Che
età avevo quando è apparso per la prima volta dietro la mia finestra? Quindici
anni. Si. Pressappoco. Prima, non mi ricordo. Doveva girare nei paraggi. La
notte sentivo dei passi e, l’indomani mattina, credevo di aver sognato. Girava
già. Mi ammansiva.
Quando
è apparso, tra cane e lupo, pioveva. Almeno credo. Ho conservato l’immagine del
suo mantello lucente, su cui la lampada appendeva delle goccioline di luce.
Egli guardava dall’interno dei suoi occhi inespressivi, globi che riflettevano
il bagliore della lampada. Inespressivi? Lo sguardo andava da fuori verso
l’interno, alla maniera degli occhi di un cieco. Non più la prima volta delle
altre, i cani non hanno ringhiato all'avvicinarsi del visitatore. Ma durante la
sua presenza restavano rannicchiati, il naso tra le zampe, l'occhio rotondo,
l'orecchio teso. Gelosia? Ho sempre pensato che essi non amassero il
visitatore. Lo sopportavano, ecco tutto, come si sopporta un frequentatore
abituale, un famigliare della casa.
Naturalmente,
eccettuati i cani, nessun altro lo vedeva né lo sentiva. Io soltanto. Restava
dritto contro la finestra, in silenzio. Non si scuoteva.
Non
ho mai potuto avvicinarlo. All'inizio aprivo un po' la finestra, senza rumore,
con l'abilità di un ladro. Un profumo selvaggio, un profumo di libertà – parola
sprecata questa volta. Lui non aveva mai conosciuto né il morso né la cavezza
né la sella. Indomito. Indomabile.
Non
ho mai terminato il mio gesto. Il legno scricchiolava sempre, il vetro spostava
un riflesso. Il mio visitatore rientrava nell'ombra.
Una
volta, una sola, egli ha avuto il ghigno curioso dei cavalli che alzano il
labbro per prendere o mordere. Se avessi
potuto aprire, avrei teso la mano, tentato la mia sorte, sperando di lusingarlo
con una carezza. A quel tempo, non sapevo che i cavalli possono leccare la
mano, come un cane.
Attraverso
il vetro, io gli mormoravo alcune parole. Talvolta mi è parso che le sue
orecchie si muovessero. Ma non poteva capirmi. Poi gli ho parlato dolcemente.
Sono sicuro che allora mi ha inteso. Ma la mia voce non poteva ricordarla.
Egli
è venuto nelle notti di temporale e nelle notti di luna. Verso il cielo
gareggiava in velocità con le nuvole, criniera in luce. S'infilava in pieno
cielo, sotto la sfera della luna.
Ho
voluto dimenticare. Ne avevo abbastanza di questa presenza, di questa
inaccessibile amicizia che si nascondeva. Dimenticarlo? Come avrei potuto? Uno
di noi (chi?) era l'ombra dell'altro.
Questa
sera, egli è tornato, senza rumore. Ma io ho percepito il fruscio dei suoi
zoccoli sulla terra morbida. Ho voluto fare una finta, nascondermi, per vederlo
senza essere visto, nel vano della finestra. Egli ha scosso la testa.
Attende,
davanti alla porta, il nero che splende sul grigio. Come la prima sera, piove.
Infine, pioviggina. I fianchi della bestia fumano.
Ora
posso aprire. Non se ne andrà senza di me. Egli gratta il terreno con lo
zoccolo.
Apro
la porta. I cani volevano seguirmi. Li ho rimandati alla cuccia.
Egli
è partito.
Ritornerà,
come mi torna alla mente la vecchia ballata: Die Toten reiten schnell
(1).
I
morti vanno al galoppo.
(Traduzione
dal francese di Paolo Secondini)
Originalissimo, questo racconto di Pierre Jean, intenso, di un lirismo onirico, surreale.
RispondiEliminaBella la storia del cavallo che ti porta verso il mondo ignoto
RispondiEliminaRacconto fantasy ricco di suggestione. Belli e interessanti i risvolti riguardanti il dualismo fantasia realtà.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Bel racconto davvero: molto poetico.
RispondiEliminaG.S.