giovedì 24 luglio 2014

IL DOTTOR SIBENIUS di Fabio Calabrese





«Buon giorno, eccellenza, sono le otto. Le ho portato la colazione e la corrispondenza.»
La cameriera era entrata nella stanza come al solito con passi felpati, ed una volta di più il dottor Sibenius si chiese come facesse a muoversi tanto leggera e silenziosa nonostante i cinque centimetri di tacco: misteri di quell’universo femminile che Sibenius nella sua lunga vita di scapolo solitario aveva incontrato solo di sfuggita.
«Grazie, mia cara», rispose, «Metti pure lì sul tavolino, puoi andare.»
Come gli succedeva sempre più spesso, il dottor Sibenius era sveglio da tempo quando la ragazza era entrata: aveva dormito poco e male, afflitto da mille preoccupazioni, e le notti insonni stavano diventando sempre di più una sgradevole abitudine.
«Forse dovrei prendermi una vacanza», pensò.
Naturalmente, sapeva bene che si trattava di una pia illusione. Due anni prima si era concesso due settimane di riposo in una baita in riva ad un fiume in mezzo ai boschi del Montana, tagliandosi fuori dal mondo, senza essersi portato dietro nemmeno il telefono cellulare; due settimane passate a pescare e leggere, quindici giorni che avevano fatto un gran bene alla sua salute, al suo sonno, ai suoi nervi, ma al ritorno si era dovuto confrontare con i pasticci fatti dai suoi collaboratori, che ne avevano quasi del tutto vanificato l’effetto benefico…
La colazione consisteva in the al limone e fette di pane tostato; niente latte, marmellata, croissant o plum cake, e dolcificante al posto dello zucchero: sapeva di dover tenere d’occhio glicemia e colesterolo.
Mangiò in fretta, mentre dava un’occhiata al calendario della giornata fitto d’impegni come al solito. Si lavò e si vestì senza perdere tempo. Alle 8.30 c’era la comunicazione del presidente degli Stati Uniti, alle 8.45 iniziava la teleconferenza sulla situazione africana.
Aveva appena preso posto alla scrivania con la consolle multimediale, quando lo schermo si accese.
Comparve il primo piano di una centralinista, una ragazza dal viso giovane e piacevole.
«Buon giorno, eccellenza», disse con voce compita, «Abbiamo in linea il presidente degli Stati Uniti.»
«Allora non facciamolo aspettare», disse Sibenius, «Su, me lo passi.»
Ci fu una dissolvenza, ed il volto della ragazza scomparve, sostituito da quello di un uomo appena un po’ più giovane di Sibenius.
Henry Donaldson era un uomo dal piglio volitivo, i lineamenti asciutti, un tantino angolosi. La capigliatura ancora folta era imbiancata piuttosto precocemente, e questo particolare piaceva a Sibenius, trovava che desse a Donaldson un tocco vagamente patriarcale. L’uomo, seduto davanti ad una consolle molto simile a quella di Sibenius, era vestito di un inappuntabile completo grigio su cui spiccavano il nodo perfetto della cravatta con i colori del college ed il bianco immacolato del colletto della camicia.
A Sibenius il presidente Donaldson ispirava simpatia: era consapevole che il suo ruolo non era più quello di primo attore della scena mondiale come la maggior parte dei suoi predecessori, ma quello di mediatore, e cercava di svolgerlo al meglio possibile, rappresentava una potenza che aveva accettato una sconfitta, ma il cui amor proprio era meglio non ferire più del necessario.
«Eccellenza», era stato il presidente a parlare per primo.
«Signor presidente», rispose Sibenius usando un tono quanto pi deferente possibile, anche se quella carica in realtà non aveva più l'autorevolezza di un recente passato.
«Eccellenza», disse Donaldson, «veniamo subito al sodo. Negli Stati uniti in questo periodo c'è molto malcontento per le restrizioni sull'importazione di energia e sull'importazione di alimenti.»
Il dottor Sibenius atteggiò le labbra ad un lieve sospiro.
«Signor presidente», disse, «certamente lei comprende, e sta a lei farlo capire al suo popolo che il problema, prima di essere economico, legato alla congiuntura che stiamo attraversando, è un problema etico. Lei sa benissimo che le risorse di questo pianeta, le nostre risorse, non sono infinite, ed è impossibile dare qualcosa a chi non ha nulla senza togliere qualcosa a chi ha troppo, o fare in modo che costui vi rinunci spontaneamente.
Lei sa che due terzi della popolazione mondiale vivono in condizioni di penuria di alimenti e di tutte le risorse fondamentali. Gli Stati Uniti hanno un tenore di vita basato sullo spreco, uno spreco ingiustificato quando una parte considerevole dell'umanità è priva di tutto. Un cittadino europeo, in termini monetari, ha un reddito, ed in termini ecologici ha un consumo di risorse ed un impatto ambientale che sono la metà di quelli di uno statunitense, eppure in Europa la gente ha di che vivere in modo più che dignitoso. Un uomo non può dormire contemporaneamente in due letti né poggiare le natiche contemporaneamente su due sedie o sul sedile di due automobili; quanto all'alimentazione, se si mangia il doppio del necessario, il risultato è l'obesità che comporta infarti e ictus.
Se la sua amministrazione riuscirà a persuadere gli Americani ad avere uno stile di vita più sobrio, sarà altamente meritoria verso l'umanità, a cominciare dal suo Paese.»
Henry Donaldson annuì.
«So che ha ragione», disse, «ma non sarà facile.»
Salutato il presidente, il dottor Sibenius si spostò in una stanza adiacente, quasi interamente occupata da una consolle che era una versione ingrandita di quella che trovava posto sulla sua scrivania, da una dozzina di schermi posti circolarmente lungo le pareti, e da una poltrona girevole posta strategicamente al centro della stanza: era la sala per teleconferenze.
Guardò l'orologio da polso: mancava ancora un po' di tempo. Prese una cartelletta di appunti e cominciò a consultarla.
La situazione dell'Africa rimaneva drammatica, anche se alcuni miglioramenti importanti erano avvenuti in alcune zone non più infestate dalla guerriglia, e vi era anche un lieve miglioramento della situazione sanitaria, quanto meno, il numero dei nuovi casi di AIDS era nettamente diminuito da quando la Chiesa cattolica aveva autorizzato i fedeli all'uso dei preservativi, anche se rimaneva drammaticamente alta nell'Africa settentrionale come nel resto dei Paesi islamici.
Il mutato atteggiamento della Chiesa cattolica sull'AIDS, Sibenius lo considerava una sua vittoria personale, una di quelle di cui andava più fiero.
Era stato l'anno prima, quando si era recato in vista a Roma ed era stato ricevuto in udienza privata dal papa, Sisto XII.
Nel colloquio privato, aveva affrontato la questione senza peli sulla lingua.
L’evasivo atteggiamento del pontefice gli aveva fatto presto capire quale fosse il punto della questione.
Sisto XII si rendeva chiaramente conto che la scelta sbagliata della Chiesa metteva in pericolo migliaia di vite all’anno, ma non poteva contraddire il giudizio dei suoi predecessori secondo cui l’uso di anticoncezionali era sempre e comunque immorale, pena mettere in crisi il dogma dell’infallibilità e lo stesso magistero ecclesiastico.
«Vostra santità è certamente consapevole», aveva detto Sibenius, «Che attualmente i profilattici sono usati, soprattutto in Africa, principalmente come presidi sanitari, e il fatto di impedire la procreazione è semplicemente un effetto collaterale.»
«Sono al corrente di questo», aveva risposto Sisto XII senza usare il noi, «Ma…»
«Allora, vostra santità», aveva concluso Sibenius, «la Chiesa non troverebbe nulla di immorale nell'uso di un farmaco che salva la vita delle persone al prezzo di causarne la sterilità, e qui il caso è del tutto simile.»
(Era, in poche parole, l’esempio che poi era diventato il cardine dell’enciclica “Humana Integritate”).
Lo sguardo del pontefice si era illuminato, aveva compreso quel che Sibenius gli stava offrendo: un modo onorevole di togliere la Chiesa da una situazione che si era fatta man mano più difficile.
Superato il punto critico, la conversazione si era fatta più distesa ed informale: i due uomini avevano scoperto di avere molto in comune: due uomini in età ed ormai stanchi, che sentivano declinare le forze e vedevano l’arco della vita accorciarsi, ma che continuavano a lottare per cercare di lasciare dietro di sé un mondo un po’ migliore di quello che avevano trovato.
Quando si era congedato, Sisto XII gli aveva fatto dono di una bibbia miniata di età medioevale, che Sibenius conservava tra i suoi cimeli più preziosi.
Si riscosse dalle sue riflessioni. La situazione sanitaria, almeno riguardo all’AIDS mostrava un miglioramento, ma i problemi dell’Africa rimanevano spaventosi.
Un breve segnale sonoro indicò l’inizio della teleconferenza, e subito sette schermi si accesero: sei mostravano i volti di alcune persone, mentre l’ultimo mostrava una grande carta del continente africano con vaste aree evidenziate in ocra nella zona equatoriale, laddove la foresta che ricopriva quel suolo era stata sradicata, ed una fitta manciata di zone più piccole, talvolta dei semplici punti o poco più, picchiettate in colore rosso vivo.
Quelle erano le zone dove le Forze Armate Terrestri Unite stavano conducendo la loro prima, e Sibenius sperava ardentemente ultima, campagna di guerra.
«Buon giorno, signori», disse Sibenius, «poiché alcuni di voi non si conoscono, farò io le presentazioni.»
Accennò con il capo ad un uomo di colore, un individuo robusto dalla pelle color ebano.
«Amin Kassala», disse, «il nostro governatore a Nairobi.»
Si voltò verso una donna bionda e minuta, l’unica del gruppo.
«La dottoressa Kay Sanderson, ricercatrice e giornalista, che presenzia come portavoce dell’associazione non governativa Aid for Africa.»
Indicò un altro uomo dalla carnagione e dai capelli chiari.
«Il professor Halvestrom dell’Università di Stoccolma.»
Indicò un uomo dalla pelle scura e bruciata dal sole.
«Jose Martin Dos Santos, il nostro governatore di Brasilia.»
L’altro uomo aveva la pelle scura come quella di Dos Santos, ma i lineamenti marcatamente mongolici.
«Sono Onondak», disse Sibenius, «il nostro governatore di Gjakarta.»
«Premetto», aggiunse, «che Dos Santos e Onondak hanno richiesto di partecipare a questa conferenza perché il problema della deforestazione interessa la foresta amazzonica e l'Asia sud-orientale allo stesso modo dell'Africa equatoriale. Non occorre che io vi ricordi», aggiunse, «che le foreste equatoriali sono non solo il polmone verde del nostro pianeta, indispensabile per il ciclo dell'ossigeno, ma anche il maggior serbatoio della biodiversità terrestre.
Noi non possiamo permetterci di danneggiarle più di quanto sia successo in passato, ma è anche vero che sono abitate da popolazioni fra le più povere del mondo per le quali il legname è l’unico combustibile che hanno a disposizione.
Come probabilmente saprete, la Scandinavia da più di un secolo si è dimostrata un modello nell’utilizzazione del patrimonio forestale. Le foreste scandinave sono intensamente utilizzate per la produzione del legname, ed in cento anni a questa parte non hanno fatto che espandersi, potremmo dire che sono coltivate.
Il professor Halvestrom è invitato a questa conferenza per dare inizio ad un programma di collaborazione con voi, studierà insieme a voi il modo e la misura in cui i metodi scandinavi possono essere applicati alle foreste tropicali; naturalmente, lui e la sua equipe sono tanto pronti ad insegnarvi quanto ad imparare da voi.»
Sospirò. Per un momento parve ancor più vecchio e stanco del solito.
«In tutta franchezza», disse, «e spero che tutti voi mi capiate bene. Questo pianeta è la nostra casa: se lo distruggiamo, non ci sarà salvezza per nessuno.»
«A questo punto», aggiunse dopo un po’, «darei la parola alla dottoressa Sanderson di Aid for Africa. Si tratta di una persona che lavora per un'organizzazione non governativa, ma la conosco da anni, e ha la mia piena e incondizionata fiducia. Prima però, devo farle una domanda, governatore Kassala: com'è la situazione nella sua giurisdizione, intendo dire dal punto di vista militare?»
Il robusto africano parve sorpreso di venir interpellato in quel modo, poi si affrettò a stamparsi uno sfavillante sorriso sulla faccia.
«Bene, molto bene, eccellenza. Giusto due giorni fa ho ricevuto un rapporto del generale Ongania. I ribelli sono in rotta pressoché totale.»
«Sa, Kassala», rispose Sibenius, «comincio a pensare che lei sia un imbecille! Dottoressa, vuole raccontare a questi signori quello che lei ha già riferito a me?»
«Bene», disse la dottoressa Sanderson, «Eccellenza, lei ha già visionato i filmati girati clandestinamente dagli operatori di Aid for Africa. Ci risulta che, contrariamente alle sue disposizioni, contro i cosiddetti ribelli sono state impiegate artiglieria pesante e bombe al napalm. La cosa più scandalosa, però, sono i campi di detenzione dei prigionieri. Anche di questi, i nostri agenti sono riusciti, a prezzo di gravi rischi, a raccogliere fotografie e filmati. I ribelli prigionieri, se vogliamo chiamarli così, sono tenuti ammassati in spazi ristretti, in condizioni igieniche estremamente precarie. Il vitto che ricevono è insufficiente e di pessima qualità, per i feriti e i malati non ci sono cure mediche. Bastonature e frustate o percosse coi calci dei fucili sono punizioni frequenti.»
Sembrava impossibile che un uomo di colore potesse diventare paonazzo, eppure il governatore Kassala ci riusciva.
«Ma insomma», sbottò dando sfogo ad un'irritazione a lungo trattenuta, «nessuno ha mai perso una guerra perché duro coi prigionieri!»
«Kassala!» Sibenius alzava raramente la voce, e non lo faceva se non quando era esasperato.
«Kassala, non le ho dato la parola!»
«Lei è africano», proseguì, «quindi dovrebbe sapere meglio di me cosa sono questi ribelli, le rinfresco la memoria. Per la maggior parte sono ragazzini di età fra i dodici ed i diciotto anni, ma ci sono anche bambini più piccoli, e pochissimi hanno più di vent'anni, ragazzi che dovrebbero stare sui banchi di scuola, non nella giungla con un fucile in mano, che sono diventati guerriglieri perché sono stati rapiti dai loro villaggi e non hanno mai avuto l'occasione di imparare a usare niente altro che un fucile per sopravvivere. Non hanno bisogno di essere trattati come delinquenti o bestiame, hanno bisogno di condizioni di vita umane, di psicologi che li aiutino a superare i traumi che hanno subito, e poi avranno bisogno di scuole e di insegnanti. Ascolti bene, Kassala. Le ho fatto inviare, e la potrà esaminare subito al termine di questa conferenza, una lista di organizzazioni non governative ed umanitarie che assumeranno il controllo dei campi di prigionia. Naturalmente, Aid for Africa e la Croce Rossa sono in cima alla lista. Lei ha ventiquattro ore di tempo a partire da ora, non un minuto di più, per comunicarmi l'avvenuto passaggio di consegne nella gestione dei campi alle associazioni civili, la destituzione e sostituzione del generale Ongania e le sue dimissioni.»
Dopo la teleconferenza, era il momento della lettura dei quotidiani. Come ogni mattina, le segretarie ne avevano depositato una consistente pila sulla scrivania di Sibenius. Prese il giornale in cima al pacco e cominciò a sfogliarlo.
Non c'era niente da fare, non riusciva a concentrarsi sulla lettura degli articoli di attualità.
Sibenius era un uomo che alzava raramente la voce, e lo scoppio di collera con il governatore Kassala l'aveva lasciato agitato, facendogli perdere la concentrazione.
Il suo occhio cadde sulla pagina delle strisce dei fumetti. A volte si concedeva il piacere un po' infantile di darsi a quel genere di letture per rilassarsi.
Lo attiravano soprattutto i fumetti di fantascienza. In un primo momento aveva pensato di farli censurare, ma poi aveva lasciato perdere, erano una lettura abbastanza innocua, che non faceva altro che presentare in una serie pressoché infinita di varianti sempre gli stessi schemi di base, sempre quelli, triti e ritriti: c'era il solito supereroe che lottava contro lo scienziato pazzo che cercava di conquistare il mondo grazie a qualche invenzione prodigiosa.
Strano che nessuno si ponesse mai la domanda che logicamente veniva subito dopo: una volta conquistato il mondo, cosa diavolo farsene?




lunedì 21 luglio 2014

MANICOMIO di Sergio Gaut vel Hartman



Il tipo, faccia da pazzo e atteggiamenti violenti, irruppe nel mio studio; non so come avesse fatto a entrare, sebbene la cosa in quel momento non fosse importante.
«Che cosa vuole? Chi è?»
«Innanzitutto,» fece l'intruso, «mi dica se è stato scelto il racconto Manicomio per l'antologia che sta preparando.»
«Ma come si permette…?»
«Faccia una eccezione,» gesticolò. «Per me è  una questione di vita o di morte. Ho bisogno di sapere, ho bisogno di sapere...»
«Ho conosciuto autori ansiosi, ma lei...»
«Non si confonda. Non sono l'autore, ma il personaggio.»

(Traduzione dallo spagnolo di Paolo Secondini)


venerdì 18 luglio 2014

DOPPIA… TRIPLA CACCIA di Paolo Secondini



Il darmatatròpholos – il becco e gli artigli ricurvi – si librava nel limpido cielo di Phobos, ora battendo, ora stendendo le ali.
La sua testa enorme, piatta, sorretta da un collo robusto, era rivolta verso il basso. I piccoli occhi scintillanti scrutavano il territorio in cerca di una preda.
Erano giorni che non mangiava, né trovava alcunché da portare ai propri pulcini che pigolavano nel nido.
Tempi duri, difficili! Tempi magri!
Scorse, d’un tratto, uno di quegli esseri bipedi continuamente a caccia – con lunghi bastoni che, con fragore, sputavano fuoco e morte – di animali terrestri e volatili. Tra quest’ultimi il darmatatròpholos, che rischiava addirittura l’estinzione.
L’uccello raccolse le proprie energie e, distesa la testa in avanti, si gettò su quell’essere bipede che, visto dall’alto, appariva minuscolo.

* * *

L’uomo era intento a guardarsi intorno con attenzione, anch’egli in cerca di una preda, quando sentì il sibilo del darmatatròpholos che discendeva in picchiata.
Alzò il capo.
Lo vide.
Oh, una vera delizia la carne di quel rapace! pensò, leccandosi le labbra. Non speravo di meglio, quest’oggi.
Su Phobos, infatti, non c’era niente di più prelibato del darmatatròpholos, il quale, per quanto un po’ duro, era di un gusto forte, ineguagliabile.
L’uomo imbracciò il fucile, prese la mira, fu pronto a sparare.
Ma proprio in quell’istante, un gerkàtokos – uno strano umanoide dalla testa di pesce – scorgendo l’uomo poco distante da sé, si disse, a voce bassa:
«Murf id fior stup, tim ul kan!» (Finalmente ti ho sotto tiro, figlio di un cane!).
Premette il grilletto nello stesso momento in cui anche l’altro premeva il suo.
L’uomo e il darmatatròpholos ci restarono secchi.
Dopo un po’ il gerkàtokos, stupito della precisione e tempestività dei colpi, se ne uscì con una esclamazione:
«Slup isk fram!... Alver em kavar up spop?» (Accidenti che mira!... Chi l’avrebbe creduto possibile?).
Camminando a piccoli balzi – come solevano solo i gerkàtokos –, si avvicinò al corpo dell’uomo, del tutto immobile. Lo toccò con la punta del piede, più volte, poi rimase a osservarlo finché non udì, alle sue spalle, una voce sonora… al megafono:
«Stop! Buona la prima! Tra dieci minuti la prossima scena.»
E il regista del film, posato per terra il megafono, si accese, soddisfatto, una sigaretta.


mercoledì 16 luglio 2014

Apocalisse di Adriana Alarco de Zadra



 Gates ha avuto un'idea geniale. A volte funziona, altre volte no.
Ora, per esempio, il computer non si chiude. Premo col dito tutti i bottoni ma la luce non si spegne. Neanche il pulsante con la scritta elimina obbedisce.
Lo scollego dalla corrente e non succede niente, allora provo con autorigenerante. Sorprendentemente, appare il mio riflesso sul display. Ho inserito un altro aspetto del programma, e assomiglio, in modo ridicolo, alla moglie di Braccio di Ferro, Serafina.
 Non mi piace.
Metto rimuovere. La mia immagine sta scomparendo dal computer!  Non sono più io: mi sciolgo, perdo i colori, non esisto più, sto svanendo!
Aiuto! Scompaio nel nulla!!! Non ho piú il mio corpo, né in originale, né in copia, nemmeno un mio riflesso personale... oooooooooooo

domenica 13 luglio 2014

FANTASMI E SOGNI - il corpo sbagliato - di Peppe Murro



La notte trasudava dolcezza e, sotto le stelle, il vento delle dune danzava alla musica di metallo piegato delle fontane del suo giardino. Un profumo acerbo e pastoso invadeva i corridoi del palazzo e muoveva le tende lentamente.
Harun al-Rashid smise quasi malvolentieri di guardare il cielo e con un sospiro si ritrasse nella stanza. La luce delle torce illuminava guizzando il suo viso di vecchio, le sue mani.
Pensava… qualcosa di indefinibile e leggero gli muoveva i pensieri sfuggendogli di continuo, ma tornando sempre come un tormento inevitabile: non era in quiete, qualcosa nell’anima gli bruciava, sotterraneo e tenace.
Di colpo, con una smania incontenibile, si avviò verso il gineceo e pian piano si accorse che i suoi passi diventavano più frettolosi…era quasi arrivato alla porta… Fu allora che l’Onnipotente -sia benedetto sempre il Suo nome- lo portò in un sogno, o forse, ma non avrebbe mai saputo la verità, gli concesse un dono misterioso.
Spostò la pesante tenda. Solo la flebile luce del cielo notturno illuminava la stanza. Per un attimo ebbe nel cuore la figura della schiava yemenita che lo aveva portato in grembo, mentre il suo sguardo si posava a caso su quel buio silenzioso. Come in una storia immaginaria le sue donne riposavano alla rinfusa e si sorprese che non sapesse il nome di tutte.
Lì l’etiope e la figlia del nord confondevano le loro vite e il colore della pelle in un accostamento che solo il Misericordioso poteva capire. E, in fondo, agli spigoli del buio, gli sembrò di riconoscere la bambina persiana che gli era stata portata in dono qualche tempo fa, senza capire la ferocia dell’accostare a un vecchio una bambina.
Poi il suo sguardo si fece più attento: alla sua destra c’era lei, la pantera di Granada, lei, terribile e battagliera come una belva assetata e mai sazia, con la pelle scura di tramonto come il suo cuore. Non l’aveva domata; quando l’aveva avuta, gli era sempre capitato di pensare che lei non si fosse concessa, che mente e cuore li avesse altrove, magari sulle rive del Guadalquivir.
Era stato bello,però, giocare con lei la finzione di un corpo giovane, mai sazio di passione e di scoperte… fingere il fuoco di anni dimenticati, fingere anche di darsi, quando il respiro si spezzava nell’ultima ansia, nel grido più blasfemo…
Si fermò ad osservarla con uno sguardo leggero, mentre il petto si muoveva con respiri regolari e la luce delle torce dondolava su quella pelle di notte luminosa.
Strano, si disse, ricordava sensazioni ma non momenti… forse perché di momenti non ne avevano avuti e le sensazioni appartenevano solo a lui.
Questa tardiva amarezza lo scosse e fece per andarsene,ma qualcosa lo fermò.
Lì, rannicchiata in disparte, c’era lei, Djamina -di questa sì, ricordava il nome-.
Djamina dagli occhi di cielo, la puledra berbera che amava il silenzio, fuoco di libertà, angolo di dolcezza, ferita e feritrice come chi è nato per gli spazi e per il vento… Djamina la prigioniera che forse lo amava o forse lo compativa per la sua prigione di re più vasta e feroce.
Ricordò con un graspo di dolcezza la prima volta che si sorprese a carezzarla, dicendole piano forse parole d’amore… anche se una schiava non si ama, si usa.
 Lei però non era schiava di nessuno, perché nessuno le aveva preso il cuore, nessuno a cui lei non avesse voluto donarlo. Forse alle sue montagne, o forse al mare che si apriva d’improvviso fra le dune, o forse a un altro con gli occhi blu cobalto.
Mentre si rimescolavano i suoi pensieri coi ricordi, il grande Harùn sentì dentro di sé come un vocio lontano, che piano cresceva fino a diventare comprensibile. Capì allora il dono del suo dio senza saperne il motivo… capì  che quelle voci erano i sogni di quante dormivano nella stanza.
Andò quasi inconsapevole verso Djamina, si accovacciò accanto a lei, silenziosamente. E d’improvviso sentì il vento sul viso, e ad occhi chiusi vide il mare, ne percepì lo scroscio salmastro e dondolante, la frescura che oltrepassava le ultime dune, il fremito di vita del suo linguaggio oceanico ed antico. Si sentì col corpo dilatato come una vela a raccogliere la spinta, sentì la forza con cui qualcosa lo fendeva senza ferirlo.
E da dentro raccolse un sospiro, lungo e quieto.
Poi vide quegli occhi, anch’essi di mare, su una pelle scura e tesa. Un nome percosse i suoi pensieri: Amzar…!
Sentì la profondità feritrice dello sguardo, percepì il fuoco che scatenavano dentro, e provò pudore di donna, quello strano tormento che ti induce ad abbassare gli occhi e i pensieri mentre vorresti alzare lo sguardo e sorridere alla gioia che ti abbraccia… e il vento, e quella linea indaco di marina che tagliava il cielo dalla terra… il vento sulla pelle, e il salmastro, fra occhi chiusi e pelle di sabbia…
E sentì una spinta, dentro, come a voler entrare in un corpo, in una vita…. sentì il desiderio di farsi stringere da quelle braccia sognate.. e poi la tristezza… a che servono i sogni se poi ti feriscono soltanto, a che serve desiderare chi non potrai mai avere…?! Anche se quel corpo faceva vibrare, e quegli occhi, quel colore feritore fino all’anima…
Amzar, desiderato e impossibile, sogno di libertà, certezza di una vita…!
E questo vecchio Harun, che ti carezza come fossi l’ultima donna, questo vecchio che finge con te l’unione e la gioia, questo vecchio che ti parla di viaggi e di filosofi antichi, che ti fa volare ma non sognare… 
Sentì,il califfo,  una carezza sul viso che veniva dal profondo, mista di tenerezza e compassione, provò una stretta nel petto…. e poi il vento, il vento che arcuava le dune e le disfaceva con dolce ferocia e incessante pazienza… e quel pensiero, quel nome… Amzar, con sul petto quella nuova bocca aperta dalla spada… Amzar che col suo sangue dissetava di vermiglio la sabbia del deserto…. Amzar, il mai avuto, il perduto per sempre.
Qualcosa di cupo e indicibile gli scendeva dentro. Strano, pensò, che un vecchio sapiente non avesse parole per descriverlo, ma si sentì quieto, con un respiro che sembrava partirgli dall’anima: ora sì, voleva sapere ancora di quei sogni, voleva sapere di quel corpo d’uomo che rimescolava il sangue.
O forse no, aveva capito l’amore silenzioso, la dolcezza feritrice del sogno, l’amaro di ciò che hai desiderato senza averlo… e per la prima volta desiderò di non sapere, provò vergogna ad entrare nei sogni di un altro, in un amore che non lo riguardava e di cui era giusto non sapere.
Ma sentiva la tristezza profonda di una vita non realizzata, capì  la doppia catena che la stringeva, la donna Djamina, la schiava Djamina.
E in un angolo c’era anche la compassione per un vecchio che aveva tentato una carezza d’amore, che in un momento strano aveva poggiato la testa sul suo seno, come un bambino, affidandole i suoi respiri.
Un vecchio che l’aveva voluta come un uomo e che invece poteva esserle padre…
Si sentì affranto, il grande Harun, con un macigno sul cuore.
Con un gesto di fastidio cercò di scacciare quelle voci e si avvicinò piano alla donna di Granada: sentì di colpo come un rimescolio nel sangue, e qualcosa dentro che premeva come per urlare. E sentì il brivido di mani forti, sentì il piacere caldo che lo inondava e squarciava ogni difesa. Voleva mordere toccare sentirsi toccare, voleva dare e prendere piacere, mentre qualcosa di irrefrenabile e sinuoso scendeva verso il suo ventre, si faceva calore, e desiderio, e voglia di aprirsi.
Si sentì spaventato e incuriosito mentre desiderava poggiare le sue labbra sulla pelle di un uomo, stringergli i fianchi, farsi inondare dall’estrema dolcezza. E tremava in tutto se stesso, qualcosa di incontrollabile gli assopiva i pensieri e l’unica cosa che voleva era sentire la forza di un maschio che scuotesse il suo corpo, e ancora, e ancora, ancora…
Poi la quiete, una pace invadente e totale che assopiva corpo e pensieri, e il respiro affannoso che scemava piano in uno stagno fatto di sangue e muscoli rilassati.
E, piano, pensieri feroci come un sussurro di belve:
Morirà quel vecchio a cui mi hanno incatenata, quel vecchio che non ha forze per spegnere il mio fuoco né coraggio per ridarmi la libertà; deve morire prima che io mi sciupi… voglio corpi forti e giovani, voglio sguardi e mani possenti,soldati cammellieri ladri…- sentì nella sua testa-, voglio vivere libertà e giovinezza… senza catene, senza essere schiava di qualcuno … vendicarmi di questa prigione in cui hanno chiuso il mio corpo e dimenticare quel vecchio cui mi hanno legata… sì, voglio altri finché sono giovane e seducente… per essere viva, libera…” e quasi un gemito gli uscì dalle labbra.
Chiuse gli occhi con tristezza,fece qualche passo, mentre amaramente si diceva che era strano quel sogno di libertà fatta solo di corpi, e come fosse perdente scommettere sulle facili vittorie della giovinezza, quando alla fine tutti si diventa vecchi e di quella scommessa resta solo pelle aggrinzita e qualche emozione piena di rammarico. Ma erano, si disse, i soliti pensieri dei vecchi, il loro risarcimento per ciò che non avevano più e poi -pensò con un sottile piacere misto a compassione- chi era in catene poteva solo sognare di non averne.
Si meravigliò di se stesso, quasi rimproverandosi situazione e riflessioni; voleva calmarsi, padroneggiare quella marea di sensazioni che lo aveva colpito.
 Respirò con calma, si guardò attorno: il chiarore della notte e le torce facevano strani giochi di ombre su quei corpi rovesciati rannicchiati, distesi in una mollezza silenziosa che fluttuava coi respiri. Qualcuna bisbigliava ai sogni, qualche altra si girava su un fianco.
Ora voleva uscire e per la prima volta osò un pensiero come una bestemmia…non doveva l’Onnipotente dargli quel dono notturno, non doveva porlo così nudo di fronte alla sua pochezza ed all’offesa degli anni.
Ma poi si disse che forse aveva un senso tutto questo, nell’infinita saggezza di Dio, anche se gli sfuggiva, anche se gli faceva paura tentare di scoprirlo.
Uscì con forza dalla stanza, percorse in fretta i corridoi, scese quasi correndo nei giardini… qualcosa di caldo scendeva dagli occhi e inumidiva la barba bianca, qualcosa che non erano lacrime ma tristezza di vivere. Ancora.
La tristezza di sapersi vecchio.
Guardò per attimo il cielo stellato spudoratamente terso, si guardò le mani.
Gridò pochi ordini precisi, rientrando.
La guardia si mosse veloce e in breve tutto il palazzo fu un fermento di voce e di rumori: ora le donne erano tutte lì, davanti a lui, assonnate, incuriosite, tremanti.
Dettò qualcosa allo scrivano, pose il suo sigillo su un foglio e lo porse alla donna di Spagna di cui ancora adesso non ricordava il nome: “Va’ e compra la tua solitudine futura. Sei libera !”
Non guardò il suo viso, né l’invidia né lo stupore delle altre, scacciò tutti.
Solo Djamina obbligò a restare.
Non c’erano più rumori, la notte era tornata densa di profumi e di silenzio.
Forse aveva capito il disegno del Misericordioso, forse era destino esserne strumento… , apparire come la mano crudele dell’uomo per essere la volontà pietosa di dio…
A che servono i sogni se poi ti feriscono soltanto…?
Le aveva voltato le spalle, ma indovinava il suo volto di donna con l’espressione di chi può solo aspettare una decisione che la sovrasta. Si voltò per un attimo… era lì, col corpo appena scoperto dalla penombra. “E’ bella -pensò- è bella come la sua anima”.
Sfiorò le gemme e gli intarsi d’oro, toccò l’elsa lavorata, in silenzio… A che serve sognare l’impossibile ?
Si avvicinò a lei, le sfiorò i capelli in una carezza così leggera da apparire goffa e stentata. Sospirò. Sospirò forte mentre estraeva il pugnale e lo affondava in quel petto dolcissimo.
“Ora anche tu sei libera”, mormorò in un singulto strozzato, mentre raccoglieva il suo corpo piegato come per un’ultima carezza.
(Perché lei, mio Dio,-si gridò dentro- e non questo vecchio ?)
Harun al-Rashid, califfo, sapiente, scrittore, raccoglitore spietato di sogni, quella volta e mai più, pianse di pena.

mercoledì 9 luglio 2014

GLI AMBIGAMI di Pierre Jean Brouillaud



Il caso di Marjorie B. è uno degli ultimi a essere stato trattato coi vecchi metodi d'investigazione, metodi che facevano appello alle capacità deduttive necessariamente limitate del cervello umano.
È per questo motivo che c'è voluto così tanto tempo per svelare i suoi segreti anche se era stato affidato a uno degli intelletti più fini della California, l'ispettore Jonas Ignacio Martinez?
Marjorie B. è morta un bel pomeriggio di giugno in un incidente accaduto sul celebre miglio dei miliardari. La sua auto ha mancato una curva, è caduta nel Pacifico dove si è schiantata sugli scogli prima di ribaltarsi e colare a picco. Marjorie è morta sul colpo come i due cocker che l'accompagnavano. Beninteso, la macchina era dotata di pilota automatico, che era guasto come ha dimostrato l'inchiesta.
Il caso si sarebbe potuto chiudere lì.
Ma l'ispettore Martinez voleva sapere perché Marjorie B. che aveva un autista fra la sua numerosa servitù, non si era fatta accompagnare da lui. Certo, ci si poteva domandare perché questa signora proprietaria di un veicolo a guida interamente automatica avesse bisogno di un autista, ma questo era uno status symbol. Quel giorno aveva rifiutato l'aiuto di quello che per scherzo chiamava Caronte, un nome che aveva recentemente sentito in un programma televisivo e che era, sembra, presso gli antichi, quello del traghettatore incaricato di trasportare le anime all'inferno.
Si interrogò Caronte e lo si era accusato di negligenza nella manutenzione della vettura. Lo si disattivò, essendo un robot.
E il caso fu chiuso. Per la polizia.
Ma oggi siamo in grado di ricostruire le circostanze che precedettero la scomparsa di Marjorie B.
Da dieci anni, Marje per gli intimi, quarantacinque anni al momento della scomparsa, viveva separata di fatto ma non divorziata dal marito Malcolm, il re dei fast food residente nel New England. Lei si era installata a Santa Monica sulla costa del Pacifico, mettendo tra loro due tutta la larghezza del continente. Non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla sua indipendenza e viveva senza preoccupazioni.
Sino al giorno in cui ricevette dalla sua amica e rivale Shirley questo stupefacente messaggio:
“E' Fatta! L'ho fatto! Quanto tempo che ci pensavo! Non te ne ho parlato per farti una sorpresa. E non dubito che sarai sorpresa, Marjorie, ho fatto clonare Jef. E Jef è estasiato. Lo diverte tanto vedersi altrimenti che in immagine nello specchio!”
Jef era il marito di Shirley.
Che folle idea! Non che il costo fosse un ostacolo per una donna come Shirley che aveva fatto fortuna nei cosmetici, ma Marje trovava un uomo già abbastanza ingombrante.
Shirley era sempre stata un'originale. Passi, ma a quale impulso obbediva quest'ultima originalità? Tra due sorsi di Earl Gray Marje si batte la fronte. “Ma sono scema? Non mi ha confessato una sera che aveva un po' abusato dei cocktail, che aveva certe voglie? Alla sua età? Cinquant'anni, cinquantadue per l'esattezza. E' vero che ha, vediamo, dodici anni meno di suo marito. Ma certo! Si è offerta a fianco del suo vecchio barbogio, un giovane amante. Un menage a tre in piena legalità!”
Poiché questo ormai era deciso. A quali condizioni? Non ricordava bene, sembrava molto complicato, ma la cosa più importante era dimostrare agli amici, ai conoscenti, a Shirley che lei, Marjorie, aveva anche lei i mezzi per una simile stravaganza, e che non sarebbe rimasta indietro.
E dopotutto, perché non sperimentare queste nuove tecnologie che facevano furore? Clonare? Si ma chi? Sarebbe stato assurdo far fare una copia identica di uno dei suoi domestici. Non si clona un robot, se ne compra un altro, dell'ultima generazione. E d'altronde la qualità dei loro servizi lasciava a desiderare, non c'era alcuna ragione di duplicare il presente personale.
Alla fine, per fare un esperimento senza troppe conseguenze, fece clonare Pipo, il suo pappagallo e Bobby, il suo cocker.
Per un momento si divertì, ma poi scoprì che due pappagalli erano gelosi, si detestavano e passavano il tempo a insultarsi scambiandosi nomi...d'uccello. Chi gli aveva insegnato queste volgarità? Non potevano essere che i robodomestici che a forza di frequentare i loro datori di lavoro, manifestavano qualche malizia, per non dire una certa perversità. Fortunatamente i due volatili erano legati ciascuno dal suo lato del posatoio, altrimenti ne sarebbero volate di piume!
In compenso, tutto era andato bene coi cocker, due amori! Un successo su due, il bilancio non sembrava così cattivo.
Era abbastanza?
No, invecchiata tra i suoi uccelli, i suoi robot, i suoi cani, a dire il vero ne aveva abbastanza di partite a poker, di ricevimenti, di pettegolezzi del jet-set. Ne aveva abbastanza di quelle maschere di carnevale, di quelle vecchie facce oltraggiosamente impiastricciate, raffazzonate. Provava delle crisi di noia, facendosi vincere da un sentimento di un'altra epoca, quella malinconia di cui soffriva sua madre e che aveva forse ereditato.
“Quel che mi manca”, si diceva, “E' una dama di compagnia né troppo giovane né troppo anziana. Con lei si sarebbe potuta confidare senza riserve.
Ma dove trovare la perla che non avrebbe tradito la sua confidenza?
A forza di pensarci, ci perdeva il sonno.
Una notte prese la decisione, si sarebbe fatta clonare lei stessa.
“Dopotutto”, pensò, “Il dialogo migliore non è quello che ciascuno di noi intrattiene con se stesso?”
Il mese precedente aveva proceduto al cleaning cellulare annuale che eliminava le scorie il cui accumulo nell'organismo provoca l'invecchiamento. Nell'immediato non rischiava niente. Oltre al mensile (generoso, bisognava riconoscerlo) che le versava Malcolm, disponeva di una fortuna personale. Godeva di una salute tanto più robusta in quanto non aveva mai toccato gli intrugli prodotti dal marito. Al riguardo, Dump, il suo robot cuoco aveva istruzioni precise.
Da molto tempo si era passati dalla clonazione terapeutica alla clonazione riproduttiva. La scienza aveva eliminato tutti i rischi di anomalie nei mammiferi così ottenuti, era facile quanto riprodurre una pianta per talea. Ormai le donne potevano liberarsi dell'impaccio della gravidanza e del parto. Era sufficiente praticare il trasferimento nucleare, si prelevava dal donatore una cellula che produceva un embrione assicurando una perfetta compatibilità genetica con l'originale. L'embrione si sviluppava dentro un utero artificiale, poi proseguiva la sua crescita dentro un'incubatrice altrettanto artificiale.
Marjorie non aveva alcuna intenzione di occuparsi di un bambino. Questi esseri, immaturi per definizione, non tardano a diventare degli estranei, quando non si rivoltano contro di voi.
Grazie all'AMP (Accelerated Maturation Process), coloro che non desideravano passare per il lento processo che prevede la natura – almeno fino all'adolescenza – potevano ottenere la copia conforme in nove mesi, cioè curiosamente la durata di una gravidanza nell'utero all'antica.
In seguito, bastava fare un trasferimento di memoria come nell'informatica, si risparmiava dunque il lungo processo di apprendistato che rappresenta l'infanzia, e molto presto li si poteva trattare da pari a pari.
Scegliere la fascia d'età al momento di fare l'ordine, si dimostrava la cosa più delicata. La preferenza per la tenera infanzia era la più lontana da Marjorie che l'attribuiva al sentimentalismo di un'altra epoca. Poi veniva la fascia dei 18-20 anni. Non era la più adatta al dialogo, come comprendersi con un doppio di quella generazione? Senza parlare dei rischi di conflitto.
Optò per la fascia dei 30-40 anni. In effetti, oltre c'erano anche rischi di conflitto, poiché allora i caratteri erano troppo consolidati.
Non erano trascorsi tre mesi, che già aveva fretta di vedere il suo progetto prendere corpo.

Alla data prevista le fu infine consegnata la copia richiesta.
Stentò a riconoscersi. Quella creatura era lei a trent'anni?
Riesumò le sue foto tridimensionali dell'epoca, poi il suo ritratto a olio dovuto al pennello di Boris Chudka, artista alla moda. Buon Dio, era così cambiata? La tela non era necessariamente una prova, il pittore poteva avere un po' adulato la modella.
Finì per convincersi che dopotutto il clone doveva rendere un'immagine molto fedele dei suoi trent'anni, e in un certo senso (ma quale?), era più Marjorie che lei stessa.
Bene, avrebbe rivissuto per clone interposto i suoi begli anni, tranne che per l'imbarazzante presenza di un marito.
Era promettente, stavano per condividere gli stessi ricordi, li si poteva evocare davanti a una tazza di thé o in un giorno di pioggia. Sarebbe stato divertente, anche commovente.
Dear me! Ecco! Mia cara! Cara me! In questo gioco di parole Marjorie aveva trovato i termini affettuosi con cui rivolgersi a...
Colei a cui si doveva dare il doppio nome previsto dalla legge. Questa prevedeva in effetti che il clone portasse per primo il nome del suo originale – Marjorie quindi – e un secondo solo suo che permettesse di distinguerlo a tutti i fini utili.
Il vantaggio era che si poteva fare questa scelta in pieno accordo con l'interessata... che si sarebbe chiamata Lisbeth.
Ebbene, non andava così male. Quando si trattava di ravvivare i ricordi, ad esempio:
-         Dear me, ti ricordi le vacanze a Lake Placid negli Adirondacks e le gare di slittino?
-         Ah! Si!, faceva Lisbeth, che non si ritrovava ancora bene fra i meandri del passato.
Marjorie insisteva
-         E Alf? Te ne ricordi?
-         Alf? Scusami, non molto bene.
-         Ma si, fai uno sforzo...quando i nostri due slittini si sono incrociati. Alf, un caro ragazzo, ben fatto di persona, se non l'avessi scioccamente perso di vista, è lui che avrei dovuto sposare. Tutto sarebbe andato diversamente. Non ti pare?
Lisbeth faceva di si con la testa, per semplificare.
Non si può modificare il passato, ma lo si può condividere con la propria migliore amica, con se stessa insomma.
A ogni modo, una situazione così nuova sollevava tanti problemi che non c'era il tempo di annoiarsi.
Per quello c'erano gli affari, notoriamente.
Marjorie aveva una lunga esperienza in questo campo dove Lisbeth doveva trovare il suo posto, ma quale?
Nell'ambito di quello che la legge definiva ormai con il nuovo concetto di dual company, E' così che le due donne crearono la Marje and Marje C° che non tardò a prosperare. Marje one era un'esperta in materia, e Marje two alla sua buona scuola apprendeva presto.
Lisbeth è una donna intelligente, constatava Marje one, avendo però coscienza di indirizzare il complimento a se stessa. Bah, dopotutto, quali sono le relazioni umane che non sono condite da una dose di ambiguità?
Oh si, c'era ogni tanto qualche motivo di attrito. La precedenza, tra gli altri, Marjorie one insisteva per passare per prima in quanto più anziana. Lisbeth che acquistava man mano sicurezza, mal sopportava di essere messa in secondo piano.
“L'anzianità non c'entra”, diceva, “Se io sono te, noi passiamo insieme, se possibile fianco a fianco”.
Marjorie stimava che era suo dovere e suo interesse aiutare la sua compagna ad arricchire le sue conoscenze e dunque il contenuto della sua memoria, a integrare bene il loro passato, in una parola crearsi dei ricordi in simbiosi coi suoi.
Nello stesso tempo le piaceva mostrare e far ammirare la sua opera. Le sue amiche erano estasiate. “Che coppia adorabile formate voi due!”.
Cosa dicevano dietro le spalle? Marjorie se ne fregava.

“Lisbeth è una piccola oca!”
Entrata una mattina nella veranda dove aveva relegato i due pappagalli litigiosi, Marjorie fu accolta da questo doppio grido.
Si chiese se avesse sentito bene.
Subito Pipo uno e Pipo due ripeterono all'unisono:
“Lisbeth è una piccola oca!”
Ritti sul loro posatoio e battendo le ali, avevano un'aria molto contenta di sé.
 Chi aveva insegnato loro questa villania? Senza dubbio Batch, il maggiordomo, che non apprezzava affatto la doppiezza. Tuttavia Lisbeth aveva eccellenti rapporti con la maggior parte dei servitori, soprattutto il cuoco e l'autista della signora, o meglio delle signore, padroneggiava meglio di Marjorie one il robotico, il linguaggio utilizzato per rivolgersi al personale.
C'era però nel caso dei pappagalli un mistero che si propose di risolvere. Intanto, avrebbe osservato più da vicino il comportamento della sua compagna.
Lisbeth mostrava una curiosità sempre sveglia, sembrava interessarsi molto alla storia, aveva letto i libri (cartacei) che Marjorie conservava di sua nonna e che, senza aprirli, aveva sistemato sugli scaffali del suo ufficio a scopo decorativo. Il passato tornava di moda.
Disponendo di una memoria tutta nuova, Lisbeth non solo apprendeva presto, ma talvolta si ricordava di episodi che Marjorie aveva dimenticato o anche – cosa più inquietante – di episodi che aveva rimosso, come i tradimenti di quel farfallone di suo marito. Lisbeth ci prese presto un maligno gusto a rievocare queste disavventure e a fare a questo riguardo domande indiscrete, col pretesto che doveva sapere tutto della loro vita comune.

La copia guadagnava man mano ascendente sull'originale. Più si andava avanti, più si compiaceva di apportare delle contraddizioni. Si vestiva in modo provocante, preferendo il giallo, colore che Marjorie detestava.
Al punto che lei, indispettita, le chiese un giorno:
“In definitiva, cosa vuoi?”
“Vivere la mia vita, essere me stessa, farmi dei ricordi, dei ricordi solo miei”.
“Quello che vuole”, pensò Marjorie, “E' condurre parallelamente alla nostra vita comune una vita segreta”.
Pensò bene di protestare:
Dear me, tu sei il mio sangue, la mia carne!”
Dicendo questo, Marjorie si accorse di comportarsi come avrebbe fatto con un figlio. Lisbeth non mancò di ribattere:
“Io non sono tua figlia, io sono il tuo doppio, la tua ombra, io non sono niente”.
“Noi siamo come delle gemelle, le gemelle vivono ciascuna la sua vita, ma hanno dei legami tali che niente le può separare”.
Ma Lisbeth aveva studiato la questione sulle migliori fonti. Replicò:
“Tra i veri gemelli detti omozigoti, il tasso di completa somiglianza fenotipica non è generalmente superiore al 50%”.
E aggiunge:
“E noi non entriamo senza dubbio in questa percentuale. Come puoi constatare, tra me e te non c'è una totale identità psicologica”.
Cosa rispondere se non tentare di capire meglio da una parte le differenze, dall'altra quel che restava di terreno comune?

E presto fu evidente che Lisbeth si interessava agli uomini.
Da allora, Marjorie non ebbe più che un'ossessione: cercare colui che le avrebbe rubato l'affetto di Dear me.
Si introdusse nella camera della sua gemella in sua assenza, aprì il suo computer-fono e cominciò a navigare.
Un file la colpì, era indicato con una sola lettera: “M”.
Ah, ah, ah! Eccoci! MManMisterMartinMichael
Ebbe qualche difficoltà ad aprirlo, infine ci riuscì.
“Le mie memorie”, annuncia la voce di Lisbeth. Marjorie sussulta. La voce prosegue:
“Sono nata da padre ignoto, si sarebbe detto un tempo. Di fatto, il mio padre naturale, di cui tacerò il nome, è stato uno degli uomini più illustri del suo tempo, io sono cresciuta nella sua ombra. Mia madre in compenso era una donna insignificante di cui non è utile menzionare l'identità, così insignificante che mio padre non si è mai dato la pena di “regolarizzare la situazione” secondo il curioso frasario dell'epoca. “Un errore di gioventù”, confessava le rare volte che si lasciava andare a confidenze”.
“Bene”, pensò Marjorie mezza rassicurata, “Sta dettando un romanzo. Strano passatempo ai nostri giorni. Ha letto troppi di questi cattivi tomi”.
In queste presunte memorie dove, beninteso, Lisbeth immaginava per intero il suo “passato”, non c'era il problema di una seconda Marjorie. Lisbeth sopprimeva così colei a cui doveva la sua esistenza. Una sorta di matricidio, di assassino morale. Il vostro clone è come vostro figlio, Si domandava Marjorie che aveva pure sentito parlare di un certo Freud le cui idee bizzarre avevano un tempo fatto furore. Un clone, per essere se stesso, doveva uccidere il suo genitore?
Ma subì un nuovo shock quando sullo schermo tridimensionale apparve l'immagine di un uomo. Senza alcun dubbio, era quella di Malcolm, suo marito, assieme a una bambina di sette-otto anni. Chi era quella piccola? Marjorie si ricordò, era Felicity, una delle sue nipoti. Febbrilmente, Marjorie ingrandì l'immagine cercando di identificare meglio la bambina che somigliava...a chi? Una nipote. Normale che avesse un'aria di famiglia, che somigliasse a...Ma si, ma si, alla stessa Marjorie a quell'età.
Vediamo, vediamo. Quest'aria di famiglia era un dettaglio di cui non si ricordava, ma quello che vedeva, era che la piccola aveva la faccia che avrebbe avuto Lisbeth supponendo che avesse mai avuto sette od otto anni.
Cos'era accaduto? Lisbeth aveva sicuramente manipolato l'immagine. A che scopo? Aveva forse indovinato che Marjorie avrebbe conoscenza per effrazione del file?
Ma perché andare a cercare proprio Malcolm come padre sostitutivo? Lisbeth aveva fatto cadere la sua scelta sull'uomo che aveva per così dire a disposizione, il marito di quella che dopotutto era la sua madre biologica.
Divisa fra lo shock delle aggressioni che stava subendo e la curiosità, scelse di continuare e riprese la sua navigazione.
Finì per scoprire un altro file intitolato CLOWN. Per un attimo esitò ad aprirlo. Cosa poteva apprendere ancora?
Ci si tuffò.
Le confessioni di un clown cominciavano così:
“Spettatore troppo curioso, mi perdonerai un brutto gioco di parole, ma la ragion d'essere di un clone è talvolta di distrarre il suo originale. Mi si permetterà questa parentesi. Originale, ho detestato a lungo questa parola. Poi mi sono persuasa che la seconda prova dà spesso migliori risultati della prima. Fine della parentesi. Rimane nondimeno il fatto che un clone è più o meno l'equivalente di un buffone per i re di un tempo, un clown”.
Marjorie non andò oltre. Il tono pretenzioso di quella frase ancora ispirata a quei dannati vecchi tomi, l'esasperava.
Si persuase che le memorie non le avrebbero detto altro sul rapporto fra Lisbeth e gli uomini.
Ma una domanda la tormentava: a quale spettatore o lettore pensava il suo doppio? Era forzata a rispondere “Sono io!”
Eccola confrontarsi con quella rivolta che aveva creduto di evitare scegliendo la fascia dei 30-40 anni.
Poi le cose sono andate molto in fretta.

Frattanto Lisbeth prese a dormire fuori casa, e non si preoccupava di disfare il suo letto. Marjorie la fece seguire da un detective.
Dear me aveva affittato uno studio.
Il computer era anch'esso scomparso. Senza dubbio Lisbeth l'aveva portato sul luogo dei suoi amori dove continuava a dettare le sue memorie. Peccato, si sarebbero rivelate ancora più gustose.
Poi sfuggendo a ogni sorveglianza, Lisbeth sparì di punto in bianco.
Occorsero tre mesi a Switch, indagini di tutti i tipi, per ritrovare le sue tracce sulla costa orientale.
Marjorie scattò:
“Sulla costa orientale? E' sicuro? Io credo che lei abbia affidato questo lavoro a uno dei suoi robocop. E' assurdo. Come potrebbe un automa comprendere le molle dello spirito umano? Dell'anima (le venne da recuperare questa parola caduta in desuetudine)?”
“Signora, Bug è uno dei nostri migliori segugi, è incaricato unicamente dei ritrovamenti, e non di interpretare i sentimenti o le motivazioni delle persone ricercate”.
“Non è possibile che usando il linguaggio robotico si rischi qualche errore di interpretazione?”
“Sono dell'ordine del due per mille, si può dire che sono trascurabili, come può giudicare lei stessa”.
“Ha detto costa orientale, dove precisamente?”
“Boston”.
“Vuole insinuare...?”
“Signora, sembra che sia andata alla ricerca...”
“Tagli corto!”
“Di suo marito che...”
“È in qualche modo anche il suo”.
Restava da ottenere una conferma, che non tardò. Marjorie two tradiva Marjorie one con Malcolm che doveva essere molto divertito dalla faccenda. Tradiva, si se la parola aveva ancora un senso. Ma la tradiva veramente, poiché le due donne sotto un certo punto di vista legale non erano che una sola e stessa persona?
D'altra parte, poiché tra Marjorie one e suo marito non c'era né divorzio né alcuna altra forma di separazione legale, Marjorie one si voleva convincere che lui era semplicemente adultero. Voleva approfittarne per intraprendere un'azione legale e tentare di rompere l'ultimo legame con lui, quando apprese che Malcolm aveva preso l'iniziativa e, su parere del suo consulente legale, pretendeva di sposare legalmente la sua compagna, avvalersi di un nuovo status che ormai la legge prevedeva, l'ambigamia.
L'avvocato di Marjorie alzò le braccia al cielo.
“Cara signora, cos'è una persona umana? E' molto tempo che si tenta di darne una definizione, e non si è mai arrivati a una che mettesse tutti d'accordo”.
“Ma nel nostro caso...”
“La Corte suprema ha ritenuto di pronunciarsi in questo senso: il doppio e l'originale sono la stessa personalità (noti la sfumatura), se hanno lo stesso partner non è bigamia né adulterio...Lei perderà la causa”.
Così avevano trovato una formula che permetteva tutto e qualsiasi cosa, l'ambigamia, si ripeteva Marjorie con amarezza. Cercava di rassegnarsi: c'erano gli ambidestri, i bisessuali, i poligami, perché non gli ambigami? Cosa avrebbero detto nonno e nonna se avessero visto questo? E il prozio Timothy che era pastore cristiano rinato?

Da parte sua, l'ispettore Martinez aveva compreso la relazione tra le due Marjorie. Pensava che quel giorno fatidico Marjorie one aveva rifiutato l'aiuto di Caronte perché lo sospettava di connivenza con Lisbeth, e sospettava Lisbeth di aver ordinato a Caronte di sabotare la guida automatica per sbarazzarsi dell'originale e vivere infine la sua vita. Ma all'epoca non disponeva di alcun elemento di prova.
Rassegnato, aveva detto a sua moglie:
Gelosia, amore, odio. Possiamo darci da fare quanto vogliamo, restiamo dei primati.
Chiuso il caso, Lisbeth, che si dimostrava un'abile donna di affari, piantò il suo amante Malcolm, ereditò da colei che le aveva dato la vita, e fondò una nuova società tuttora quotata a Wall Street, la Marje Ldt.

  (Traduzione dal francese di Fabio Calabrese)