giovedì 30 ottobre 2014

COLONIZZAZIONE di Paolo Secondini



«Devi scalare la vetta – la vedi? – e saltare con decisione su quella accanto… Credo che nessuno l’abbia finora conquistata.»
«D’accordo! Farò come dici!» assentì il giovane.
Tese la mano al vecchio per salutarlo e per ringraziarlo del consiglio.
Quindi, dopo essersi arrampicato su un ripido pendio e aver traversato una foresta di tronchi enormi, scuri, arrivò a uno spiazzo.
Trasse un profondo respiro e, con un salto ben calibrato, giunse sull’altra vetta. Anche qui vi era una grande foresta intricata.
Si guardò per un attimo intorno, trepidante; provò a chiamare, a gridare, ma non vide nessuno, né udì rumori.
«Oh!» esclamò infine il pidocchio. «Sono il primo!… Ecco una splendida testa da colonizzare.»

martedì 28 ottobre 2014

L'ALTRO MONDO di Maurizio Setti



Tutto ebbe inizio in un luogo molto lontano dal nostro pianeta. Era un altro mondo, ma tale e quale al nostro; ricordo che in quel posto regnava il silenzio e la pace era la prima cosa che si percepiva.
Gli abitanti erano esseri viventi simili a noi, quasi identici, oserei dire, se non per un dettaglio che non passava certamente inosservato: non proferivano parola.
A quel tempo, fui inviato dal comando generale delle nazioni Terrestri per un sopralluogo su un nuovo corpo celeste; si pensava di trovare un pianeta simile al nostro, probabilmente più evoluto, infatti ne ebbi subito la conferma una volta atterrato con la mia navicella.  Mi mischiai alla popolazione e imparai le loro abitudini, certo all'inizio non fu affatto facile trattenermi dall'emettere suoni fonetici ma poi imparai che la comunicazione poteva essere messa in pratica anche attraverso il  solo sguardo.
Erano gli occhi infatti ad assumere il compito più importante. Quando incrociavano quelli di un altro individuo, entravano in contatto con l'anima e così facendo mostravano a nudo ogni aspetto del vissuto della persona a cui appartenevano.
Non si poteva mentire, tanto meno ingannare, tutto era alla luce del sole, e per un terrestre come me  questo rappresentava un grande valore aggiunto.
Non nascondo di essermi trovato un po' a disagio durante le prime comunicazioni, il fatto di non poter indossare nessuna maschera mi costringeva a improvvisare un copione reale, senza impurità.
Era come per un comune bagnante, sconfinare in una spiaggia di nudisti. L'imbarazzo fu superato quando capii che quello era l'unico modo per relazionarsi agli altri, e che tutto diveniva molto più semplice.
Mi ci volle qualche mese però per integrarmi totalmente, dopodiché era come se fossi uno di loro e giorno dopo giorno la nostalgia per il pianteta Terra si affievoliva sempre più.
Una sera raggiunsi la collina da dove si poteva ammirare la Terra e rimasi lì per circa un'ora a contemplarla; pareva così vicina, tuttavia erano ormai lontani i ricordi di un passato trascorso su di un mondo col quale forse non trovavo più un punto in comune.
Mancavano solo cinque giorni alla fine della mia missione e il dilemma mi stava ormai torturando.
Lasciare questo nuovo mondo per il vecchio mi avrebbe rassicurato su ciò che avrei ritrovato ma mi avrebbe lasciato con una curiosità tale da non poter più vivere una vita normale.
Dovevo scegliere e il tempo stava ormai scadendo come sabbia in una clessidra.
Avevo imparato a far parlare i miei sentimenti, ad aprirmi totalmente agli altri e a farmi accettare pur sapendo che arrivavo da molto lontano e che appartenevo a quella specie primitiva chiamata: uomo. 
Poi a un tratto tutto mi parve chiaro e illuminante.
Dovevo rimanere su questo nuovo mondo, non potevo perdere l'occasione della mia vita, forse l'ultima per proseguire il viaggio in un altro sistema solare, ma soprattutto... dentro me stesso.
Salii sulla navicella, presi il diario di bordo e scrissi gli ultimi appunti prima di accendere i motori e far partire il razzo.
Prima di scendere inserii il pilota automatico.
Ora potevo dire addio al mio vecchio mondo e incominciare una nuova avventura; nessun terrestre tranne me avrebbe mai saputo di questa fantastica storia.

domenica 26 ottobre 2014

IL TRATTORE TEMPORALE di Sauro Nieddu



Il Trattore Temporale apparve nel duemila cinquantaquattro, per la precisione il dieci febbraio; proprio il giorno del dodicesimo compleanno di Felice Capatosta. O forse bisognerebbe dire che esisteva dalla notte dei tempi, portando con sé a prova della questione, qualche raro Neanderthal e addirittura qualche ancor più raro e antico ominide.
Quando il Trattore apparve, erano le nove e mezzo del mattino, ora di Caprilangi, Italia. Felice stava felice a osservare la neve dal vetro appannato. Tanta neve. Miracolo che puntualmente implicava l’impossibilità di andare a scuola, e proprio il giorno del suo compleanno! Avveniva spesso, a dire il vero. Felice, in tale situazione, aveva sempre sguazzato: Puntualmente Jennifer Marrani in Capatosta, altrimenti conosciuta come la mamma, infornava chili e chili di FaiDaTé¹, le squisite brioches infornabili con vera farina e deliziosa marmellata di aromi semi-naturali. Altrettanto puntualmente il suo invito scolastico saltava, e la mamma doveva ripiegare sulla solita festicciola domestica. Ovviamente, con le strade in quelle condizioni, ben pochi dei suoi compagni si facevano vivi durante il pomeriggio, e Felice si ritrovava a fare una scorpacciata continua di brioches per due giorni di fila. Preferiva quelle al Cioccorato² ma anche quelle con marmellata di aromi di arancio e limone non erano male.
Comunque Felice era lì che guardava fuori quando apparve il Trattore. Apparve proprio così, dal nulla; prima non c’era, poi sì. Aveva l’aspetto di un antico trattore agricolo, ed era tanto grande che non si capiva come facesse a non buttare giù le case ai lati della strada. Sulla cima aveva un enorme megafono. Il Megafono diceva, con una voce energica ma allo stesso tempo priva di personalità:
A tutta la popolazione. Si consiglia a tutta la popolazione di afferrare una barra del rimorchio che seguirà a breve questo trattore temporale. Il trattore temporale vi trarrà da questo tempo, trascinandovi avanti nel tempo. Quando sarete attaccati alla barra del rimorchio potete staccarvi quando volete e riposarvi nel tempo dove vi trovate. Non ci sono fermate fisse del trattore temporale, avete la libertà di afferrare la barra del rimorchio quando volete e di lasciarla andare quando volete. Si consiglia a tutta la popolazione che è meglio andare avanti nel tempo. Per andare avanti nel tempo afferrate una barra del rimorchio.
A tutta la…
La cosa andò avanti per mezzora, con quell’assurdo trattore fermo in mezzo alla strada che allo stesso tempo, non si capisce come, si muoveva. Poi il Trattore fu passato, e venne il rimorchio. Questi non era altro che una lunga e pesante barra centrale sorretta da ruote gigantesche, che portava, fissate perpendicolarmente, una serie infinita di barre molto più sottili. Le barre erano poste circa all’altezza della vita di un essere umano medio, anche queste erano immobili, anche queste si muovevano con quel movimento inconcepibile eppure reale.
Felice restò a fissare la scena con gli occhi sbarrati dalla meraviglia; era il giorno del suo compleanno, e stavolta non si era trattato solo della solita nevicata. Sull’altro lato del vetro gli tenevano compagnia (dal basso) gli occhi sgranati per lo sgomento della mamma, e gli occhi spalancati per l’incredulità di Altero Capatosta (il papà).
Espressioni come queste, e altre varianti ancora, apparvero sulla faccia di molte persone di tutto il mondo e di ogni epoca. Infatti, il Trattore, e poi il Rimorchio, comparvero contemporaneamente (se così si può dire; il solito paradosso…) in tutta la storia umana, e ogni centro abitato del globo, per quanto piccolo, aveva la via principale invasa dal Rimorchio che si perdeva a perdita d’occhio in entrambe le direzioni.
Dopo dieci minuti iniziarono le apparizioni, dalle barre del rimorchio apparentemente prive di passeggeri, iniziarono a materializzarsi personaggi vestiti in modo strano. La maggior parte di loro correva via dal Rimorchio e piazzatosi davanti a un cancello, un’aiuola o un palo della luce, si sbottonava i pantaloni e… beh, avete capito. Apparivano anche delle donne, ma quelle preferivano bussare alle case o entrare in un locale pubblico. La sostanza comunque era sempre quella, si fermavano per i loro bisogni e, come dicevano loro, ripartivano.
Per come la vedeva Felice, invece, scomparivano e basta; appena poggiavano le mani sulla barra, non erano più lì.
Il tempo passava e personaggi ancora più strani venivano partoriti dal Rimorchio. Potete immaginare, con che occhi potesse vedere un dodicenne del duemila e cinquantaquattro, i rapidi cambi di moda degli ultimi secoli del passato millennio. Ormai erano passate due ore dall’inizio delle apparizioni, e arrivava gente fin dal millenovecentotrenta. Quelli che si fermavano, spesso, oltre che ai bisogni corporali, ora pensavano anche a cercarsi da mangiare. La gente del tempo di Felice continuava a osservare con le facce incollate ai vetri delle finestre, a parte qualche coraggioso, o pazzo, che usciva a controllare di persona.
Felice (tutt’altro che felice) aveva visto partire i vicini di casa con loro la figlia quindicenne Màlika Mallìca. Così era svanito nel nulla quello che fin allora, grazie alla finestrella della mansarda a sei metri dalla camera della ragazza, e due metri più in alto, era stato il suo primo e unico oggetto di desiderio erotico. E non aveva potuto farci niente.
Andronico Mallìca, mentre uscivano da casa, aveva detto a Màlika e alla mamma, Ginevra:
‑ Da come parlava sembrava una cosa seria, e poi, chi altro potrebbe organizzare una cosa simile oltre il governo? Se ci hanno detto ti farci portare dal Trattore ci sarà un buon motivo, no? Andiamo.
‑ Hai sentito cos’ha detto Andronico?
Chiese la Mamma.
‑ Ci stavo già pensando, cara. Ma credo sia meglio prenderci un po’ di tempo per rifletterci. Non mi sembra il caso di farci portare avanti nel tempo e abbandonare ciò che abbiamo adesso senza averci pensato bene; non c’è tutta questa fretta.
Felice corse in camera sua e gettò sul letto. Incomincio a riflettere freneticamente; doveva assolutamente convincere il papà e la mamma della necessità di partire subito. Dopo aver passato un po’ di tempo a studiare i dettagli, guardò ancora dalla finestra della camera. Intravvide un tipo vestito di stracci che sgattaiolava via dal cortile, poi notò la chiazza marrone e fumante che spiccava sulla neve accanto al castagno. Chissà se papà l’ha vista, pensò. Guardò fuori dalla finestra e vide che i viaggiatori erano sempre più strani e sembrava di essere a carnevale (erano rappresentate mode dal 1768 al 2054).
Corse dalla mamma e iniziò a pressarla per partire immediatamente. Poi dopo aver ritenuto sufficiente lo stress inflittole, almeno per il momento, Felice andò a ripetere l’azione col papà, poi tornò da Jennifer, poi ancora da Altero.
Finì che partirono in serata; ciascuno dei tre con la sua valigetta sottobraccio, si diressero verso il Rimorchio e si apprestarono ad andarsene. Fu un attimo; vedere la mamma e il papà che lasciavano cadere la mano a stringere la barra, fermare la propria a mezz’aria, vedere il papà e la mamma che svanivano nel futuro, o dovunque  portasse quella macchina infernale.
Cercando di trattenere l’esultanza e mantenere un portamento dignitoso, tornò fino alla porta di casa. Quando l’ebbe chiusa alle sue spalle, si lasciò andare alla gioia; ce l’aveva fatta, ora che si era liberato di quei due rompiscatole si iniziava a ragionare.
Niente più scuola, niente più compiti, Nessuno che gli dicesse cosa fare o non fare. Dopo aver preso una bottiglia di birra dal frigorifero, la stappò e s’impadronì di due pacchetti di patatine nella dispensa. Si lasciò cadere sul divano e accese il monitor alla ricerca di qualche programma porno.
Come avrete capito, Felice era un ragazzino tendenzialmente misantropo. E, per un vero misantropo, le persone più odiose sono quelle con cui è costretto a stare a continuo contatto. Allo stesso tempo però, era anche fondamentalmente buono e per quanto possa apparire strano in quella situazione, si sentiva in pace con la sua coscienza; non aveva fatto niente di male al papà e alla mamma; li aveva solo lasciati andare un po’ avanti nel tempo. Sempre che funzionasse davvero così…
Il giorno dopo, Felice, che si era svegliato col mal di testa, si scaldò una tazza di latte e fece un’abbuffata di brioches di compleanno, poi si avviò verso la casa ormai disabitata dei vicini, tremante per l’eccitazione. Si sentiva come un esploratore in un pianeta sconosciuto. E anche se il paesaggio attorno a lui era sempre il solito, essendo cambiata la situazione, forse lo era davvero.
Appena entrato nella casa dei Mallìca, corse subito nella camera che era stata di Màlika, dopo aver frugato per un po’ nei cassetti dell’intimo e negli effetti personali, gli venne un prurito che non poteva ignorare; corse ad accendere il monitor della ragazza e trovò la cartella delle foto. Màlika conservava tantissime fotografie e Felice si gettò a capofitto tra le varie cartelle. E finalmente le trovò; tutte le foto delle vacanze al mare, dove la sua ex vicina compariva vestita solo di un ridottissimo due pezzi all’ultima moda, ma trovò anche di meglio, una serie di dodici scatti in cui la ragazza si liberava scatto dopo scatto di tutti i suoi vestiti, osservando l’obiettivo con aria lasciva.
Non si staccò dal monitor fino a mezzogiorno, quando il suo stomaco iniziò a brontolare. Allora andò a vedere cosa offriva la cucina di casa Mallìca. Quando fu sazio, continuò l’esplorazione. Alla fine decise di trasferirsi lì; la casa dei vicini era più grande, più bella e più pulita della sua. Oltre a questo, la casa conteneva anche una splendida biblioteca (Felice amava leggere, se poi nessuno veniva a chiedergli di spiegare per filo e per segno quel che aveva letto) e una cantina che sembrava l’ideale per accumulare provviste. C’erano anche soldi, almeno cento volte quanto aveva trovato da lui; la mente di Felice divagava spesso per calcolare come li avrebbe spesi.
Era così preso dalla sua esplorazione, che per tutto il giorno non aveva neanche pensato ad affacciarsi fuori dalla finestra. Quando lo fece, poco prima di andare a letto, notò che il traffico, nonostante l’ora tarda, era intenso come in una mattina di mercato. La gente appariva accanto al Rimorchio e se ne andava in giro a fare i bisogni nei cortili o bussava nelle case in cerca di cibo. La maggior parte, dopo aver fatto ciò che doveva, tornava ad afferrare la barra e svaniva com’era apparsa, altri si allontanavano e restavano a bighellonare nei dintorni. Notò anche che, nel corso della giornata, qualcuno aveva costruito dei rozzi ponti di tavole, che, stese da un terrazzo all’altro, permettevano di scavalcare il Rimorchio. Fece uno sbadiglio e se ne andò a letto.
Durante i primi sei mesi dall’arrivo del Trattore temporale, le sue giornate furono piuttosto simili a questa; il suo unico pensiero era di controllare chi se ne andava per poi prendere possesso dei beni abbandonati. Dopo questo periodo, però, si accorse che le cose iniziavano a sfasciarsi; la corrente mancava sempre con maggior frequenza, le strade venivano pulite sempre più di rado e quando un lampione si guastava, nessuno veniva a cambiare la lampadina. Se n’era andata già un sacco di gente. Probabilmente, pensò, quando sarebbero andati via tutti, niente avrebbe più funzionato.
Così nei sei mesi successivi dovette mettersi al lavoro per assicurarsi la sopravvivenza. Anche questi furono sei mesi piuttosto divertenti. Appena qualcuno lasciava la sua casa, lui prendeva tutto ciò che poteva essergli utile. Fu il primo a scoprire che in vecchio signor Scomparti aveva abbandonato il negozio di alimentari all’angolo, e questo gli permise di riempire di viveri la sua cantina, ma si procurò anche un sacco di altre cose, un paio di gruppi elettrogeni, per esempio, per quando la corrente se ne sarebbe andata del tutto, e un sacco di attrezzi da lavoro, che avrebbero potuto fargli comodo (da tempo aveva in mente di fare carriera come inventore), e naturalmente tutti i videogiochi su cui era riuscito a mettere le mani.
Via via che i giorni passavano, cambiava anche la situazione e con essa le priorità di Felice. Dopo un annetto, una buona metà della popolazione del suo tempo se n’era andata avanti, le persone che incontrava per strada erano perlopiù sconosciuti, strani personaggi venuti da epoche più o meno remote, che avevano in comune solo il fatto di sporcare in giro e consumare senza produrre niente. A Felice non piacevano le persone in genere, ma questi viaggiatori temporali davvero non li sopportava. Non erano altro che un branco di maleducati e irresponsabili. Com’era possibile che non capissero? Se tutti continuavano in quel modo, tra un po’ non ci sarebbe più stato da mangiare.
Nonostante li detestasse, Felice non aveva potuto evitare di parlare con i viaggiatori, c’erano cose che doveva assolutamente sapere, se voleva capire cosa stava succedendo. Però, a quanto pareva, nessuno ne aveva la minima idea. Tutti quelli con cui aveva parlato gli avevano esposto ognuno una teoria diversa, ma secondo Felice, erano tutte campate per aria. L’unica cosa su cui concordavano le testimonianze, era che quando si afferrava una barra del carrello, si vedeva il tempo scorrere cento volte più veloce, eppure si riusciva a capire lo stesso quello che si vedeva. Felice non riusciva proprio a immaginare una simile sensazione, ma se le testimonianze concordavano, doveva essere per forza così. Certo, il primo che glielo aveva detto, quello vestito da centurione, in effetti, non era stato molto chiaro, ma poi gli altri tre gli avevano detto la stessa cosa.
Ciò che gli diede da riflettere, furono le parole del quinto che incontrò. Costui, che in seguito si era presentato come il dottor Prestante Ribaldi, era un ometto vestito di grigio, un abito dall’aria anonima. Probabilmente di epoca democristiana, pensò Felice, che con oltre un anno di esperienza iniziava a farci l’occhio. Era apparso accanto a una barra e si era diretto verso di lui senza esitare.
‑ Felice! Ti vedo cresciuto.
Felice lo guardò storto e fece un passo indietro.
‑ Non mi riconosci? Sono il dottor Ribaldi, zio Prestante.
Felice fece un altro passo indietro.
‑ Ma come, sono passati appena due anni e non mi riconosci più? Tu e i tuo vi apprestavate a partire… l’avete fatto vedo. Io invece mi sono fermato un po’ l’anno scorso, ma ora che vi…
Felice fuggì, salendo veloce la breve rampa che portava alla porta. Aprì la porta e la chiuse alle spalle. Corse alla finestra, in mano una delle mitragliette trovate alla stazione dei carabinieri abbandonata, e sparò qualche colpo in aria. Zio Prestante fuggì a gambe levate.
Felice si lasciò crollare nel letto, com’era possibile che quell’uomo lo avesse conosciuto prima di prendere il Rimorchio, due anni prima, se due anni prima non c’era nessun rimorchio? Si sentì girare la testa. È impossibile, decise. Ma non poté fare a meno di continuare a pensarci.
Allora qualcosa scattò, dentro Felice, fino a fargli sconvolgere la sua vita. Doveva risolvere quel paradosso, ad ogni costo.
Dal giorno evitò di parlare ancora con i viaggiatori, lesse tutti i libri dei Mallìca, poi ne trovò altri abbandonati (chissà come mai quelli che apparivano e scomparivano accanto al Rimorchio non saccheggiavano mai i libri…). Poi meditò, meditò, meditò. E smise di uscire da casa se non per lo stretto indispensabile, e dai libri imparò che il cibo non gli sarebbe bastato per sempre, perciò imparò a coltivare, e imparò anche a sparare con vasto assortimento di armi.
Rendendo produttivo il tempo libero, soprattutto se uno ne ha quanto ne aveva Felice, si possono imparare un sacco di cose.
Passarono sei anni. La corrente elettrica se n’era ormai andata del tutto. La folla che all’inizio era pacifica e sorridente, era diventata, quattro anni prima, un’orda di folli disperati, disposti quanto al cannibalismo tanto a qualunque soluzione per sfamarsi. Poi i viaggiatori erano andati diminuendo di numero, l’inedia brillava in ogni loro movimento, e i volti erano accesi dalla rassegnazione. Il tempo era stato vuotato di tutti i generi alimentari dalle orde precedenti, e a loro non restava che morire di fame.
Felice non aveva problemi di quel genere, i suoi depositi erano sempre ben pasciuti, anche se nei tempi bui arrivarci non era stato per nulla agevole. Ora la situazione era molto più tranquilla; che ci provassero quelle larve umane a toccare uno dei suoi depositi… ma non lo avrebbero mai fatto; erano troppo deboli anche per provarci. Ai tempi delle orde, allora sì che aveva dovuto sudarsela. Per difendere l’orto, ne aveva fatti fuori dodici in una sola volta, ma di regola, almeno due o tre al giorno ci provavano. Che tempi!
Raccontato alla buona ciò che accadde, torniamo a Felice, che dopo tutto questo tempo non è ancora riuscito a risolvere il suo paradosso (a meno che non si voglia chiamare soluzione la scappatoia di considerare il passato in cui non esisteva il Rimorchio, come un continuum a sé. Felice la riteneva appunto una scappatoia, e per giunta poco elegante, per cui fino a quel momento si era rifiutato di accettarla).
Da qualche giorno nessuno arriva più col il Rimorchio, Felice potrebbe essere l’ultimo custode dei suoi tempi, salvo qualche altro isolato misantropo come lui.
Non vi stupirà sapere, giacché conduce una vita tanto ritirata, che Felice ancora non sa niente. Lo scopre in questo momento, aprendo la finestra per controllare l’orto dal piano superiore. C’è il Rimorchio che corre immobile al suo solito posto. Tutto il resto è immobile sul serio. Felice comprende; ecco cos’era la strana quiete dei giorni scorsi! Poi un altro pensiero casuale gli balena in mente; e quindi, alla fine, il vecchio Trattore ha svolto il lavoro; si è portato tutti quanti nel futuro e ha lasciato il mondo a me. Bene, ora che non c’è nessuno a scocciarmi, potrò godermelo.
E, però, un altro pensiero s’insinua e Felice va a sdraiarsi nel lettino del suo studio, poi cambia idea e recupera dalla credenza una bottiglia di Supertonic³ Cordiale Cordialissimo, già al primo sorso sente che tutte le attività psicometaboliche vanno in over e si sente come volare, al secondo in orbita va, al terzo lui solo lo sa!
Poi si sdraia ancora sul lettino e inizia a pensare…
Ma com’e possibile che mi sia fissato per tutti questi anni su quello stupido paradosso, senza chiedermi mai che diavolo sia quel Rimorchio? Bene, ci penserò adesso…
Ovviamente, anche se il suo moto apparente è dal passato al futuro, in realtà deve venire per forza dal futuro… e perché gli uomini del futuro hanno creato un affare simile? Con quello che gli sarà costato, dev’essere una faccenda importante. Possibile che sia un modo per reclutare personale? Oppure per schiavizzarlo... ma figuriamoci se con la tecnologia che hanno quelli, gli frega qualcosa di usarci come forza lavoro!
Allora forse stanno cercando di metterci in salvo… questo darebbe un senso anche ai toni dell’annuncio; toni blandi… nessun genere di allarmismo… sarebbe proprio il genere di messaggio adatto a un’evacuazione controllata, per non creare il panico nella popolazione. Ma da cosa ci vogliono salvare con una soluzione del genere? Che minaccia può essere così letale da annientare il genere umano, non in un momento preciso, ma lungo tutto il corso della storia?
Nessuna, in effetti… ma se estendessimo la minaccia a tutto il nostro universo… potrebbe essere che il nostro continuum stia entrando in collisione con uno negativo e si annichiliscano a vicenda. Se tale scontro avesse un punto d’origine distante da noi nella quarta dimensione, calcolando che si tratta di uno scontro tra universi, i tempi non sarebbero eccessivamente stretti. Probabilmente lo scopo dei nostri discendenti era di portare tutti nel loro tempo, lì devono per forza avere i mezzi per trasferirsi in uno spazio-tempo più sicuro. Sembra che quadri tutto…
Chissà perché non sono mai partito, all’inizio sono restato solo per godermi la libertà, e perché avevo il timore, andando avanti, di cadere di nuovo sotto la giurisdizione dei miei… Ma poi? Un po’ dev’essere che disprezzavo i viaggiatori e non volevo essere uno di loro… ma forse, sin dall’inizio, stavo aspettando proprio il momento in cui sarei rimasto solo. Vero è che gli esseri umani sono solo un branco di stupidi, ma… forse un intero mondo a disposizione è troppo anche per uno come me…
E se ora il Rimorchio non porta più nessuno, potrebbe significare che ha esaurito la sua funzione…
Preso da un presentimento, corre alla finestra sul retro e lascia correre lo sguardo. All’orizzonte, che appare stranamente vicino, vede chiaramente il nulla che avanza veloce divorando tutto. Felice si volta e corre verso una finestra sulla facciata, cerca il Rimorchio con lo sguardo che, nonostante l’agitazione del momento, è velato da un’ironia pungente; come immaginava, il Rimorchio se l’è già svignata.
---------------

1 Inserzione pubblicitaria regolarmente acquistata e denunciata, le eventuali modifiche al testo originale sono state approvate dal comitato per il controllo pubblicitario, ai sensi della legge 478, paragrafo 2(4X²-y)² etc. + Visita il nostro sito: FaiDaTé.com!
2 Idem + Visita il nostro sito: gusto Cioccorato/FaiDaTé.com
3 Idem+ Scopri tutti i nostri prodotti sul nostro sito: Cordiale.Cordialissimo

venerdì 24 ottobre 2014

L'ARRUOLAMENTO Di Fabio Calabrese



Avevo deciso di andarmene da casa. Ci avevo pensato sopra a lungo, e mi sembrava la soluzione migliore. Ne avevo parlato coi miei, prima mi ero confidato con papà e mamma, poi avevo parlato apertamente con i miei fratelli e le sorelle. Eravamo una famiglia di contadini, e il fazzoletto di terra su cui ci piegavamo la schiena tutti i giorni, non era sufficiente a sfamarci tutti, eravamo una famiglia troppo numerosa.
Da una parte, i miei erano dispiaciuti all'idea di vedermi andare via, ma erano anche sollevati al pensiero di dividere il poco che avevamo con una bocca in meno.
Eravamo seduti a tavola per la nostra parca cena qualche giorno prima di quello fissato per la mia partenza, e mio padre e mia madre mi avevano già dato la loro benedizione, che era pressappoco l'unica cosa che potessero darmi.
“Cosa pensi di fare?”, mi chiese Jen, il mio fratello che era il primo nato dopo di me e aveva quasi la mia età.
“Beh”, dissi, “le occasioni di lavoro in città non mancano”.
“Si, è vero”, rispose lui, “ma a fare il lavorante a giornata ti tocca spaccarti la schiena da mattina a sera per un tozzo di pane”.
“Mi adatterò se non trovo di meglio”, dissi, “ma la mia intenzione non è questa”.
“Potresti andare a servizio da qualche signore”, disse lui.
“Ci ho pensato”, risposi, “ma ormai non credo di avere più l'età per imparare a fare il valletto. Bisogna aver imparato il galateo, i modi fini, il linguaggio che piacciono ai signori aristocratici. Solo le belle ragazze, quelle le prendono a servizio comunque”.
“Potresti metterti le sottane e farti crescere i capelli lunghi”, celiò lui, “ma non so proprio dove potresti trovare un paio di poppe di quelle che piacciono ai signori”.
Gli risposi con una manata sulla spalla.
“No, non sono proprio il tipo!”
“E allora cosa vuoi fare?”
Ho pensato di arruolarmi”, dissi. “Vorrei fare il soldato”.
Adesso Jen non scherzava più, e anche gli altri miei familiari erano rimasti in silenzio.
“Ne sei ben sicuro?”, mi chiese mio padre.
Annuii.
“Certo”, dissi. “La disciplina è dura, ma sei sicuro di mangiare tutti i giorni senza spaccarti il filo della schiena”.
“Si”, disse mio padre. “Ma in caso di guerra...”.
“Ecco, vedi”, risposi, “ci ho pensato a lungo. A ben guardare, corrono più rischi i civili: senza armi per difendersi, esposti ai saccheggi, a rischio di perdere la casa, i campi, la famiglia”.
“Bene”, concluse il mio vecchio, “se pensi che questo sia il destino migliore per te, hai la nostra benedizione”.

Partii la mattina del secondo giorno successivo, dopo aver abbracciato tutti i miei familiari e con la promessa di dare loro notizie appena mi fosse stato possibile.
Un pezzo della strada fino alla città lo feci dopo aver ottenuto un passaggio su un carro di fieno, ma il più lo percorsi con le mie gambe; per fortuna ero un buon camminatore, e le mie quattro cose messe in un fagotto che portavo a spalla mediante un bastone, non è che pesassero un granché.
Mi fermai in un sobborgo dove era più facile trovare un posto dove dormire e qualcosa da mettere sotto i denti che fossero alla portata dei miei pochi spiccioli, naturalmente se non si era troppo schizzinosi.
Non riuscivo a credere alla mia fortuna: era là, dopo due giorni che giravo a vuoto, l'avevo finalmente trovato. Era un uomo di mezza età, magro, non molto alto, vestito con un abito sobrio di discreta fattura, con una semicalvizie che gli allargava la fronte in direzione della nuca. Poteva essere un mercante in viaggio per affari, ma non ne aveva l’aria; un contadino non era di sicuro, né di certo era un nobile, a meno che non fosse spaventosamente decaduto. Poteva essere un ladro di quelli che frequentano le taverne pronti ad alleggerire i viaggiatori distratti, ma in questo caso avrebbe fatto il possibile per non essere notato, invece cercava di attirare l’attenzione, e non era un biscazziere, un baro, non aveva né dadi né carte. Era un tipo che faceva dei gran sorrisi, attaccava discorso e offriva da bere a chi gli capitava, ostentando una bonarietà che era però smentita da certi sguardi furbeschi di sottecchi. Aveva a tracolla una borsa da scrivano, di quelle che contengono fogli, penne, pennini, boccette d’inchiostro e gli dei sanno cos’altro.
Capii di essermi imbattuto proprio nell’uomo che cercavo, un arruolatore. L’impero è sempre avido di uomini, soprattutto per le guarnigioni delle marche settentrionali, per proteggersi dalle incursioni delle popolazioni barbariche del lontano nord. Gli arruolatori erano abili a persuadere i giovani a entrare nell’esercito, ed erano assai poco scrupolosi; spesso accadeva che qualche contadinotto arrivasse in città per vendere i suoi prodotti, accettasse da bere, bevesse qualche bicchiere in più e si trovasse vincolato a vita da un contratto dove aveva messo uno scarabocchio senza capire cosa stava facendo e senza sapere né leggere né scrivere.
Certo, mi sarei potuto rivolgere a qualsiasi comando imperiale, ma mi tentava l’idea di imbrogliare uno di questi ingannatori di professione, scroccare da bere e magari una cena per persuadermi a qualcosa che comunque ero intenzionato a fare.
Dopo averlo studiato per un po’, incrociai il suo campo visivo in un modo che sembrasse casuale.
“Ehilà, baldo giovane!”, esclamò lui girandosi verso di me con aria di finta cordialità.
Io accennai un saluto cercando di non mostrarmi troppo interessato.
Beh, quel tipo ci sapeva fare a chiacchiere! Mi ritrovai impegnato in una lunga conversazione mentre lui spingeva verso di me un boccale dietro l’altro di vario contenuto: vino, birra, sidro, idromele, tutto l’occorrente, soprattutto se ben mescolato, per prendere una sbornia solenne.
Stetti bene attento a bagnarmi appena le labbra, a mostrarmi molto meno sobrio di quanto non fossi, e a snocciolargli esattamente quel che lui voleva sentirsi dire.
Gli raccontai di appartenere a una famiglia di contadini e che ero insoddisfatto del tipo di vita che conducevo, naturalmente stando ben attento a non rivelargli la mia intenzione di arruolarmi ben prima di incontrarlo.
Mi sentivo euforico: non c’è nulla di più esilarante che imbrogliare un furbo di tre cotte.
Mi chiese se avevo legami sentimentali o c’erano malattie nella mia famiglia.
Risposi negativamente.
A questo punto l’arruolatore mi fece una domanda che mi sorprese.
“E dimmi”, mi chiese, “per caso soffri di vertigini?”
Vertigini, io? Durante la stagione della mietitura ero sempre il più pronto e il più svelto ad arrampicarmi in cima ai pali che dovevano diventare “l’anima” dei pagliai. Risposi di no, ache se non capivo il senso della domanda.
La cosa parve compiacerlo molto.
“Credo tu sia perfetto”, disse, “per il reggimento dei dragoni”.
“Dragoni?”, pensai. Meglio, decisamente meglio far parte delle truppe montate che dei fantaccini costretti a lunghe marce con pesanti zaini. Non riuscivo a credere alla sfacciataggine della mia fortuna.
Estrasse dalla borsa da scrivano un plico di fogli coperti di timbri multicolori e vergati con una grafia minuta di difficile lettura.
“Ecco”, disse, “firma qui e qui”.
Firmai senza esitare.
Il giorno dopo fu una giornata di spostamenti. Mi ritrovai insieme ad altri arruolati indirizzato a un centro di raccolta, poi da questo a uno più grande e da questo infine alla caserma dei dragoni. Nell’ultimo spostamento eravamo una dozzina di giovani che camminavano in fila indiana (nessuno pretendeva che sapessimo già andare al passo militare). Ci aveva presi in consegna un anziano sergente scortato da due guardie in divisa e armate.
“Non fateci troppo caso”, ci disse con fare gioviale. “Sapete, ci sono certuni che si mostrano riluttanti, subito dopo arruolati vorrebbero rimangiarsi la parola data, ma naturalmente non è il vostro caso. I dragoni sono un corpo di élite, e chi è riluttante fin dall’inizio di certo non ci arriva. Vedrete, sarete fieri di farne parte”.
Arrivammo alla caserma verso l’imbrunire. Era un edificio molto grande, o piuttosto una serie di edifici. Ci ritrovammo a percorrere dei lunghi corridoi verso l’economato dove saremmo stati iscritti nel libro paga e avremmo ricevuto l’equipaggiamento.
Passammo davanti all’armeria. Su di una rastrelliera, disposte in file orizzontali sovrapposte – non si sarebbero potute mettere verticalmente, erano più alte del soffitto – vidi delle lunghe armi che il sergente che ci faceva da guida chiamò semplicemente “picche”. Io le guardai perplesso: avevano delle lame di forma lunata e più che altro mi parvero somigliare a delle falci fienaie dal manico molto lungo.
Le osservai stupito e mi chiesi come si potevano maneggiare con efficacia armi del genere se non ci si trovava in una posizione sopraelevata di qualche metro rispetto al nemico.
Ci diedero l'equipaggiamento. L'uniforme comprendeva una sopravveste colorata molto decorativa con l'insegna del drago di colore rosso molto bene in vista sul petto, e un elmo col cimiero a forma di drago, ma quelli – ci disse il sergente – li avremmo messi soltanto per le parate. L'uniforme da fatica che avremmo usato tutti i giorni era molto meno sgargiante: un giubbotto di cuoio brunito, calzoni muniti di gambali che proteggevano l'interno delle cosce, stivali alti fin sotto il ginocchio, e un casco di cuoio che avremmo indossato normalmente invece dell'elmo da parata.
C'erano degli anelli metallici sia sulla cintola del giubbotto sia sui gambali. Chiesi al sergente a cosa servissero.
“Oh quelli?”, rispose, “Sono per fissarti all'imbragatura”.
Non osai chiedere altro.
A sera, a cena gustammo il primo rancio militare della nostra vita. Beh, era meglio e più abbondante della maggior parte dei pasti che avevo fatto fin allora in vita mia.
Alla ritirata andai a distendermi sulla branda che mi era stata assegnata: era più comoda dei pagliericci cui ero abituato. Vitto, alloggio, vestiario a carico dello stato, più uno stipendio. Ero proprio soddisfatto.
La sveglia arrivò l'indomani mattina al termine di una notte in cui avevo dormito profondamente e serenamente. Anche questo non era poi un gran sacrificio; spesso per i lavori dei campi mi toccava alzarmi all'alba.
Dopo una rapida colazione e l'adunata, il sergente che era l'istruttore delle reclute radunò noi novellini e ci disse:
“Ragazzi, andiamo nelle scuderie. Vi faccio conoscere gli animali che vi sono stati assegnati. L'importante è creare da subito un buon rapporto fra l'uomo e la sua cavalcatura”.
La prima cosa che mi colpì quando entrammo nel grande edificio adibito a scuderia, fu l'odore, non somigliava per nulla a quello delle stalle che mi erano familiari, pareva piuttosto quello che può ristagnare in un rettilario.
Il locale era suddiviso in varie celle, e ciascuno di noi fu indirizzato a una di esse, a prendere confidenza con la propria bestia.
Quella che da allora in avanti sarebbe stata la mia cavalcatura si girò verso di me, allargò le ali cuoiose e puntò nella mia direzione la testa in cima al lungo collo serpentino.

mercoledì 22 ottobre 2014

STELLE CADENTI di Giuseppe Novellino


    
        

Quella del 10 agosto 1890 era stata, per il dottor Robinson, una giornata da dimenticare.
     Da un po’ si era fatto buio. Stava sulla veranda e si lasciava dondolare nella sedia, guardando le stelle in un cielo terso, insondabile. Ogni tanto trangugiava un sorso di whisky da una bottiglia quasi vuota. I grilli frinivano fra la sterpaglia che si estendeva oltre le ultime case di Silverthorne.
     Aveva dovuto prestare le sue cure a una decina di persone seriamente ammalate. Poi c’era stato l’intervento per estrarre una pallottola dalla pancia di Hans Lettermann, il quale aveva avuto un diverbio con un balordo di passaggio, dileguatosi subito dopo nella polvere della strada per Denver. E come ciliegina sulla torta, gli avevano inviato un messaggio telegrafico per annunciargli la morte di sua sorella Susan, stroncata da un male incurabile.
     Già aveva avvistato due stelle cadenti. Ma ciò che vide, dopo aver tracannato l’ultimo goccio di liquore, fu davvero straordinario. Una luminosissima scia, dopo aver percorso il firmamento, si spense dietro le colline del Blue River. Il suo punto di osservazione era molto favorevole, dal momento che l’abitazione si trovava sull’estremo limite nord della cittadina. Ma sicuramente, pensò il dottore, molte altre persone rimaste ancora sveglie dovevano avere visto il fenomeno. Si era trattato di una stella cadente fuori dall’ordinario, se non altro per quella intensa luminosità azzurrognola che per un momento aveva inviato i suoi riflessi da oltre la cresta dei rilievi.
     Fu assalito dal torpore. La fatica di essere medico in una cittadina sperduta del Colorado non era cosa da poco. Si sentiva oppresso dalla solitudine, dalla malinconia per la perdita della sorella lontana; ma era anche logorato dal ricordo ossessivo di essersi stupidamente giocato, a suo tempo, la carriera in un posto più civile come St. Louis.
     Scaraventò la bottiglia vuota oltre la ringhiera della veranda e chiuse gli occhi.
     Solo l’alcool e qualche volta il riposo riuscivano a lenire la sua pena esistenziale.


     Quando si svegliò, sentì uno strano freddo nelle ossa. Doveva essere l’umidità notturna.
     Trasse l’orologio dal taschino, ne illuminò il quadrante con un fiammifero. Era quasi mezzanotte. Doveva aver dormito una buona oretta sulla sedia a dondolo. Poi sentì una voce che sembrava dentro la sua testa:
     - Ti do l’ordine di soccorrere il qui presente cadetto di seconda classe Matwrhian. La prestazione a te richiesta è urgente. L’organismo del soggetto in questione è affetto da una reazione antagonista causata da eccesso di cripto nell’atmosfera terrestre… - Il resto venne da una voce metallica dall’estremità buia della veranda. – Sono l’unità PHZ-778003244559114. La sindrome del soggetto che sto accompagnando richiede la somministrazione di cloruro di acetile, di cui siamo sprovvisti. Tu sei quello che chiamano medico e dovresti essere in possesso della sostanza
     Così il dottor Robinson vide i due individui: uno alto non più di un metro, avvolto in quello che sembrava un lungo mantello leggermente fluorescente; l’altro, che aveva parlato, era una strana creatura dalle incerte fattezze umane.


     Quella fu una notte completamente dimenticata dal dottor Robinson.
     Lo vide, verso le quattro del mattino, Jack il boscaiolo, che con la sua mula se ne andava nella foresta di conifere sulle colline a nord di Silverthorne. Il dottore era abbandonato nella sedia a dondolo, irrigidito per l’umidità e il freddo della notte. Lo rianimò con un sorso di rum.
     Poi il dottore andò a buttarsi sul letto e dormì altre due ore.
     La luce del mattino portò il fastidio di un’altra giornata di frustrazione. E mentre ingollava un bicchiere di whisky nel saloon di Scarlett, il dottor Robinson sentì un tale di passaggio che diceva:
     - È davvero curioso quello che ho visto stamani dietro la collina. La vegetazione era tutta morta nel raggio di cento metri. Il cerchio era perfetto, come se fosse stato disegnato da un gigante. E poi, al limite dell’area sconvolta, ho trovato questo. -Mise sul bancone un tubetto di latta con la scritta: “cloruro di acetile”.
     Robinson vuotò il bicchiere e disse: - Strano, questa mattina sono diventato matto a cercare il cloruro di acetile per il composto antipiretico da somministrare al figlio della signora Milton. L’ultimo tubetto che mi era rimasto…proprio uguale a quello.
     Scrollò le spalle e si riempì di nuovo il bicchiere.
     Mormorò:
     - Ce ne sono di cose misteriose sotto questo cielo stellato.

lunedì 20 ottobre 2014

INCUBO di Adriana Alarco e Peppe Murro




Una notte sono entrata nel quadro dei miei incubi. Appariva terrificante con la sua chiesa sulla collina sotto un cielo burrascoso. Le finestre mi osservavano dall'abisso della loro oscurità. Mentre salivo le scale del Museo, la visione mi confondeva. Sto guardandola da fuori o da dentro?
Van Gogh si girerà, ridendo, nella sua tomba, se mi vedrà dubbiosa, senza fare un ulteriore passo verso il paesaggio allucinante. Sono la donna che avanza lungo il sentiero giallo o sono la Morte?
Oggi non riesco a sopportare tanta emozione e tanta inquietudine. Quindi, per fermare il panico che m'attanaglia le viscere, sollevo la falce e distruggo, alla fine, il mio incubo.

Stracci, pezzi di tela e di carne, e sangue e pensieri… la falce che ruota e tutto… tutto…
Restano solo i corvi e un prato, immenso e giallo, di girasoli.

sabato 18 ottobre 2014

SCHIZOFRENIA di Giuseppe C. Budetta



Si chiamava Sophie, un nome datale dalla povera madre francese, morta quando lei aveva appena nove anni. Da allora, era vissuta a Roma col padre italiano che non si era risposato. Vivevano in un bel quartiere verso il Palatino, non lontano dalla Chiesa di San Paolo fuori le mura dove si tramandava che Galla Placidia, imperatrice dei Romani, si era rifugiata a pregare durante l’irruzione dei Goti, nel 410 dopo Cristo. Andando a scuola, Sophie vi entrava spesso a pregare. Era la stessa chiesa, dove aveva sostato secoli prima Galla Placidia. Era fissata per la storia dell’antica Roma e faceva collezione di foto e disegni che ritraevano imperatori ed imperatrici romane. Prima di addormentarsi, pensava spesso a Galla Placidia la cui vita avventurosa la entusiasmava. Quella donna magnifica e bella era stata la nipote di tre imperatori, figlia di un grande imperatore, quale fu Teodosio, sorella di due imperatori, moglie di un re e dopo di questi di un imperatore, madre di Valentiniano III e zia di due altri imperatori. Fu donna nobilissima, molto bella e corteggiata da Romani e re barbarici. Fu prigioniera dei Visigoti e ne divenne la regina, avendo sposato il re Atatulfo, ucciso a sua volta in un duello. Sophie aveva di lei alcune gigantografie, in particolare da quello conservato a Ravenna, nel Mausoleo che ne prende il nome: il Mausoleo di Galla Placidia, appunto. A Sophie, piaceva molto quel nome antico: Aelia Galla Placidia. Come lei, avrebbe voluto vivere in quell’epoca della Roma antica, travagliata e avventurosa. La principessa romana era nata a Costantinopoli intorno al 390 dopo Cristo e morta a Roma intorno al 450, nel periodo in cui i feroci Unni capeggiati da Attila, il flagellum dei,  avevano invaso parte dell’Impero Romano d’Occidente.     Sophie si firmava sui suoi quadernoni di scuola “Aelia Galla Placidia”. Le amiche che le chiedevano perché si firmasse così, rispondeva di ammirare quell’antica principessa, molto bella e ricca, che al presente quasi tutti ignoravano. Aelia GallaPlacidia esisteva solo nell’anima di Sophie che stava per esserne assoggettata. Occorre aggiungere che la rassomiglianza tra le due era perfetta. Le prime a meravigliarsene erano state le amiche di scuola: “Ma questa sei tu.”
Quattordicenne, un suo amichetto col quale cominciava ad uscire il sabato, ed al quale aveva mostrato la foto della principessa romana, ne era rimasto impressionato: “Ma tu sei uguale a lei.”
Lei ne andava fiera. La rassomiglianza s’incrementava man mano che il corpo diventava come di una donna matura. Una rassomiglianza dunque perfetta. Si sarebbe potuto pensare ad una miracolosa reincarnazione. Sophie cominciò a convincersi di essere lei, l’altra. Era sempre più certa di essere l’incarnazione di Galla Placidia, resuscitata nell’evo contemporaneo. Ventenne, aveva accompagnato il vecchio genitore prossimo alla pensione a Tokio. Nel vedere i Giapponesi, Sophie ebbe un leggero stato di panico perché quel popolo così evoluto, rassomigliava tanto agli orribili Unni, in particolare negli occhi, nel colore della pelle gialla e nei capelli, neri e lisci. Come gli Unni, i Giapponesi erano abitanti dell’Asia profonda, molto al di là dei Sarmati. Pensò che si trattasse di lontani discendenti degli Unni, o di un popolo confinante coi loro territori asiatici. Guardando ammirata le luminose vetrine nel centro di Tokio, dimenticò i timori ancestrali. Pensò solo allo shopping. A volte, non poteva non pensare al suo passato remoto, il passato appartenuto all’esistenza di Galla Placidia, in lei rinata. Accadeva se restava per un poco da sola in albergo e con il televisore spento. Dalla finestra dell’albergo guardando giù la folla dei grattacieli altissimi, si ricordava per una strana concatenazione di sentimenti, ripensava alle orribili devastazioni barbariche nella sua Ravenna. Quella gente dagli occhi a mandorla la riportava indietro nei secoli, davanti agli orrendi e sanguinari guerrieri delle tundre asiatiche. Essendo Galla Placidia immersa nei suoi ricordi ancestrali, rivedeva le squadre degli operai che lavoravano sulla Via Popilia, mentre altre squadre sollevavano nubi di polvere per ripristinare l’abbandonato acquedotto che una volta portava acqua potabile a Ravenna. Sia la Via Popilia che il lungo acquedotto proveniente dai monti Appennini erano stati devastati dai barbari di Attila. Una volta ormai anziana, aveva attraversato la Venetia e visitato la città di  Concordia, rima­sta un cumulo di macerie dopo l’invasione barbarica. Anche lì, altri operai che stavano ricostruendo la fabbrica d’armi dell’esercito. Aquileja, più a nord era stata rasa al suolo dai soliti Unni e la sua gente trucidata. I pochi superstiti, terrorizzati erano fuggiti verso le zone paludose alle foci dell’Adige, rintanandosi su quelle isolette malsane. Poco prima che Attila fosse stato sconfitto ai Campi Catalaunici, il porto di Grado vicino ad Aquileja, era sempre pieno di squadre di operai che piantavano i pali e montavano le assi di nuovi pontili d’at­tracco e bacini di carenaggio per la flotta romana. Qualche anno dopo, tutto la furia degli Unni aveva distrutto. Ricordi che all’improvviso entravano in lei, o meglio in Sophie-Galla Placidia. Ricordi più forti del vento che spirava dall’epoca presente, nel cui sottile vortice era immersa. L’atmosfera abbagliante e grumosa di Tokio l’attirava nel mondo moderno, ma anche la respingeva nel passato remoto della sua (di Galla Placidia) epoca antica. A Tokio, tutto girava in un turbine rapido e vorticoso. Un nuovo vortice esistenziale che ne abbagliava l’esistenza. C’era sempre un programma da rispettare: quando uscire per fare shopping, quando andare a visitare i musei d’arte, le passerelle di moda, la visita panoramica alla città brulicante di luci, quando cenare col vecchio genitore, quando rilassarsi. Non c’era un momento adatto per una prolungata riflessione dell’anima. Dall’alto, la città illuminata coi suoi grattacieli giganteschi e miracolosamente in piedi. Sophie-Galla Placidia si sentiva al culmine di una impressionante reatà che le traballava, appariva e spariva, in continuazione intorno: “Cosa mai è accaduto durante la mia assenza in tanti secoli? Quale metamorfosi dello spirito ha generato tutto questo portento della tecnica? I barbari dei miei tempi erano solo dei caproni sanguinari. Erano puzzolenti come un caprone e feroci come una belva sanguinaria e famelica che attacca la preda, se questa non ha valide difese.”
A Tokio, non c’erano più i barbari e di conseguenza, non c’erano più i Romani che li combattevano. Tuttavia, i ricordi remoti tornavano all’improvviso. Ripensò all’uomo che aveva davvero amato. Quell’uomo era vissuto secoli prima, decine e decine di secoli addietro. Quell’amore restava indelebile, qualunque cosa accadesse ora. Un amore eterno, appunto. Un amore che riaffiorava nel presente e nei momenti più impensati. Solo tanti secoli prima, lei era stata giovane con l’ardente amante. Il suo ardente e giovane amante, re dei Visigoti e che di nome faceva Atatulfo. Il re dei Visigoti, il suo vero ed unico amore. Lunghe cavalcate per i colli boscosi e poi si rilassavano, stendendosi sotto una secolare quercia sudati e gioiosi. La luce del giorno che sfiorava i roveti, finendo come una corona di perle intorno ai loro corpi. Cullati dalla brezza estiva, si baciavano e facevano l’amore fino a che il sole non fosse calato oltre le Colonne d’Ercole. Il suo biondo, giovane e valoroso amante che le sorrideva oltre remoti mondi. Per le vie di Tokio (in compagnia di Sophie), trovava interessanti le boutique e lo shopping experience. Andava pazza per gli abiti eleganti e costosi che le facessero risaltare le linee del fondo schiena e le sfilate e dritte cosce. Gli abiti color carminio di Amanda Pizzo erano per lei divini, degni di Diana o di Afrodite. A volte, la signorina che le serviva (Sophie e la principessa dei Romani) s’imbrogliava, talmente forte era la rassomiglianza tra Sophie e l’altra che stava in lei. Loro ci ridevano su. A rifletterci, avevano gli stessi gusti in materia di moda, la stessa sensibilità per la qualità, per la moda costosa e sofisticata, forse  essendo entrambe giovani e belle. Allo specchio nelle boutique, erano insuperabili e gli abiti all’ultima moda esaltavano i lineamenti dell’una e dell’altra in un magico e giocoso rimando, mentre suonava il sottofondo di Bob Marley:…iron lion Zion…
Stando spesso insieme (l’una nell’altra), le due donne cominciavano ad avere medesime preferenze in campo di moda, di attori da ammirare e di località famose da visitare. Avevano gli stessi gusti, come vere gemelle monovulari. Sophie e Galla Placidia se ne tornarono in Italia piene di forti emozioni e bei ricordi tra cui lo Shinkansen, il treno proiettile. Una cosa inaudita per Galla Placidia e un’esperienza fuori dal comune per Sophie. I paragoni col passato remoto dell’epoca in cui l’Impero Romano d’Occidente era moribondo non esistevano in alcun modo. Se a quell’epoca avessero intuito la potenza della tecnica e della scienza...Impossibile prevedere la radicale rivoluzione nella vita di ognuno che l’intelligenza umana avrebbe potuto attuare sulla Terra.  Invece di scannarsi a vicenda in quei secoli bui, invece di depredare ed uccidere, avrebbero dovuto avere la lungimiranza di migliorare la civiltà, valorizzando l’intelligenza e la tecnica umana, sia quella dei nobili che quella dei plebei. L’interconnessione della tecnica e dell’intelligenza umana: la strategia vincente. Nessuno mai ne ebbe il motivo di pensarci.
Galla Placidia era incantata per i kimono e ne aveva acquistati molti. Ad entrambe il kimono vestiva bene, aumentando il fascino e la flessuosità dei due giovani corpi.
Gli attacchi del male divennero evidenti non molto tempo dopo, a Roma. Sophie era entrata piena di terrore nella chiesa di San Paolo fuori le mura e vi si era chiusa dentro, sbarrando le porte. Il parroco che era sceso in chiesa dalla sagrestia aveva cercato di fermarla, ma lei lo aveva assalito, picchiandolo con un pesante candelabro. Mentre assaliva il povero parroco il sagrestano era rimasto lontano dalla scena, verso l’altare maggiore. Aveva udito la giovane gridare: “Non aprite la chiesa. Fuori ci sono i Goti che ci vogliono distruggere. I Goti mi vogliono prigioniera. Aiuto.”
Il sagrestano era saliti di corsa in parrocchia ed aveva telefonato alla polizia. La povera ragazza era stata internata in una casa di cure nei pressi di Roma. La diagnosi: schizofrenia. Appresa la notizia, il povero padre era deceduto per un infarto acuto al miocardio. Il giovane primario che teneva in cura Sophie, osservava la sua paziente mentre girovagava nell’antistante aiuola recintata. Conservava ancora freschi i concetti appresi nel corso di specializzazione in malattie neuro-psichiatriche. Ecco cos’era infine ciò che noi definiamo col termine scientifico “schizofrenia”.
La schizofrenia non è una vera malattia, ma ciò che ci distingue come esseri umani e che ci differenzia dalle scimmie. Lo avevano affermato numerosi scienziati tra i quali l’ottimo 
Horrobin DF. Nei libri di psichiatria, si leggevano la seguenti affermazioni di base. La nostra Mente è ricca sia di ricordi immaginifici cui l’esperienza ci rimanda, sia di ricordi di esperienze cui ci rimandano le immagini, sia d’immagini oniriche, queste ultime emergenti alla coscienza nello stato di sonno. Sophie era dunque vittima delle immagini conservate presso la Basilica di S. Apollinare in Ravenna e che ritraggono l’antica principessa romana, tanto somigliante a lei?
C’è difficoltà a credere che la conoscenza del mondo esterno non è diretta, ma mediata da immagini mentali, risultanti da numerose computazioni inconsce. L’ausilio di algoritmi e della quotidiana esperienza, dimostra che il processo conoscitivo è prevalentemente deduttivo ed è ciò che Lin, Z., (2008) e Lin Z. ed He S., (2009) definiscono inferenza inconscia. Siamo ignari di queste funzioni (essendo inconsce) e le diamo per scontate. Le comuni metodiche di neuro-immagine, finalizzate alla comprensione della Mente umana non possono chiarire il meccanismo con cui il cervello arriva a creare il nostro mondo mentale. Ciò che la Mente conosce proviene dal cervello, non essendoci un collegamento diretto col mondo esterno tridimensionale. Da qui la natura illusoria della Mente. L’esperienza basata sulla facile e diretta interazione con le cose non corrisponde alla realtà obiettiva del mondo fisico. Inoltre, bisogna precisare che questo mondo fisico, oggetto d’indagine da parte della nostra Mente è di per sé enigmatico. D’espagnat B. (1977) dice che la realtà  -  definita come totalità di ciò ch’esiste – è indipendente da noi,  nella sua essenza e nei suoi comportamenti. Pur essendo parte di essa, non ne siamo i regolatori, in alcun modo. D’espagnat dice che né lo Spazio, né il Tempo e neanche lo Spazio – Tempo hanno una esistenza primitiva. Essi non sono parti della realtà come sopra definita. Lo Spazio ed il Tempo appartengono alla realtà empirica: sono modi della nostra sensibilità. Nella Mente, esisterebbe il Tempo psichico dilatabile, non c’è quello fisico che ammesso che esista per davvero, sarebbe una grandezza costante e ben definita. 
La mente di Sophie aveva varcato barriere inusitate di spazio tempo che ci separano dalle epoche storiche più remote? E’ ciò che accade nella mente di molti schizofrenici? Perché la schizofrenia è tanto comune negli artisti più eccelsi?