Li guardava uno per uno, affogati nel loro
sangue, contorti come burattini spezzati. E per un attimo ne provò pietà, la
sua spada gli parve troppo pesante da sostenere.
Si inginocchiò, stanco di un’improvvisa
stanchezza, chinò il capo. Forse sarebbe stato meglio che fosse stato lui a
morire, una vittima pesante sul rimorso dell’ultimo atroce vincitore; ma era
stato lui a vincere e doveva scontare quel rimorso.
Forse per questo si chiese per la prima volta se
erano state giuste le ragioni di quella carneficina.
Fino alla mattina di quel giorno, prima che si
incrociasse il clamore e la sete di sangue delle lame, gli erano sembrate
giuste e ragionevoli, persino umane, quelle motivazioni. Ora il sangue di cui
era imbrattato gli sembrava dare altre risposte, e il coro delle sue ferite,
dove un diverso sangue si sposava col suo, gli diceva con forza che non c’erano
ragioni giuste, che il solo risultato era sangue dello stesso colore.
Gli parve lontano il motivo della contesa,
lontano ed orrendamente blasfemo, come forse l’arroganza di chi l’aveva
provocata. Si erano battuti a morte perché ognuno di loro pretendeva di sapere
il vero nome di Dio. E naturalmente che solo il suo fosse il vero dio.
Mentre ansimava ancora si accorse che alle sue
spalle un altro guerriero era sopraggiunto e lo osservava in silenzio: si voltò
lentamente; sapeva che non avrebbe retto alla fatica di un nuovo duello…meglio, così sarebbe morto e tutto avrebbe avuto fine.
E si preparò a morire, afferrò con forza la
spada. L’altro non si mosse, non fece alcun gesto di ostilità; anzi, gli parve
che lo guardasse con un sorriso quasi divertito. E la cosa gli parve
insopportabile.
Proruppe in un grido: “Chi sei tu che sembri bestemmiare con quel volto divertito su questi
morti? ti diverte la morte?”
L’altro non si scompose: ”Non sono io a bestemmiare; la bestemmia orrenda appartiene solo a voi
che avete combattuto. E soprattutto a te, che sei sopravvissuto. Stolti e
presuntuosi, con la pretesa di conoscere il nome di Dio, che il proprio dio sia
l’unico vero e che per quel nome si possa tranquillamente uccidere. Quale
bestemmia più grande?” e con un fendente improvviso lo disarmò. La spada
cadde lontana con un rumore di scheggia impazzita.
“Ti rivelo
una cosa
-continuò l’altro- non ha nomi Dio e non
c’è un dio. Il dio era in voi, e l’avete ucciso. Ed ora, dimmi, sei pronto a
morire con questa verità? Potrei ucciderti, e ne meriteresti il castigo, ma ti
lascio vivere, così potrai dare nome, nei tuoi giorni a venire, ai mostri che
hai cresciuto dentro. Questa la tua condanna, senza espiazione”. E si
voltò, andando via.
Il cavaliere lo guardò allontanarsi, l’armatura
gli sembrò troppo pesante.
Chiuse gli occhi, con un respiro mozzo.
Dopo la pausa estiva, Pegasus riprende le pubblicazioni con un bel racconto dell'amico Peppe.
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