Un fruscio appena percettibile. Rapidi movimenti
in mezzo ai cespugli. Pochi istanti e fu di nuovo silenzio.
Dal folto della foresta le movenze flessuose del
grande serpente di giada raggiunsero il ruscello. L’animale vi si immerse e, al
pallore della luna, ecco fuoriuscire l’imperatrice Wu della dinastia T’ang.
La donna aveva barattato l’anima in cambio del
potere e, per tutti i demoni, lei era la donna più potente e temuta di sempre.
Sotto la sua guida la Cina aveva raggiunto lo splendore, la gloria e non
avrebbe consentito a nessuno di fermarla. Da diversi mesi però qualche incubo
era giunto a tormentarla. Inizialmente aveva pensato che fosse solo frutto
della sua eccessiva prudenza, o forse sarebbe stato meglio dire diffidenza. Lei
non si fidava di nessuno, chiunque poteva rappresentare un nemico a corte.
Anziché calmarsi, col trascorrere dei giorni aveva sentito l’ansia crescerle
dentro e scavare come un topo che cerca di costruirsi la tana. Dalle sue visioni notturne aveva compreso che il nemico
sarebbe arrivato presto, troppo presto. Era uscita a caccia, poiché la sua
parte demoniaca aveva bisogno di essere rigenerata, nutrita e rinvigorita. Non
riusciva ancora a capacitarsi di come tutto fosse cambiato nel giro di pochi
giorni, e non poteva credere che la sua sorte stava per compiersi a causa della
scelleratezza della sua stessa carne e del suo stesso sangue.
Quel rammollito di suo nipote Liu Sheng aveva
annunciato di aver finalmente scelto una moglie. Quello stesso giorno, una giovane donna
dall’aspetto innocente, dallo sguardo candido come quello di un cerbiatto, ma
dall’espressione intensa della tigre, era stata condotta a corte e presentata
all’imperatrice madre.
Non appena Wu aveva sentito il nome della
ragazza, Yung-T’ai, cioè pace, aveva iniziato a tremare in maniera
impercettibile, poi aveva posato lo sguardo su di lei e tutto era stato chiaro:
lei era la ragazza della leggenda, quella venuta per distruggerla e strapparle
il trono.
Contravvenendo a tutte le regole di corte, Wu si
era immediatamente alzata, non aveva detto nemmeno una parola a quella ragazza
e si era ritirata nei suoi appartamenti. Aveva passato il tempo a pregare, a
meditare, aveva invocato il demone serpente e alla fine era giunta la risposta
ai suoi tormenti; doveva condurre la giovane nel bosco e, dopo aver assunto le
sembianze del cobra di giada doveva strangolare la ragazza e immergere il suo
cadavere nell’aceto per impedire alla sua anima di uscire dal corpo e passare a
un altro essere umano. Nessun problema, pensò Wu passandosi la lingua sulle
labbra tese. Non era la prima volta che uccideva per non perdere il trono, e
probabilmente non sarebbe stata l’ultima.
Yung-T’ai era salita sul terrazzo più alto del
palazzo. Da lì poteva osservare la valle in cui era nata e cresciuta e dove suo
nonno Man-chi, una volta guerriero di palazzo, l’aveva addestrata per
combattere e uccidere la malefica Wu.
Suo nonno era stato un uomo saggio, una guida
per le truppe e un uomo d’onore. Anche adesso che non c’era più, verso di lui
tutti provavano un rispetto reverenziale. Man-chi era stato anche una delle
poche persone in grado di resistere al potere ipnotico della regina. La donna
non era riuscita a piegarlo ai suoi comandi, né a scalfire la sua anima pura di
guerriero.
Considerandolo comunque troppo vecchio per
rappresentare una vera minaccia, Wu gli aveva risparmiato la vita e si era
limitata a cacciarlo dalla corte. Erano passati diversi anni, il figlio di
Man-chi era partito per la guerra e lui stava perdendo ogni speranza di poter
distruggere la regina immortale. Solo quando aveva visto nascere sua nipote
Yung-T’ai, aveva compreso che lei sarebbe riuscita a spezzare la maledizione e
a uccidere l’imperatrice, così aveva trascorso il resto della vita a renderla
una guerriera saggia e forte.
Pochi giorni prima Yung-T’ai, andando al mercato
con la madre, aveva incontrato il giovane principe Liu Sheng, tanto timido
quanto bello. Era bastato uno sguardo per capire che avrebbero passato la vita
insieme, ma quello per Yung-T’ai era anche il segnale; il suo momento era
arrivato e, tra lei e la felicità c’era Wu da uccidere.
Dalla terrazza Yung-T’ai aveva anche potuto
vedere Wu mentre cacciava, studiare le sue mosse. Sapeva che la battaglia era
imminente e che la vecchia regina avrebbe cercato di colpirla quando meno se
l’aspettava, ma lei avrebbe tenuto gli occhi ben aperti e l’avrebbe presa in
contropiede quella notte stessa. La leggenda narrava che il boa avrebbe dovuto
nutrirsi per cinque notti prima di sconfiggere la tigre, ma Yung-T’ai sapeva
già che una delle due creature non avrebbe visto il sorgere del sole. Aveva
paura, ma sapeva che quello era il suo dovere e non sarebbe venuta meno alla
promessa fatta alla sua famiglia.
- Che fai qui fuori? – le domandò Liu Sheng
posandole sulle spalle la sua mantella.
- Stavo solo ammirando il panorama – mentì. Non
poteva certo dirgli chi era realmente, non ancora.
Lui le sfiorò la fronte con la punta
dell’indice, scese lungo il naso e le disegnò il contorno delle labbra e del
collo. Fu in quell’istante che notò il ciondolo d’avorio intagliato che la
fidanzata portava al collo. Aveva la forma di una piccola lancia. Il gancio
aveva la forma di un cuore ed era di oro purissimo, con una giada incastonata
nel mezzo.
- È un dono di mio nonno – lo precedette lei e
subito sul viso le si dipinse il dolore. – Mio padre è morto quando ero
piccola, anzi è più giusto dire che non mi ha neppure mai visto. Era un soldato
ed è stato ucciso durante una battaglia contro l’esercito del califfo Muawyya.
Io non ero ancora nata quando è partito per il fronte. Aveva promesso a mia
mamma che sarebbe tornato presto, ma la vita non va’ mai come uno si aspetta –
sussurrò asciugandosi una lacrima. Poi tornò a guardare il fidanzato con aria
più serena. - Mia madre e mio nonno
erano tutto il mio mondo, fino a quando sei arrivato tu.
Rientrarono e si augurarono la buona notte.
Quando Liu Sheng le disse: - A domani – lei si
limitò a sorridergli. Non sapeva ancora se ci sarebbe stato un domani, anche se
era quello che sperava con tutta se stessa.
Una volta nella sua stanza Yung-T’ai si spogliò,
si immerse nella tinozza d’acqua tiepida e dopo essersi lavata accuratamente si
cosparse di olio alla peonia. Raccolse i lunghi capelli, indossò il kimono nero di suo nonno, quello con i
cinque kamon sul petto e si truccò il viso. Strinse
forte il medaglione e pregò gli antenati di andare in suo aiuto.
La foschia del mattino stava salendo e Wu, dopo aver mangiato era
pronta a fare ritorno alla reggia, ma lei non glielo avrebbe permesso.
Con passo rapido e sicuro raggiunse l’inizio della foresta. Il cuore le
batteva come un tamburo, ma doveva riuscire a tenere la paura sotto controllo,
poiché sapeva che Wu era in grado di fiutarla.
Non appena Wu la vide piegò il capo e diede il
via alla trasformazione. Yung-T’ai corse a perdifiato impugnando saldamente
l’amuleto. All’interno c’era un piccolo pugnale costruito con le ossa della
leggendaria tigre dell’arcobaleno. La ragazza sapeva di non avere tempo da perdere,
Wu doveva essere colpita a morte in un preciso attimo della trasformazione o
tutto sarebbe stato perduto. Aveva un solo colpo e non poteva sbagliare.
Wu si innalzò maestosa, il suo volto era ancora
umano, ma il corpo aveva già assunto quasi del tutto le sembianze del grande
serpente. Una frazione di secondo e Yung-T’ai riuscì a piante il pugnale
all’altezza del cuore. Un urlo assordante!
Wu si contrasse bruscamente sbalzando la giovane
a terra. Il pugnale non era penetrato abbastanza in profondità e adesso
l’imperatrice, ancora metà donna e metà boa, stava scattando con ferocia verso
Yung-T’ai. Non aveva tempo per pensare, istintivamente Yung-T’ai prese la mira,
allungò la gamba e quando Wu le fu quasi addosso, con violenza diede un calcio
al pugnale facendolo penetrare nella carne della regina. Il corpo esanime di Wu
le crollò sopra. Yung-T’ai tentava di liberarsi dal peso del mostro, mentre il
sangue iniziava a fuoriuscire copioso e si mescolava a un liquido bianco e
viscido. Yung-T’ai aveva il viso, i capelli, gli indumenti impregnati dal
sangue del mostro.
Quando orami pensava che non sarebbe riuscita a
liberarsi sentì il peso diminuire. Wu era tornata ad essere la piccola ed esile
donna che era stata prima di vendere la sua anima al demone, mentre la sagoma
del serpente volteggiava sopra di lei. I suoi occhi si incrociarono con quelli
del mostro e Yung-T’ai comprese che era perduta.
Si tolse velocemente gli indumenti e corse verso
il ruscello sperando di riuscire a lavare via la maledizione, ma quando ne
emerse si stava già trasformando in un boa di giada.
Ebbe appena il tempo di guardare un’ultima volta
verso la reggia. Sentì una lacrima che le scendeva lungo la guancia ormai
ricoperta di squame prima di scappare verso il folto del bosco per non fare mai
più ritorno. Aveva vinto la sua battaglia, ma aveva perso tutto.
Racconto avvincente, quello di Annalisa, di ispirazione orientale: una bella fiaba di "sapore" antico. Scritto molto bene. Bravissima.
RispondiEliminaUn bel racconto. Complimenti all'autrice.
RispondiEliminaG.S.
Come dico sempre Annalisa non è banale, difficilmente si riesce a capire in anticipo le mosse e persaggi e qui abbiamo un finale incredibile.
RispondiEliminaSono rari quelli che riescono portare il lettore dentro i loro romanzi , come lei
RispondiEliminadal racconto ,lei supera quegli scrittori d'Oriente ...
bravissima !
Grazie mille a tutti. Alla prossima.
RispondiEliminaDavvero molto, molto brava.
RispondiEliminaPiaciuto Molto! Si potrebbe dire qualcosa sull'ineluttibilità del destino... bella fiaba fantasy, adulta e tutt'altro che banale.
RispondiEliminaGrazie mille Antonio e Sauro, davvero molto gentili.
RispondiEliminaBel racconto fantasy dal sapore orientaleggiante, narrato bene e venato di poesia. Cattura l'attenzione e porta il lettore verso un finale sorprendente e malinconico. Unico appunto: essendo di ambientazione vagamente asiatica, io avrei chiamato il serpente pitone, cioè il corrispettivo asiatico del boa che, a quanto mi risulta, popola le foreste dell'America meridionale. Ma forse sbaglio. Poco conta, comunque... al fantasy si concede questo e altro. Brava!
RispondiEliminaGiuseppe Novellino