lunedì 1 ottobre 2018

PROFUMO DI ZAGARA E DI MENTA SELVATICA di Cinzia Baldini

                         
Il treno sferraglia monotono mentre un tramonto languido e dorato si distende sulla pacata superficie del mare.
La fragrante essenza salmastra riempie il vagone nel silenzio dell’oscurità quasi imminente.
È autunno e le giornate, prima restie, poi, persuase dalle foglie ingiallite sui rami degli alberi e dall’aria fresca foriera della stagione invernale, si sono apprezzabilmente ridotte.
“Mi piace osservare la spiaggia deserta e solitaria che scorre veloce oltre i finestrini. Adoro il mare anche se sono nato in montagna. Forse nel mio sangue oltre ai geni dei miei genitori ho ereditato i forti contrasti della mia terra: l’isola del sole, del mare e dei verdi declivi montani 
Oggi è il mio compleanno…”.
Mi stringo nelle spalle e rabbrividisco, anche se qui non ci sono spifferi.
Quasi con stupore mi accorgo che sono i miei pensieri a farmi questo effetto.
Inarrestabili si alternano al rumore ossessivo ed ipnotico delle ruote del convoglio che scivolano sulla strada ferrata.
Con un sospiro mi soffermo e provo a riflettere.
“Mi sembra di galleggiare in un limbo ovattato e poi… che strano? I pensieri diventano subito ricordi e quasi mi abbagliano per lo stridulo contrasto con il buio che mi circonda: sono pieni di luce, di sole, di colori, fragranti d’estate e odorosi di gioventù”.
Un desiderio prepotente di fumare mi assale ma è vietato e allora cerco di mettermi comodo per rilassarmi e non pensarci.
Il viaggio è ancora lungo e molte ore mancano all’arrivo, così ritorno ai miei pensieri.
Li assaporo senza fretta, ne gusto lentamente il contenuto, mi riapproprio di loro.
Sono anni che aspetto di farlo e finalmente decido che è venuto il momento.
“In queste ore non sarò né figlio, né fratello, né marito, né padre, non avrò né obblighi, né doveri, ritornerò me stesso, unico padrone del mio tempo, libero di decidere… Me lo merito, dopotutto”.
Il tuo corpo, morbido e flessuoso, ancora inesplorato, è splendido al riverbero ambrato del pomeriggio primaverile.
L’erba appena rinata è tenera e odorosa, una soffice coltre naturale, involontaria complice del nostro amore.
Un brivido mi attraversa le membra svegliando i sensi, ingenuamente assopiti.
Con timore mi prendi per mano e insieme ci lasciamo avvolgere dalla dolcezza della prima volta insieme.
“Che strano scherzo mi gioca la fantasia… Nonostante la forte fisicità dell’immagine appena evocata, provo solo un leggero senso di stordimento, come se il mio corpo fosse inconsistente. Sarà la stanchezza!  
Durante l’addestramento ci hanno insegnato che un uomo deve sempre sapersi controllare, rimanere saldo e impassibile in ogni situazione e mai mostrare la sua debolezza eppure sto piangendo. Senza vergogna…
È così liberatorio, ogni tanto, lasciarsi andare. Commuoversi per un ricordo o farsi intenerire da un sogno, emozionarsi al pensiero del futuro… e poi, sinceramente, dopo quello che ho visto al campo base non me ne frega niente di fare il duro! L’uomo non è una macchina, è un essere vivente con tutte le caratteristiche della specie a cui appartiene, con qualità, pregi e difetti, paure e timori tipici della razza umana. Anche se c’è ben poco di umano nel raccogliere i pezzi di un corpo dilaniato da una mina, nelle grida disperate di un bambino falciato da una mitragliatrice o nel silenzio accusatorio di una donna violata, nelle urla strazianti di un prigioniero torturato a morte. Non c’è nulla di umano nella guerra anche se santificata nel nome della libertà o mistificata con aggettivi di pace. Né è umano credere in un dio sanguinario e violento e nella sua benedizione commettere le più inique atrocità ed arrossare la terra di sconosciuto, fraterno sangue innocente.
Non vedo l’ora di riabbracciarti, amore mio, di ritrovarti, di ritrovarci.
In questi mesi di lontananza ti ho pensato spesso. Nelle lunghe notti di guardia mi tenevi compagnia e se non c’eri tu era la nostalgia della nostra casa, della mia gente a tenermi sveglio: l’odore muschiato della terra bagnata dalla pioggia o il sibilo dello scirocco tra le rocce scoscese, l’aroma intenso della zagara degli agrumi e il profumo acuto della menta selvatica, i ricami delle siepi di gelsomino e i ritorti olivi immortali”.
 L’oscurità impenetrabile del cielo è ormai confusa con il blu carico del mare, la notte è giunta al suo apice, tra non molto inizierà ad albeggiare.
Le luci dei lampioni si specchiano tremolanti sulla vasta superficie spumosa, la mia terra scura, odorosa e riarsa mi accoglie con braccia materne.
Il traffico del lungomare è rarefatto, il treno rallenta dolcemente la sua corsa sbuffando affannato: “Il mio paese… com’è bello tornare a casa”.
C’è folla nella piccola stazione.
Ti cerco con lo sguardo e finalmente ti vedo.
Una brezza leggera si insinua tra i tuoi capelli, scompigliandoli con delicato rispetto.
Cerco di alzarmi, voglio scendere!
Ho fretta di raggiungerti… ma qualcosa mi trattiene.
“Forse è il peso enorme di questa medaglia appuntata sul petto e le mostrine stellate infisse nel colletto? O la bandiera che mi trascino dietro?
Perché piangi amore mio? E perché quelle scure occhiaie che spengono i tratti del tuo viso adorato?…”.
Facce sconosciute mi vengono incontro. “Che cosa vogliono da me?”
Le fisso negli occhi. Esse, irrigidendosi, abbassano lo sguardo.
Non sono i miei concittadini, non sento le loro pacche affettuose e piene di calore sulle spalle.
Queste persone mi salutano ipocritamente ossequiose e falsamente deferenti, fingono tristezza per nascondere il disagio di essere al mio cospetto.
Cerco di evitarle, non ho voglia di fermarmi a parlare con loro. “Niente discorsi retorici. Basta!” urlo, e tutti tacciono.
Spingo e strattono chi mi è vicino per venire verso di te ma per quanto mi sforzi non riesco a raggiungerti.
“Aspetta, devo parlarti. Devo dirti che ti amo, che…” grido senza voce.
Un tenue fremito tra le tue ciglia…
Comprendo.
Guardandoti negli occhi, scorgo rivoli argentei di stelle cadenti che si spengono, effimeri, nell’infinita profondità dell’universo.
“Adesso che tutto è più chiaro, l’amarezza, la rabbia e la delusione mi squarciano il petto, più della scheggia di granata che conservo nel cuore. Ora ho la consapevole, dolorosa certezza che per noi gli anni non trascorreranno veloci, insignificanti, sul quadrante dell’eternità. Non consumeranno la nostra esistenza, sbiadendo il nostro rapporto come una vecchia fotografia in bianco e nero.
Vorrei gridare il mio dolore, urlare la mia pena perché non ci saranno più stagioni per condividere insieme scelte piccole e grandi, decisioni importanti o meno da prendere. Non udrò il primo vagito di nostro figlio, né stringerò le sue manine rosee o ne bacerò le guance paffute. Non potrò consolarlo per le sue cadute, sostenerlo nelle sconfitte o incitarlo a rialzare le spalle quando la vita cercherà di piegarlo.
Ti chiedo perdono, amore mio, per averti lasciata sola anche se il nostro tempo dell’amore non è ancora concluso e perché non ci sarò a tenerti la mano per accompagnarti durante l’autunno della tua esistenza…”
«COMPAGNIA ATTENTI: PRESENTAT ARM! Che siano resi gli onori militari ad un eroe caduto in missione di pace» grida il comandante del drappello, portandosi la destra alla tempia e scattando sull’attenti, mentre la bara, avvolta nel tricolore, sfila lentamente tra due ali di folla commossa.

3 commenti:

  1. Bel racconto, pieno di sentimento e descrizioni suggestive.

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  2. Benvenuta, Cinzia, sulle pagine di Pegasus... Molto bello il racconto: struggente anche per il tragico avvenimento da cui è ispirato.

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  3. Troppi aggettivi...noioso.

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