Dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei. (Detto popolare)
La luna, una luna quasi piena, era uscita da dietro le
nubi, e ora spandeva nella notte la sua spettrale luminosità.
Il sentiero si stendeva nitido davanti a noi, perché
il chiarore lunare faceva risaltare e quasi brillare i ciottoli di ghiaia
biancastra che ne costellavano il fondo, ma ai due lati l'intrico di alberi e
cespugli inselvatichiti che costituivano quasi una vera e propria foresta,
risultava più cupo e minaccioso che mai.
“Dottor Niemeyer”, disse Silas al mio fianco, “è
proprio sicuro di voler andare? È ancora in tempo per ritirarsi, se vuole”.
“Andiamo!”, risposi seccamente.
Ci avviammo lungo il sentiero, Silas e io. Procedevamo
affiancati e silenziosi come due spettri.
Naturalmente non c'era in giro nessuno, ma penso che
se qualcuno ci avesse visti, avrebbe pensato che formavamo un ben strano
contrasto.
Vi sono alcuni esseri umani, un gruppo scelto e
limitato: artisti, studiosi, persone molto intelligenti, che frequento
disinteressatamente per il puro piacere della loro compagnia. Costoro hanno in
genere la bontà di elogiarmi per il mio aspetto elegante, dicono che sembro un
gentiluomo di altre epoche, e non sanno quanto abbiano ragione.
Silas era vestito con abiti laceri e non troppo
puliti, ma anche se avesse indossato un elegante smoking o una marsina, avrebbe
avuto ugualmente l'aspetto di uno spaventapasseri: alto, di una magrezza
scheletrica, con gli occhi profondamente infossati nelle orbite. Aveva i
capelli troppo lunghi e arruffati, la pelle butterata, picchiettata di
un'ispida ombra di barba, uno sguardo torvo con un che di animalesco.
Mentre ci inoltravamo, la luce lunare sembrava trarre
forme mostruose dalle ombre ai lati del sentiero. Ogni tanto si udiva qualche
verso lontano di un uccello notturno o un pipistrello ci svolazzava attorno.
Silas mi osservava con attenzione aspettando di vedermi trasalire. Beh, credo
che lo delusi.
Il sentiero terminava contro un basso muretto su cui
si ergevano le sbarre di una cancellata; era in tutta evidenza un cimitero.
Trovammo senza difficoltà l'ingresso. Silas si muoveva
con disinvoltura, era chiaro che quella strada gli era familiare.
Il cancello non era chiuso. Silas spostò l'anta della
cancellata, ma mi bloccò tendendo una mano verso di me.
“Dottor Niemeyer”, disse, “è proprio sicuro di non
voler aspettare l'alba? Andare a caccia di vampiri è più sicuro quando il sole
è sorto”.
Feci un gesto di diniego.
“Prima facciamo, meglio è”, risposi brusco.
Oltrepassammo il cancello ed entrammo nel cimitero
incamminandoci per i vialetti fra le tombe. Silas si muoveva con sicurezza, una
sicurezza certamente dettata dall'abitudine, sapeva esattamente dove voleva
portarmi.
Un cimitero di notte sotto la luna, un luogo infestato
da una presenza soprannaturale, un luogo che chiunque avrebbe trovato
minaccioso e tetro. Di nuovo ebbi l'impressione che Silas mi spiasse per
cogliere qualche mio trasalimento, e di nuovo dovetti deluderlo.
Arrivammo davanti a una cappella di marmo bianco, ma
sporco e trascurato, aveva la forma classica delle cripte di famiglia.
La porta metallica della cripta era appena accostata.
Silas la aprì e mi rivolse uno strano sogghigno.
“Dopo di lei, dottore”, disse.
Dentro era buio, tranne che per la luce lunare che
entrava dall'ingresso, ma la cosa non pareva disturbare Silas e di certo non
disturbava me.
C'erano alle pareti una serie di loculi che dovevano
contenere le ossa e le ceneri di antiche inumazioni, e al centro c'era un unico
grosso avello di pietra che doveva ospitare la sola sepoltura recente.
Appoggiai da un lato il mantello e la giacca e mi
accinsi ad aiutare Silas.
In due, io da una parte, Silas dall'altra, spostammo
il coperchio marmoreo del catafalco in maniera abbastanza agevole, sebbene fosse
alquanto pesante.
Dentro il sarcofago non c'era nulla, era vuoto.
Silas m'interpellò in modo sarcastico.
“Ancora non ha capito, vero dottore?”
“Lei voleva incontrare il vampiro”, proseguì, “ebbene,
eccolo qui davanti a lei, il vampiro sono io”.
Gli risposi con un'occhiata indifferente che mi
ricambiò con uno sguardo folle. Spalancò la bocca mettendo in mostra i canini
di lunghezza anomala.
“Che mi dice ora, dottore”, disse ancora, “il dottor
Niemeyer, il grande studioso delle scienze occulte e dei fenomeni paranormali?”
Arretrò di un mezzo passo, sconcertato forse dal fatto
di non leggere in me alcun segno del terrore che pensava d'incutermi.
In quel momento provavo, come mi accade altre volte,
una curiosa sensazione di sdoppiamento: una parte di me era lì nella cripta,
ben presente e vigile, un'altra era invece mille miglia lontana da lì e da
quella creatura miserabile che non m'ispirava altro che disprezzo.
Qualcuno fra gli umani che conosco, di quei pochi che
frequento disinteressatamente, ha paragonato l'espressione che assumo in quei
momenti a una scogliera dirupata a picco sul mare: non si può cogliere
l'emozione che esprime, ma fa un'impressione di grandiosa estraneità.
Prima di andarmene rimisi a posto il coperchio
dell'avello. Ora non era più vuoto, e quel che conteneva non si sarebbe mai più
mosso di propria volontà.
Silas, un bifolco che qualche sciocco invece di finire
aveva per errore trasformato in uno di noi. Non aveva nessuna possibilità di
competere con un maestro con un'esperienza di secoli.
Racconto horror avvincente, pieno di suspense e con sorpresa finale.
RispondiEliminaL'ambiente del racconto é molto ben descritto ed il finale é sorprendente...
RispondiEliminaBel racconto, coinvolgente e di grande atmosfera, con colpo di scena. Si legge molto volentieri grazie alla prosa funzionale, piana e molto scorrevole.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino