Ron
intravide l’uomo a cavallo solo quando fu uscito dal banco di nebbia.
Gli abeti
scintillavano al sole invernale. Un cielo cristallino sovrastava gli aspri
rilievi e i valloncelli ricoperti di neve.
Si
arrestò sulla sommità del declivio. A una distanza di circa cinquecento metri,
il bianco animale portava un uomo dal cappello ad ampie tese e il mantello
nero. Quella figura umana faceva contrasto con la pigmentazione del suo
destriero, al punto che sembrava fluttuare sopra la compatta distesa nevosa.
Ron
cominciò a scendere per la dolce fiancata della collina. In quel punto il manto
era spesso e il suo ronzino procedeva a fatica. Davanti a lui, sempre alla
stessa distanza, avanzava lo sconosciuto. Da quando aveva lasciato Laramie, due
giorni prima, Ron non aveva incontrato anima viva, quindi quella comparsa gli
mise addosso una specie di agitazione.
Risalirono il versante di un altro basso rilievo. Poi il cavaliere con
il mantello scomparve in una macchia di pini. Una coppia di falchi volteggiò
sopra le cime degli alberi. Un debole ululato si perse in lontananza.
Il sole
era ormai alto. La neve rifletteva accecanti bagliori. Il luogo sembrava
incantato.
– Questa
era la terra dei Sioux Lakota – pensò Ron a voce alta. – Dovrei trovarmi ormai
dalle parti del Little Bighorn.
Una
decina di anni prima, in quella zona, si era consumato il dramma degli indiani
delle grandi praterie. Adesso i pellerossa si trovavano nella riserva, dalle parti
del White River, e da loro non veniva più alcuna minaccia. Lungo la pista di
Bozeman, che Ron stava percorrendo, avevano cominciato a costruire una ferrovia
per facilitare il passaggio dal Wyoming al Montana. La via a nord ovest, per
raggiungere la West Coast, finalmente stava diventando più agevole. Ma lui
procedeva a piccole tappe, in quell’inverno del 1886.
Quando fu
uscito dal boschetto di abeti, rivide il suo misterioso compagno di viaggio.
Poiché si trovavano sopra un ampio pianoro, dove la coltre nevosa appariva meno
spessa, Ron spronò il cavallo, deciso a raggiungere il tizio che procedeva
sempre alla stessa distanza davanti a lui. Ma quello manteneva il vantaggio e
non sembrava essersi accorto del suo inseguitore.
Prima
l’uno e poi l’altro scesero quindi verso un fiumiciattolo che appariva
ghiacciato. Doveva essere l’alto corso del Little Bighorn, pensò Ron, oppure il
Tougue.
Si fermò
e stette un attimo a riflettere. Se avesse attraversato una brulla collina che
si ergeva oltre la sponda destra del torrente, certamente avrebbe tagliato la
strada al suo misterioso compagno di viaggio e si sarebbe trovato a faccia a
faccia con lui.
Così
fece. Si arrampicò in modo agevole sul nudo crinale poco innevato, raggiunse la
cresta e scese dall’altra parte. Ma quando scorse il cavaliere vestito di nero,
costui procedeva ancora davanti, ad uguale distanza. Non era possibile. Il
percorso che Ron aveva fatto, scavalcando la collina, avrebbe dovuto metterlo
in posizione avanzata rispetto allo sconosciuto. Allora provò a chiamarlo: –
Ehi, laggiù! – Ma la sua voce morì nello scenario gelido e imbiancato.
Poi venne
loro incontro un altro banco di nebbia. Quando ne uscì, Ron vide due casupole
costruite con tronchi d’abete, in un punto dove la neve si ammassava più
abbondante che altrove. Dell’altro cavaliere nessuna traccia.
La luce
del sole si era eclissata dietro un nuvolone nero. Le tenebre invernali
sembravano affacciarsi in anticipo. Un fioco lume era acceso dietro i vetri
opachi di una finestrella.
Ron si
avvicinò al piccolo trotto, reso faticoso dalla neve. Poi, mentre smontava da
cavallo, vide la porta di una delle due costruzioni aprirsi. Sull’uscio
comparve un vecchio con la grigia testa scoperta e una barba che gli arrivava fino
al petto. Indossava un giubbotto rattoppato e impugnava un lungo fucile Sharp
per la caccia ai bisonti.
– Chi
siete? – chiese costui con diffidenza.
Ron,
tenendo in mano le redini, rispose:
– State
tranquillo, amico. Non ho cattive intenzioni. Sono diretto a Fort C.F. Smith.
Non deve essere molto lontano, vero?
– Ci
vorranno un paio d’ore. Arriverete con le tenebre. Per fortuna è luna piena.
– Okay! –
fece Ron in tono amichevole. – Potrei perdere una manciata di minuti per bere un
goccio di caffè caldo?
Il
vecchio posò a terra il calcio del fucile e disse:
–
Giungete in un triste momento.
Ron gli
lanciò un’occhiata interrogativa.
– Una
brutta febbre si è portato via il figlio undicenne di mia figlia Florence.
In quel
momento, rotti singhiozzi di donna si udirono attraverso la porta socchiusa.
Ron si
strinse nelle spalle e annuì. Domandò:
– Avete
visto un tizio con un cavallo bianco? Indossava un mantello nero, probabilmente
di foggia militare. Dovrebbe essere passato di qui, poco prima di me.
– No,
mister. Di qui è passata solo la morte.
Devo dire, Giuseppe, che la narrativa western ti è molto congeniale. A essa abbini, con indubbia maestria, una particolare componente horror che fa dei tuoi racconti, a mio avviso, dei piccoli capolavori “fantastici”. Piacevolissimo lo stile: semplice, essenziale.
RispondiEliminaUn racconto davvero intrigante e mi è piaciuta molto l'ambientazione e la cura con cui è stato descritto. Complimenti.
RispondiEliminaBellissima l'ambientazione di questo racconto, mi sono sentito trasportato nel paesaggio mentre lo leggevo. Il finale, semplice e secco, lo chiude in maniera magistrale, lasciando quella figura oscura, definita e indefinita allo stesso tempo, ad aleggiare nell'immaginario.
RispondiEliminaBello, avvincente, scritto bene.
RispondiEliminaG.S.
Un altro bel racconto fanta western. Scritto benissimo e con un'atmosfera coinvolgente.
RispondiEliminaHo apprezzato il finale crudo, che ti lascia lì, davanti allo shermo, quasi senza fiato.
Molto bravo, Giuseppe.
Grazie a tutti... e lieto di avervi spaventati!
RispondiEliminaGiuseppe Novellino