sabato 30 marzo 2013

CONFESSIONE DI UN VAMPIRO di Paolo Secondini

                                

 Timişoara, Romania, 1832.
Il barone Brad Corneliu allontanò dalle labbra la coppa di cristallo e rimase a osservare, alla tremula luce delle candele, il liquido denso e vermiglio in essa contenuto. Poi volse lo sguardo verso il suo ospite inglese, il giornalista Harold Mallory (del London Evening News), che sedeva a tavola alla sua destra, con in mano un bicchiere di cherry.
«La notte!» esclamò, pacato, il barone. «Solo la notte accoglie i nostri respiri, vede le nostre figure aggirarsi nelle vie di paesi e villaggi in cerca di sangue, necessario alla nostra esistenza… La luce del giorno, invece, ci annienta; riduce a un mucchio di cenere il nostro esile corpo, dopo averlo bruciato inesorabilmente; distrugge in pochissimi istanti una vita che dura da secoli… Sia maledetta la luce del giorno!... L’esserne privi non rappresenta per noi un motivo di angoscia.» Rimase un momento in silenzio, quindi, levando gli occhi al soffitto, aggiunse, con voce ispirata: «Noi siamo i signori delle tenebre, del cui triste colore ci vestiamo, ci ammantiamo. Al contrario, voi esseri umani siete da esse atterriti… Ma è proprio di notte che i vostri cuori pulsano più del dovuto, con gioia o dolore, per un sentimento che in fondo ci accomuna: l’amore.» S’interruppe di nuovo. Bevve un piccolo sorso dalla coppa di cristallo. Si asciugò le labbra con la punta del dito che lambì con la lingua, voluttuosamente. Riprese: «Per amore godiamo o ci disperiamo come voi, che per esso, a volte, rinunciate alla vita, specialmente quando le pene del cuore diventano insopportabili al punto di rendere tetri e sgradevoli i vostri giorni; per esso, talora, noi diventiamo fragili e vulnerabili, tanto da andare stoicamente incontro al destino, nella luce più viva e accecante del giorno.» Il barone Brad Corneliu rimase ancora in silenzio, quindi, dopo un sospiro: «La mia adorata Brandusa, fedele compagna per anni, mi attende già cenere e io, tra poco, a lei mi unirò.»
Portò di nuovo la coppa alle labbra e bevve quanto restava del liquido denso, vermiglio. Poi si alzò lentamente dalla sedia e, a piccoli passi, si avvicinò alla parte centrale di una tenda, in fondo alla sala. Ne afferrò i lembi di due metà accostate fra loro e, con rapido gesto, le allontanò l’una dall’altra, dischiudendole.
La luce del sole, filtrando attraverso una grande finestra, lo investì pienamente.
Brad Corneliu rimase immobile, la testa china sul petto. Dopo qualche momento, si volse verso il suo ospite inglese ancora seduto a tavola, lo sguardo attonito, il bicchiere di cherry nella mano.
Ad Harold Mallory parve di scorgere, sulle livide labbra del barone, un lieve sorriso. 
Corneliu tornò a guardare la luce del sole, le braccia distese di lato, parallele al pavimento, le mani che ancora stringevano i lembi delle metà della tenda.
Si udì una lieve, ovattata esplosione sul suo corpo, che fu all’istante avvolto dalle fiamme. Benché queste lo divorassero, egli non ebbe alcuna reazione, né gridò dal dolore.
Stette fermo, le braccia aperte, come in croce.
Con la mente e il cuore pieni di orrore, Harold Mallory udì per l’ultima volta la voce, ferma e tranquilla, del barone:
«Eccomi, mia diletta Brandusa. Finalmente!... Tra poco saremo di nuovo insieme… Niente e nessuno potranno separarci.»
Dopo di che il suo corpo, ancora in preda alle fiamme, si accasciò lentamente a terra. Continuò a bruciare per molto – emanando un puzzo nauseante – finché non divenne un mucchio di cenere.
Per tutto il tempo, il giornalista restò in uno stato di torpore, quasi paralizzato sulla sedia. Infine si scosse e depose il bicchiere sulla tavola. Poi si alzò e, con le gambe tremanti, compì qualche passo nella sala. Aveva sul volto un pallore mortale.
Nel silenzio assoluto gli parve di udire una voce soave di donna:
«Ti aspettavo, mio amatissimo Brad. Il nostro destino è compiuto.»
A un tratto dal mucchio di cenere, sul pavimento, si alzò in volo, con rumore appena percettibile, qualcosa di piccolo e scuro che andò ad aggrapparsi a una trave, in un angolo buio del soffitto.
Ad Harold Mallory parve un pipistrello.


venerdì 29 marzo 2013

TUTTI IN CARROZZA di Rita Di Sotto

                              


Il treno partì ch’era quasi mezzanotte. Dapprima scivolò lentamente lungo i binari illuminati della grande stazione, poi, appena fuori da questa, la sua velocità andò aumentando.
Era uno dei treni più moderni che la compagnia avesse mai messo su rotaie.
Qualcuno – veramente ispirato – si era divertito ad affrescarne i molti vagoni, tanto da farlo somigliare a un grande murales. Scritte, paesaggi, figure e quanto di meglio la fantasia avesse suggerito al pittore, erano impressi, a colori vivaci, sulle fiancate delle carrozze.
Ma il vero capolavoro era la vettura di testa.
Due file di denti enormi campeggiavano al centro di labbra esageratamente rosse e atteggiate a un ghigno grottesco. Tuttavia, ciò che catturava l’attenzione di quanti vedevano il treno sfrecciare da stazione a stazione erano gli occhi: due enormi fari di un giallo intenso... che ora fendevano la nebbia in quell’umida notte di novembre.
Erano in pochi ad aspettare quel treno alla prima stazione, le mani sprofondate nelle tasche e i baveri dei cappotti rialzati sul collo, impazienti di entrare nei caldi vagoni.
Da lontano si iniziò a sentire il suo sferragliare sui vecchi binari e il suo ritmo pareva dicesse: tutti in carrozza, tutti in carrozza, tutti in carrozza...
Via via che si avvicinava, il ritmo si faceva più distinto, incalzante: tutti in carrozza, tutti in carrozza, tutti in carrozza...
Nessun segno di rallentamento, solo il ritmo sempre monotono, ossessivo, in crescendo: tutti in carrozza, tutti in carrozza, tutti in carrozza…
E come un lampo i fari del treno accecarono i passeggeri fermi sulla banchina della stazione. Le due file di denti enormi scomparvero dalla bocca che, in un attimo, si spalancò a dismisura, mostrando una buia cavità in cui tutti furono risucchiati.

(Per gentile concessione dell’Autrice)

giovedì 28 marzo 2013

IL DOSSO DELLE STREGHE di Sergio Bissoli



                            

Durante la primavera e l’estate andavo a trovare Monia, la figlia minore del fattore.
Il padre è vecchio e lavora nella stalla. La madre è semiparalizzata e lei deve badare ai lavori di casa. Ha un fratello, un ragazzone simpatico con un nome originale: Aldighiero, sempre occupato a studiare occultismo e folklore campagnolo.
Monia abita insieme ad altre tre famiglie nell’ala più recente di una costruzione quattrocentesca. La parte più vecchia dell’edificio ha inferriate panciute e due torri con grondaie penzolanti e avvitate.
La sera del 30 giugno durante la seconda raccolta del fieno, poiché ho avuto molto da lavorare arrivo tardi all’appuntamento. Monia è già sulla soglia di casa e mi accoglie con un bacio leggero sulla bocca. Mi prende per mano e mi attira dentro.
Come le altre sere rimaniamo in un angolo della cucina a parlare dei nostri progetti futuri. Lei è una ragazza semplice e buona, forse un poco ingenua. Se le faccio involontariamente del male, come succede a tutti gli innamorati, provo una profonda sofferenza nel cuore.
Più tardi Monia si sente stanca e la lascio andare a letto. Quando viene a darmi la buona notte indossa una camicia bianca lunga fino ai piedini nudi. I capelli sono sciolti e in mano regge un portacandele. Si china un poco per darmi un bacino. Sento un profumo leggero e la carezza soffice dei capelli, poi fugge via di corsa su per lo scalone semibuio.
Così rimango nella grande cucina a chiacchierare con il fratello. Questo ragazzo di trentanove anni, robusto, scapolo, ha una conoscenza dell’occultismo davvero profonda. Va a prendere pile di documenti ingialliti e mi legge i resoconti di cronache locali, talvolta strane, talvolta incredibili.
Dalle finestre aperte sento il frinire dei grilli. Si è fatto tardi e domani devo alzarmi presto, così interrompo Aldighiero perché devo andare via.
Lui mi accompagna fuori sulla grande aia silenziosa, illuminata dal plenilunio. Le cataste di pali sembrano irte di corni e la fila di porticati sono immersi nell’ombra. Sto per andarmene quando Aldighiero mi suggerisce di passare dietro alla sua proprietà per arrivare a casa prima.
“Segui la scorciatoia fra i meli, attraversi il guado sul fiume e passi vicino al dosso delle streghe.”
Questo è un monticello di terra battuta alto cinque o sei metri, ricoperto di rovi. La leggenda afferma che è stato costruito dalle streghe in una sola notte. In realtà si tratta di una altura artificiale costruita a scopo di vedetta dalle truppe di Napoleone.
“Ma sei sicuro che in questa stagione sia praticabile?” gli chiedo.
“Certo. Vieni, ti accompagno io.”
Si mette gli stivali e ci incamminiamo dietro casa sull’erba alta bagnata di rugiada. La notte è calda, incantevole. La luna allaga la pianura di luce bianca.
“Guarda queste vene di siccità.”
Mi indica delle striature bruciate che attraversano il raccolto. Si china per raccogliere qualcosa:
“E qui ci sono delle penne di gallina. Segno che qualcuno ha lanciato la malìa” lo sento borbottare.
“Ma è ridicolo! Tutto questo è paganesimo, ignoranza, buie credenze del passato...”
“Cose del passato, dici? Non hai idea di come la stregoneria sia praticata oggigiorno da queste parti. Le vecchie megere raccolgono ancora la rugiada nella notte di Lammas e la notte del solstizio. E là abita la vecchia Vertha che bolle i pentolini e nei pleniluni è stata vista camminare sulle punte degli alberi...”
Il suo racconto è interrotto dal grido di una civetta. Aldighiero si volta alzando gli occhi e anch’io seguo il suo sguardo. La casa in lontananza sembra un animale in agguato, pronto a saltarci addosso. Le due torri si elevano nere e dentellate nella luce della luna. Dopo un attimo di silenzio il grido si ripete stridulo, lamentoso, prima di finire in una specie di risata da far rabbrividire. Aldighiero commenta sforzandosi di sorridere:
“La civetta canta alla nostra destra, uno di noi è in pericolo. Se fosse stata a sinistra invece...”
Costeggiando il fiume tra le erbacce incontriamo mucchi di sassi disposti a triangolo. Sembrano piccoli menhir, e Aldighiero compie giri larghi per evitarli. Il fiume fa un’ansa e si restringe. Salto in quel punto servendomi di una pertica. Poi rilancio indietro la pertica e proseguo da solo sul sentiero.
Cammino trasognato sforzandomi di dimenticare quelle truci superstizioni. Sento il canto dei grilli e a volte la brezza mi porta il profumo dolce del caprifoglio. La notte è tiepida nell’immensa quiete.
Una luce rossa si muove laggiù nei campi. Mi fermo a guardarla. É una fiammella tremolante che procede saltellando. Che cosa può essere? Forse è un fuoco fatuo.
La luce avanza saltellando sospesa sul terreno, sorvola il fiume passando davanti a me e prosegue in diagonale nei campi. Poi il chiarore rossastro scompare dietro ai gelsi. Riappare più lontano, la intravedo fra il fogliame finché la perdo definitivamente.
Mi fermo con il cuore che batte per l’emozione. Quando riprendo il cammino, dopo pochi passi vedo un’altra luce provenire dalla stessa direzione. Istintivamente rimango immobile e dopo un po’ la vedo passare, questa volta molto più da vicino. Sembra una sfera gassosa di luce rosso-giallognola sospesa nell’aria. Procede velocemente in direzione del monte artificiale. Incuriosito provo a seguirla ma poco dopo anche questa scompare.
Il dosso delle streghe si eleva nero di fianco a me, coperto di erbacce e rovi. Allora vedo altre luci piccole e grandi provenire da diverse direzioni. Si spostano tutte veloci e silenziose a diverse altezze e convergono verso il dosso delle streghe. Le seguo con lo sguardo e resto allibito.
Il monticciolo a tratti sembra avvolto da un alone di luce verdognola. Mi avvicino ancora di più camminando nella sterpaglia fin quasi alla base del monte. La luce lunare lo illumina e vedo le asperità, i rametti contorti, la sommità brulla dove si muovono alcune ombre...
Odo sussurri di donne e risatine portate dalla brezza. Lentamente le ombre si alzano e incominciano a spogliarsi. Si spogliano completamente finché restano tutte nude, immobili, tenendosi per mano.
Vedo ragazze giovani e vecchie megere. Nel grande silenzio i loro corpi biancheggiano sotto la luna.
Un canto lieve, monotono, proviene dall’altura. É appena percettibile tra il fruscio delle foglie, e a volte scompare nel vento. Dopo un po’ si fa più forte e il suo ritmo diventa più veloce.
Adesso le donne incominciano a muoversi e formano un girotondo. Vedo corpi di adolescenti e corpi deformi di vecchie. A volte intravedo perfino qualche viso ghignante. Le carni sode hanno lampi bianchi, i seni ballonzolano.
Girano piano dapprima, ripetendo la nenia, poi aumentano il ritmo. La danza si fa sempre più frenetica, i movimenti sempre più rapidi, il canto sempre più ossessivo... Il girotondo diviene veloce, sgangherato...
Adesso girano invasate, sbraitando attorno a qualcosa che sta nel centro. Improvvisamente qualcuna grida un nome. Il canto cessa di colpo. Il girotondo finisce. Le streghe cadono a terra con una esclamazione di stupore.
Il silenzio diviene assoluto. Non vedo più nessuno. Lo stupore e il senso di attesa si vanno a poco a poco attenuando e posso pensare di aver sognato ogni cosa. Sono tutto sudato. Guardo la campagna che si stende sotto la luna e provo un grande senso di quiete.
Eppure qualcosa ancora si muove lassù sul dosso. Sembra un esile filo di fumo che lentamente sorge dalla sommità del monte. É una ragazza nuda. Una pallida Dea della notte con le braccia tese.
Quando alza la testa i capelli si scostano e riconosco il viso di Monia che mi guarda con i suoi grandi occhi tristi.

(Per gentile concessione dell’Autore)



mercoledì 27 marzo 2013

CONVERSAZIONE di Giuseppe Novellino



      - Il fatto è che sono preoccupata per un eventuale atterraggio, sulla mia superficie, da parte di quegli odiosi, invadenti e superbi figli della Terra.
     - Non angustiarti, Venere – la rassicurò Mercurio con voce calda. – Sono sicuro che le vuote presunzioni di quei piccoli bipedi non si realizzeranno mai. Sono figli della Terra, in definitiva. Cosa mai può venire da un pianeta comodo e rammollito come quello?
     - Non essere troppo ottimista; non dimenticare che hanno già messo piede sulla Luna.
     - Questo è vero – ammise Mercurio. – Un conto è però raggiungere la Luna e un altro è scendere sulla tua superficie, sulla mia o addirittura su quella del nostro caro Giove. Penso che la Luna sia il limite massimo della loro possibile espansione… Dopotutto è un semplice satellite della Terra, non ti pare?
     - Sono d’accordo con te – fece Venere, dopo quaranta dei suoi giorni di riflessione. Ma non mi fiderei troppo.
     Calò un breve silenzio di sette anni, mentre i due corpi celesti continuavano placidi l’abituale corsa lungo le loro orbite millenarie.
     Fu Venere a rompere l’attesa. Si rivolse nuovamente a Mercurio:
     - Da qualche tempo sento un forte desiderio di parlare con la Terra.
     - Sprecheresti il tuo fiato, mia cara – commentò asciutto il veloce Mercurio. – Da quando la  Nube d’Oro ha depositato su di essa il seme dell’uomo, ha rotto definitivamente con tutti i suoi simili. Forse si sente una specie di privilegiata.
     - Dunque, ama così tanto quei mostriciattoli a due gambe da dare a loro tutta la sua attenzione e le sue cure?
     Mercurio fece quattro giri intorno al sole, prima di rispondere. – Non lo so con precisione. Penso che non li ami veramente. Forse si è assunta una specie di impegno… nei confronti della Nube d’Oro.
     - Spero che tu abbia ragione – disse Venere con voce stanca. E si esibì in un poderoso sbadiglio. – Ora vorrei schiacciare un pisolino.
     - Certo, cara. Penso che anche agli altri pianeti vada a genio un po’ di riposo. Buona notte!
     - Buona notte! – sussurrò Venere, raccogliendosi nel suo pallido candore.
     Allora Mercurio, silenziosamente, premette l’interruttore… e il Sole si spense.

(Per gentile concessione dell’Autore)

martedì 26 marzo 2013

LE PARETI DELLA MENTE di Maurizio Setti

                               



L’uomo dormiva beatamente avvolto nel lenzuolo di cotone nero.  Il suo corpo stava pregustando il riposo che il silenzio notturno gli avrebbe concesso fino all’indomani. Tutt’intorno, ogni cosa sembrava essersi assopita. Il frusciare indomito degli alberi aveva smesso di generare quel suono tipico di foglia alitata dal vento, mentre le luci dei lampioni circostanti si stavano smorzando, fino a creare un buio pesto. Anche la luna pareva ritrarsi e sembrava inghiottita da un buco nero che inevitabilmente rendeva la stanza dell’uomo una sorta di realtà astratta e impalpabile. L’unico rumore percettibile era il movimento meccanico della pendola che scandiva inesorabilmente il tempo. Tutto sembrava sospeso in mezzo al niente in un’atmosfera bucolica.  Poi a un tratto un crepitio. Proveniva dalla soffitta e  stava avanzando verso la stanza da letto. L’intensità dei decibel aumentava gradualmente e le palpebre dell’uomo iniziarono a muoversi in modo irregolare e discontinuo. I suoi occhi chiusi sembravano vedere, dal proprio interno, qualcosa o qualcuno di spaventevole e terrificante incutergli timore e paura. Un inatteso colpo di vento spalancò le finestre infrangendo i vetri,  mentre  l’intonaco delle pareti della stanza iniziò a sbriciolarsi come un biscotto. I mattoni denudati cominciarono a muoversi su se stessi  in direzione del letto. Il corpo dell’uomo rimaneva ancora immobile, come se afferrato da una forza oscura e incontrollabile che agiva direttamente nella sua testa. Il soffitto e il pavimento cominciarono a muoversi l’uno verso l’altro, come se attratti da un magnete collocato in mezzo alla stanza . Le palpebre dell’uomo iniziarono a schiudersi, le pupille rimpicciolirsi. Ora poteva finalmente prendere coscienza della realtà e  della propria sorte
Un urlo straziante fu l’ultima cosa che si avvertì.

(Per gentile concessione dell’Autore – Illustrazione dello stesso autore)

L’INTERVISTA: Giuseppe Costantino Budetta




Letteratura Fantastica ha intervistato lo scrittore Giuseppe Costantino Budetta, autore di interessanti racconti fantastici, con evidenti venature ironiche e, a tratti, umoristiche.

 

D. 1  Da dove è scaturita la tua passione per la scrittura?


La mia passione per la scrittura è stata consequenziale all’interesse per la lettura, unita a una particolare sensibilità per le arti in genere. Fin da ragazzo ho letto molto: quotidiani, settimanali, libri ecc. Molti anni fa, mi diplomai presso il liceo classico A. Genovesi di Napoli. Lo studio dei classici ampliò le mie conoscenze nei campi della poesia, della filosofia e della critica letteraria, traducendo numerosi paragrafi di scrittori latini e greci.    



D. 2 Sei uno scrittore di origine campana, nato, con esattezza, a Bellosguardo, in provincia di Salerno. È dal brio e dalla gioiosità tipiche della tua terra che deriva la tua spiccata vena umoristica?


Penso di sì, anche se la mia formazione culturale è maturata a Napoli (periferia est).



D. 3 Quali sono i generi letterari che prediligi maggiormente, e quale libro, tra quelli letti, ti ha comunicato qualcosa in più rispetto ad altri?


Non ho preferenze. Mi piace leggere saggi scientifici che esplorano i segreti della mente umana e volumi di critica letteraria.



D. 4 Dove trai, in genere, ispirazione per i tuoi racconti?


Traggo ispirazione dalla vita che si svolge intorno a me. Osservo la gente in strada e mi trattengo volentieri a discutere di cose varie (anche di sport) nei bar e in qualche circolo.



D. 5  Chi è lo scrittore Giuseppe Costantino Budetta?


Non saprei. Come per tanti altri, vale il detto: uomo, conosci te stesso.

lunedì 25 marzo 2013

DESIDERIO DI UNA MADRE di Giancarlo Ferraris

                              



 Sulla valle di Nis splende una falce di luna pallida e maligna e i suoi raggi trasparenti si fanno strada nel fogliame del pericolosissimo albero d’upas; ma nelle profondità della valle, dove la luce non arriva, si agitano figure che è meglio non guardare e non incontrare.
                                          (Dal racconto Memoria di H.P. Lovecraft)

 
“Sento soltanto vuoto e freddo dentro di me… E il mio cuore è diventato il mio sepolcro”.
Nella vita di Timoteo non c’era più nulla. Nulla se non il dolore. Nella bella e nella brutta stagione, di giorno e di notte, non c’era un momento in cui egli non si fermasse nel cimitero della città davanti alla tomba di sua madre. Timoteo aveva un desiderio indescrivibile di rivederla, di poterle parlare di nuovo, di abbracciarla come quando era bambino. Accanto alla tomba sorgevano due alberi: uno alto, con il tronco grande, i rami lunghi e frondosi; l’altro basso, con il tronco piccolo, i rami corti e spogli. Erano molto vicini tra loro, ma non si toccavano mai, nemmeno quando soffiava forte il vento.
In una calda notte di luglio, Timoteo fu protagonista di un evento incredibile: gli apparve il fantasma di sua madre. Restò attonito di fronte allo spettacolo sublime ed orribile che gli si palesava davanti agli occhi, sentì la mente vacillare, la paura impossessarsi di lui e dubitò anche se fosse sveglio o stesse soltanto sognando.
“Mamma!... Sei tu… Sei tu!”
“Sì, Timoteo!... Sono io!... Sono proprio io!”
“Mamma!... Io… Io…”.
“No!... Non piangere, figlio mio!... Non piangere, ti scongiuro!”
“Ritorna da me, mamma!... Io… Non ce la faccio a vivere da solo… Non ce la faccio!... Devi ritornare da me!”
“Timoteo!... Lo sai che i morti non ritornano… Il nostro mondo è diverso dal vostro!”
“No, mamma!... Tu puoi, devi ritornare da me!... Devi!”
“E come, figlio mio?!... Quello che tu vedi è soltanto un fantasma, una povera creatura della notte che gli esseri umani temono e odiano. Vuoi che tua madre ritorni nel mondo dei vivi per vederla perseguitata dagli uomini? Allora non è vero che le vuoi bene, che la ami veramente”.
“Io sto soffrendo moltissimo perché tu non sei più vicino a me, perché non ti vedo più”.
“No, Timoteo! In realtà non sei tu quello che soffre di più, ma io. Sono uscita dalla tomba perché il mio desiderio di rivederti è stato mille volte più grande del tuo. Ed immenso è il desiderio che tu venga da me per sempre… Ed ora vieni… Vieni!...  Vieni da me!...”.
A quelle parole Timoteo ebbe un sussulto quasi mortale. All’improvviso la notte, che fino a quel momento gli era stata amica, si tramutò in un buio pesante ed amaro ed in quel preciso istante il fantasma della madre di Timoteo, così soave e così dolce, si tramutò in uno spettro feroce e crudele che avvinghiò il figlio a sé portandoselo nella tomba.

Questa storia di fantasmi mi è stata raccontata da un vecchietto durante un mio soggiorno in quella città per affari. Curioso come sono, scesa la notte, andai furtivamente nel cimitero a vedere la tomba della madre di Timoteo. La trovai in pessime condizioni. Notai che vicino ad essa c’erano due alberi, uno alto e grande, l’altro basso e piccolo. L’albero grande aveva avvinghiato con le sue fronde quello piccolo. Ed ebbi un vero guizzo di terrore quando udii, chiaramente, che i rami dell’albero grande sussurravano tra loro nel vento notturno:

“Ed ora vieni… Vieni!...  Vieni da me!...”.

(Per gentile concessione dell’Autore)

sabato 23 marzo 2013

COMPIETA di Paolo Secondini

           
                        


Con le mani congiunte frate Guglielmo stava in ginocchio dinanzi al crocifisso, nella sua piccola cella del monastero francescano. Recitava compieta con gran devozione quando avvertì un acuto dolore al petto,  come se fosse trafitto da una lama.
Senza un lamento si accasciò a terra.
Cosciente, ma in preda a una viva agitazione, sentì il dolore passare all’addome, alla schiena e, soprattutto, al braccio sinistro.
Il cuore! pensò con angoscia. Il cuore mi tradisce… Dio mio, abbi pietà di me… tuo umile servo!
Doveva al più presto chiamare qualcuno, chiedere aiuto. Si accinse a farlo ma, benché si sforzasse, dalla sua gola non giunsero grida, né parole, soltanto mugugni che nessuno era in grado di udire.
Pur sapendo che in quella situazione la cosa migliore era star fermi e distesi, Guglielmo provò ad alzarsi. Voleva uscire a qualsiasi costo dalla cella, poiché, stretta com’era, vi soffocava. Sentiva l’urgenza di respirare a pieni polmoni in spazi più grandi.
Con fatica si mise sulle ginocchia e, in quella posizione, si trascinò fino alla porta.
L’aprì.
La sorpresa fu grande (come anche la gioia) quando vide fuori dell’uscio l’alta figura di un confratello, immobile, girato di spalle, il cappuccio del saio calzato sulla testa.
Questa volta Guglielmo, con sforzo indicibile, disse poche ma chiare parole:
«In nome di Dio, fratello… aiutami… mi sento morire.»
Seguì un momento di silenzio, poi:
«Io non sono un fratello,» rispose una voce virile, profonda, «ma una sorella.»
«Una… sorella?…» balbettò, incredulo, Guglielmo. «Non… capisco…»
La figura si volse. Si levò lentamente il cappuccio, sotto il quale apparve un teschio giallastro, scarnificato, dalle orbite vuote e dal ghigno crudele.
«Io sono la Morte,» disse in tono solenne, «sorella di qualsiasi uomo, come afferma il Santo di Assisi, alla cui regola hai conformato la tua vita.» Tacque un istante e avanzò di un passo. «Sono qui per te, frate Guglielmo da Roccatonda. Il momento di separarti dal mondo è arrivato. Non avere paura. Benché io possa apparirti spietata, raccapricciante, sono qui per condurti in un luogo migliore, dove cure e bisogni materiali sono annullati dal desiderio della Sublime Contemplazione… Seguimi, dunque, senza esitare.»
Di colpo Guglielmo fu invaso da un senso profondo di smarrimento, proprio come un bambino di fronte a qualcosa di nuovo, d’incomprensibile.
«No… io… perché? » balbettò debolmente.
Scosse la testa e, boccheggiando, tese il braccio a respingere la Mietitrice, la quale, rigida come una statua, se ne stava impassibile.
Pur essendo devoto a San Francesco, pur venerandone immensamente i santi princìpi, sentì in quell’istante di non possedere la forza né, tanto meno, l’altezza della sua fede.
«No!... Ti scongiuro!… Non prendermi ora!» esclamò Guglielmo con tutto il fiato che aveva. «No!... No!... No!...»
La morte rimase a fissarlo, con le orbite vuote.
«Mi rendo conto,» disse infine, «che il mistero dell’al di là atterrisce anche te, un religioso, come qualsiasi essere umano… Non c’è nulla da temere. Devi credermi. Posso assicurarti...»
«No!… No!... No!...» gridò ancora frate Guglielmo. Poi si portò la mano alla gola e, nello stesso momento, spalancò la bocca, come se ormai gli fosse impossibile il respiro. Quindi, strabuzzati gli occhi, si accasciò nuovamente a terra.
Non si mosse mai più.
Si mosse invece la sua anima, in compagnia della Morte, per un cammino sconosciuto.

venerdì 22 marzo 2013

A QUALE CHILOMETRO SIAMO? Di Giuseppe Novellino

                               

     Dopo una stressante giornata in ufficio, questa coda di automobili è come la ciliegina sulla torta.
     Piove a dirotto, la visibilità è scarsa. Il termometro del cruscotto segna cinque gradi sopra lo zero. L’umidità si aggiunge al freddo. Così lui è costretto a tenere i finestrini chiusi. Il dispositivo di riscaldamento però ha qualche inconveniente, non può essere regolato più di tanto; e l’aria, nell’abitacolo, sta diventando sgradevole.
     Ugo Masi non vede l’ora di arrivare a casa. Ma deve percorrere quei ventisette chilometri di strade suburbane, tra svincoli, segmenti di tangenziale, rotatorie, rampe d’accesso e di uscita. L’accidentato percorso richiede il suo tempo.
     – Se prendessi l’autostrada? – dice a voce alta. – Forse me la sbrigherei prima…
     Davanti a lui, sopra l’interminabile colonna di autoveicoli, campeggia il cartello verde, con le direzioni principali.
     Adesso corre sul largo nastro d’asfalto bagnato. Diluvia.
     Pensa di avere fatto la scelta giusta. Allungherà il tragitto di ben quindici chilometri, ma potrà procedere senza quel logoramento provocato dai continui rallentamenti.
     Ugo Masi è sull’orlo di una crisi di nervi, perché tutti i giorni rischia il licenziamento. Qualcuno, infatti, gli sta rendendo la vita difficile, a causa del suo titolo di studio che, secondo le nuove disposizioni, non sarebbe del tutto idoneo per ricoprire la carica che ricopre. E poi, a casa, l’aspetta una specie di inferno familiare: una moglie che non lascia vivere e una suocera che deve essere ospitata per motivi di salute.
     Ma bisogna stringere i denti e tirare avanti. L’alternativa è la pazzia… o il suicidio.
     Con difficoltà legge il cartello stradale: mancano solo due chilometri e mezzo al casello di uscita
     Dannazione! Eppure è stato attento. Ha tenuto d’occhio il nome della località, accompagnata dalle cifre che indicano la distanza in progressiva riduzione: 2500 metri, poi 1000… poi 700.
     Si è tenuto sulla destra, diminuendo la velocità. Come è riuscito a oltrepassare l’imbocco dello svincolo?
     –Devo essere proprio stanco – sibila.
     Non gli resta che raggiungere l’uscita successiva. Ma è lontana quattordici chilometri. In tal modo il suo viaggio di rientro a casa è destinato ad allungarsi.
     Procede per qualche minuto a velocità sostenuta. Ed ecco la nuova segnalazione: a 2500 metri, uscita per… Il nome adesso non si legge. Ma poco importa. Non è vero che i cartelli stradali a volte sono illeggibili?
     Si è quasi fermato, nel punto dove dovrebbe cominciare la diramazione.
     Niente.
     La circostanza è per lo meno strana. Ma Ugo Masi si limita a imprecare.
     Riprende la corsa. Non c’è altra alternativa che raggiungere la terza località. Il viaggio rischia di prolungarsi contro ogni logica.
     Ma ecco una stazione di servizio. Rallenta e dirige l’auto verso il parcheggio.
     Ci sono pochissime auto ferme sul piazzale. Insolito per il tardo pomeriggio di un giorno di febbraio. A quell’ora di punta, dovrebbe esserci più gente in circolazione.
     Anche l’interno dell’autogrill è semivuoto. Le luci sono in parte spente.
     Due avventori, un uomo e una donna, stanno sorseggiando caffè al banco.
     – Ecco il resto – gli dice la cassiera, dopo che lui ha ordinato una camomilla. Spera infatti che quella bevanda lo possa aiutare a calmarsi.
     Vorrebbe chiedere qualcosa riguardo le stranezze che ha appena vissuto, ma il volto impassibile e distante della donna lo dissuade.
     – Grazie.
     Ma quella gli chiede:
     – Ha già fatto benzina?
     Che strana domanda.
     – No… – risponde Ugo Masi. – Non ne ho bisogno. Ho il serbatoio pieno a metà.
     La donna scuote il capo. – Tanti dicono così.
     – Senta…
     Ma lei lo interrompe:
     – Lo sa che non può lasciare la stazione di servizio, senza aver fatto il pieno?
     – Dice sul serio?
     – La prossima è a duecentoventicinque chilometri.
     – Lei è pazza.
     La cassiera ignora il giudizio di lui.
     – Ma non tutti ci arrivano, ovviamente.
     – Perché?
     Lo guarda in uno strano modo, come se venisse da un’altra galassia.
     – Forse lei ha imboccato l’autostrada per sbaglio.
     – No, è stata una mia libera scelta.
     – Allora saprà quali sono le regole.
     – Mi sta prendendo per il culo?
     La cassiera non sembra essersi offesa. Mantiene la sua espressione impassibile, professionale, e continua a esaminarlo come se si trovasse davanti un insetto raro.
     – Ogni automobilista ha diritto a una consumazione, ma deve fare il pieno – spiega. – La percorrenza è obbligatoria fino alla successiva stazione di servizio. Bisogna procedere con velocità costante, risparmiare il più possibile carburante, e sperare di non rimanere a secco prima del tempo. – Si protende un po’ verso di lui e aggiunge con uno strano sibilo: – Dove crede di andare con mezzo serbatoio?
     – Ma io devo solo uscire a… – Ma non gli viene la parola.
     – Adesso è lei che mi sembra pazzo. Non si può uscire dall’autostrada. Solo alla meta…
     – Ma che mi sta succedendo? – la interrompe Ugo Masi. –  Non mi dica che sono arrivato ai confini della realtà!
     I due avventori hanno finito di sorseggiare il loro caffè e stanno uscendo.
     – È lei che mi sembra irreale, signore!
     Ha fatto il pieno. Il benzinaio non ha voluto rispondere alle sue domande.
     Forse era un robot, pensa Ugo Masi.
     Adesso è di nuovo chiuso nell’abitacolo, le chiavi in mano. Non gli resta altro che accendere il motore e ripartire.
     – Sempre avanti, lei deve andare sempre avanti, come fanno tutti… fino alla prossima stazione di servizio. Sono le regole. E le regole vanno rispettate. Si auguri di non rimanere senza benzina. – Queste ultime parole della cassiera gli rimbombano nel cervello intorpidito. Gliele ha dette mentre si dirigeva verso l’uscita, con lo scontrino in mano.
     Già, è uscito come un sonnambulo, rinunciando alla camomilla.
     Infila la chiave e mette in moto.
     Ora corre di nuovo sull’asfalto bagnato.
     Centotrenta chilometri orari.
     Ugo Masi si chiede quale può essere il consumo, tenendo questa media. Troppo elevata, forse. Non può rischiare di rimanere per strada… su questa autostrada.
     Ed ecco un tunnel, la cui imboccatura illuminata si avvicina sempre più.
     Così lui si lascia inghiottire, con un molesto pensiero nella testa: “Come mai questa galleria, che si prospetta molto lunga, nel bel mezzo della pianura?”
    
(Per gentile concessione dell’Autore)