Nei
tempi quando mia nonna si ruppe il femore e fu obbligata a sedersi sulla sedia
a rotelle, in famiglia si prese la decisione di continuare ad assistere ai
pranzi della domenica come se niente fosse. Era affascinante per noi, cugini,
l’attrazione che aveva quella casa di legni tarlati e scricchiolanti. Il pranzo
che preparava la vecchia Ignazia nella cucina a legna, era speciale. Gli zii
non facevano altro che parlare a tavola del raccolto annuale, se il cotone era
buono oppure no, mentre noi giovani, dopo aver trangugiato il cibo, correvamo
per il vicinato facendo birichinate e divertendoci da morire, rubando il vino
per la messa dalla dispensa e spaventando le galline.
Ci
sembrò un bene, allora, la frattura di gamba della nonna, anche se adesso che
ci penso, fra poco sarò nonna anch’io, e ho nostalgia della figura di quella
donna impetuosa che ci sgridava mentre faceva girare la sua sedia a rotelle:
‒ Birbanti! Lasciate
stare il gallo da combattimento che resterà senza una piuma sulla coda!
Il
tavolo per la domenica in famiglia si preparava il sabato con una tovaglia
bianca di cotone. Si disponevano sedici posti con i piatti, le posate e i
bicchieri. Veramente, noi eravamo in quindici: la nonna, tre zii, due zie e
nove nipoti tra i quali c’ero anch’io che allora avevo dodici anni. Gli zii
arrivavano a cavallo e si sedevano a tavola, lavati e sbarbati, e non tenevano
mai addosso gli stivali pieni di terra, perché la nonna li sgridava da
capotavola, con la frusta in mano, dando un colpetto sulle spalle a chi si
azzardava a replicare, mentre lei parlava.
Dopo
che si ruppe la gamba, non riusciva ad arrivare fino ai nipoti seduti più
lontano dal suo posto e ciò ci riempiva di coraggio. Senza paura né rispetto,
interrompevamo i suoi discorsi con i canti del gallo o con un ragliare
impertinente, incomodando le zie e ricevendo occhiate furiose da tutti gli
altri.
All’altro
capo della tavola c’era un piatto per il forestiero. Rimaneva sempre lì per chi
arrivava alla casona della fattoria a chiedere qualcosa da mangiare dopo aver
camminato probabilmente per ore e ore sulle sabbie fumanti che circondavano i
terreni seminati di cotone, poiché molte automobili s’insabbiavano quando il
vento paraca copriva di sabbia la strada principale e le faceva deviare
perdendo la rotta. La porta di casa restava sempre aperta di domenica, ma
l’ultimo posto generalmente rimaneva vuoto. Però, in uno di quei giorni festivi
giunse un originale forestiero a sedersi al tavolo familiare. Arrivava d’altri
mondi e la sua storia ci sembrò così fantastica e incredibile che, da allora,
preparo anch’io un piatto per il forestiero al tavolo domenicale.
Era
caduto dal cielo in mezzo al greto asciutto del torrente, proveniente dallo
spazio, e la sua nave era rimasta incastrata nelle dune di sabbia. La nonna gli
offrì il pranzo e fu così che facemmo conoscenza del nuovo visitatore. Il suo
nome era Sedna. Non aveva un capello in testa e il suo sorriso era ampio e
sincero. Il colore giallo verdognolo della sua pelle era strano, ma non posso
dire che fosse un essere sconcertante. Faceva movimenti lenti e senza fretta,
parlava la nostra lingua con un forte accento che immaginammo fosse quello
degli inferi e immediatamente decidemmo che era il vivo ritratto del diavolo in
persona. Victor, il più piccolo dei cugini, gironzolava intorno al tavolo e
quando gli passava vicino, lo pungeva con la forchetta per sapere se gli
facesse male oppure no, fino a che la nonna con quattro strilli lo mandò a
sedersi composto a tavola.
Il
racconto del visitatore fu straordinario e ci riempì d’ammirazione e di
stupore.
Mentre
ci spiegava com’era quel suo mondo, in un lontano pianeta, mangiava fagioli di
Spagna con le mani e rimase con il peperoncino piccante in gola, tossendo,
perché quella salsa che metteva Ignazia sul tavolo era tanto bruciante che ci
faceva piangere; “ma è così che si mangia,” ci diceva la nonna, “per crescere
grandi e coraggiosi.”
Sedna
ci raccontò che dal suo mondo stavano cercando nel Cosmo altri posti dove
andare a vivere perché il loro pianeta era sul punto di disgregarsi. Ci fece un
disegno sulla tovaglia scrivendo con il dito, cosa che ci meravigliò non poco,
così da poter identificare il suo luogo di origine.
Quello
che realizzò dopo fu miracoloso, o cose del diavolo, secondo se lo raccontava
la autunnale anziana oppure le zie ‘beate’. Alzò l’anziana dalla seggiola a
rotelle, le mise le sue mani enormi e verdi sull’anca e lei si mise a
camminare, zoppicando un po’, ma con i suoi piedi per terra, avanzando un passo
dopo l’altro.
Rimanemmo
stupefatti. Mai avremmo pensato che si potesse curare la gente mettendo le mani
sopra un arto bloccato. Poi provammo anche noi, ungendole con olio e
prezzemolo, ma non funzionò mai così bene come quella domenica al forestiero.
Subito, la nonna incominciò a camminare da sola un’altra volta.
Sono
passati gli anni e il terreno della nonna continua a produrre cotone anche se
lei non c’è più. In passato pensavamo che il forestiero l’avesse portata nel
suo mondo, fra le stelle e i pianeti dello spazio. Adesso, invece, sappiamo che
è morta e sepolta fra i carrubi, nel cimitero del paese che quasi non si vede,
perché è in lotta continua contro il tempo e la sabbia per non rimanere coperto
completamente dal deserto.
Da
quando il forestiero sparì quel pomeriggio nella nebbia caliginosa, non lo
vedemmo più, ma rimase nel nostro ricordo come Sedna, il diavolo di un altro
mondo che guarì la nonna. Il tavolo domenicale è pronto. Lo stiamo aspettando.
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