarsene una nuova. Sarà un lavoro lungo, per questo vi ho fatto risparmiare i faser”.
Si rivolse verso Kirk.
“Capitano, le restituisco il comando”.
Fece un cenno al dottor Spock invitandolo a seguirlo in un angolo appartato.
“Dottore”, gli disse, “forse lei avrà capito che la VERA ragione della mia presenza a bordo dell'Enterprise è lei”.
“Non comprendo”, rispose Spock.
“Oh, lei lo sa certamente”, replicò Kynarus, “secondo molti, lei non dovrebbe neppure esistere, perché un accoppiamento fecondo fra esseri di due pianeti alieni come i suoi genitori, sarebbe meno probabile di quello fra un essere umano e un carciofo, che comunque condividono l'origine dallo stesso pianeta e miliardi di anni di antenati che hanno partecipato alla stessa storia evolutiva.
Proprio per dare un taglio a queste discussioni, la Flotta Stellare ha deciso di far imbarcare a bordo dell'Enterprise anche un uomo-carciofo”.

domenica 24 novembre 2013

PRIMA DI ATTRAVERSARE IL FIUME di Giuseppe Novellino


     Chuck infilò la caffettiera nella sacca dove nascondeva il bottino e con un calcio disperse le ceneri del  fuoco. Arrotolò la coperta, la fissò dietro la sella, poi mise il piede nella staffa e con una spinta decisa montò a cavallo.
     Aveva dormito solo un paio d’ore con un occhio aperto e una mano sulla Colt, ma quel breve sonno l’aveva ristorato.
   Quella mattina sentiva tutta l’energia per percorrere le restanti miglia che lo separavano da Amarillo. Avrebbe guadato il Canadian River  vicino alla casupola del vecchio Sanders. Da quel punto sarebbe stata questione di una sola giornata.
     Cavalcava da sette giorni, dopo che Hugh era crepato lasciandogli anche la sua parte di bottino. Una pallottola aveva bucato l’addome del suo compare e non gli aveva lasciato scampo. Dopo solo due ore di cavalcata nelle aspre distese del Kansas, Hugh si era lasciato scivolare di lato e aveva sputato l’anima nella polvere. Peccato, perché l’impresa era andata a buon fine; erano riusciti ad assaltare la diligenza, tutto secondo i piani. Ma il conducente aveva fatto quell’atto inconsulto: aveva estratto una vecchia Remington per poi ritrovarsi con un terzo occhio, proprio in mezzo alla fronte. Per Hugh le cose erano andate altrettanto male. Il postiglione, prima di cadere, era riuscito a fare fuoco su di lui, beccandolo nella pancia. Adesso Chuck aveva perso un compagno ma era divento ricco il doppio. Eh sì, le monete hanno tutte una doppia facciata.
     Nel cielo non si vedeva una nuvola. L’aria era tersa, odorosa di erbe e di terra riarsa.
     Mentre il suo cavallo procedeva al passo, sul terreno accidentato e infestato dai rovi, si lasciò cullare dal pensiero di Katy. Avrebbe trascorso una notte nel letto di lei, dopo averla ascoltata cantare nel locale di Burke, laggiù ad Amarillo. E chissà, vedendolo così pieno di grana, la ragazza avrebbe accettato di andare con lui a New Orleans. Sarebbe stata la sua donna, ma anche una buona fonte di reddito. Quel culo, quelle spalle ben tornite e quella capigliatura corvina potevano fruttare molti altri quattrini.

* * *

      Sean Gregg raggiunse il luogo dove Chuck aveva bivaccato che il sole era già alto. Smontò da cavallo ed esaminò attentamente la cenere sparsa. Si era raffreddata, ma il fatto che il vento non l’avesse ancora dispersa significava che non era passato molto tempo dalla partenza del bandito.
      Sean si sentiva ormai a un buon punto. Si tolse il cappello floscio, si deterse la fronte con la manica della giubba. Ormai era sicuro. Lo avrebbe agguantato prima che attraversasse il fiume.
      Era stata una lunga cavalcata, dal Kansas fino al Canadian River, ma ne era valsa la pena. Sean non aveva assistito alla rapina, ma si era trovato a passare di lì mentre i passeggeri della diligenza, ancora disorientati, stavano discutendo sul da farsi. Lui li aveva aiutati a seppellire il cadavere e poi si era deciso all’impresa solitaria: mettersi sulle tracce dei banditi e recuperare la refurtiva. Ma non era stato facile, nemmeno per un uomo come lui, congedato dall’esercito e dedito al vagabondaggio in cerca di fortuna. Aveva più volte perso le  tracce dei fuorilegge. Poi aveva trovato un cavallo abbandonato nei pressi di un cadavere sfigurato dagli avvoltoi. Solo dopo tre giorni aveva visto in lontananza un cavaliere solitario. Era lui, certamente, il compare; ma il luogo troppo aperto lo aveva dissuaso ad affrontarlo. Durante la notte aveva perso di nuovo le tracce e si era ritrovato, a giorno fatto, decisamente fuori strada. Ci vollero altri due giorni per avvistare di nuovo il suo uomo. Ora lo teneva in pugno. Il territorio accidentato nei pressi del fiume avrebbe fatto al caso suo.
     Un sole spietato produceva riverberi dalle sassose ondulazioni del terreno. Sean faceva procedere il cavallo al piccolo trotto, evitando le folte macchie di rovi. E quando fu sulla sommità di un brullo dosso sabbioso, vide in lontananza la sua preda.
      Erano ormai in prossimità del fiume. Sean pensò che la rada boscaglia lungo le rive avrebbe facilitato il suo lavoro.
     Si lanciò al galoppo, facendo un ampio giro per avvicinarsi al corso d’acqua prima del bandito. Quindi si appostò sopra una grossa roccia affiorante, appoggiò il Winchester in una tacca nella pietra, che sembrava fatta al caso suo, e prese la mira.
     La detonazione fece impennare il cavallo del fuggitivo. Il cappello gli volò via. Sean subito si rese conto di avere sbagliato il colpo. Certo, aveva calcolato male le distanze e si era lasciato prendere dalla fretta.
     - Scendi da cavallo e metti le mani bene in vista, carogna – gridò – se non vuoi ritrovarti con un buco in testa! La prossima volta non sbaglio.
     L’altro rimase in sella e rispose: - Vaffanculo! – Estrasse la pistola e aprì il fuoco verso la roccia. Tre colpi in rapida successione. Poi fece scartare il cavallo sulla destra, lanciandolo verso una macchia di cactus e di alti cespugli.
     Sean sparò di nuovo e questa volta ebbe l’impressione di avere colpito il suo uomo, forse ad un braccio. Un terzo colpo di fucile andò a vuoto, mentre il fuorilegge si inoltrava nell’intricata vegetazione.
     - Accidenti! – ringhiò Sean Gregg, levandosi in piedi sulla sommità della roccia.
     Chuck uscì dalla macchia e vide una cosa stranissima. Davanti a lui c’era una larga striscia di pavimento grigio scuro, liscia come una tavola, con una doppia riga gialla che correva nel mezzo. Si allungava da nord a sud. In una direzione si perdeva a vista d’occhio nel sole abbagliante, nell’altra faceva una curva aggirando una collinetta.
     Davanti a quell’incredibile spettacolo, Chuck dimenticò il suo inseguitore e la ferita al braccio che sanguinava copiosamente.
     Poi vide una cosa ancora più incredibile: una specie di bolide bianco sfrecciare su quel largo nastro liscio. Gli passò davanti con un sibilante ronzio e scomparve dietro la curva.
     Dopo essersi ripreso dallo stupore disse a voce alta:
     - Devo attraversare… mettere questa barriera tra me e il mio inseguitore.
     Diede uno strappo alle redini e si ritrovò nel mezzo di quella assurda carreggiata. Qui l’animale si impennò, preso da un terrore istintivo.
     Poi l’urlo lacerante, non umano. Una specie di rauca sirena.
     Il mastodontico carro metallico era sbucato dalla curva. Gli fu addosso.
     - Porcaccia d’una vacca! – imprecò il camionista al volante.
     - Maledetto cowboy! – fece eco un biondino minuto, seduto sul sedile a fianco. – Forse ha voluto suicidarsi.
     Scesero dal mezzo e corsero vicino al cavaliere investito. Il cavallo, centrato in pieno, era stato sbalzato sull’altro lato della carreggiata; l’uomo, invece, appariva maciullato. Uno spettacolo raccapricciante.
     - Guarda – disse il biondino, - aveva un cinturone al fianco… con una vecchia Colt. Che stiano girando un film, da queste parti?
     - Non giustificherebbe il comportamento di questo disgraziato – disse l’autista del camion, togliendosi il berretto. Poi raggiunse il cavallo.
     - Vieni a vedere – disse al compagno.
     In mano, il camionista teneva ora una pesante sacca di yuta. Ne rovesciò il contenuto sull’asfalto: una vecchia caffettiera, una collana, tre orologi da tasca e alcuni mazzetti di banconote.
     Intanto si erano fermate altre due automobili.

* * *

     Sean Gregg giunse ad Amarillo la sera del giorno dopo.
     Andò ad ubriacarsi nel locale di Burke. Vi si esibiva una ragazza dalla voce celestiale. Aveva capelli corvini, un bel culo e robuste spalle nude, ben tornite. Doveva scorrerle sangue messicano nelle vene.
     E prima di essere sbronzo marcio, Sean raccontò la sua caccia all’uomo, come quella carogna si fosse volatizzato dentro una macchia di rovi e cactus.
     La ragazza aveva smesso di cantare e lo stava ad ascoltare.
     Un avventore con la lunga barba grigia calò un pugno sul tavolo e gridò.
     - Katy, su da brava, cantaci un’altra canzone!

sabato 23 novembre 2013

ILLUSTRATORI DELLA FANTASCIENZA E DEL FANTASTICO: Giorgio Sangiorgi


Ecco alcune mie illustrazioni realizzate con tecniche diverse.
Innanzitutto due esempi di composizione digitale: il primo (in alto a sinistra) illustra Le ali della vendetta, uno dei miei racconti più drammatici apparso su Short Stories (Edizioni Scudo); il secondo (in alto a destra) è un omaggio a Dario Tonani per il successo del suo famoso romanzo Mondo 9.

Dai miei archivi, poi, ho tratto alcune mie produzioni "hand made": il disegno di una astronave, realizzato con una penna a sfera e restaurato digitalmente, e un omaggio alla Macchina del tempo di H. G. Welles, realizzato a china.
Attualmente sono tornato al mio vecchio amore per i fumetti e stanno per uscire diversi lavori creati sia in digitale che alla vecchia maniera. 

  Giorgio Sangiorgi

giovedì 21 novembre 2013

ARRIVO SEMPRE TARDI OVUNQUE di Daniel Frini



Ho un problema: la mia macchina del tempo va in ritardo.
Ho perso ore a darle la carica in modo corretto (non conviene forzare il meccanismo, come dimostra il tragico incidente di Chichilo Sartori) ma non c’è niente da fare.
Ho cercato di trovare una qualche equazione che mi permetta di compensare il meccanismo allentato (la mia ipotesi era che quanto più lontano andava nel tempo, avanti o indietro, più faceva ritardo) ma non c’è stato niente da fare. L’ho portata al laboratorio di Laucha Micheli – non c’è miglior orologiaio di lui - . Ho consultato Manteca Acevedo, che di motori quantici ne sa a bizzeffe. Ho corretto il flusso dei tempioni con una barriera di interazione elettromagnetica a largo raggio, ho arginato le forze di repulsione elettrostatica per limitare la velocità termica, sono intervenuto nella relazione an/cat in modo da aumentare l’energia di passaggio; ma anche questo non è servito a niente.
E il problema non è da poco.
Sono diventato viaggiatore perché era il modo migliore per unire le mie due passioni: da un lato, sono una specie di scienziato casareccio,
che ama costruire dispositivi strani; e dall’altro, mi affascinano gli episodi aneddotici della storia; sicché, quando ho trovato le istruzioni non ho esitato; ho costruito la Macchina e mi sono lanciato nello spazio-tempo. Ma non c’è niente da fare.
Tre o quattro volte ho voluto vedere come perdeva la testa Maria Antonia Josepha Johanna von Habsburg-Lothringen il venticinque di Vendémiaire dell’anno due della Repubblica Francese, alle undici di mattina, nella Piazza della Rivoluzione a Parigi; e sono sempre arrivato quando gli ultimi curiosi si stavano allontanando, e il boia Sansón puliva la lama della ghigliottina. Una volta sono arrivato perfino nella notte tra il venticinque e il ventisei, e ho trovato solo un ubriaco che stava pisciando tra le gambe del patibolo.
Ho voluto vedere
Martin Luther King e il suo I have a dream il ventotto agosto del 1963, di fronte al monumento di Lincoln, a Washington; ma ho solo trovato le scale piene di cartacce e sporche per le migliaia di persone che le avevano calpestate; e un gruppetto appartato che commentava, allontanandosi, quanto impressionante fosse stato il discorso.
Ho provato a trovarmi, tra le quattordici e venticinque e le quindici del trenta aprile del 1945 sui tetti del Reichstag a Berlino e risolvere, una volta per tutte, se è stato Melitón Varlámovich Kantaria, o Mijaíl Petróvich Minin o Abdulchakim Ismailov il soldato che ha sventolato la bandiera rossa sul portale del Parlamento tedesco, e vedere Yevgueni Jaldei immortalare il momento in una foto (icona, se ce n’è una, che segna la fine della Seconda Guerra); ma non sono arrivato in tempo nemmeno per vederlo mettere via la sua attrezzatura. Erano già le cinque del pomeriggio, il tetto era vuoto e non c’era nessuna bandiera.
Quando ho toccato il suolo della Curia del Teatro di Pompeo a Roma, alle idi di marzo dell’anno 709
Ab Urbe còndita, Bruto e i congiurati avevano già assassinato Giulio Cesare.
Non ho potuto vedere Perón sul balcone della Rosada, il diciassette ottobre del quarantacinque. In Nagasaki la bomba era già esplosa. Già non c’era più nessun occidentale in Saigon. I militari non mi hanno lasciato entrare al Ground Zero di Roswell. Gli operai dei Beatles stavano smontando le attrezzature dal tetto dell'edificio della Apple. Mary Jane Kelly era già morta nel suo letto e non ho trovato tracce di Jack lo Squartatore. I cadaveri di Mussolini e della Petacci erano già appesi a testa in giù nella stazione di servizio di piazzale Loreto. La macchina di Lady Di era a pezzi nel tunnel a lato della Senna, e circondata da ambulanze e auto della polizia. Non restavano che pezzi di legno del ponte sul Kwai. Di Giovanna D’Arco restavano solo le ceneri e due o tre braci ravvivate da un lieve vento del nord. Dempsey stava risalendo sul ring dopo il terribile montante destro di Firpo. Gli alberi di Tunguska erano caduti e in fiamme. E, ovviamente, la polizia aveva già transennato Dealey Plaza a Dallas e avevano già portato JFK, ferito mortalmente, al Parkland Memorial Hospital.
Non c’è niente da fare. Arrivo sempre in ritardo ovunque per colpa di questo catorcio che mi è costato più di dieci anni di lavoro, una mostruosità in denaro, il mio matrimonio, l’odio dei miei figli e l’abbandono da parte di genitori e amici.
Naturalmente, ho provato diverse volte a tornare nel 1998 per mettermi in guardia da questo inconveniente, con la speranza di trovare, in quei primi passi, una soluzione adeguata e forse ovvia nei progetti presi dalla rivista “Meccanica Popolare” del mese di marzo; però, qualsiasi cosa faccia, arrivo sempre dopo aver chiuso il mio laboratorio e mentre, di sicuro, sto sonnecchiando sull’autobus nel lungo viaggio di ritorno a casa, nelle ultime ore del pomeriggio. Non sono nemmeno arrivato in tempo per avvertirmi di tenere forte il corrimano quella volta che l’autobus 298 ha frenato di colpo, all’angolo tra Brandsen e Quirno Costa, per colpa di un taxista che ha attraversato con il semaforo rosso: mi è costato una caduta e un mal di schiena durato tre settimane.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

martedì 19 novembre 2013

CHI SONO? (OVVERO: SAURO E L'ESISTENZIASLISMO) di Sauro Nieddu

A tutti capita, una volta o l’altra nella vita, di porsi le fatidiche domande:  Da dove veniamo? Dove andiamo? Chi siamo?
Ovviamente, essendo un essere umano come tutti gli altri, è capitato anche a me di pensarci. Eppure, evidentemente, devo essere più intelligente della media; la risposta alle prime due domande mi è balzata all’occhio come una mosca balza al naso. Ancora mi chiedo come mai tanti filosofi ci si siano rotti la testa, visto che la risposta è banale, quasi ovvia. La risposta, tra l’altro, è la stessa per ambedue le domande, ed è: dipende.
Se m’incontrate in via Oristano verso le due del pomeriggio, che pedalo verso la stazione, quasi di sicuro starò venendo da casa e andando a comprarmi le sigarette, se mi vedete pedalare in via Oristano, alle due e cinque, diretto dalla parte opposta alla stazione, con ogni probabilità verrò dal tabacchino della stazione e sarò diretto verso casa, a fumarmi una sigaretta.
Se mi vedete in via Oristano, tra le sei e le otto del pomeriggio, e pedalo verso la stazione, è praticamente certo che stia andando al bar Pino, a bermi qualche birra. Se mi vedrete nella solita via, ma vado nella direzione opposta (e soprattutto le mie pedalate non mi conducono in linea retta), tra le nove di sera e le quattro del mattino, potete esser certi che venga dal bar e sia diretto verso casa.
L’ultima domanda, invece, mi ha creato qualche problema. In parte, come per le altre due, si può dire che avessi la risposta già bella pronta nel taschino. Nieddu in sardo significa semplicemente nero, e non avevo nemmeno bisogno di tradurre per capirlo; bastava che mi guardassi allo specchio…ma Sauro, decisamente, mi dava qualche grattacapo in più.
Per completare la scoperta di me stesso, mi affidai al vecchio e glorioso dizionario etimologico di mio padre (sto parlando dei primi anni del terzo millennio; e dizionari ed enciclopedie cartacei, pur esistendo ancora, erano già in via d’estinzione), risaliva agli anni cinquanta del secolo scorso, e con tutto quello che deve aver passato per arrivare fino ai giorni nostri, sfido chiunque a provare a contestarlo.
Dunque presi in mano l’antica reliquia e la sfogliai delicatamente per non rovinare le sacre pagine. E finalmente eccola, accovacciata là, sul fondo di una pagina come un'altra, la risposta alla domanda più importante. Accesi la luce per riuscire a leggere sulla carta ingiallita, ormai simile a una pergamena. Questo fu ciò che lessi:
sàuro, agg. Di cavallo, D’un color rosso castagno uniforme e più o meno intenso, e con le estremità, la criniera, la coda, un poco più chiare del resto: Sauro chiaro, Sauro dorato, etc.
Fu subito ovvio che qualcosa non andava… cioè, mi pare logico che un sauro, in quanto tale, non può essere nero; sarebbe una specie di contraddizione! Eppure… sentivo una vocina nella testa che mi diceva di scavare più a fondo, forse una reminiscenza scolastica. Mi pareva che questo genere di contraddizione dovesse avere un nome più preciso.
Schioccai per tre volte le dita accanto alla tempia, di solito era il metodo migliore per far affiorare un ricordo sfuggente. Eppure quella volta non funzionò; la mente era come bloccata. In compenso mi ricordai di un vecchio amico che poteva aiutarmi: G. P.
Potrà sembrare paradossale che mi rivolgessi proprio a lui, ma è un dato di fatto che tra noi terrestri, questo genere di cultura, ai tempi, era piuttosto fuori moda.
G.P. si era trasferito in paese da una decina d’anni. Era dovuto fuggire da Satollo, un planetuncolo dalle parti di Orione, quando senza nessun preavviso, le donne del pianeta si erano messe in testa di essere più importanti dei loro uomini. G.P. all’inizio non aveva dato peso a questo movimento. Aveva preso sottogamba tutta la faccenda fino a che un giorno sua moglie aveva preteso che lavasse i piatti. Lui aveva cercato di spiegarle in maniera razionale i motivi perché quei compiti spettassero a lei. Purtroppo però, lei si era montata la testa e doveva essersi convinta di avere anche una qualche superiorità intellettuale, difatti aveva osato rispedirgli indietro con gli interessi tutte le argomentazioni. A quel punto, giustamente indignato, l’aveva rimessa al suo posto come si usava un tempo, con una sberla sonora e ben assestata.
Nemmeno questo funzionò; la signora P. si rivolse al tribunale, ottenendo il divorzio alle condizioni migliori che femmina satollana avesse mai ricevuto, e allo stesso tempo un mandato restrittivo che impediva a G. di avvicinarsi a meno di un chilometro dalla sua ex abitazione. Il fatto è che in tale raggio, erano situate gran parte delle sue amicizie e perfino il suo posto di lavoro.
In preda alla frustrazione e alla rabbia, fermamente deciso a non fare avere alla sua ex signora neanche un centesimo degli alimenti che le erano stati ingiustamente assegnati, G.P. saltò sulla sua astronave e decise di trasferirsi qui a Marrubiu.
Ovviamente, anche dalle nostre parti le dinamiche psico-sessuali sono più o meno le stesse, però, a suo stesso dire, la cosa non lo turba affatto; dopotutto questo non è il suo pianeta e le faccende locali non lo coinvolgono emotivamente quanto quelle del mondo d’origine.
Comunque, tralasciando le sue vicende private, era un tipo abbastanza a posto e potevo contare su di lui per un mucchio di cose. Riguardo a questa in particolare, devo dire che da quando era arrivato, si era dato un gran da fare per studiare la cultura terrestre e s’intendeva di un sacco di cose. Figuratevi che, spinto dalla naturale curiosità culturale dei satollani, si era iscritto all’università proprio nella facoltà di lettere; se c’era qualcuno che poteva aiutarmi a risolvere la questione, era certo G. P.
Presi la bicicletta e percorsi via Oristano¹ in preda all’ansia. Poggiai la bicicletta proprio accanto alla porta e mi attaccai al campanello. G. venne ad aprirmi dopo una decina di minuti, aveva un’aria assonnata (erano le quattro del pomeriggio e i satollani, come molti terrestri, hanno l’abitudine di fare su meigamma²).
‒ G. mi serve un favore. Immediatamente. ‒ esordii senza tanti preamboli‒ Sai, quando si accostano due parole che hanno un significato incompatibile tra loro ma…
«Un ossimoro?»
Rispose lui con uno sbadiglio. Sentii il mondo crollarmi addosso ma mi sforzai di essere cortese.
«Sì, grazie mille G. Mi sei stato di grande aiuto.»
Detto ciò montai in sella e mi dileguai mentre lui agitava la coda felina nel classico gesto satollano di perplessità.
Avevo le gambe malferme per la delusione, non sapendo se mi avrebbero sostenuto fino a casa, decisi di fermarmi al rifornitore e fare il pieno. Appena l’addetto al distributore finì d’iniettarmi la siringa di carburante, le gambe tornarono toniche e cominciarono a scalpitare. Pagai e saltai di nuovo in sella, ripartendo come un razzo verso casa.
Beh… le gambe adesso erano a posto, non altrettanto potevo dire dei miei pensieri; e così ero solo un ossimoro, un’astrazione, qualcosa che non ha riscontro nella realtà. Un’astrazione semi-sconosciuta per di più! Avevo sentito quella parola solo due volte in tutta la mia vita; la prima dalla mia prof d’italiano che spiegava le figure retoriche, la seconda ora, pronunciata da un amico per definire me.
Il nuovo carburante si esaurì in un attimo, non vidi neanche lampeggiare la spia della riserva. Tornai a rallentare e lentamente mi trascinai fino a casa. Avevo il morale sotto i tacchi e per poco, nel passare sopra il canale, non mi gettai giù dal ponte; a chi mai poteva importare della scomparsa d’un ossimoro?
Parcheggiai la bicicletta, chiusi il cancello ed entrai in casa. Attraversando il salotto mi accorsi di aver lasciato il dizionario aperto sul tavolo, lo presi per rimetterlo a posto e solo allora mi resi conto che la definizione di Sauro che avevo letto, era preceduta da un 1.
Se c’è un uno, pensai ci dovrà essere anche un due!
Voltai pagina col cuore che martellava nel petto, guardai cautamente e vedendo il tanto sperato due, presi sicurezza e lessi speditamente:
2. sàuro, s. m., scient. Com. nel plur. Sauri, I rettili che hanno forma di lucertola, ma non la dura corazza dei coccodrilli.
Tirai un sospiro di sollievo.
Intendiamoci, non che sia mai stata una mia ambizione, essere una lucertola, né, del resto, conosco nessuno che abbia mai avuto tale aspirazione, eppure mi sentii davvero felice. Provate a capire; un’astrazione pensante che di botto si trova ad avere una propria dignità materiale. Del resto siamo creature adattabili; se perfino un satollano misogino può adattarsi a vivere sulla Terra, un terrestre può ben accettare qualche compromesso… certo, penserete voi, una lucertola nera non è esattamente in cima alla scala sociale, ma provate a mettervi nei panni d’un ossimoro, almeno per dieci minuti. Capirete che correre ventre a terra, con la linguetta che saetta ad assaporare l’aria, per poi ingoiare una mosca e quattro zanzare e fermarsi a digerire al sole, in fondo non è poi così male.
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¹ In realtà sarebbe stato meglio passare per via Piave, ma da qualche tempo l’avevano fatta senso unico.
² In sardo, alla lettera: Il primo pomeriggio. Preceduto dal verbo fare, prende però il significato di: Pisolino pomeridiano.

domenica 17 novembre 2013

KTO? di Serena Gentilhomme



   Alla memoria di Serguei Ivanovitch Chmeliov (1896-1921)

Piano piano, la serata s’era spenta nel mormorio di conversazioni languenti. Gli ultimi ospiti erano appena scomparsi quando la vostra mano, padre, mi si è abbattuta sul polso, stringendolo con un vigore che non conoscevo più da molto tempo…
 Kto? Kto tam takoi? Chi c’è laggiù ? – mi avete chiesto, senza inquietudine, ma con la determinazione d’un padrone di casa confrontato a persona non grata.
Ho seguito la traiettoria indicata dal dito che aveva perso il tremito abituale, ma ho soltanto scorto le ombre dei servitori che sparecchiavano sotto il bagliore tremulo dei lampadari.
– Padre, non c’è più nessuno.
– Niét. È rimasto qualcuno che non abbiamo invitato, per giunta.
Scrutando il fondo del salotto, là dove l’oro delle icone riverbera sul velluto d’un’ottomana, ho appena notato il bagliore screziato d’una stoffa preziosa. Dunque, ho balbettato qualcosa a proposito d’uno scialle dimenticato da una nostra ospite, e sul vostro viso s’è dipinta l’ironia compassionevole che accoglieva le mie sciocchezze di bambina… Prima di dileguarvi sul sottile cigolio della sedia a rotelle, avete insistito sulla necessità assoluta di sbarazzarci dell’intruso – o dell’intrusa –, al che ho acconsentito, con una sensazione d’impotenza.
Rimasta sola, sono stata invasa da un’impressione di déjà vu ed ancor più da un terrore che è aumentato quando un fulmine di brace è sgorgato dall’ottomana : un personaggio imponente, rivestito d’un tabarro scarlatto, vi era seduto, ripiegato su se stesso, stringendosi la chioma – una criniera di belva – tra le sue mani di contadino, forti e nodose… Ero così sgomenta, padre, che non ho potuto farci niente quando la cosa si è eretta e, dispiegando due ali di fuoco, si è dileguata nell’oscurità, fra due tendaggi di velluto e due ritratti d’antenati dall’imperioso sguardo protettore – del resto, è grazie al loro segreto sostegno che ho osato inseguire il mostro in camera vostra.
Ivi regnava una calma strana, quella che precede gli incubi : il grande orologio d’ebano scandiva, discreto, l’irreversibile, sulla scrivania una lampada a petrolio rischiarava penne, calamai e pagine che aspettavano il seguito delle vostre memorie. Supino, immobile sul letto, mi offrivate il mistero del vostro profilo, identico alla falce di luna sospesa nel cielo, dietro il pallore delle tende… Silenziosa, mi sono seduta davanti alla finestra ed ho subito notato un foglietto di calendario appuntato ai merletti : la carta era ingiallita e parzialmente annerita – come sottratta al fuoco –, ma la data era perfettamente visibile :
25 ottobre 1917.
L’orologio smette di battere.
Una deflagrazione scuote la camera, la facciata del nostro palazzo crolla e ci ritroviamo a picco su di un paesaggio di follia distruttrice : la statua dello zar Alessandro esplode in mille pezzi, un uragano di bandiere rosse si riversa nel Palazzo d’Inverno, dove infierisce un ometto barbuto, dallo sguardo penetrante, dal berretto d’operaio… Al di sopra di quest’apocalisse, si libra immensa, incandescente nel cielo, l’indesirata ospite che porta inciso, sulla fronte altera, il nome suo in lettere di fiamma e di sangue :
Pеволюция. Rivoluzione.
Ebbene sì: di nuovo, abbiamo dovuto subire la visita dell’intrusa mai riconosciuta, ancor meno accettata. Ma l’insolente, ad ogni suo anniversario, si diverte a disturbare il riposo d’aristocratici morti senza saperne il perché. La forza del diniego è tale che dimentichiamo, sistematicamente, l’esistenza dell’importuna, fino al momento in cui ritornerà ad imporsi, l’inesorabile.
Fin da ora, aspetto la vostra domanda rituale, padre mio :
– Kto?
Ancora e ancora – nell’eterna notte dei tempi.

(Tratto dalla rivista Solaris n° 188 - Traduzione dal francese di Serena Gentilhomme - Illustrazione di Laurine Spehner)