Non
sapeva da quanto tempo stava camminando. Gli sfrecciavano accanto, con fragore,
bagliori metallici privi di contorni.
La
paura era la sua maggiore insidia, man mano che prometteva di farsi possibile,
intorno, il riconoscimento delle cose.
Il
contesto si definiva fino a dissolvere ogni dubbio. Autostrada, e cirri bianchi
nel cielo.
Stava
procedendo, a quanto pareva, sulla corsia di emergenza. Ma perché le automobili
continuavano ad avere bordi sfumati? Alcune parevano fiamme, altre freschi
globi di setole multicolori. Forse era per la velocità eccessiva. L'asfalto
stesso aveva una consistenza vischiosa alla vista, pur dimostrandosi, sotto i
piedi, quanto di più solido ci fosse.
Comunque,
era in viaggio. Ciò aveva richiesto molto coraggio, anche se non avrebbe potuto
evitarlo. Prima o dopo, volente o nolente, sarebbe accaduto.
Una
bolla verde, pelosa e leggera, lo superò in un attimo e da lì, stavolta, fu
lanciato un richiamo. Un nome esplose nell'aria. Una voce maschile, ferma,
aveva pronunciato “Filippo!” Non si trattava del nome che non ricordava, ma
quello che corrispondeva alla sua mutazione. L'appello non era stato
affettuoso, anzi. Più camminava, più il suo corpo, stretto in camicia e jeans, infradito ai piedi, diventava pesante, mentre
le automobili erano proprio automobili, inequivocabilmente Simca, Fiat Brava,
BMW. Facevano parte del suo mondo. Filippo dava automaticamente un nome anche
alle cose che non aveva mai visto. Riconosceva l'ambiente in cui si stava
muovendo, lasciandosi alle spalle tutto quanto era stato. Temeva di essere
investito. Sentiva vibrare le gambe ad ogni fragore. Era faticoso con gli infradito. Il cielo, nel
frattempo, era divenuto uniformente
azzurro, i cirri si erano dissolti, ma
all'orizzonte permaneva una debole foschia. Iniziavano a profilarsi filari di
alberi e, lontane quanto evanescenti, delle colline.
Si
delineò poi una costruzione che scavalcava a ponte l'autostrada. Filippo sapeva
leggere e pronunciò, mentalmente, “Autogrill”.
Si diresse verso il parcheggio, quasi tutto occupato. Non si notavano esseri
umani. Entrò e vide molti oggetti esposti, cibi di ogni genere, tutto era ben
definito, solido, anche al tatto. Si mise a toccare le merci che lo attiravano:
peluches, libri, scatole di dolciumi, un maiale di gomma che, se schiacciato,
produceva il suo caratteristico verso. Quando alzò lo sguardo, c'erano delle
persone che si aggiravano nei pressi ed altre ne arrivavano, rilasciate dal
nulla. Non si sentì affatto confortato,
erano evidenti l'indifferenza e il
fastidio nei suoi confronti. Una donna dal viso segnato, in parte coperto dai
capelli neri, lo guardò insistentemente, con doloroso disprezzo. Un uomo pelato
e mezzo nudo, con vistosi tatuaggi, gli rivolse un sorrisetto incredulo, come
se avesse infranto un tabù con la sua sola presenza. Di nuovo, quindi, ebbe
paura. Quella paura di sottofondo che non lo aveva mai abbandonato e che poteva solo riacutizzarsi.
Si
allontanò silenzioso e raggiunse la toilette. Si avvicinò all'orinatoio.
Seguiva un copione di gesti naturali, profondamente impressi nella sua natura.
Sentì il rumore del getto, prima di rilassarsi. Si avvide che l'orina era
scura, quasi nera e lo prese lo sgomento. Cercò di allontanarsi e
all'improvviso venne aggredito. Una lunga, sottile proboscide era sbucata dallo
scarico, avventandosi sul suo sesso. Gridando, la afferrò con due mani e cercò
di staccarla. Non ci riuscì e, continuando a tirare, andò all'indietro. Vide
fuoriuscire una testa grigia, due piccoli occhi frivoli, un ventre grasso. Provava un'ombra di
piacere, ma il terrore e il disgusto erano più forti. Si gettò per terra, tra
le scarpe dei presenti, che commentavano la situazione con voci gutturali, in
lingue incomprensibili. Ovunque sperasse di incontrare un afflato di
solidarietà gli arrivava il più netto rifiuto.
Invece di aiutarlo a liberarsi da quella bestia, presero a sputargli addosso, a dargli calci.
Due
ragazzine cominciarono a montargli
sopra. Qualcuno gli tirò un oggetto.
Fece attenzione ai volti che lo circondavano, recependo un odio indifeso. Non
avrebbero voluto trattarlo così, ma era inevitabile. Alcuni piangevano di
rammarico. Anche le adolescenti che lo calpestavano lo facevano perchè dovevano
anteporre se stesse a lui, tristemente, senza potere immaginare un'altra
soluzione.
Non
potè trovare di meglio che radunare tutte le sue estreme forze e dimenarsi nel
tentativo disperato di alzarsi e darsi alla fuga. Il risultato fu che tutto il
suo corpo fu risucchiato all'interno della bestia. Attraverso le sue viscere,
si ritrovò steso di schiena, in un'oscurità viscida. Si alzò a fatica e si mise
a correre all'impazzata. Era un cunicolo buio, ma una vaga luminescenza marrone
gli segnalava, di lì a poco, un
progressivo allargarsi delle pareti, che diventavano quelle di un vero e
proprio tunnel. Ecco ancora l'autostrada. Dentro una galleria, però, dove
doveva camminare lungo un bordo sottile, mentre le automobili, noncuranti,
sfrecciavano numerose.
Tra
lui e i suoi simili non c'erano vie di contatto. Veniva dalla guerra,
dall'odio. Era partito per andare verso qualcosa di meglio, chissà, oppure
per confermare la sua condanna.
Stava
a galla, sopra abissi che ignorava, la visione amputata per necessità e per
scelta. Era stato marchiato e indirizzato. Che fosse stato proprio lui a
chiederlo o lo avessero, in realtà,
deciso altri, assieme o contro di lui, poco importava. Era lì e doveva
andare avanti, senza ripensamenti.
Quando
la galleria terminò, si trovò in un paesaggio straordinariamente definito. Era
il mondo visto da quel vacuo mostro, che poi era lui stesso. Una vista
acutissima, che scandagliava le pianure, distinguendo fiori e ginestre, pietre
e salvia. La saliva che ingurgitava era amara, nel pulsare, ancestralmente
animale, delle sue mucose.
Quando
un'automobile si fermò al suo fianco e venne fermamente invitato a salire
dietro, obbedì senza meravigliarsi. Al volante sedeva un uomo brizzolato,
corpulento, accanto ad una donna stempiata, con gli zigomi forti, gli occhi
tondi e sporgenti. Promanava da lei un'energia intensissima e, soprattutto, una
straordinaria mancanza di benevolenza.
Filippo
cercò di richiamare la loro attenzione, ma inutilmente. Gli venne da piangere.
Era un bambino di forse cinque, sei anni. Non sapeva quando e in che modo fosse
avvenuta la metamorfosi, ma gli sembrava del tutto ovvia. Piangeva
sommessamente e continuativamente, del tutto trascurato, con la sua voce di
adulto. Infine la macchina accostava in prossimità di una piazzola di sosta.
Fermatosi,
l'uomo gli ingiunse di scendere, con gli occhi velati di collera.
“La
smetti o non la smetti?” Minacciò. Avrebbe voluto obbedire, ma la paura era
troppo grande. Le mani gli tremavano e dalla sua bocca uscivano, suo malgrado,
lamenti cavernosi, amplificati da un'inaspettata eco. Arrivò la prima sberla, la seconda.
Poi iniziò a picchiarlo anche la donna. Tra la nebbia delle lacrime la guardava incamerare aria, ululando
per lo scandalo che lui rappresentava ai suoi occhi; schiaffeggiandolo, il suo
sguardo lo sfuggiva, quasi fosse impegnata in
uno scongiuro e agisse per un eccesso di sorpresa e di
indignazione. Le sue unghie affilate gli
scavarono nelle guance. Finì per terra sanguinando dal naso. Lui lo sollevò tirandolo per i capelli. Vide
i suoi piedi penzoloni sul vuoto e chiazze rosse che macchiavano l'asfalto.
Venne sbattuto in malo modo sul sedile posteriore e il viaggio proseguì. I due
parlavano velocemente tra loro, borbottavano minacce tra i denti, progettavano
punizioni. Filippo dovette dar di stomaco. Vide il suo vomito sul sedile e sul
tappetino. A quel punto l'uomo accostò di nuovo. Si voltò. Aveva il volto pieno, arrossato. Le pupille erano dilatate. Carne
della sua carne, sangue del suo sangue, gli afferrò il collo con una mano e
strinse, strinse sempre di più. Poco a poco tutto veniva meno. In realtà, la
presa si allentò a un attimo dalla fine. L'uomo lo trasse fuori dalla macchina,
afferrò una corda dal bagagliaio e lo legò meticolosamente al guardrail.
Braccia e bacino. Dopodichè lo abbandonarono.
Passò
il tempo e sopraggiunsero la fame e la sete. Morbidamente, mellifluamente,
svariate creature gli furono, infatti,
attorno, garbate, discrete statuine di cera, dalla forma di ballerina in tutù o di libellula cangiante. Gli si
appressavano, prima di immobilizzarsi. Forme e colori cristallizzavano davanti a lui, restando
gentili, perchè di fatto sarebbe bastato mangiare e bere perchè si
allontanassero immediatamente. La fame e la sete non erano nemiche, erano una
circostanza materiale, risolvibilissima. Non per il bambino che era, che
continuava a singhiozzare, non facendosi consolare da quei sorrisi delicati,
quasi amichevoli, confidenti in una concretezza a venire, gravida di piaceri.
Di solito era così, per chi si trovava nella situazione giusta. Lui cosa
avrebbe potuto aspettarsi? Quali piaceri? Sentì il suo sesso inturgidirsi, non
era più bambino, ma restava legato e impotente. I piedi erano scorticati negli infradito.
Un'altra
auto rallentò, con stridore di freni. Dal finestrino una mano candida gli gettò
del cibo. Lui protese il viso, ma restava legato, per cui vide spargersi per
terra noccioline e cioccolatini. Il conducente mise meglio a fuoco la sua
condizione e si fermò poco oltre. La portiera si aprì e ne uscì un tipo alto
dalla pelle bianca e la veste nera, le
sopracciglia inarcate. Gli arrivò tutto il portato della sua estrema vanità.
Era totalmente preso da se stesso, eppure lo slegò dal guardrail, con studiata dolcezza. E
prese ad accarezzarlo sulla testa, mentre lui, finalmente libero, si
gettava carponi tra i golosi doni, annaspando con la bocca. L'altro lo
osservava misurando la distanza tra loro, provando tutto il piacere possibile
dal divario esaltato dalle mani curate.
“Filippo,”
disse, “Caro Filippo...” La sua
soddisfazione si localizzò sulla punta della lingua, con cui prese a umettarsi
le labbra. Sorrise, ma non era un sorriso amichevole. Poi mugolò, come se
stesse venendo. Si concentrò sui suoi spasimi, con gemiti che esprimevano la
consapevolezza dell'eccesso, di qualcosa che debordava drasticamente
dall'armonia, dalla giustizia, da quanto si poteva ritenere dotato di senso. Il
suo godimento era una resa incondizionata. Non era lui ad avere voluto che
Filippo fosse in quello stato. Era il destino, una legge di cui non poteva
ritenersi responsabile. Eiaculava del tutto privo di sensi di colpa. Restava il
fatto che lo aveva salvato. Le strade della misericordia sono molte e
imprevedibili. Avevano di sicuro avuto reciprocamente a che fare in passato e,
soprattutto, avrebbero dovuto incontrarsi di nuovo. Solo in un futuro
indefinibile i conti sarebbero stati pareggiati. Era rassicurante questa intima
certezza. Ma non bastava a cancellare umiliazione e disillusione.
Dopo
l'orgasmo, il trionfatore si rivolse ad una donna giovane, irruente su tacchi a spillo, sopraggiunta in quel
momento. Questa gli porse un braccio perchè la seguisse. Andarono via insieme, a piedi. Filippo
continuò a vederli marciare pieni di sicurezza. Non cessava, seguendoli, di guardare i selvaggi capelli biondi della
ragazza che ondeggiavano per il passo e per il vento. Li perse di vista, ma li ritrovò più avanti,
mentre riposavano sotto un albero. Concentrato su se stesso, irretito dalla
consapevolezza sdegnosa del piacere, l'uomo stava disteso tra le braccia di
lei, che gli accarezzava il viso e gli asciugava la saliva ai lati della bocca.
Filippo
passò oltre. E vide nuove pianure
desolate, poi alberi tra remoti villaggi sparsi, di nuovo alberi, infine
colline. Le automobili, non molto frequenti, schizzavano a velocità incredibile
e talvolta lo sfioravano, ma di nuovo non ne coglieva né forma, né colore, nè
dimensioni.
Resisteva
e, man mano che il tempo passava, si sentiva sempre di più se stesso, si
riconosceva pienamente. Coglieva, in sintesi,
il compito che lo attendeva, senza poterlo volgere in parole. Questo
potenziamento avrebbe trovato corrispondenza, di lì a poco, anche all'esterno.
Lo presagiva arrivando in una grande città, i cui palazzoni periferici erano a
ridosso dell'autostrada. Enormi condomini gravavano sulle tre corsie. Poteva
percepire lo sguardo di molte persone che si stavano affacciando alle finestre.
Ne sbirciò le minuscole teste, lontane macchie nere in controluce. Una donna si
sporse sul davanzale, indicandolo: “E lui!” gridò. E subito dopo, da altre
finestre, dei volti si agitavano e presero a urlare: “E' lui, è lui!”.
Protendendosi verso l'alto vedeva uomini di ogni età, smunti, paffuti, calvi o
con parrucchini e, soprattutto, molte donne anziane, dall'espressione
preoccupata. “E' lui!”. “E' Filippo!” E altre finestre ancora, invece, si
chiusero. Una dopo l'altra, numerose tapparelle furono abbassate, molte teste
si eclissarono. Il riconoscimento non era stato affettuoso. Lo ricordavano per
il disprezzo di cui era universalmente oggetto. In quelle grida, in quelle
fronti corrugate non traspariva la minima solidarietà nei suoi confronti.
Andava incontro all'odio profondo di molti suoi simili e all'indifferenza
totale degli altri. Quello che avrebbe subito sarebbe stato terribile, ma
nessuno avrebbe mosso un dito per aiutarlo. Non avrebbe avuto un consiglio, un
aiuto, neppure una parola buona. Era quello che lo aspettava e non sarebbe
stato nè il primo né l'ultimo. Era capitato e sarebbe capitato a molti altri
reietti, in quanto parti di un meccanismo implacabile di cause ed effetti.
Sapeva solo che non poteva che accettare la sua parte, passare sotto quei
palazzi pieni di avversione. Il cielo si era fatto limaccioso. Soffiava aria
fresca, rabbrividì. Vide un gruppo di uomini scuri, malvestiti, che
correvano dai campi verso di lui.
Scavalcato il guardrail, lo catturarono avvolgendolo in una coperta, per
impedirgli di vedere dove lo avrebbero portato. Lo spinsero lungo una discesa.
Sentì un rumore come di una saracinesca che si alzava. Gli tolsero di dosso la
coperta. Potè così vedere dove si trovava, una vasta stanza disadorna. Intorno,
molta gente cenciosa lo contemplava, seduta a terra presso le pareti. Parlavano tra loro in lingue sconosciute. Se
lo indicavano l'uno all'altro, scambiandosi informazioni od opinioni.
Una
ragazza in divisa, berretto a visiera,
gli si avvicinò con aria di sfida. Si arrestò a poca distanza da lui,
fissandolo in viso.
“Cosa
può confarsi a siffatto errore, in questo imporsi di follia e resipiscenza
della provocazione? Cosa potrebbe essere inferto al principio per cui mortifere
esalazioni di soprastanti falsi allori, guastano impunemente gli evolventi
siti? Urge combattere, al cospetto del
coro dei più.”
Da
una parete una voce sofferente pose una domanda: “Perchè mai il liberato apice
non ostacola il fisico espandersi dell'ingannevole, rosata tenebra?”
Si
fece silenzio, tutti si aspettavano un suo cenno, una parola. Pareva un processo.
“Non
sono sicuro” rispose, allora, “Che non sapendo quali risorse smarrii
espandendomi, fossi di buon grado capace di dispersioni malvage. In fondo, nel conflitto di opposti vettori e interposti
quesiti, altro non fu che l'inconsapevolezza mia querula a non
modellizzare solide intenzioni.”
Non
era convincente, lo sapeva bene. In fondo, però, non importava. Avrebbe voluto
molto, ma poteva poco. Il suo stesso corpo era lì a dimostrarlo. Non era il
corpo che avrebbe immaginato di avere. I piedi nell'infradito erano “alla
greca”, cioè con il secondo dito più lungo dell'alluce. Non li avrebbe voluti
così.
A
quel punto la ragazza sorrise con scherno. Il suo volto ambrato era scosso da
piccoli interni sussulti, nel momento stesso in cui scacciava Filippo dalla sua
mente. Così, a poco a poco, anche gli altri si misero a ridere, uno dopo
l'altro, nella pienezza di un'irrisione profonda, che nasceva da un rifiuto
radicale per ciò che lui prometteva di essere, corpo e mente.
Capì
che doveva tentare di fuggire. Il processo non era dunque neppure iniziato. La
colpevolezza era scontata, come se fosse stato colto in fragrante. Scappando,
era attorniato dappertutto da porte metalliche. In alto le facciate dei palazzi
parevano sul punto di rovinare, per cancellarlo definitivamente. Gli lanciarono
dietro dei cani. Un paio lo raggiunsero subito, azzannandolo ai fianchi. Si
divincolò, ne afferrò uno, riuscì ad avere ragione della sua forza,
abbrancandolo al collo e spappolandolo con le mani, con una potenza che non
pensava di avere, mentre l'animale si dibatteva e ruggiva. E così fece con gli esseri umani che gli
saltavano addosso da ogni parte. Colpiva alla cieca, rompeva costole, cavava
occhi, infilava dita in gola. Perdeva ogni cognizione della vita di quei corpi,
considerandoli come cose, nient'altro che cose. Le urla, i pianti, i conati non
gli sembravano che esiti meccanici di un'impostura. Lui stesso si sarebbe
aperto con le sue mani. Fu quello che fece, fermando così l'attenzione di chi
lo inseguiva. Davanti a loro si strappò il ventre, esibì le interiora. E
continuava a correre, ritrovando l'autostrada, seminando sangue e budella.
Cos'altro era, se non uno schifoso impasto? Non poteva credere in Filippo, così
come nello scempio che di lui aveva appena fatto. Infatti, lasciandosi alle
spalle la città, con gli ultimi palazzi
frementi di vita, ritrovava l'integrità del corpo e della meta. Una sola cosa
poteva e doveva fare: andare avanti, sempre più avanti, eroicamente.
Fino
al traguardo, fino ai supposti, inimmaginabili, caselli d'uscita.
Ad
un certo punto, all'orizzonte, si intuì un subbuglio, un tumulto grandioso.
C'era sicuramente, laggiù, la stazione d'arrivo. Si sentiva un rumore
incessante, simile a un tuono, e si
indovinava uno scintillio di gocce d'acqua, sullo sfondo, che si sollevava
imbiancando il cielo.
La
prossimità dell'uscita venne annunciata anche dal moltiplicarsi delle presenze,
dei pellegrini. Notò un viandante sciancato, perso nella sua solitudine,
bambini soli e in gruppo, due donne che
si tenevano per mano. Procedevano lungo
il guardrail, evitando di sporgersi troppo verso la strada, col rischio di
essere investiti. Erano sempre di più, una fila sterminata di gente decisa ad esserci, ciascuno con la certezza
ormai consolidata della propria identità.
Avevano tutti il loro nome e non si stupivano a sentirlo risuonare nei
recessi della propria storia. C'era Agata, c'era Marcello. E c'era lui,
Filippo. Erano pienamente individuati. La cosa non piaceva a nessuno, nonostante ci fosse chi andava incontro al
futuro con evidente più serenità, con maggiori e meritate garanzie. Si guardava
le mani e le vedeva secche, asciutte. Disse, forte: “Filippo!”. Si chiese
perché si trovasse in quelle condizioni. La domanda aveva una risposta che non
gli era accessibile. Ormai era del tutto sradicato. Si chiese fino a che punto
lo fosse allo stesso grado delle donne che si tenevano per mano, ad esempio.
Loro, almeno, erano in due, si facevano compagnia. Si erano guadagnate un
sostegno, da qualche parte, in qualche tempo. Siamo quello che abbiamo voluto
essere. O no? Nuovi dubbi gli frullavano nel cervello, le domande si
affastellavano più confuse e più stanche. In verità, si stava arrendendo. Si
avvicinava poco per volta ad una rassegnata attesa. Non restava che questo, che lasciarsi andare docilmente.
Si
cominciò ad intravedere la lunga fila
dei caselli. Erano pedoni, ma in qualche modo ci si sarebbe presi cura di loro.
Chi viaggiava in automobile aveva vantaggi e protezioni impensabili. Loro invece erano i reietti.
Sogghignò, guardando di sottecchi i colleghi che lo precedevano. Poi si volse
alle spalle e vide che la processione non aveva fine. Piegò istintivamente le
labbra in una smorfia di disprezzo.
Man
mano che si avvicinavano erano più
numerosi e più a stretto contatto. Faticavano a mantenersi compatti, col
rischio di esporsi pericolosamente. Così avvenne, infatti, per una creatura
esile, che pareva non avesse mai respirato pienamente. Filippo aveva già
intravisto il suo volto emaciato. La giovane sbandò uscendo di qualche passo
dalla linea. Venne investita in pieno da un pulmann carico di viaggiatori
impassibili, che continuò verso la stazione senza rallentare. Lei giacque a
terra e la si vide ridursi lentamente in poltiglia. Si liquefaceva, via via
raggrumandosi. Divenne una bolla instabile, sorta di grosso tuorlo che si
gonfiava, facendosi trasparente, fino a scoppiare. Rimasero solo poche gocce
sull'asfalto, a ricordare una delle reiette, a questo punto non più tale,
viaggiatrice senza meta, sventurata senza sventura. Affacciatasi appena alla
sua missione, senza sapere che era solo uno sbaglio, forse uno scherzo. In ogni
caso, una necessità.
I
caselli ormai erano vicini. Si sentiva gridare, singhiozzare. Una risata
maschile, offensiva, si stagliò nel clamore. Qualcuno bestemmiava. Una
religiosa vestita di nero intonava un inno con voce acuta. Filippo volle
guardarla in viso, conoscerla. Le arrivò alle spalle e la toccò. Lei si voltò
spaventata, scorgendolo da una distanza incommensurabile. Le labbra violacee si
strinsero serratamente. Era forte, sapeva quello che la aspettava, ma era
pronta.
“Cosa
vuoi?” Gli chiese, freddamente.
“Voglio
vedere la faccia di chi è nelle mie condizioni, o quasi.”
“Merda,”
fece lei e si voltò nuovamente, riprendendo a cantare energicamente.
La
meta era prossima. La successione dei caselli si estendeva all'infinito e le
automobili rallentavano formando
interminabili code. C'erano auto nuove scintillanti e altre vecchie
e scassate, con cofani piegati, portiere
distrutte. C'erano quelle di lusso, lunghe e le spider. Dentro si intravedevano
visi inespressivi, gaudenti, disperati,
celati dai vetri oscurati, in una corazza invincibile.
Alcuni
dietro cantavano, forse per farsi coraggio, si sentì ancora esplodere la
tracotante risata maschile. Una donna con un bambino, probabilmente madre e
figlio, si abbracciavano continuamente e
piangevano, cercando inutilmente di sostenersi a vicenda. La paura segnava i
loro volti, nella debolezza e nel
dolore. Un casello era ormai a pochi passi. Si vedevano delle braccia tendersi di
volta in volta e ritirare il pedaggio, sotto forma di oboli estratti dalle
bocche, dall'ano. Uno alla volta, spontaneamente, tutti tiravano fuori dal
proprio corpo valori colorati, profumati, puzzolenti, splendenti. Se li
sfilavano dalla gola, da sotto le ascelle. Con le mani scavavano dentro se
stessi per estrarre quel bolo di doni e di scarti. A ritirarli ci pensava il
signore in divisa dentro la cabina, corpulento, aiutato da un mingherlino dal
pizzo grigio, che presiedeva ad una macchina miscelatrice dove la materia
veniva gettata. Dal quel crogiolo provenivano odori e gorgoglii. Venivano poi
riempiti sacchi che degli inservienti
trasportavano altrove, probabilmente in un magazzino nelle vicinanze.
Finalmente
toccò a Filippo, tra rassegnazione e
sollievo.
Vide
che dentro, in un angolo, sedeva una grossa donna nera, con un alto
coloratissimo turbante. Si sventagliava per il caldo. E accadde qualcosa. La
guardò supplichevole e lei ricambiò con un'espressione che lo rese incredulo.
Per la prima volta, non si trattava di uno sguardo ostile. Anzi, poteva essere
sicuro che quegli occhi comunicavano comprensione, dolcezza, nonché una vaga
apprensione, forse una promessa di soccorso, una concessione fatta di nascosto.
Era una donna autorevole, antica, che aveva
senz'altro conosciuto, ma non ricordava nulla.
Infilandosi
le mani nel ventre dall'ombelico, anche lui ne estrasse rotoli di filamenti
pastosi, cordame, matasse schiumose. Rovistò a lungo e c'era sempre ancora
qualcosa da grattare via, da consegnare.
L'ometto
dal pizzo grigio buttò tutto nella miscelatrice, con impazienza.
Passando
oltre, sapeva che non avrebbe più rivisto l'austera, clemente donna nera. Gli restava però dentro la sua muta
consolazione.
Ora
sarebbe uscito dall'autostrada. Si ritrovò in mezzo ad una folla divenuta
silenziosa, col respiro stentato, in un'attesa sfinita. Nella foschia, al di là
della volta biancastra del cielo, indovinava qualcosa, come l'ombra immensa di
una o più teste, le mosse volubili di chi, scrutandoli, armeggiasse tra i suoi giochi. E in un lampo gli parve di riconoscere, con
assoluto sconcerto, se stesso.
Quindi
vide il mare. Non era molto distante, un mare terroso, mefitico, che tracimava.
L'acqua stava avanzando furiosamente. Alcuni compagni furono subito trascinati
via, Filippo li vide annaspare, divincolarsi in un ultimo tentativo di
ribellione. La donna e il figlioletto vennero divisi da un'onda e tentarono
invano di ricongiungersi. La risata volgare dell'uomo alle spalle finì col
spegnersi in un gorgoglio d'annegato. Anche lui venne travolto. Era un'acqua
tiepida, densa, avvolgente. Nel buio e nel calore finì di arrendersi. Ebbe la
sensazione di chiudere gli occhi per sempre.
Si
risvegliò sin troppo presto, al colmo del terrore. Il liquido stava defluendo
intorno e dentro di lui. Non provava alcun senso di liberazione, ma un'angoscia
intollerabile. E quella luce violenta... Iniziò allora a gridare con tutte le
forze, in un pianto che si ripercuoteva nel passato e nel futuro, nella sbigottita
confidenza con la sua voce, una
voce assai diversa, adesso, assai più acuta. Una voce sottile. Un vagito.
Infine,
era al mondo.
Racconto ben scritto e molto articolato. Di ampio respiro.
RispondiEliminaG.S.