domenica 7 settembre 2014

LADRO DI LUCE di Fabio Lastrucci



Le foglie dei platani fuori alla finestra proiettavano sagome in movimento sui muri della cameretta. Erano ombre amichevoli, che piacevano a Matteo, come le silhouette delle tapparelle ritagliate dai lampioni notturni. Certo, ci voleva fantasia per figurarsi che quei trafori fossero la pellicola di un film, ma al ragazzo l’immaginazione non mancava. Anche quando pensava che a tarda notte venisse a vegliarlo un enorme lupo su due zampe, per controllare che dormisse dal lato giusto del letto.
Il pomeriggio illuminava di una tonalità dorata la collina di Posillipo. Un tramonto particolarmente lungo stava indugiando dietro le facciate delle case, come se si fosse impigliato nelle antenne che coprivano i tetti.
«Merenda! Me-ren-da!» urlò Matteo steso tra i giocattoli sparsi sul tappeto.
Al terzo imperativo, la mamma entrò nella stanza facendogli cenno con un dito di abbassare la voce.
«Guarda, che se continui a starnazzare così, porto via il televisore nuovo e dico al papà di rimetterlo nella stanza da pranzo. Ricevuto?»
 Il ragazzo si alzò in piedi e si fece strada tra i soldatini e gli albi di Mandrake.
«Posso vedere la tivù?»
«Hmm. E in cambio?»
Patteggiarono per una riordinata della stanza e una mezz’ora di studio dopo il telefilm. Italiano e geografia. Matteo raccattò svogliatamente il suo esercito, qualche 45 giri dello Zecchino d’Oro e i due Stanlio e Ollio di gomma (orfani di bombetta) per gettare il tutto nel baule di vimini dei giochi. Nascose poi sotto al letto il mangiadischi insieme ai giornalini e i sacchetti di patatine Pai. Infine tirò alla meglio il copriletto su un giacimento di calzini.
L’elenco dei compiti a casa, occultato da parecchie cancellature fatte ad arte, stava ben conservato in cartella tra le pagine del diario Vitt.
Gli esercizi di grammatica potevano aspettare.
Alle cinque e mezza aveva acceso il televisore e aspettava che il nuovissimo schermo si riscaldasse riempiendosi di immagini in bianco e nero. 
Quel massiccio “S-M 2000” lo entusiasmava, essendo il modello più avveniristico e invidiato del palazzo, forse di tutto il quartiere. Era apparso ai genitori la mattina di qualche giorno prima, inattesa vittoria di un concorso non bene precisato. Appena dopo la consegna, aveva finito con lo spodestare il valvolare Philco relegandolo giù in cantina.
Ora spiccava in cameretta con quel suo incasso in legno chiaro e bakelite innervata di rilevi cromati. Per gli adulti era giusto un bel mobile. Matteo invece ne aveva un idea diversa. Per lui quello schermo rappresentava qualcosa in più che un semplice nuovo elettrodomestico.
Era il futuro.
Mentre la sorellina piccola dormiva, Matteo con una fetta di pane e burro tra le mani ed il nuovo episodio de "La Frontiera" che stava per andare in onda, lasciava che il mondo quotidiano iniziasse a retrocedere
Se la caveranno, sicuro.
Se la cavano sempre, no?
Perché non dovrebbero proprio ora…?
Quello che più piaceva della Star-Wolf a tutti gli spettatori dai sei ai dodici anni era che il suo equipaggio uscisse sempre illeso dalle situazioni più assurde.
Non questa volta, però. Andava male, pensava Matteo. Molto male.
E non pareva neanche l’unica novità dell’ultima puntata.
L’azione era partita in quarta un attimo dopo la sigla del programma. Un vero pugno nello stomaco.
Giusto il tempo di fare scorrere i titoli di testa, che nello spazio profondo de "La Frontiera" era schizzata un’astronave grigio scuro mai vista prima. Non era né Kluster, né Ohigon e pareva avvolta da una rete di luce che crepitava, tallonata a uno sputo di distanza dalla Star Wolf in pieno assetto di guerra.
Forte!
Chi potevano essere quegli inseguiti, messi così male in arnese? Non di certo una delle razze che si contendevano con la Lega Galattica il dominio della Frontiera. I Kluster col loro cranio bitorzoluto avevano navi diverse, così pure gli Ohigon e i loro stormi di bianche Libellule metalliche.
Il Commodoro Stark, apparve sul ponte di comando mentre abbaiava una gran quantità di ordini nell’interfono.
Intorno, regnava un’agitazione insolita mentre il personale di bordo si dava da fare intorno ai quadri di comando. C’erano pochi dialoghi, il pezzo forte della produzione, molte di più invece le riprese esterne con spericolati movimenti di camera.
Matteo non aveva mai visto niente del genere. Si sentiva elettrizzato, aveva la pelle d’oca. Il suo pane e burro gli era scivolato di mano per finire sul tappeto.
Dalla sala macchine, l’ingegnere capo Ross sudava macchiando la tuta attillata con grosse chiazze scure.
Insolito.
Per la prima volta, si vedeva una panoramica dei suoi famosi “motori Pentatomici”, in genere soltanto nominati. Era una distesa inquietante di centinaia di prismi e fasci di cavi e grosse turbine schermate. Su tutto aleggiava una luminescenza pulsante, simile a quella vista sulle paratie della nave sconosciuta.
Ross chiedeva tempo al Commodoro per contenere le perdite di energia con una doppia griglia di protezione. Questo avrebbe sottratto velocità alla Star-Wolf.
Un ghigno aveva solcato il viso di Stark, solitamente una maschera inespressiva.
«Questo è l’ultimo dei nostri problemi…» aveva detto. «Con Shademaster  che sta per interferire col nostro piano di realtà, siamo nella merda fino al collo…»
Matteo fece un salto sulla sedia. La panoramica vertiginosa che scivolava dalla fiancata dell’astronave fino allo spazio lo strabiliò, non era il solito modellino ripreso in campo lunghissimo. Assai più sconvolgente fu sentire il Commodoro parlare con quel  linguaggio.
Nessuno si era mai espresso così in televisione.

Dalla cucina, la mamma stava tendendo l’orecchio con discrezione. Nessun fracasso, nessun cozzare di macchinine. Bisognava dire che quel video aveva potere ipnotico. Un vero e proprio silenziatore, come lo chiamava suo marito. I bambini non dovevano restarci troppo attaccati, però.
«Matteo, appena finito il tuo filmino, vai a fare i compiti! Mi raccomando…»
Ovviamente, silenzio assoluto. Tutto normale.
La signora Nina non poteva immaginare che il figlio stesse aggrappato al tappeto, perso nel vortice delle inquadrature acrobatiche. Stava sudando freddo, in una condizione incerta tra il panico e l’euforia.
Quel che sembrava un inseguimento, era stato in realtà un salvataggio. Finito male, per giunta. La Star-Wolf non ce l’aveva fatta e dentro la plancia l’equipaggio, come impazzito, scorreva dati sui monitor, digitava comandi. Urlava cose incomprensibili.
Il dottor Wasp, l’uomo di Vesu 2, si strofinava la testa a punta bestemmiando tra i denti.
Parolacce!  Pensò Matteo, Wow!
«Ho qui un rapporto del computer di bordo, Commodoro. La falla dimensionale si sta allargando. E’ colpa di Shademaster . Non lo conteniamo più.»
«Maledetto bastardo! I raggi beta-D?»
«Negativo, signore, guardi lei stesso…»
I due ufficiali, si avvicinarono ad uno schermo. Mostrava una complessa figura geometrica, una sorta di reticolato, che sprofondava in sé stesso inghiottendosi.
Il grigio-perla della rete aveva assunto un’impossibile tonalità verdastra.
Contemporaneamente, le foglie dei platani in strada persero tutte di colore, ingrigendo di colpo.
Un primissimo piano si strinse fino a mostrare il taglio degli occhi socchiusi di Stark, mentre mormorava qualcosa di simile a una preghiera. Quando li riaprì lentamente, il suo secondo ufficiale, insieme a Matteo, mandarono un gemito di sorpresa.
Gli occhiali della mamma s’infransero a terra scivolandole improvvisamente dalle mani. La donna, colta da un capogiro, si puntellò contro un mobile e prese a strofinarsi gli occhi.
Il cuore le batteva fortissimo nel l’andare alla finestra a guardare il cielo.
Azzurri come due zaffiri, gli occhi del Commodoro Stark spiccavano sullo schermo dai toni cinerei. Guizzando nervosi, si fermarono sul viso alieno di Wasp.
«Il nemico è troppo forte,» disse asciutto.
Nei meandri nascosti del televisore brillò una targhetta di metallo fino a illuminare i complessi circuiti interni.
Sulla superficie della placca, l’iscrizione in rilievo “SHADEMASTER – modello S-M 2000” divenne di un vittorioso rosso incandescente.
Dal video, entrambi gli ufficiali osservarono gli ambienti della sala comando colorarsi uno a uno.
«Abbiamo perso, signore.»
«Già. La nostra dimensione verrà alterata, Wasp, e noi non possiamo impedirlo…»
Sempre più appiccicato al televisore rutilante di colori, Matteo tremava. Lo spettacolo era straordinario. Non si rese conto intanto di essersi trasformato.
Intorno a sé, il cielo, la terra, gli oggetti e le persone (compresa la mamma vacillante nel corridoio), erano mutati in un mondo uguale a se stesso eppure molto diverso.
Tutto era diventato bianco e nero.

2 commenti:

  1. Bel racconto questo di Fabio Lastrucci, cui diamo un cordiale benvenuto sulle pagine di Pagasus.

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  2. Molto bello, intenso, avvincente questo racconto di classica fantascienza.
    G.S.

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