mercoledì 30 marzo 2016

PRIMA NECESSITA' di Carlos M. Federici

Quando il Magro entrò, ero ormai giunto al limite della mia capacità di sopporta­zione, e riflettevo sulla possibilità di ricorrere a drastici rimedi. Avevo persino afferrato le tenaglie da meccanico che mi aveva prestato Willogh, e stavo soppesando i pro e i contro. Non so che cosa sarebbe potuto accadere di lì a poco; però, fortunatamente, fu in quel preciso momento che il Magro sopraggiunse, recandomi notizie.
Mi avventai quasi addosso a lui.
—Allora?...
II suo sorriso mi rinfrancò.
—Tutto a posto, capo —mi disse—. Il G.P.N. è già localizzato. Può star tranquillo.
Lo invitai a sedersi sopra una grande cassa che era lì, e mi piazzai di fronte a lui.
—Sono in parecchi? —gli domandai.
—Be’... —rispose, dopo aver riflettuto per qualche istante—. Sono abbastanza, però hanno tre paralitici e un cieco. Secondo me dovremmo farcela, soprattutto se riusciamo a coglierli di sorpresa. Si vede lontano un miglio che sono gente inesperta, e che non si aspettano nulla del genere.
—Ce la faremo! —esclamai. “Dobbiamo farcela...”, aggiunsi tra me—. Dimmi un po’, Magro, che si sa del G.P.N.? È un uomo o una donna?
Lui si grattó un’ascella sotto la pelle di cane che indossava, poi rispose:
—Qui proprio non so che dirle. L’informazione me l’ha passata Sammy, e su questo punto non s’è pronunciato.
Comunque spero che sia un uomo replicai. Altrimenti la faccenda sarà molto più complicata... Va bene, Magro, vammi a chiamare gli altri ordinai infine.
Tempo un minuto, tutti i rappresentanti maschi del gruppo s’erano riuniti lì, sistemandosi alla meno peggio in mezzo ai rottami, e mi guardavano allo stesso modo di un cane che contem­pla il suo padrone. Sapevano già di che si trattava, e poi tre o quattro di loro erano disperati quanto me. “Tanto meglio!”, pensai. “Così non si fermeranno di fronte a nulla.”
Allora, ragazzi incominciai—. Il G.P.N. è stato localizzato. Il Magro, qui, vi dirà tutto quello che sappiamo. Dai, Ma­gro.
Lui si fece avanti ostentando una cert’aria d’importanza suppongo che non riesca a dimenticare i bei tempi quando faceva il sindacalista ed era abituato a parlare in pubblico, e appoggiatosi al randello assunse un atteggiamento che dovette sembrargli sommamente dignitoso... e che probabilmente al­meno un po’ doveva esserlo; certo che se la sarebbe cavata molto meglio, se la testa pelata e le cicatrici non avessero nociuto all’effetto generale.
A quanto mi ha comunicato Sammy, dovrebbero essere una trentina esordì. Si trovano al Metropolitan Museum. Ovviamente, sono ben protetti. Le strade intorno risultano tutte ostruite dalle macerie. Però noi ci apriremo un passaggio declamò, levando l’indice in gesto audace—, grazie al nostro sforzo comune e al nostro spirito di corpo, e tutt’insieme sapremo giungere al culmine del...
Basta cosí, Magro lo interruppi. Non siamo a un’assemblea. Faremo meglio ad iniziare i preparativi per l'attacco.
E subito ci mettemmo all’opera. II nostro gruppo è pratico di simili scontri, anche se come capo non dovrei dirlo, ed in pochi minuti avevamo già abbozzato un piano d’azione.
Non aspetteremo la notte annunziai. È ciò che fanno tutti, e quindi è un sistema con cui non è più possibile sorpren­dere nessuno. Noi, invece, gli piomberemo addosso proprio sul mezzogiorno...  Ignorai il mormorio che si levò immediata­mente dagli uomini, e proseguii: Nel pieno del caldo, la maggior parte starà riposando, e le sentinelle non si aspetteranno niente di più pericoloso della puntura di una zanzara. Quello sarà il momento giusto per dargliele di santa ragione.
Aspetta! obiettò Doc, fissandomi attraverso la montatura senza lenti che si ostinava a portare davanti agli occhi, a dispetto di lutto e di tutti... sebbene non s'accordasse granchè col mantello di visone che lui indossava sopra la biancheria a brandelli. Se procediamo così alio scoperto ci vedranno subito, e per loro sarà facile tenderci un’imboscata. Matt, devi essere impazzito! Come vuole la logica, dobbiamo andarci di notte.
Sta’ zitto, Doc, non far vedere a tutti quanto ti s’è atrofizzato il cervello! Chi ha parlarto di procedere allo scoperto? Ci muoveremo al riparo delle macerie, idiota. Prima li circonderemo, poi uno o due di noi si faranno vedere, e quando quelli cercheranno di catturarli, noialtri gli piomberemo addosso da ogni lato. Ti dico che è il sistema migliore!
—Matt ha ragione! —gridó Bull.
Bull mi appoggia sempre. Anche lui, come me, è stato peso medio, e le uniche credenziali che riconosce sono dei buoni pugni. Quando avevo preso il comando, fra tutt’e due non avevamo avuto difficoltà a liquidare i pochi oppositori... e adesso lo vedevo pronto ad impiegare metodi analoghi contro chiunque non si mostrasse d’accordo. Ma non era il momento adatto: avevamo bisogno che tutti gli uomini fossero in perfetta forma. Lo feci capire a Bull, dopo di che andai avanti usando il ragionamento.
—Tutte le loro difese sono state approntate in vista di attacchi notturni —spiegai pazientemente—. Quindi un attacco in pieno giorno li coglierà di sorpresa.
—E come fai a sapere che troveremo dove nasconderci? —tornó ad intromettersi quel rompiscatole di Doc.
—Non ti preoccupare. Qualche giorno fa, io e il Magro abbiamo esplorato insieme a Durkey i dintorni di Central Park. Ci sono da ogni parte montagne di detriti. Alberi caduti, fogliame...; un po’ di tutto. Quanto al Metropolitan, nel muro di dietro ha un buco grosso come un elefante. Se fosse necessario potremmo infilarci di là... Non è vero, Magro? Se li becchiamo nel salone principale, sono fritti.
Ci furono ancora le obiezioni di qualche testardo, ma alla fine riuscimmo a convin­cere tutti. Quindi passammo a prepara­re con cura l’armamento. Lustrammo i nostri randelli e fissammo nuove strisce di cuoio sulle punte. Ci calzammo nel miglior modo possibile (io avevo un paio di stivaletti di vernice dissotterrati tra le rovine di un negozio, mi pare che fosse Macy’s), e chi poteva si mise una protezione sulla testa. Anch’io avrei voluto ripararmela, specialmente la metà calva, ma avevo perduto il mio elmetto da pompiere giorni prima durante un tentativo di attraversare il Ponte di Brooklyn, appeso a quel che restava dei cavi tranciati. Ordinammo inoltre alle donne d’incominciare a preparare acqua calda e stracci per le medicazioni, perchè bisognava esser pronti a curare quelli che potessero averne bi­sogno: ovviamente, non c’illu­devamo di uscirne indenni. Io, comunque, mi tenni a disposizione due donne per un altro lavoro; m’era infatti venuto in mente qualcosa che avrebbe dato il tocco finale, da maestro, al nostro piano di battaglia. Rimaneva infine la questione più importante: bisognava perquisire accuratamente ogni membro del gruppo, per verificare che nessuno nascondesse indosso delle armi. Solo un mese prima, nel corso d’una zuffa era venuto fuori un pugnale, e c’era scappato il morto. E queste son cose che bisogna evitare ad ogni costo. Siamo rimasti troppo pochi, a Manhattan, perchè ci si possa per-mettere il lusso di liquidarci a quel modo. Prendersi a bastonate va bene: è la legge dei gruppi, e purtroppo è l’unico modo d’intendersi. Ma niente colpi d’arma da fuoco, e neppure coltellate. Chiunque infranga questa legge fondamentale è condannato ad un ostracismo rigoroso, il peggiore dei castighi. Un uomo solo non dura a lungo, di questi tempi: se non muore di fame ci pensano i topi o i cani selvaggi, oppure finisce schiacciato sotto qualche crollo ritardatario... È una legge molto dura, però non c’è dubbio che è l’unico modo per evitare i colpi proibiti duran­te i combattimenti fra gruppi rivali.
Finalmente fummo pronti a partire. “Proprio una bella truppa!”, mi dissi tristemente, pensando allo Golfo e guardando l’aspetto dei miei uomini, coperti di lividi e cicatrici e mascherati come per un carnevale. Pero sapevano picchiar forte, e questo era l’importante. Ci mettemmo in marcia, avanzando carponi dietro i mucchi di mattoni, calcina, cemento e putrelle contorte che un tempo..., quanti anni prima?... avevano avuto il nome elegante di Rockefeller Center.
Impossibile procedere per la Quinta Strada: neppure con una gru saremmo riusciti ad aprirci un passaggio. Madison, al contrario, essendo anche troppo sgombra, non faceva al caso nostro: c’é sempre qualche vedetta che gironzola da quelle parti. Imboccammo il Viale delle Americhe, tagliando per le stradine laterali ogni qual volta gli ostacoli si facevano troppo grandi perchè si potesse superarli. All’altezza della Cinquantasette-sima Strada fummo arrestati dal buco più grande che avessi mai visto.
—Alt! —ordinai levando una mano—. C’è una tana di mammut.
È così che chiamiamo i crateri scavati dalle bombe, dato che il classico nome di “tana di volpe” risulterebbe inadeguato... Chi ha mai sentito parlare di volpi di novan­totto metri? La tana di mammut era inondata. Si sarebbe potuto attraversarla sopra i tavoloni che galleggiavano nell’acqua fangosa, ma avrebbe si­gnifícato esporsi troppo. Quindi preferii aggirare le macerie fino a Columbus: questa manovra ci allontanò, ma era meglio esser prudenti.
Entrammo nel parco per la Sessantaseiesima, e ci aprimmo poi la strada a colpi di randello attraverso quella che si poteva definire una foresta vera e propria. Ormai era quasi mezzogiorno, e il caldo incominciava a farsi sentire. Il sudore c’incollava al corpo le pellicce, ed un profumo non molto floreale prese a diffondersi attorno a noi.
—Porcaccia miseria! —brontolò Curls, grattandosi la villosa protuberanza dell’ad­do­me—. Stai a vedere che quelli ci scoprono all’odore... Dovremmo fare un bagno, almeno una volta all’anno!
Alcuni risero, ma a me non riuscì. In compenso, mi carezzai la guancia.
—Dobbiamo portargli via il G.P.N.  —ricordai, e le mie dita si strinsero attorno al randello.
—State zitti, animali!  —borbottó Bull incavolato—. Ci sentiranno!
Attraversammo quello che era stato il giardino zoologico, trasformato ora in una foresta di sbarre ridolte in polliglia e corpi di animali in decomposizione. Due gatti pelle e ossa, che banchettavano sopra i resti di un quadrupede irriconoscibile, fuggirono precipitosamenle, col pelo irto ed i gialli occhi impazziti. Non potei fare a meno di rabbrividire, di fronte alla visione d’incubo dei due felini, e mi domandai quale aspetto potessi avere io stesso, con una barba di sei settimane su un solo lato del viso, una guancia gonfia e una metà della testa liscia come un uovo; per completare il quadro, indossavo un paio di mutandoni da donna e brandivo un randello...
Usciti dallo zoo corremmo a ripararci sotto un tronco gigan­tesco. La fortuna sembra­va esser dalla nostra: rami e foglie formavano un fitto sipario davanti a noi, cosicché potevamo avvicinarci abbastanza senza esser visti.
Finalmente scorgemmo la punta dell’obelisco di Cleopatra. Per ironia della sorte era rimasto in piedi, mentre l’Empire, il Chrisler e la Cattedrale di San Patrizio, più giovani di secoli, mordevano l’asfalto. A fianco dell’obelisco, il vecchio Metro­politan Museum ostentava le ferite sanguinose inferte alie sue strutture murarie.
—Bene —annunziai—. Ora tocca ai volontari.
Silenzio. Tutti parevano intenti a guardare altrove.
—Ci penso io a convincertene un paio, Matt —propose Bull stringendo i suoi pugni enormi. Ma io scossi la testa.
—Basteremo noi due, Bull. Voialtri resterete agli ordini del Magro. Dovete circon­dare la zona, e quando mi vedete indicare l’obelisco, attaccate.
Qualcuno protestò ancora, ma alla fine si lasciò convincere.
Io e Bull ci caricammo addosso delle pelli di vacca riempite di carta (era quello il compito che prima avevo assegnato alie donne) e c’incamminammo senza esitare verso il museo in rovina.
Non passò molto che ci venne gridato di fermarci.
—Vogliamo unirci al vostro gruppo! —berciai—. Portiamo cibo!
Abracadabra. Le pelli di vacca riempite sembravano, di lontano, un animale morto, e quella gente era tanto affamata che non fiutò l’inganno. Esitarono un poco, ma poi emersero uno dopo l’altro dal loro nascondiglio e ci si fecero attorno, leccandosi già le labbra in previsione.
—Da dove venite? —ci chiese un gigante dalla folla barba bionda che senza dubbio era il loro capo. Indossava un mantello dal collo alto ed un paio di ridicoli bermuda.
—Dalla campagna —risposi.
—Come mai non vi abbiamo visto avvicinarvi?
—Perché siamo venuti attraverso il parco, da quella par­te... —dissi, e indicai l’obelisco.
La mia era una truppa disciplinata: in pochi secondi ci furono addosso. La sorpresa fu totale. II rumore delle teste bastonate era musica per le mie orecchie. In mezzo a quella gragnuola di randellate cercai con gli occhi il G.P.N., e non mi fu difficile localizzarlo. Per fortuna si trattava di un uomo. II suo atteggiamento era quello solito: assisteva alla lotta con aria un poco assente, come se lo riguardasse solo indirettamente. Aveva nel contegno qualcosa dell’appassionato, dello spettatore di un incontro di rugby: l’interessato sapeva che, qualunque fosse il risultato, luí avrebbe continuato a passarsela egregiamente, quindi non gl’importava un granchè quale gruppo lo avrebbe adottato. E poi si vedeva bene che era abituato a passar frequentemente di mano in mano. Appog­giato sui gomiti al davanzale di una finestra, ci osservava condiscendente coi suoi piccoli occhi astuti.
Finalmente il biondo alzò una mano.
—Va... va bene... —ansimò, tamponandosi il sangue che gli colava dal naso non più prominente, ora, ma schiacciato—. Avete... vinto voi... Ma che... diavolo... volete?
—Ve la caverete a buon mercato —risposi—. Noi prendiamo il G.P.N., e voi potete tenervi tutto il resto.
Mi lanciò coi suoi occhi grigi uno sguardo supplichevole, ma non mi lasciai intenerire. In primo luogo, nel gruppo eravamo tutti d’accordo, e poi... Ripensai, con un brivido, alie tenaglie del meccanico.
Se ne andarono. L’uomo alla finestra, comprendendo, di­scese lentamente per venir­ci incontro. Era piuttosto basso, cal­vo, e aveva nei suoi modi un’insultante aria di superiorità. Indossava un vestito abbastanza decente, benchè proprio nel didietro spiccasse un rattoppo di color vermiglio. Notai, con indicibile sollievo, che portava sotto il braccio una borsetta nera.
—Mi piace il pesce —dichiaró a bruciapelo.
—Va bene —risposi.
—E dormire sopra un materasso morbido, se non le dispiace.
—Va bene... lo avrà.
—E, naturalmente, un buon alloggio —azzardò.
—E anche fuoco, e donne, e tutto quello che vorrá —assicurai.
Si passò la lingua sulle labbra sottili.
—Donne... con i capelli?
—Ce ne rimangono nove... due bionde —e mi morsi la lingua pensando a Lydia.
—Molto bene. Vengo con voi.
In un attimo i miei uomini lo circondarono, ma io mi feci strada a forza di spintoni ben piazzati.
—Indietro, maiali! —gridai.
Afferrai l’ometto per un braccio e lo trascinai via, ignorando il coro di proteste gutturali che subito si levò. Penetrai, insieme al Genere di Prima Necessità, all’interno del museo, lasciandomi poi cadere sul primo sedile che mi capitò.
Impaziente, bramoso, lo guardai.
—Prima io, dottore! —gli dissi con voce supplichevole—. Questo maledetto molare mi sta facendo impazzire!
E spalancai la bocca che più grande non potevo.

 


 

lunedì 21 marzo 2016

IN INTERIORE HOMINE HABITAT VERITAS di Giuseppe C. Budetta

Ho aggiunto queste pagine iniziali al manoscritto che sto completando. Non so se ce la farò a sopravvivere alle ulteriori operazioni chirurgiche e conseguenti drastiche cure. Tutto dipende dalle metastasi in atto che mi stanno invadendo il vecchio corpo. La mia esistenza comunque cambia in modo radicale. Si tratta di esistenza crepuscolare che non vedrà mai più una fresca e vera alba albeggiante.
Voglio solo capire altri tipi di misteri. Non vivo per me, ma per qualcos’altro. Mi arrampico sui rami di un albero alquanto diverso. Don Vito buonanima diceva che quella ragazza fatale, quella Elisa Miranda, era per lui il simbolo della morte. Me lo aveva confidato e non aveva tutti i torti. Per questo, l’amava fino alla disperazione. Quella ragazza per lui era l’apparizione sulla Terra di una entità assoluta ed unica, come la Morte. La Morte ha un suo fascino irresistibile, così per lui quella giovane. Lei come Venere, artefice della morte improvvisa che può cogliere chiunque ed a qualsiasi età: Ictus cerebrale, arresto cardiaco, o semplicemente un attentato terroristico.
Presso i Romani ed i Germani come tra i popoli indo-americani, la Morte fa parte integrante del destino umano, ma solo in seguito al gesto sconsiderato di una donna. Nell’ebraismo, a causa di Eva, l’Uomo fu condannato a dover morire in questo mondo.        
Breve riassunto della mia problematica esistenza, per sommi capi.
Il fatto è che io non conto un niente, ma per davvero. Non sono mai stato un individuo pronto alla lotta. Per me, il sessantotto non ha mai avuto un particolare significato e neanche gli altri tentativi di rivoluzione post-sessantottina. Figuriamoci adesso con i fatti da raccontare alla magistratura ed inerenti la morte di don Vito. Che me ne importa infine? Se dovessi sopravvivere all’operazione in Germania, confesserò tutto quello che so sulla vicenda Orefice. Dirò agl’inquirenti la verità. Per adesso, taccio come nei patti con la signorina Elisa Miranda. Taccio perché devo sopravvivere al male che mi distrugge il corpo. Una volta salvato dal cancro, dirò tutto e voglio vedere come la faccenda va a finire. Ho avuto sempre paura di dover vivere secondo la morale corrente, perché se fossi vissuto in osservanza ad una mia genuina direttiva morale, non ben accettata dalla gente, sorretta dalla piena consapevolezza, avrei dovuto combattere ogni tipo d’ingiustizia. Diciamocelo pure, avrei dovuto agire per il bene comune in ogni mio atto, parlando con la voce del cuore. Avrei dovuto scegliere di aiutare e difendere i deboli, procedere sempre per la retta via, senza temere mai  chi ti sbarra la strada. Avrei dovuto allenarmi fin nella gioventù a fare tutte queste scelte morali. Mi avrebbero preso in giro? Non avrebbe dovuto importarmi. Anche se non fossi stato un giusto al cento per cento come per esempio sant’Agostino, avrei camminato diritto, seguendo la voce interiore:
 in interiore homine habitat veritas.
Camminare con passo fermo e con sguardo sicuro. Sembra facile.
Quando fui un modesto e squattrinato studente universitario, speravo nella giustizia umana ed in un futuro meno nero. La giustizia in cui ponevo le speranze era quella del mondo occidentale, una zona della Terra altamente industrializzata che se ne infischiava di quelli del Terzo e del Quarto mondo. Nonostante fosse (pensavo) una giustizia relativa a questo tipo di civiltà evoluta, sempre giustizia era. Se non altro, serviva ad evitare di sbranarci.
Ripetutamente, mi sono riproposto di procedere diritto, seguendo determinati valori. Fare ciò è da eroe e non è per me, condannato alla mediocrità. Sono stato uno che sognava cose grandi fin dai primi anni della vita. Sono stato uno che si pasceva di sogni e che svegliato dal dormiveglia, mi attardavo ad alzarmi presto, svincolandomi dalla onirica rappresentazione. Uno che non avrebbe mai avuto la forza di vincersi. Adesso, accetto il castigo. Adesso, ne pago le conseguenze. C’è una forza intrinseca nelle cose del mondo che spinge a colpire prima o poi chi ha oppresso gli altri. Una volta era Nemesis, la dea della vendetta che non temeva neanche i potenti della Terra. Adesso, è la stessa forza invincibile che non si sa come chiamarla. Scienziati e filosofi contemporanei dicono che l’universo di per sé è in grado di generare la coscienza umana. E’ l’universo dunque, permeato da una forza invisibile a generare gli dei onnipotenti, come Nemesis. 
Ho il cancro e non penso che ce la farò. Perderò anche quest’ultima battaglia con la solita rassegnazione. Potrei fare diversamente? Si vive tra speranze in parte accantonate. Si vive nutrendosi di falsi ed illusori miti. Si vive compiendo ingiustizie giornaliere, piccole e grandi.  Per calmare la coscienza, uno dice: ovunque c’è violenza palese, oppure occulta.
Sono stato uno che spesso si è lamentato della vita, sena volerla cambiare davvero. Sotto sotto, mi sono adagiato nel posticino in banca ottenuto per meriti politici e non per capacità intellettive. Ho usato quel posto per ingrandire il mio potere a livello locale. Ecco la mia colpa. Può essere stato che non tutto fosse dipeso da me. Ostacoli troppo grossi, come macigni, sarebbero stati eretti lungo la mia strada bianca. Troppe muraglie e castelli con nuovi privilegi, dovuti alla gran massa di soldi, si elevano superbi lungo la via di ciascuno. Che fare? Uno si adegua, ecco tutto. Sono una bestia dunque? Forse sono come un albero, fisso nella staticità di una situazione in apparenza mutevole.
Ecco l’abat-jour cinese che tengo sulla consolle, accanto al letto. E’ un lume da notte che se acceso, svela il suo segreto. Di giorno, mostra l’immagine di una dea velata che sorvola su prati fioriti, come un’allodola. Di sera, quando accendo la lampadina per addormentarmi, l’abat-jour cinese, attraverso il paralume di porcellana, fa emergere la nuova immagine: la dea è una meravigliosa donna nuda sollevata in aria dalle braccia di un maschio virile, anch’egli nudo. Si capisce che la donna e l’uomo nudo stanno per fare l’amore. Comprai l’abat-jour da una bancarella a Napoli, dalle parti della Duchesca. Non nascondo che quella duplice immagine mi ha da sempre incuriosito. La dea pudica e vestita che vola su un prato fiorito e la donna bella e nuda che abbraccia un valido giovane, anch’egli nudo, mi rasserenano l’animo e mi fanno prendere sonno prima. Due realtà che si fondono in una, se l’abat-jour è acceso di notte. 
La mia, una vita come tante altre. Qualcosa cambiò, intendo nel profondo, quando vidi in cielo quella strana apparizione. Un fenomeno che secondo alcuni è ascrivibile alla categoria degli UFO. Qualcosa cambiò nel mio profondo, ma senza che me ne accorgessi all’inizio. Cominciai ad avere dubbi su consolidate certezze. Da allora, è stato come due entità avverse e separate siano cresciute in prati diversi. Da un lato ero la persona ben vista dalla gente ed inserita nella società. Un direttore di banca, in apparenza onesto, ma affamato da sempre di denaro. L’altro me stesso cominciava ad essere problematico, lottando contro la maschera che mi ero tessuto addosso. L’altro me viveva di vita vegetativa e come un bruco, erodeva l’involucro costruitomi addosso.  Questo altro me rifletteva sempre più intensamente sugli enigmi dell’esistenza e su ciò che può celarsi oltre la comune apparenza.
Al presente, il corpo diviene sempre più, di giorno in giorno, un peso da dover spostare da un punto all’altro dello spazio. Ci sono momenti che alzarmi ed andarmi a sedere alla scrivania è uno sforzo non indifferente. La vecchiaia dicono. La malattia, mi dicono altri. C’è un tempo della tua vita in cui tutto viene meno. Tutto è pesante come un macigno e pesa anche sul flebile destino. La vita allora appare come una serie di parametri medici da rispettare: la colesterolemia, la concentrazione linfocitaria, la pressione sanguigna e via di seguito. Tu stai in bilico su un congegno che pochi anni prima ignoravi ed adesso scricchiola. Inevitabilmente scricchiola sotto i tuoi piedi.  
 

 

mercoledì 16 marzo 2016

L'ILLUSIONE di Francesco Gallina


All'interno di una nebulosa sala da bar, avvelenata dal persistente aleggiare del forte aroma di sigarette avidamente consumate dai numerosi invisibili avventori, su di uno sgabello sghimbescio all'estremità di un sudicio bancone di mogano, è seduto un uomo vestito con un abito grigio logorato dall'inesorabile scorrere indefinito del tempo. Dalla caustica espressione del suo volto persa nell'insulso vuoto della sua esistenza, sembra portare con sé un dolore spinto ai limiti della sopportazione a causa dell'infrangersi di un sogno. Quell'uomo si chiama Sam Harris e da anni ormai ha perso la speranza di poter sopravvivere nella giungla di cemento che per qualche astruso motivo lo sta ancora avvolgendo. L'uomo che si trova dall'altra parte del bancone invece è un certo Brad Coley, ottimo dispensatore di alcoliche illusioni e di lungimiranti consigli, nonché l'unico essere umano in grado di comunicare con il genere di persone che del proprio passato ne hanno fatto una questione puramente personale.
"Direi che per stasera è tutto. Va a casa ora, vecchio mio."
"Che succede, Brad, ti stai affezionando a me per caso?"
"No, Sam, mi chiedo solamente come faccia un uomo senza peccato come te a non rendersi conto delle proprie condizioni."
"Brad, amico mio, come ti sentiresti se per due lunghi anni non riuscissi più a chiudere gli occhi pur cercando disperatamente di non pensare a Chris, a Susan e a Debbie... interamente carbonizzate?"
"Non è detto che l'alcol sia l'unica soluzione a questo problema, Sam."
"Ne abbiamo già parlato, Brad... "
"Voglio farti una domanda allora."
"Ti ascolto... "
"Come fai a non renderti conto dell'assillante silenzio che ogni giorno ti circonda senza mai darti tregua, possibile che tu non riesca a trovare la forza di capire che ormai sei un intruso?"
"Buonanotte, Brad, a domani."
Quella notte Sam uscì dal bar intorno alle tre di mattina caracollando a destra e a sinistra senza alcuna meta, alla ricerca di un microscopico pezzo di se stesso.
Camminando silenziosamente si ritrovò di fronte a un enorme palazzo nero alto circa duecento metri tutto illuminato, al cui interno era possibile intravedere centinaia di impiegati tutti assorti a svolgere compitamente il loro lavoro. Rimase stupito da quell'immagine soltanto per alcuni secondi incapace com'era di porsi domande che andassero ben oltre la sua comprensione, e senza tergiversare si lasciò sprofondare mestamente tra le braccia del proprio oblio, rivolgendo il suo sguardo oltre l'infinito grigiore dell'asfalto. Dai piani alti di quel palazzo, due persone, un uomo e una donna lo fissarono con impazienza fino a quando non scomparve dalla loro vista, poi lentamente incrociarono i loro sguardi senza mostrare la benché minima espressione.
"Per quanto tempo ancora saremo costretti ad accettare il perdurare di questa farsa, Adam?"
L'uomo dai capelli brizzolati vestito di bianco rispose soltanto dopo un attimo di esitazione.
"Fino a quando l'illusione della sua colpevolezza non troverà la risposta che merita, mia dolce Eve."

giovedì 10 marzo 2016

L'UOMO CHE AVEVA IL TOCCO di Antonio Bellomi

C'era poca gente nel Parco della Pace. Il prato, piatto e verde, si stendeva per diversi ettari, con qualche macchia di cipressi qua e là, fino al bordo dell'alta scogliera che dava su un mare perennemente mosso, le cui onde si frangevano fragorosamente contro scogli neri e aguzzi, simili ai denti di un preistorico mostro marino.
Il sole era alto e le lenti incorporate dell'uomo si scurirono ancora di più quando varcò la soglia del parco e lo scintillare dei piccoli obelischi di cristallo che costellavano il tappeto erboso si riversò su di lui come una cascata luminosa.
Lajos Dritan si arrestò un momento, come intimidito da quelle saette luminose che lo investivano. Gli succedeva sempre quando veniva in quel luogo, anche se ormai ci veniva molto raramente e solo quando qualche cosa lo tormentava nel profondo.
Come oggi.
Un profondo sospiro e mosse un passo in avanti, rompendo quella specie di trance che l'aveva colto nell'attimo in cui varcava il portale d'ingresso.
Trovò subito l'obelisco che cercava e che non era molto distante dal punto d'entrata. Un obelisco di un cristallo azzurrino, la cui tinta si fece sempre più accentuata a mano a mano che si avvicinava. Quando fu davanti, a un passo di distanza, l'azzurro si era trasformato in un blu cobalto intenso.
- Sono qui, papà – disse l'uomo.
L'azzurro dell'obelisco palpitò come un cuore che riprende a pulsare dopo essere rimasto fermo per un'eternità. Il cristallo stesso prese a vibrare leggermente e l'aria attorno parve caricarsi di elettricità.
- È tanto tempo che non vieni, figlio mio – risuonò il cristallo. – Che cosa ti conduce qui?
Lajos non rispose subito e la sua mente vorticò freneticamente alla ricerca di una risposta qualsiasi, perché non era ancora giunto il momento di affrontare la vera questione per cui era venuto fin lì.
- Un rimorso, papà – rispose alla fine e mentre pronunciava quelle parole sapeva che non era vero, che un altro era il problema.
La voce sintetizzata del cristallo parlò in tono dolce, il tono di un padre che blandisce il figlio piccolo. – Non potevi fare altro, Lajos. Ne abbiamo già discusso altre volte, non ricordi? Non avrei mai dovuto pretendere che mio figlio stesso ponesse fine alla mia vita.
- La maledizione degli immortali – sussurrò Lajos. – Questa è la maledizione che ci accompagna per avere osato sfidare le leggi della natura. Eppure tutto sembrava così bello, radioso.
L'aria attorno all'obelisco crepitò come se le cariche elettriche si fossero fatte più intense. – Sconfiggere la morte è stata non la vittoria dell'uomo, ma la sua sconfitta – disse il cristallo. – Anch'io da giovane lo pensavo, poi, col passare degli anni, col carico dei ricordi, con la fatica di vivere, ho desiderato che si potesse tornare indietro, a un tempo lontano in cui un giorno ci si abbandonava al sonno eterno.
Ci fu una lunga pausa. Un silenzio prolungato. in quel momento Lajos avrebbe voluto dire tante cose, eppure anche una sola parola gli sarebbe costata una fatica immane.
La maledizione degli immortali. Si, vivere da immortali era una maledizione, non la cosa meravigliosa a cui tutti avevano applaudito trecento anni prima, quando per la prima volta, in un misconosciuto laboratorio asiatico, era stata sintetizzata la proteina che dava l'immortalità.
- A cosa pensi, figlio mio? – chiese il cristallo.
Un nodo alla gola impedì a Lajos di rispondere. Ricordava ancora con tremenda sofferenza il giorno, cinquant'anni prima, in cui suo padre gli aveva detto con voce stanca di non volere più vivere. E l'aveva chiesto a lui, a Lajos, suo figlio, perché Lajos era forse l'unico uomo della terra che avesse il tocco. Il tocco dell'oblio eterno. La capacità soprannaturale di invertire il processo di immortalità di un uomo e fare sì che nell'arco di di pochi minuti sopraggiungesse la morte naturale.
- Non ne sono stato capace, papà – disse con voce tremante. – Non potevo farlo. Non con te. No.
Il cristallo vibrò intensamente, come se vivesse di emozioni proprie e l'aria crepitò di nuovo di scariche intense, così forti che raggiunsero un gruppo di gabbiani che in quel momento sorvolavano il prato, provenendo dalla scogliera, e li fecero deviare bruscamente in altra direzione.
- Così non mi è rimasta altra soluzione che incapsulare la mia mente in questo cristallo dove se non altro può riposare nell'oblio da cui viene risvegliata solo quando mi raggiunge un visitatore – disse la voce dal cristallo e c'era un tono non tanto di sofferenza, quanto di stanchezza in essa.
Per un immortale che trovava immane il peso della vita non c'erano molte soluzioni, pensò Lajos con tristezza. O si suicidava con qualche sistema cruento che non offriva ai medici la possibilità di rimediare con interventi risanatori, o sceglieva la via dell'oblio eterno, incapsulando la mente in un obelisco di cristallo nel Parco della Pace. Ma pochi avevano il coraggio di affrontare un suicidio cruento e crudele come la decapitazione o la cremazione. Così quasi tutti sceglievano la via dell'oblio.
O il tocco di Lajos.
Ricordava ancora con chiarezza la prima volta in cui si era reso conto del potere che disponeva. Un vecchio, vecchio di età, ma giovanile d'aspetto, l'aveva supplicato di procurargli la morte, perché lui non aveva il coraggio di farlo da solo. Ma Lajos era un medico, non avrebbe mai potuto uccidere una persona in perfetta salute e non l'aveva fatto. Si era limitato a posargli una mano su un braccio e a sussurrargli: - Non posso. Vorrei tanto porre fine alle tue sofferenze, ma non posso farlo. Se solo potessi annullare questa maledizione dell'immortalità questo sì che lo farei immediatamente. – E in quel momento lo desiderò con tutte le sue forze.
Un istante dopo aveva visto quel corpo giovanile, invecchiare di colpo, accelerando il processo di secondo in secondo, finché nel giro di cinque-dieci minuti al massimo aveva avuto di fronte a sé un vecchio grinzoso e canuto che si era afflosciato al suolo e con un sorriso di beatitudine sulle labbra era spirato.
- Un potere terribile e grandioso il tuo – disse la voce del padre, come se questi gli avesse letto nel pensiero.
Sì, terribile e grandioso, davvero. Un potere a cui ricorreva un numero sempre maggiore di immortali. Un potere che dava la possibilità ad altri uomini di sfuggire alla maledizione della vita eterna, quando il peso dei ricordi, dei rimorsi, dei tormenti si faceva insopportabile.
- Procuri la pace a tante persone – disse il cristallo. – Dovresti essere felice di questo.
- Ma non lo sono! – gridò Lajos con voce strozzata – io sono un medico, dovrei portare la vita, non la morte. Non sopporto più questo peso, non posso continuare a fare questo. Ogni volta provo una tensione sempre più insopportabile. Credevo di fare la cosa giusta all'inizio, anzi ne sono ancora convinto, ma ciononostante dare la morte mi è insopportabile.
- Tu non dai la morte, figlio mio – lo contraddisse il cristallo. – Tu riporti solo la natura sul suo percorso naturale. La morte non è un accidente della vita, ma è la sua conclusione naturale, è l'immortalità il fattore estraneo, il peccato d'orgoglio dell'uomo, che ha finito per procurare la sua stessa infelicità.
Il blu del cristallo palpitò come per esprimere un'emozione intensa.
- Non puoi abbandonare questa tua missione – disse ancora il cristallo. – Tu puoi risparmiare dolori e sofferenze.
Era vero, pensò Lajos. Ma questo non gli era di consolazione. Sarebbe stato meraviglioso ritornare a essere un medico come erano i medici di un tempo, quelli di cui parlavano i libri di storia. I medici che facevano nascere i bambini, che portavano un soffio di vita nel mondo. Ma non nascevano più bambini adesso. E così, alla lunga la razza umana si sarebbe estinta e di essa sarebbero rimasti per l'eternità solo i cristalli del Parchi della Pace e le loro anime immerse nel sonno dell'oblio.
- Non ho scelta allora? – chiese Lajos. In quel momento si sentì di nuovo il figlio che, da piccolo, correva a chiedere consiglio al padre, quel padre che saldo come una roccia aveva sempre una risposta a tutti i suoi dubbi e le sue paure.
- Temo di no, figlio mio – rispose il cristallo. – Ognuno di noi ha o ha avuto una funzione in questo mondo e la tua è di procurare sollievo alla gente che soffre. In fondo è proprio questa la tua missione di medico. Un medico cura e risana, ma deve anche porre fine alle sofferenze. E tu puoi farlo. Devi farlo.
- Anche se costa sofferenza a me, papà – disse Lajos tra le lacrime.
Aveva fatto bene a venire al Parco della Pace. Ancora una volta suo padre aveva saputo offrirgli il consiglio giusto. Ora doveva seguirlo.
 

sabato 5 marzo 2016

SPAVENTATO di J. Enrique Juárez Flores

 
Per allontanare gli spiriti maligni dalla mia casa, mi hanno detto che, ogni volta che noto o sento qualcosa di insolito, devo lanciare insulti a voce alta.
Ora gli oggetti non solo appaiono tutti nei posti giusti, come le scarpe lucidate, ma anche i mobili me li ritrovo all'alba ben puliti.