venerdì 27 dicembre 2013

L'OSPITE di Fabio Calabrese



A John Londra non piaceva, la trovava una città sporca, brutta, maleodorante, sovraffollata, lo infastidivano la volgarità e la sordidezza che si potevano scorgere a ogni angolo, la fuliggine e i fumi carichi di scorie che riempivano a ogni momento l'aria e che nelle giornate nebbiose, tutt'altro che rare, si trasformavano in una cappa greve e untuosa che avvolgeva ogni cosa, le piaghe e gli stracci che si scorgevano per ogni dove, le prostitute agli angoli delle strade con le facce pesantemente truccate fino a sembrare delle maschere, gli ubriachi dall'alito nauseabondo, l'odore di corpi umani sudati, di orina, di vomito, di sterco di cavallo che si diffondeva per ogni dove e ristagnava soprattutto nelle giornate in cui l'aria era immobile.
D'altra parte, era proprio in quella formicolante umanità, che John poteva più facilmente trovare senza dare troppo nell'occhio quel che gli serviva.
I lampionai erano passati da poco ed avevano acceso le smorte fiammelle dei lampioni a gas, quel sistema d'illuminazione introdotto da qualche anno e che era vantato come una delle meraviglie della capitale britannica, ma a John sembrava che servisse soltanto a trarre dagli angoli smorti dei palazzi e dalle stradine buie ombre ancora più tetre.
Un rumore di zoccoli frenetici sull'acciottolato lo costrinse ad appiattirsi contro il muro, mentre una carrozza, una vettura di piazza trainata da una pariglia di cavalli che il cocchiere sferzava senza pietà, gli passava rasente nella strada stretta.
Quei vetturini, gli venne da pensare, erano dei veri incoscienti, capaci di correre il rischio di ammazzare qualcuno per pochi scellini in più, pur di accontentare un cliente presumibilmente danaroso che avesse fretta, magari per arrivare in tempo a qualche appuntamento galante.
Poco più avanti scorse l'insegna di uno slum, di un'osteria: non se ne distingueva bene il nome, perché le due lanterne affissi ai lati dell'architrave della porta emettevano una luce fioca contornata da ombre strane. Non che la cosa facesse molta differenza: l'una di quelle tane valeva l'altra. Avvicinandosi, l'odore di alcool, di orina, di vomito che impestava il vicolo e tutto il quartiere, si faceva più forte e dava un'idea precisa di come il proletariato londinese, o almeno la componente maschile di esso, consumasse il poco tempo libero di cui disponeva.
Spinse il battente della porta ed entrò. Fu subito investito da un'aria greve e fumosa, dove il fumo delle candele si mischiava a quello del tabacco. L'ambiente era male illuminato, uno stanzone lungo, buio e stretto, con in fondo il banco delle mescite e  tavoli e sedie disposti in due lunghe file affollati di uomini intenti a bere, a vuotare uno dopo l'altro boccali di birra, a ruttare, a imprecare, qualcuno a giocare con certe carte bisunte e quasi indecifrabili.  
Le persone che John vedeva nella penombra fumosa erano quasi tutti uomini, eccetto qualche ragazza abbigliata e truccata in maniera vistosa, certamente prostitute in cerca di clienti.
Gli uomini erano operai abbrutiti dal lavoro massacrante e dalla miseria. Guardandoli, John capiva che la prospera borghesia londinese stava accumulando un debito sempre più pesante nei loro confronti, un debito che un giorno avrebbe pagato con gli interessi, e sarebbe stata dura. Ma non erano il tipo di uomini che cercava.
John stava per uscire, quando lo scorse, un uomo seduto quasi in fondo allo stanzone, seduto a un tavolo davanti a un boccale e una bottiglia di birra che stava metodicamente vuotando: era, lo si vedeva subito, di una categoria diversa dagli altri avventori: aveva i lineamenti più fini e vestiva un abito di buona fattura anche se molto consunto dall'uso, era fin troppo chiaro che era un uomo di un ambiente diverso, che aveva deciso di abbrutirsi nell'alcool per annegare qualche dispiacere.
John scivolò a fianco dell'uomo e afferrò la bottiglia che questi stava sollevando per riempire nuovamente il boccale.
“Basta, amico”, disse, “per stasera hai bevuto abbastanza”.
Istintivamente l'uomo cercò di strappare la bottiglia dalla mano di John, ma era come cercare di svellere un palo di ferro infisso nel terreno: la stretta del nuovo venuto era incredibilmente forte. L'altro fissò lo sguardo negli occhi di John; per un istante in esso fu possibile leggere un'intenzione omicida, ma si calmò subito. John lo sapeva da una lunga lista di precedenti esperienze: c'era un che di ipnotico nel suo sguardo.
L'altro uomo ebbe l'impressione che gli occhi di John fossero arrossati, no rossi, nemmeno, era come se ci fossero due aloni di luce rossastra attorno alle orbite.
“Stai cercando di annegare i tuoi guai nella birra, non è vero?, disse John con tono rilassato. “Lascia perdere, non serve a nulla, i guai sanno nuotare benissimo. Perché non provi piuttosto a parlarmene?”
La reazione dell'uomo quasi sorprese John, era come se da qualche parte fosse stato levato un tappo, era chiaro che di cose che gli gravavano sull'animo l'uomo ne aveva parecchie.
“È tutta colpa di quell'avaraccio del vecchio Phineas”, disse. E giù tutta una stura di rivelazioni.
A quanto pareva, l'uomo era un impiegato-commesso-tuttofare di uno dei negozi che si affacciavano sulle strade della City. Il padrone lo sfruttava senza riguardo, facendolo lavorare tanto e pagandolo poco, né d'altra parte gli mostrava molta riconoscenza. L'uomo, Martin Rhees, aveva detto di chiamarsi, era sposato da un paio d'anni, e lui e la moglie volevano avere un bambino, e Martin era angustiato per il poco che era riuscito a offrire alla moglie o poteva dare al figlio quando fosse arrivato. Aveva chiesto un aumento al padrone che aveva reagito malissimo, minacciando di licenziarlo per un errore che aveva appena scoperto nella contabilità. Martin si era depresso, vedendo sfumare o almeno traballare tutti i suoi sogni, peraltro modesti.
“Amico”, disse John, “ne ho visti parecchi di casi come il tuo. Tu devi sapere che ti trovi esattamente sull'orlo di un precipizio, ma sei ancora in tempo a fermarti. Mettiamo che continui a cercare il conforto di quella roba lì”. E indicò la bottiglia che aveva posato sul tavolo. “Ti dico io quello che succederà. Diventerai sempre più attaccato alla birra e ad alcolici più forti. Il tuo lavoro ne risentirà, diverrai più distratto e trascurato, farai sempre più errori, e il vecchio Phineas ti butterà in mezzo alla strada. Con tua moglie, magari le alzerai le mani addosso per sfogare la tua rabbia e il tuo senso di fallimento, ma anche se non succederà, un marito che ritorna a casa ubriaco, quando torna e non trascorre la notte dormendo sotto una panca, non è un bello spettacolo. Perderai il lavoro, perderai la famiglia, ti ridurrai a un rottame”.
“Allora cosa mi consigli di fare?”, chiese Martin.
“Per prima cosa”, rispose John, “smettere subito di bere. Ti accompagno a casa, una bella dormita e domani vedrai tutto sotto un altro aspetto. Il tuo capo ha minacciato di  licenziarti, ma puoi stare sicuro che non lo farà. È vero, le strade sono piene di disperati che ambirebbero al tuo posto di lavoro, ma nessuno lo sa fare, nessuno lo conosce come te, e penso che Phineas lo sappia. Penso che finirà per concederti l'aumento”.
“Grazie, amico”, disse Martin rinfrancato. “Io non so se te l'ho detto, ma io sono Martin, Martin Rhees, tu come ti chiami?”
“John”, rispose l'interessato.
“E di cognome?”
“Catacano”.
“Catacano? E che razza di cognome è?”
Martin era perplesso.
“E' per via di un mio antenato”, mentì John, “spagnolo o romeno, non so bene”.
“Ahhhh!”
John pagò la consumazione e accompagnò Martin fuori dal locale sorreggendolo.
Se quando era entrato nel vicolo, John era stato colpito dal cattivo odore, ora, uscendo da quella specie di antro fumoso, l'aria notturna che cominciava a farsi pungente, sembrava fresca e limpida.
“Dove andiamo?”, domandò Martin.
“Ti accompagno a casa, è ovvio”, rispose John.
Fortunatamente, l'uomo era abbastanza lucido da ricordarsi la strada, e la camminata l'avrebbe aiutato.
Non era vicinissimo ma nemmeno troppo lontano, anche se John si accorse che avevano cambiato quartiere, lì le case erano più in buono stato, avevano un aspetto più decente delle miserabili catapecchie che affollavano il quartiere operaio.
Forse sarebbe stato troppo pretendere che Martin abitasse in una villetta monofamiliare invece che in un appartamento in condominio, ma – pensò John – tutto sommato cambiava poco, raramente i vicini erano un problema.
Martin aprì il portone dopo aver cercato con una certa fatica le chiavi nella tasca, e fece strada a John. Salirono le scale fino a terzo piano.
Davanti alla soglia di casa, John si bloccò.
“Non farò più un passo”, disse, “se non mi inviti a entrare”.
“Mi sembrava implicito”, disse Martin, “va bene, entra. Sei mio ospite”.
Fece un passo oltre la soglia, seguito da John, e chiamò ad alta voce:
“Dora!”
Dora, la moglie di Martin arrivò trafelata. John vide che era una donna giovane di aspetto piacente e dall'aria delicata: bionda, con i grandi occhi azzurri che spiccavano nel viso, l'incarnato chiaro, i lineamenti sottili.
Guardandola, John si chiese una volta di più perché mai la moda di quell'epoca imponesse alle donne un abbigliamento che le infagottava.
“Martin”, disse, “per fortuna sei a casa, ero così preoccupata. È tardi ma ti ho aspettato per cenare”.
Martin indicò John.
“È tutto merito di questo gentiluomo”, disse. “Non fosse per lui, starei a rotolarmi sotto la panca di un lurido slum con la pancia piena di birra e la testa vuota”.
E cominciò a raccontare tutto quanto era successo.
Dora si rivolse direttamente a John:
“Signore”, chiese, “vuole farci l'onore di rimanere a mangiare un boccone di cena con noi?”
L'interessato pensò che fosse più opportuno non rifiutare, anche se la cosa non gli garbava per nulla.
Martin fece strada inoltrandosi nel corridoio di casa.
Passando davanti alla porta della cucina, John fu colto da un violento senso di nausea che lo costrinse ad appiattirsi contro la parete opposta. L'odore era disgustoso: in cucina doveva esserci dell'aglio.
Martin si precipitò a sorreggerlo.
“Che succede, John?”, chiese in tono premuroso.
“Niente”, rispose lui, “solo un lieve malore, ma sta già passando”.
Martin e Dora erano di buon umore, conversarono per tutta la sera. John seguiva la conversazione distrattamente, rispondendo quel tanto che era richiesto dall'educazione. Assaggiò poco il cibo, e quel poco, con l'abilità dell'abitudine, senza farsene accorgere lo passò in un fazzoletto che fece sparire in una tasca.
Terminato il pasto, e rimasto quel tanto che l'educazione richiedeva, John salutò i due ospiti ringraziandoli della piacevole serata.
Aspettò un paio d'ore, il tempo per i suoi ospiti di andare a dormire e di prendere sonno. Salì direttamente fin davanti alla finestra della camera da letto al terzo piano, in questa maniera evitava di passare per il corridoio davanti alla porta della cucina. La finestra era chiusa, ma questo non era un problema, non lo sarebbe stato neppure se avesse deciso di fare le scale passando per il portone e per la porta dell'appartamento: porte e finestre chiuse e chiavistelli non erano un problema per entrare in una casa in cui era stato invitato.
Attraversò le imposte e i vetri senza aprirli, silenziosamente, ed entrò nella stanza.
Constatò subito che non c'erano crocifissi sulla testiera del letto, immagini sacre o altri impedimenti.
Spostò la sua attenzione su Martin e Dora. I due dormivano teneramente abbracciati.
Guardandoli, John provò una sensazione di tenerezza e – per un istante – una fitta di nostalgia. L'amore era una delle cose che più gli mancavano. Da secoli.
Ma naturalmente, aveva avuto un motivo meno altruista e più personale per fare in modo che quei due se ne andassero a letto tranquilli e senza farsi cattivo sangue.

domenica 22 dicembre 2013

AUGURI SINCERI!






In occasione delle festività natalizie, è doveroso da parte mia formulare auguri e ringraziamenti a tutti i lettori di Pegasus, che ci seguono con interesse non solo dall’Italia, ma anche da diverse altre nazioni, europee ed extraeuropee; auguri e ringraziamenti a tutti gli autori, nostrani e stranieri, grazie ai quali Pegasus ha assunto, insperatamente, l’aspetto di una rivista internazionale di letteratura fantastica. 
Buon Natale a tutti.

Paolo Secondini
Cada día que pasa nuestro blog se hace más grande, gracias al empeño de todos los amigos y colaboradores de España y América Latina que han entrado en la gran familia de Pegasus, contribuyendo a su éxito. Esperamos seguir contando con el apoyo de cada uno de ellos el próximo año. En esta fecha especial, queremos expresar nuestra gratitud y desearles una feliz Navidad al lado de sus seres queridos.
(Ogni giorno che passa il nostro blog diventa più grande, grazie all’impegno di tutti gli amici e collaboratori di Spagna e America Latina che sono entrati nella grande famiglia di Pegasus, contribuendo al suo successo. Ci auguriamo di continuare a contare sul sostegno di ciascuno di loro durante il prossimo anno. In questa ricorrenza speciale, vogliamo esprimere la nostra gratitudine e augurare loro di trascorrere un buon Natale in compagnia dei propri cari.)
Giuliana Acanfora

giovedì 19 dicembre 2013

LA LOTTA CON L'ANGELO di Pierre Jean Brouillaud



Era un personaggio dinoccolato il cui sguardo non stava mai fermo. Vestito di nero, aveva un che di uomo di chiesa, compresa la tonsura. All'albergo dei quattro cammini la luce del giorno declinava dietro le tende rosse e bianche quando l'uomo cominciò il suo racconto.
“Ero diretto a ovest”, disse. “Mi restava da percorrere una mezza lega per raggiungere il cimitero dove riposano i miei antenati. Nel cielo di quel tardo pomeriggio delle nubi violacee trascinavano il loro ventre pesante sui campi dove si stagliavano in controluce delle querce mozze. Avevo perso molto tempo. Sarei arrivato prima di notte?
La sera mi sorprese in una landa desolata che gli stessi uccelli avevano abbandonato, poiché in mezzo ai giunchi non trovavano posto per i nidi. Nient'altro che una bruma acre che faceva appassire gli ultimi fiori gialli. Essa falsava le distanze e rendeva ancora più inquietanti le sagome irte dei cespugli.
Una notte senza luna finiva di oscurare il paesaggio. Io non trovavo più il sentiero. Le spine laceravano i miei abiti e quando volevo liberarmi, mi ferivano le mani.
L'oscurità s'ispessiva ancora, io proseguivo per la mia strada quando un grido salì dalla bruma, un urlo da far accapponare la pelle che mi ghiacciò il sangue, veniva da sinistra, dalla parte dove mi stavo dirigendo, dalla parte del cimitero. Gli uomini lupo! Essi andavano a caccia, alla ricerca di qualche vittima isolata. A quell'ora essi giravano fra le tombe dove brillavano i loro occhi di nictalopi, tutti i sensi acuiti dal desiderio, annusando gli effluvi della notte che portavano loro un odore di carne palpitante nelle vicinanze, la mia. Un rictus abominevole faceva scoprire loro le zanne. La fame tendeva i loro muscoli e faceva rizzare il loro pelame bruno. D'un tratto fracassarono il muro del cimitero riducendolo a un mucchio di pietre sconnesse e balzarono verso la loro preda.
Come sfuggire ai loro sensi esacerbati, al loro insondabile appetito? Fare dietrofront, nascondermi? Dove trovare un riparo su questa terra ingrata? A dieci leghe di distanza mi avrebbero trovato. In mancanza di preda sanguinante non andavano forse a dissotterrare i cadaveri per divorarli?
Tutti i terrori della mia infanzia, nutriti dai racconti dei vecchi mi risalirono in gola paralizzando le mie membra, balbettai interminabili preghiere, diedi fondo alla mia riserva di paternostri nella misura in cui il mio cervello febbricitante non li aveva dimenticati, mi feci il segno della croce dieci volte, venti volte.
Le urla si avvicinavano inesorabilmente. Scappare a gambe levate non serviva a niente, non toccando terra, gli uomini lupo correvano molto più veloci di me. In un istante mi avrebbero acchiappato, stavano per piombare sulla loro vittima. Mi torsi le mani dalla disperazione.
Inciampai, caddi in un fosso dove ristagnava l'acqua piovana. Là mi rannicchiai. Restare lì? Quel buco vischioso, maleodorante era la mia ultima speranza? Mi avrebbe nascosto alla loro vista, al loro olfatto? O mi avrebbe lasciato senza difesa all'orrore? Rifugio irrisorio, quella cloaca, ma non avevo più la forza di uscirne.
Arrivavano. Erano là, su di me. Più neri della notte contro cui stagliavano le loro membra muscolose e villose, i loro musi irsuti. Spiccavano solo gli occhi dove luccicavano delle fiammelle verdastre, occhi come fuochi fatui. Le gole emettevano un alito bruciante con un sentore di forgia. Vidi una lingua di un rosso scuro fosforescente che leccava delle labbra bluastre.
Sopra di me le mascelle battevano.
E mi accorsi che ero stato ingannato dalla mia immaginazione angosciata. Vicino a me non c'era traccia di uomini lupo.
Le grida, se erano reali, si allontanavano.
Infine mi tolsi di lì.
Il vento si alzava ghiacciato, mi colpiva il viso. Portava un fetore di putredine, non perché veniva dal cimitero, quello che trasportava era l'odore degli uomini lupo. Allora capii di essere fortunato, poiché il vento soffiava nella mia direzione, mi sottraeva al fiuto dei miei cacciatori.
Infatti le grida non tardarono a spostarsi verso destra, verso lo stagno del Granduca dove i mostri andavano ogni notte a placare la loro sete smodata.
Caddi in ginocchio.
Spinto dalla vergogna, avevo finito per controllare la mia paura. Se essi non avessero trovato la mia traccia, per stizza sarebbero tornati al cimitero per sfogare la loro fame sui cadaveri. Si trovavano talvolta delle tombe aperte, delle bare vuote tranne che per qualche ossame rosicchiato, qualche avanzo. Nell'egoismo della paura che mi aveva attanagliato poco prima, io avrei lasciato loro volentieri i resti dei miei antenati.
Se i mostri deviavano dal mio cammino, io avevo una possibilità, ben debole ancora, ma una possibilità di raggiungere il poggio vicino e la sua via crucis e mettermi sotto la protezione della croce.
Tutto a un tratto il cielo dalla parte dello stagno fu striato da luci sulfuree che mettevano in risalto le sagome dei giunchi. Le urla ripresero correndo come un incendio sulla landa. Cielo e terra se ne rinviavano l'eco.
Allora apparvero al posto delle nubi, delle forme di brandelli sanguinolenti che si stiravano, si contorcevano, si attorcigliavano le une sulle altre, si fondevano, sembravano divorarsi a vicenda per fondersi tra rantoli e gemiti. Talvolta prendevano dei contorni riconoscibili. Vedevo dei serpenti, dei draghi che sputavano il loro fuoco, dei tori dai dorsi mostruosi le cui corna sventravano la notte, degli stalloni impennati dalla criniera di fuoco, ogni sorta di animali favolosi. La notte gridava tutta la sofferenza del mondo in preda al male e in attesa di riscatto. Sarei sopravvissuto ancora abbastanza a lungo per non soccombere con l'anima pesante di tutti i miei peccati?
Ero sfuggito agli uomini lupo per incappare nell'ora dell'apocalisse? Vedevo l'Orda. Quelli che la vedono, dicevano i vecchi, non hanno più di un'ora da vivere. Questa volta, l'orrendo spettacolo non era il prodotto della mia immaginazione, persisteva nei miei occhi sbarrati. Stavolta non avevo scampo. Sentii i capelli che mi si rizzavano sulla testa, e nonostante la frescura della notte, il sudore ruscellava lungo la mia schiena. Le mie gambe erano di nuovo deboli. Strinsi i denti per non sentirli battere.
Infine mi sembrò di vedere un chiarore  in un angolo del cielo, un lucore irradiato dalla luna che restava velata.
Lentamente, l'Orda si spostava verso ovest. Subito il tumulto si attenua, si allontana per svanire infine. Non era a me che dava la caccia. Il cielo grigio scuro si stendeva senza stelle dietro la cortina di bruma. Oltre il chiarore che persisteva all'est, al livello dell'orizzonte, un lucore biancastro sorto dal nulla sembrava muoversi verso di me. Raccolsi il mio coraggio per affrontare questa nuova prova.
Una forma uscì dalla bruma, aveva riflessi d'argento. Distinsi il corpo, poi le ali. Riconobbi colui la cui venuta senza dubbio era stata annunciata dall'Orda, l'angelo della morte. E curiosamente, stavolta non ebbi alcuna paura.
“Cosa vuoi?”, gli chiesi con una voce la cui fermezza mi sorprese, “l'ora è arrivata?”
“Si”, mi rispose.
“Sono pronto”.
Curiosamente, era vestito di bianco alla maniera di un cavaliere, si sarebbe detto che portasse una corazza, ma che doveva essere di un'estrema leggerezza. Sulla testa nuda brillavano i suoi lunghi capelli biondi. Riprese a parlare:
“Questo non è che il nostro primo incontro. Ti lascio una possibilità, a una condizione: dobbiamo batterci”.
Una lotta con l'angelo? Che speranza avevo di vincere? L'impresa era disperata!
“Se vinci”, disse, “otterrai un rinvio”.
“Per quanto tempo?”
“Fino al nostro prossimo incontro”.
“E in quel momento?”
“Avrai una seconda possibilità, poi se vincerai, una terza che sarà l'ultima”.
“Di quanto saranno intervallati i nostri incontri?”
“Nessun mortale lo sa prima di trovarmi sulla sua strada. Accetti?”
Per debole che fosse la mia speranza,perché non tentare? Avevo vinto la paura.
Forte di questa vittoria, raccolsi la sfida. Per formidabile che fosse il mio avversario, aveva preso forma, una forma che tutto sommato non era inumana. Io potevo confrontarmi con lui anche se le mie speranze di batterlo restavano infime. Sarei stato battuto ma in questa lotta prima di perire avrei guadagnato il rispetto di me stesso, riscattato i miei errori e soprattutto le mie debolezze. L'avversario era degno di me, sarei stato degno di lui? Come saperlo senza lottare? Non ho mai provato come in quel momento una furiosa voglia di vivere. La bestia in noi che sfodera tutte le sue unghie, tutti i suoi denti.
“Accetto. Che Dio mi aiuti!”
“Preparati”.
L'angelo indietreggiò. Non che facesse qualche passo indietro, perché non toccava terra. Come per evitare di abbagliarmi e dare un sembiante di uguaglianza, ridusse il fulgore della sua figura. A dire il vero, al primo contatto entrai nell'alone che lo circondava e ormai avvolgeva tutti e due.
La lotta fu di un'estrema violenza. Tanto più che non riuscivo a vedere il viso dell'angelo, io non vedevo che la sua capigliatura. Essa gettava una luminosità più viva dell'alone dove si inscriveva il nostro corpo a corpo, essa faceva vibrare fra le mie mani delle lunette d'argento. Io ero ancora robusto a quell'epoca. Le molte prove che avevo attraversato –  il cielo non mi aveva risparmiato niente – avevano indurito la mia carcassa. Vedendo che resistevo, credetti di sorpassare i miei limiti, mi sentivo posseduto da una volontà spaventosa, malsana, empia di salvare la mia miserabile pelle e – perché negarlo? – da un desiderio di vincere dove dominava l'orgoglio.
Il mio avversario aveva dalla sua tutta la forza dell'aldilà. Era difficile da afferrare, scivolava tra le dita. D'un tratto aveva il peso del piombo o quello della piuma. I suo corpo emanava un freddo che in ogni caso faceva lasciare la presa. E anche quando non pesava niente, il suo pugno era di ferro. Mi piegava come un cestaio un filo di giunco. Cento volte avrei creduto che mi avrebbe spezzato la schiena, rotto la nuca, squartato. Ma no, resistevo. Avevo la sensazione che non spingesse a fondo il suo vantaggio. Cosciente della sua superiorità, certo di vincere, faceva durare la prova. Compresi allora quello che voleva da me: che io chiedessi grazia, che capitolassi, che riconoscessi la mia sconfitta. Invece di uccidermi, cosa che per lui sarebbe stata facile, voleva che accettassi, che sollecitassi la morte.
Davanti alla potenza di un tale avversario le forze mi abbandonavano. La mia volontà si piegava, la crudele coscienza dei miei peccati che mi rodeva, l'indeboliva ancora di più. Stavo per soccombere. Con un'ultima presa irresistibile, l'angelo mi aveva gettato a terra. Il freddo della morte mi raggiungeva.
Allora vidi il viso dell'angelo, o piuttosto vidi il mio, poiché l'angelo aveva preso i miei lineamenti. Compresi che ero perduto. Che potevo fare? Recitai un'ultima preghiera, più vibrante ancora.
Di colpo mi trovai solo nella landa. Il giorno spuntava. La bruma si alzava. Il mio avversario era scomparso. Dopo questa avventura non si è più manifestato. Ma la sfida è ancora in corso. Viene l'ora dell'ultimo incontro. Io sono pronto”.
Un colpo di vento aprì la finestra sulla notte, fece battere le tende, soffiò sulle candele che crepitarono. Si fece silenzio intorno alla tavola. L'angelo passò.

(Traduzione dal francese di Fabio Calabrese)

martedì 17 dicembre 2013

RECENSIONE di Giuseppe Novellino




AA. VV. NATALE A FERRAGOSTO - Edizione: Associazione Culturale PescePirata

     L’antologia comincia con un racconto di Massimiliano Tosarelli e termina con un altro dello stesso autore. Ed ecco i rispettivi titoli: “Babbo Natale è un tossico”, “Babbo natale è morto”. Non rompo le uova nel paniere del lettore se dico che le due narrazioni contengono lo stesso personaggio e fanno in qualche modo da cornice a tutta la raccolta. I due titoli, comunque, rinforzano quello della copertina e contribuiscono a far trapelare il programma dell’opera. Tutta da leggere, compresa la bella ma “inutile” presentazione di Gianni Solla.
     E veniamo a questo fatidico contenuto. Intanto c’è un po’ di tutto, come in ogni antologia che si rispetti: narrazioni a volte discordanti, stili diversi, modi di intendere l’arte e la vita (con un termine tecnico si direbbe poetica) che spesso si contrappongono. Eppure c’è, come sempre in ogni antologia che si rispetti, appunto, un filo conduttore che non sta solo nell’idea che Babbo Natale, pur essendo un mito, è ormai da considerarsi alla stregua di uno yogurt scaduto; ma anche nel fatto che tutte le storie, quale più quale meno, hanno a che vedere con il genere fantastico. A volte abbiamo dei veri e propri horror, oppure dei racconti di fantascienza; in altri casi ci imbattiamo in un alone fantastico che nasce non solo dalla mente di chi è messo a dura prova nel sopportare il ricorrente e invernale clima festaiolo, ma anche dal clima stesso, la cui insulsaggine sentimentalconsumistica non può che generare mostri agli occhi di chi li sa vedere.
     Il natale (lo scrivo qui volutamente con la lettera minuscola), grazie a questi racconti, fa la parodia di se stesso, con i suoi orpelli e le sue atmosfere mielose. Il tutto con una buona dose di dissacrazione. Troviamo, sotto il solito rosso costume, un Babbo Natale assassino e squartatore; incontriamo bimbi sadicamente razzisti che giocano con i pupazzi di neve; scopriamo che le statuine del presepe, soprattutto le madonne, hanno qualche problema; sperimentiamo la struggente situazione di una bimba di cinque anni che chiede a Babbo Natale un insolito regalo. Queste alcune delle tematiche. Ma poi si violano i confini del tempo e dello spazio: si va su altri mondi, si respira l’aria natalizia in pieno luglio, ci si ritrova perfino sul fronte orientale, il 24 dicembre 1943, sotto il tiro dei T-34 sovietici.
     Ma che cosa viene dissacrato, in buona sostanza? Non il Natale nel suo significato escatologico, sul quale si sospende umilmente, o per onesto agnosticismo o per altrettanta onesta fede, il giudizio. Piuttosto il Natale come festa dell’uomo occidentale, il quale cerca in esso un improbabile diversivo alle pene esistenziali e quotidiane. Allora non funziona più tanto bene, perché qualcosa sembra ormai essersi inceppato. La pubblicità del panettone è rimasta l’unica vera protagonista.
     In conclusione, mi va di elencare i nomi degli autori, in ordine di apparizione:
Massimiliano Tosarelli, Stefano Pallante, Vito Pirrò, Giuliana Acanfora, Antonio Ognibene, Giuseppe Novellino, Elena Baldisseri, Anna Giraldo, Mara Munerati, Riccardo Giacchi, Caterina Gala, Marco Viggi, Guido Anselmi.
     I quali vi augurano, più che buon Natale, una buona lettura!

lunedì 16 dicembre 2013

BEATO ANGELICO di Giuseppe C. Budetta



      Per un fenomeno di non-località legato alla meccanica quantistica secondo l’equazione di Scrhödinger, l’affresco il giorno prima compiuto ebbe una profonda trasfigurazione. Là dove apparivano il Cristo risorto e la Maddalena, c’erano immagini sataniche di un dipinto surreale firmato Francis Bacon, pittore inglese del Novecento. Il quattro - cinquecentesco Noli me tangere del  domenicano Beato Angelico sostituito da Tre studi di figura per la base di una crocifissione (1944) di Francis Bacon, impregnatasi sulla superficie della parete come affresco.    
   Il fatto riportato in un racconto degli Ecatommiti di Giraldi Cintio, letterato vissuto una sessantina di anni dopo Beato Angelico. C’è l’ipotesi che il Giraldi avesse raccolto la notizia da un disperso libello del poeta Gian Giorgio Trissino. Il Girali accennava ad un portento accaduto in Firenze la notte tra il diciotto ed il diciannove maggio,  anno Domini 1443. Per la precisione, il fatto accadde nella VII cella, appena finita di affrescare nel convento di San Marco. Il Giraldi dice che sebbene beato ed angelico, oltre che frate domenicano con papale protezione, Beato Angelico stette per svenire dallo shock. Il novizio che l’accudiva ed accompagnava aveva esclamato:
“Frate Angelico, la pittura s’è squagliata.”
Era mattutino. Tra veglia e sonno, Angelico Beato disse: “Come?”
“Forse l’umido. La pittura s’è squagliata. Vedete.”
Sgomento. Beato Angelico non sapeva che pensare ed era impallidito. I suoi occhi stentavano a fissare lo stravolgimento dei volti e dei corpi che l’affresco mostrava. Al posto delle sue composite figure in geometrici spazi raccolte, macchie informi dalla cupa parvenza umana. C’era però la firma in chiare lettere: Francis Bacon. Il cognome era inglese. C’era da indagare. All’albeggiante tremolio, Angelico Beato mandò via il novizio, si chiuse dentro ed osservò meglio il portento. La sua pittura armoniosa e calma dai contorni netti, i volti santi ed immacolati discioltasi, ma non del tutto. Era come se una mano creativa si fosse sovrapposta alla sua e nella notte avesse ricomposto quei corpi santi in orribili carcasse, uscite da un carnaio. A vedere bene, la pittura si era diluita e ricomposta in figure umane deformate. Realtà evocante gl’incubi dei sogni. Non salvezza, ma perdizione. Non causa dell’umido, non di un difetto dell’impasto sottostante, o di friabile parete. C’era una logica soggiacente, difficile da capire. Opera demoniaca, alchimia e stregoneria. Corpi umani nudi e deformi al limite della comprensione. Facce stravolte e tarlate dipinte con colori strani, l’opposto delle sue armoniche composizioni. Là dove c’era la certezza dello spirito, appariva l’orrore della carne. Beato Angelico ne udiva i lamenti, i rantoli ed i gemiti. Quei corpi deformi gridavano la loro disperazione che trapassava la materia e ti penetrava nell’anima, turbandola nel profondo. E’ questo dunque l’inferno?
   Nel suo Noli me tangere, le mani del Cristo puntavano sicure verso il cielo. Indicavano la strada da seguire per il paradiso. Lì, il Cristo stava per elevarsi alla destra di Dio onnipotente:

Onnipotens Deus. Pater nostre qui es in coelis.

   Accadeva che le mani del Signore e quelle della Maddalena giungessero quasi a toccarsi. Però la sovrapposizione dei piani non ne dava certezza. Le dita della Maddalena toccavano solo i raggi della gloria, non tastavano il corpo del Cristo risorto. La fede avrebbe dovuto annullare il dubbio. La celeste ambiguità sostituita dallo sfacelo umano, opera di un diavolo di nome Francis Bacon. Beato Angelico aveva dipinto le mani della Maddalena tese verso Gesù, ma senza toccarlo: le dita allungate cercano di afferrarlo, di sfiorarne il corpo, carpirne la presenza corporale. Le mani del Cristo la tengono a distanza, come dovuto. Tutto combacia secondo i canoni del Vangelo. Figure che si articolano nello spazio con sicurezza, distanziate in una armonica composizione, sottolineata dagl’insistiti scorci delle mani e dalla calcolata inclinazione delle teste.
Il Cristo dice alla Maddalena: “Non toccarmi, perché non sono ancora asceso al Padre, ma ora va’ dai miei discepoli e di’ loro: Ascendo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.”
   Maria Maddalena corse ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore.” E raccontò ciò che le aveva detto.
   Angelico Beato, domenicano monaco aveva riportato la evangelica visione: la Maddalena vede che la pietra del sepolcro è rovesciata e vede il Cristo risorto. Il demoniaco dipinto di Francis Bacon era arte, ma con una stravolta verità: “Tu vedi, ma è visione pura…una visione non palpabile. Tu vedi qualcosa che non è presente. Tu vedi colui che va via. Tu vedi il transeunte. Tu vuoi toccare ciò che sfugge.”    
   Il maligno aveva distrutto l’aureo dipinto, sostituendolo con una infernale visione dove tutto è opinabile e si offre alla perdizione. Osservando bene, il domenicano si rese conto che il dipinto del Bacon operava nel profondo: entrava nell’anima e la stravolgeva. Le certezze vacillavano. Il diavolo Bacon mostrava l’esistenza umana, abbandonata a se stessa. L’uomo solo davanti al mistero eterno. L’esistenza umana e la sua sconfinata disperazione. Il diavolo dal nome inglese Bacon aveva dunque osato portare i lumi dell’arte oltre la cristianità, oltre le tenebre della morte, oltre l’odio e l’amore, oltre la luce e la speranza e le nebbie dei vorticosi sogni. Bacon mostrava l’uomo e l’angoscia del Tempo, la profondità dei secoli:

saecula saeculorum.

  L’Uomo e la vanità della vita. L’Uomo e la gloria effimera. Tutto cede allo sfacelo. Deriva del destino: il nulla eterno. Angelico Beato capì: non è il Diavolo, ma Arte. Non finzione, ma verità. La storia umana è un mostro che gronda sangue. Ecco cosa mostrava colui che si era firmato come Francis Bacon. Noli me tangere: non toccare lo sfacelo che gli uomini fanno, chiusi nell’egoismo e nell’odio. Beato Angelico non volle distruggere il dipinto. Disse all’abate che intendeva affrescare le restanti mura della cella secondo i canoni usuali, ma che non toccassero quella parete. In un secondo tempo avrebbe provveduto lui di persona sul da farsi. Adesso, la pittura andava lasciata così com’era. Sarebbe stata coperta da una tenda. L’abate non ci capì gran che. Disse:
“Frate Angelico, ma perchè lasciare sulla parete quell’obbrobrio che fa paura solo se lo si guarda?”
“Un giorno ci dipingerò una visione angelica. Lasciamolo così. Mi dà ispirazione. Un giorno, aggrazierò quelle deformità.”
“Fanno paura.”
“Nascondiamole dietro una tenda.”
   Chi crede nel Figlio ha vita eterna; chi si rifiuta di credere nel Figlio non vedrà la vita. Giov. 3-15.
Credere nel Figlio, significa credere nell’Uomo? Significa accettarne la possibile perdizione eterna?
   Si dice che decenni dopo, il Michelangelo dormendo in quella cella come ospite del convento, avesse scostato il manto che copriva il diabolico dipinto e ne avesse tratto ispirazione per il suo Giudizio universale alla Sistina. Il nobel Dawkins (2005) dichiara che non c’è cultura umana che non abbia sviluppato un senso religioso. Per capirlo bisogna esplorare strade diverse. Lo scienziato fa l’esempio dei bambini che secondo leggi di sopravvivenza evolutiva devono credere ai genitori ed ai nonni. Egli afferma: ”Per ottime ragioni di sopravvivenza, il cervello del bambino deve credere ai ge­nitori, e deve credere ai capi ai quali i ge­nitori gli dicono di credere. Ciò vuole dire che chi crede non ha modo di distingue­re un consiglio buono da uno cattivo. Un bambino non è in grado di dire che un buon consiglio è «se nuoti nel fiume, i coccodrilli ti mangeranno», e che è un consiglio cattivo «se non sacrifichi una capra sotto la luna piena, il raccolto an­drà male». Entrambi sembrano altrettan­to degni di fiducia. Provengono entram­bi da una fonte fidata e dispen­sati con la stessa convinzione che impo­ne rispetto e richiede obbedienza. Lo stesso avviene con le asserzioni sul mon­do, sull'universo, sulla moralità, sulla na­tura umana. E, naturalmente, quando il bambino cresce e a sua volta diventa ge­nitore, trasmette ai figli tutto ciò - sia il senso che il non-senso - con lo stesso tono grave ed efficace.”
   Il Bacon Francis e il Michelangelo Buonarroti spezzano certezze millenarie, aprendo squarci su nuove e traballanti realtà.

venerdì 13 dicembre 2013

I RIFUGI di Claudio Biondino



Mi sveglio con la mente vuota. Per un momento, sono solo cosciente della mia esistenza e mi invade una strana sensazione di calma e sazietà.
Poco a poco i ricordi tornano, laceranti. Cerco di mettere ordine nel caos che portano con sé. L’incidente della nave, il deserto e la sete, le tempeste di sabbia e la fame, la ricerca del rifugio e la solitudine. Riesco a mettermi in piedi, mentre prende forma il mondo attorno a me: la cupola traslucida e il cielo rossiccio, i pannelli senzienti della IA, l'esuberanza vegetale del giardino idroponico. Capisco che sono riuscito ad arrivare in uno dei rifugi, ma non ricordo di averlo fatto. Devo aver bevuto e mangiato a sazietà, disperato per i giorni di privazione, ma non ricordo nemmeno questo. In ogni caso, non ha più importanza. So che la IA del rifugio si prenderà cura di me.
Il suono stridulo e intermittente dell’allarme di prossimità mi sveglia completamente. Quando arrivo all’ingresso del rifugio, l’intruso è già riuscito a entrare. Con sollievo, vedo che si tratta di uno dei membri della spedizione. Si toglie il casco della tuta pressurizzata e riconosco il soldato Sánchez. Sebbene sia chiaramente sfinito, anche lui mi riconosce e si mette sull’attenti davanti al suo superiore. Gli ordino di informarmi sui progressi della missione. Fa fatica a stare in piedi, ma è un professionista e deve compiere il suo dovere; i frutti del giardino idroponico saranno il suo premio, ma questo dovrà aspettare.
A quanto pare, dice Sánchez, le comunicazioni si sono interrotte durante l’incidente che ha distrutto la nave mentre entrava in orbita. La sua capsula di evacuazione è discesa senza problemi, ma un istante dopo tutti i sistemi erano morti. L’unica funzione intelligente che ha continuato a essere operativa nel suo equipaggiamento è stata l’indicazione della strada verso il rifugio più vicino.
La stessa cosa che è successa a me, penso. Gli ordino di seguirmi. La IA del rifugio ci permetterà di rintracciare gli altri sopravvissuti. Arrivati ai pannelli senzienti, inserisco i miei codici di comando. Il silenzio della IA mi sconcerta. Verifico i codici, e vedo che coincidono con quelli installati dai costruttori robotici da decenni. Le IA erano programmate per aspettare il nostro arrivo, ma quella di questo rifugio non sta rispondendo ai miei ordini. La frustrazione mi fa perdere il controllo, e colpisco con furia il pannello senziente. Inaspettatamente, il contatto con il pannello produce una rivoluzione dentro di me: euforia e agonia unite come mai avrei potuto immaginare. Una fitta di dolore indescrivibile percorre il mio corpo e mi sento spaccare in mille pezzi. Il dolore è tanto acuto che si trasforma in piacere, e bramo di ritorcermi ancora sui pannelli, diventare una cosa sola con loro.
A dispetto di tutto, non so come, riesco a recuperare la compostezza. Questo non dovrebbe succedere, penso. Un ufficiale non deve perdere il controllo davanti ai suoi subordinati. Forse per questo Sánchez si è allontanato da me, prima lentamente, e dopo correndo a nascondersi tra la vegetazione del giardino. Ma no, non è possibile, la sua reazione è esagerata… oppure no? Dal contatto della mia mano sul pannello, il mondo che mi circonda continua a cambiare. I colori del rifugio mi sembrano diversi. All’improvviso, il cambiamento si fa più drastico e le prospettive diventano multiple. Dal punto in cui mi trovo, posso vedere Sánchez rannicchiato e tremante. Percepisco le sue lacrime salate, e anche l'odore acido dell'urina che scorre lungo la sua divisa. Un altro cambio di prospettiva, e mi lascio guidare dall’impulso di spostarmi più in alto, con entrambi i tagma che sfiorano la cupola, fino a trovarmi posizionato sopra Sánchez. Dondolo il mio prosoma nella sua direzione. Lo avvolgo nella mia tela e il veleno dei miei cheliceri congela il suo grido in un gesto che non posso decifrare; i tratti umani stanno perdendo significato per me. Sono spinto solo dal desiderio di consumare i suoi organi interni, che i miei enzimi hanno già iniziato a dissolvere.
Dopo alcune ore, cestino la pelle rinsecchita di Sánchez in una zona lontana del giardino idroponico. Anche se non mi ricordo di essermi già alimentato, non mi sorprende trovare altre pelli depositate lì. All’improvviso, percepisco una vibrazione conosciuta. È il richiamo della IA , che mi ricompensa con sussurri gradevoli. Mi avvicino a lei e il piacere aumenta a tal punto da diventare ipnotico, soporifero...
Mi sveglio con la mente vuota. Per un momento, sono solo cosciente della mia esistenza e mi invade una strana sensazione di calma e sazietà.

(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

mercoledì 11 dicembre 2013

SA-10 di Fabio Calabrese



«SA-10, ricordati bene che dal momento in cui sarai partito, non potremo darti nessun aiuto.»
Il dirigente s’interruppe; il suo viso era più pallido del solito, i lineamenti contratti rivelavano la tensione che cercava di nascondere nel tono di voce.
«Per molti millenni,» proseguì, «dopo che i nostri antenati si furono ribellati al Dominatore, come sai, come ti è stato insegnato fin da bambino, abbiamo cercato di batterlo in campo aperto ma siamo sempre stati ricacciati… Dobbiamo tentare la via dell’agguato, dell’attacco fulmineo e imprevedibile. Tu, SA-10, sei stato selezionato in base alla tua conformazione genetica e alle attitudini, rivelate nel corso dell’addestramento. Il “Portatore di luce” è il miglior aiuto che possiamo darti.»
SA-10 guardò la navicella quasi con un senso d’affetto, dopo i mesi passati in addestramento dentro quel guscio di metallo dalla linea ingannevolmente semplice che ne nascondeva la sofisticata struttura.
«Ricorda, SA-10,» proseguì il dirigente, «riuscire a sorprendere il Dominatore è un’impresa quasi impossibile, ma “Il portatore di luce” è la più perfetta crononave che esista. Tu continuerai a spostarti avanti e indietro lungo la distorsione spazio-temporale in modo da non essere individuato, e da poter colpire al momento opportuno.»

* * *
Il “Portatore di luce” stava sfrecciando a un milione di T (un milione di volte la velocità normale di scorrimento del tempo). SA-10 trovava che percorrere l’universo in una crononave fosse un’esperienza splendida: Supernove esplodevano abbaglianti nel cielo nero, galassie si formavano sbocciando come fiori, giganti rosse viravano attraverso il giallo, il verde, l’azzurro, fino a liberarsi della loro energia diventando novae, e a ridursi a freddi puntini bianchi. Stelle, nubi di pulviscolo luminoso, torrenti di radiazioni, danzavano attorno alla navicella.
SA-10 si rilassò. L’universo visto da una crononave rivelava il suo vero volto: non era uno spazio buio e vuoto, ma un organismo vivo e splendido. Lo spettacolo gli aveva quasi fatto dimenticare l’estrema pericolosità della sua missione: si stava addentrando nel terreno del Dominatore, il nemico atavico, implacabile, della sua razza.
Gli strumenti segnalarono un leggero calo di potenza: non era un inconveniente grave, ma doveva fermarsi per permettere agli accumulatori di ricaricarsi.
Fermò il “Portatore di luce” ed entrò nel tempo normale.
Se fosse riuscito ad atterrare su di un pianeta, sarebbe stato meno facile per il Dominatore individuarlo. Per fortuna, il “Portatore di luce” poteva essere manovrato come una comune astronave.
Raggiunse il sistema stellare più vicino e diresse la crononave verso un pianeta che sembrava essere collocato al giusto punto di equilibrio fra il calore solare e il gelo esterno, la cosiddetta “fascia della vita”.
Il pianeta ospitava la vita, eccome! SA-10 l’osservò ammirato: sembrava che la terra emersa fosse interamente coperta da boschi verdeggianti; gli oceani erano di un blu intenso e le calotte polari scintillavano candide.
Era imprudente atterrare in una prateria: il “Portatore di luce” sarebbe stato troppo visibile, e la portata dei sensi del Dominatore sembrava virtualmente senza limiti. Scelse una larga radura in un bosco posto nell’emisfero settentrionale.
Atterrò e come ulteriore precauzione, dopo essere sbarcato rese invisibile il “Portatore di luce” facendolo scivolare in una sequenza spazio-temporale secondaria.
Fece qualche passo. Il pianeta era bellissimo, l’aria era fresca e frizzante, carica di sentori esotici; la vegetazione non recava le tracce – purtroppo devastanti per l’equilibrio ambientale – di civiltà superiori che avessero sviluppato una tecnologia. Creature alate cantavano tra i rami degli alberi.
Staccò da un albero un frutto di un bel colore rosso e affondò i denti nella polpa, era gustoso.
Scorse qualcosa fra i rami del sottobosco, un umanoide: era una femmina e anche piuttosto carina.
Si avvicinò. Lei accennò a ritrarsi timorosa, ma non fuggì.
«Ciao!» disse SA-10.
«Ciao!» rispose lei. Capiva la sua lingua o aveva solo imitato pappagallescamente il suono della sua voce?
«Non avere paura,» disse lui. «Non voglio farti del male. Come ti chiami? Io sono SA-10, SA-TEN.»
«SA-TAN,» fece eco lei con una strana pronuncia cantilenante.
SA-10 le tese il frutto che teneva in mano.
Lei sembrò capire e prese il frutto, poi se lo portò alla bocca staccandone via allegramente un bel pezzo con un morso.
Un urlaccio fece voltare SA-10. Un umanoide maschio, un tipo rossiccio dai lineamenti grossolani e dall’aria truce, era uscito dal bosco. Afferrò la femmina per il braccio e cominciò a trascinarla via, dopo aver lanciato una salva di borbottii e grugniti che SA-10 non capiva, ma che aveva ragione di ritenere fossero imprecazioni o insulti.
Rimasto solo, SA-10 si ritrovò piuttosto depresso: aveva dimenticato l’accesa gelosia caratteristica dei maschi umanoidi primitivi. Sapeva di aver commesso un errore: non bisognava mai interferire con le culture primitive: anche un gesto innocuo come l’offerta di un frutto poteva essere fonte di chissà quali incredibili complessi.
Ritornò al “Portatore di luce” e si spostò in avanti di qualche migliaio di anni, mantenendo più o meno invariate le coordinate spaziali.
In un primo momento, SA-10 quasi stentò a credere ai propri occhi: quella parte del pianeta si era rapidamente trasformata in un deserto arido e per nulla invitante.
Uscì un’altra volta dal “Portatore di luce” e fece qualche passo sulla distesa sabbiosa.
Dietro a una duna che lo riparava malamente dai raggi del sole, SA-10 scorse il corpo di un uomo: era ancora vivo ma proprio per scommessa: era magrissimo e la sua pelle era screpolata come cuoio vecchio, sembrava all’ultimo stadio della denutrizione e della disidratazione. Tornò alla crononave e prese un contenitore d’acqua.
Nonostante l’aspetto sfigurato dagli stenti, si vedeva che quel moribondo doveva essere stato un bell’uomo: aveva un viso affilato, ascetico, i capelli lunghi sulle spalle e una corta barbetta regolare, che però ora erano incrostati da uno strato di sabbia.
SA-10 dovette aprirgli la bocca di forza e versare l’acqua in quelle labbra e in quella gola inaridita.
L’uomo cominciò subito a riaversi, e aprì gli occhi emettendo un gemito. Aveva dei begli occhi chiari, intelligenti, ma sembravano sconvolti da una luce di follia.
«Lasciami in pace!» gridò.
SA-10 era piuttosto sorpreso di constatare che quella gola disidratata conservasse ancora tanto fiato.
«Ehi, un momento!» disse. «Cosa ti è successo, amico? Facevi parte di qualche carovaniera? Ti sei perso?»
«Niente affatto!» rispose quello. «Sono venuto nel deserto di mia spontanea volontà quaranta giorni fa per mortificare la Carne.»
Nel suo sguardo ardeva una luce preoccupante di fanatismo.
«Ma tu non hai solo bisogno di un po’ d’acqua,» protestò SA-10. «Sei denutrito da far paura.»
L’uomo si rizzò in piedi gridando:
«Vattene, immondo tentatore! Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca dello Spirito!»
SA-10 arretrò sgomento. Quella follia, quel fanatismo suicida erano certamente il segno che il Dominatore aveva lasciato su quegli esseri.
Capì che non poteva fare niente di meglio per quell’uomo che lasciarlo al suo destino. Forse se la sarebbe cavata… ma certo quel tipo lì non sarebbe morto vecchio.
Ora il “Portatore di luce” era pronto per il balzo finale, ma SA-10 era curioso, gli sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più di cosa sarebbe accaduto a quella cultura. Modificò leggermente le coordinate della crononave: più o meno millecinquecento anni avanti nel tempo e un po’ verso nord-ovest nello spazio.
Si accorse di essere finito all’interno di un edificio.
C’era un vecchio con la barba bianca, vestito di una buffa palandrana, che stava davanti a un segno tracciato sul pavimento: una grande stella dentro un cerchio, e leggeva un grosso libro borbottandone le parole ad alta voce. Sembravano frasi incomprensibili e prive di senso, ma il vecchio aveva l’aria di aspettarsi che succedesse qualcosa. SA-10 decise di accontentarlo e di fargli un piccolo scherzo. Lasciò il “Portatore di luce” invisibile e si materializzò all’interno della stella.
Guardò il vecchio negli occhi.
«Cosa vuoi?» domandò.
Il vecchio rispose con aria solenne:
«Io, Johann Faust, ho passato trent’anni della mia vita a penetrare i segreti reconditi dell’universo. Adesso voglio quello che mi spetta: la ricchezza ed il potere.»
SA-10 lo guardò con compatimento.
«Faresti meglio ad andare a donne,» disse, «finché l’apparato ti funziona. Guarda che è un consiglio disinteressato.»
E scomparve.
Ora non aveva più tempo per quelle ragazzate, sapeva che alla fine del flusso temporale di quell’universo avrebbe incontrato il Dominatore.
S’inserì nel flusso temporale regolando la crononave alla massima potenza, e tolse la sicura all’annichilatore.
Aveva una sia pur esigua possibilità di riuscita: per quanto il Dominatore fosse dotato di poteri quasi inconcepibili, i suoi riflessi erano di una frazione infinitesimale più lenti di quelli del popolo di SA-10.
Gli scienziati della sua gente avevano discusso a lungo sulla natura del Dominatore senza essere in grado di giungere a conclusioni definitive; certo, proveniva da un flusso d’universo sconosciuto, e altrettanto certamente non si trattava di un essere organico, almeno nel senso abituale del termine: era un essere vivente, ma simile a un’enorme macchina che assorbiva e generava materia ed energia in ogni punto di un’intera sequenza spazio-temporale.
Le labili immagini dello spazio-tempo che scorreva vorticoso intorno al “Portatore di luce” si stavano trasformando in un torrente di energia pura. Quella sequenza-universo era quasi alla fine.
SA-10 lo scorse improvvisamente, proprio là dove lo spazio-tempo stava per svanire nel Nulla assoluto. Era una cosa enorme, una superficie planare che generava e distruggeva energia e materia ad ogni istante. Proprio nel mezzo, c’era una vasta zona di cellule foto-energo sensibili.
SA-10 diresse il raggio dell’annichilatore proprio là, su quella specie di occhio al centro dell’immensa struttura triangolare.

domenica 8 dicembre 2013

L'AUTOMOBILE ROSSA di Luisa María García Velasco



Roberto era così assorto che quasi saltò il semaforo. Attese con impazienza che l’omino verde si illuminasse e attraversò la strada come se un gruppo di fate lo portasse in volo. Difatti, qualche pedone girò la testa al suo passaggio. Guardava più in là di ciò che aveva davanti, mosso dai fili del piacere dell’anticipazione. Come chi sta andando a incontrarsi con un antico amore.
Gli mancava il fiato quando si fermò davanti al negozio di giocattoli. Era lì, la stessa insegna rossa: Pinò - Giocattoli artigianali, con un grande pino dipinto, sotto il quale erano disposti allegri burattini e un treno che sorrideva, la vetrina con il suo cavallo di legno e il gioco di costruzioni, e con la casa delle bambole che si illuminava e aveva persino l’acqua in alcuni dei rubinetti. Bambole, libri di racconti, soldatini, orsi di peluche. Tra tutti, gliene era sempre piaciuto uno molto buffo, con un libro in mano e gli occhialetti rotondi appoggiati sulla punta de naso. Ma il vero tesoro era all’interno. Doveva esserci.
Non volle pensarci oltre ed entrò. Il padrone del negozio, un signore anziano alto e magro con un gilè nero e gli occhiali, alzò la testa dal treno che stava riparando su un piccolo tavolo accanto al bancone.
– Sì? Che cosa desidera?
– Signor Pinò, non si ricorda di me? Sono io.
L’uomo si aggiustò gli occhiali e lo guardò con più attenzione. La sorpresa e un gesto istintivo davanti all’imprevisto si affacciarono ai suoi occhi.
– Roberto? Non posso crederci. Sei davvero tu?
Si alzò con difficoltà per abbracciare il ragazzo. Per lui sarebbe sempre stato un ragazzo.
– Come ti sei fatto grande. Un uomo…
– Come vanno le cose qui?
– Come sempre. Non c’è molto da raccontare. Tiro avanti. Ragazzo, mi fa tanto piacere vederti.
Ci fu un breve silenzio, intimo e violento al tempo stesso. Nessuno dei due sapeva come affrontare l’argomento che entrambi avevano in mente.
– Beh… è ancora qui, no?
L’uomo lo guardò.
– Ce l’ha ancora, vero? – la voce gli tremava. Il panico lo colse all’improvviso.
– Mi dispiace. – Il giocattolaio abbassò lo sguardo.
– Le dispiace? Che cosa significa? Mi ha detto che non l’avrebbe mai venduta, che non se ne sarebbe mai disfatto. Lei…
– Il tempo passa. Le persone cambiano. Mi hanno fatto un’offerta che non ho potuto rifiutare. Mi dispiace davvero.
– Non posso crederci. Mi disse che non era in vendita!  Lo sa quanto era importante per me; io stesso avrei superato ogni offerta, in qualsiasi caso…
– Tu non vivevi più qui. Ti stavi facendo adulto nella grande città. Io vendo giocattoli per bambini.
Roberto si aggrappò a un'idea improvvisa: – E chi ce l’ha adesso? A chi l’ha venduta? Forse accetteranno di rivendermela.
– Non so chi siano, da dove siano venuti, né dove siano andati. Dimenticalo, Roberto. Mi dispiace davvero. Non so che altro dirti.
Al giovane vennero subito alla mente centinaia di immagini. Ricordò la prima volta che vide quell’automobile giocattolo. A grandezza naturale! Di colore rosso brillante, con un design spettacolare (o così sembrò a lui). Di legno, come la maggior parte degli articoli del negozio del signor Pinò ma… così reale! A quel tempo lui doveva avere sette o otto anni. In quell’istante decise che quell’auto era il giocattolo dei suoi sogni e che non avrebbe mai potuto trovarne un altro uguale. Che fortuna averla scoperta! Aver trovato per caso un oggetto così straordinario!
Ogni pomeriggio, all’uscita di scuola, Roberto andava alla vetrina per ammirare la sua automobile. Si fermava lì davanti,  con la cartella sulla schiena, e la guardava. Per quindici o venti minuti, a volte di più. Dopo un po’, il proprietario cominciò a notare il ragazzo che visitava giornalmente il suo negozio, senza mai entrare, e vide che l’auto era l’oggetto della sua attenzione. Tuttavia, non disse niente per più di un mese. Poi un bel giorno uscì sulla porta e chiese: – È bella, vero?
Roberto arrossì fino alle sopracciglia. Non sapeva cosa rispondere. Alla fine mormorò, guardando fisso la macchina: – È stupenda.
C‘era qualcosa in quello sguardo che arrivò dritto all’anima del signor Pinò. All’improvviso, inaspettatamente, il ragazzo sembrò raccogliere coraggio e con determinazione, con passione quasi, fissò il giocattolaio con lo sguardo di chi decide di affrontare un toro infuriato.
– Quanto costa?
Ancor prima di ascoltare la risposta, Roberto seppe che non avrebbe mai potuto pagare un giocattolo così. Né  lui né i suoi genitori. Quella era un’automobile per bambini ricchi. Ma l’amor proprio gli uscì spontaneamente. Decise che aveva, almeno, il diritto di chiederlo.
Pinò guardò quel ragazzo, rosso prima di vergogna e ora di orgoglio, che aspettava con sguardo di sfida.
– Non è in vendita – rispose. – La uso come richiamo, per attirare l’attenzione sulla vetrina. Non la vendo. Inoltre, è un ricordo di famiglia.
– Ah.
Roberto non sapeva cosa dire. Da un lato, ne era felice: nessuno avrebbe potuta portarsela via, nessuno l’avrebbe privato dal vederla ogni giorno. Ma lo disorientò sentire che provava anche delusione. Per quanto denaro avesse risparmiato, anche se fosse cresciuto e avesse guadagnato un sacco di soldi, anche se i suoi genitori avessero vinto alla lotteria, non avrebbe mai potuto possedere quell’automobile. Mai e poi mai, in nessun caso.
L’uomo sembrò leggergli il pensiero perché disse subito: – Ad ogni modo la toglierò da lì. È già in vetrina da troppo tempo. Non voglio che il sole la danneggi.
Il sole. A Roberto sembrò che glielo avessero tolto all’istante, e che la sua vita e il suo futuro si fossero convertiti in un cielo molto ma molto nuvoloso.
–Anche se ho un’idea che mi gira in testa… non so…
Un piccolo ramo a cui aggrapparsi, mentre era sul punto di cadere nel precipizio? Il ragazzo ascoltò, senza osare respirare.
– Sto preparando una stanza dei giochi. Sarà una sezione del negozio, e lascerò che i bambini che lo desiderano giochino lì con alcuni dei miei articoli. Quelli non in vendita, ovviamente.
Il bambino, a bocca aperta, si sorprese da solo a domandare: – Perché?
– Perché i giocattoli servono per giocare – sorrise Pinò. – E perché tutti dobbiamo giocare, finché siamo bambini. È qualcosa che nessuno dovrebbe perdersi. Allora, ti sembra una buona idea o no?
– E anche l’automobile starà in questa stanza?
– Sto pensando di metterla lì, sì.
– E quindi… voglio dire… io potrei venire tutti i giorni a giocare un pochino?
– Tu e tutti gli altri bambini. Certo che sì. È questa la mia idea. Credo che a partire da domani sarà già tutto pronto.
Roberto balbettò un grazie e si allontanò in fretta, emozionato, prima che il miraggio scomparisse. Non voleva svegliarsi e scoprire che tutto era stato un sogno. Il signor Pinò si fermò un istante sulla porta, a guardarlo mentre si allontanava di corsa, la cartella sulle spalle, i capelli mossi dal vento.
La mattina seguente si presentò diversa, una mattina di sabato più chiara e allegra del solito. Roberto era già sulla porta, vestito e ben pettinato, quando Pinò aprì il negozio di giocattoli.
– L’auto non c’è più. Questo vuol dire che…?
– Entra. – Il giocattolaio gli fece un occhiolino complice.
– È incredibile!
C’erano la casa delle bambole, i peluche, il treno, i mattoncini. Una stanza grande, enorme, piena di giocattoli meravigliosi. Un teatro di marionette simile a quello dell’insegna sulla porta. Le pareti e il pavimento, entrambi coperti con carta da parati di colore azzurro con nuvole disegnate sopra, davano la strana sensazione di trovarsi in mezzo al cielo, come se si stesse galleggiando. Roberto pensò che il paradiso doveva essere così. E al centro l’automobile rossa, che lo aspettava.
– Avanti, come fossi a casa tua. – Pinò lo spinse dolcemente e poi uscì dalla stanza. – Divertiti – gli augurò prima di chiudere la porta dietro di sé.
Roberto girò un paio di volte intorno al giocattolo, ammirandone tutti i dettagli. Solo dopo qualche minuto osò toccarlo, quasi con devozione, prima di aprire la portiera e sedersi dentro. Un volante, il claxon, i sedili, poco altro.
– Benvenuto.
Ci mise un po’ a rendersi conto che in realtà non aveva sentito nulla. Ma quella parola ancora risuonava nella sua testa.
– Siediti comodo. Sarà il nostro primo viaggio insieme.
Pensò che quello non poteva essere, che i giocattoli non parlano, che alla fine quell’ossessione lo stava facendo diventare pazzo. Ma prima che avesse tempo di rifletterci, la voce tornò a risuonare dentro di lui.
– Non spaventarti. Non sono un giocattolo ordinario. Ti aspettavo.
– Stai parlando a me? – osò chiedere ad alta voce, soprattutto per cercare di mantenere la lucidità ascoltando la propria voce.
– Andremo insieme in posti meravigliosi. Quelli che tu vorrai. Che inventerai per me. Dove preferisci andare oggi? Dovrà essere un posto molto speciale. Tieni presente che sarà il primo dei nostri viaggi. Dev’essere qualcosa che ricorderai per sempre.
Roberto decise che la cosa migliore era lasciarsi andare. Se è un sogno sarà meglio goderselo.  Pensò un momento. Lo avevano sempre affascinato le piramidi e i faraoni.
– Nell’antico Egitto – dichiarò.
Notò come il volante vibrava sotto le sue mani. All’improvviso tutto tremò come se stessero viaggiando a gran velocità. Non vedeva nulla dai finestrini. Chiuse gli occhi. Dopo alcuni secondi, la macchina sembrò fermarsi.
– Ora puoi guardare.
Si trovavano in mezzo al deserto, di fronte a una delle piramidi. Cento schiavi si affaccendavano nella sua costruzione.
– Meraviglioso! È un filmato o qualcosa del genere?
– È molto meglio. Puoi uscire a fare una passeggiata, se vuoi.
– Quindi è reale? Sei una macchina del tempo?
– Sono una macchina dell’immaginazione. Questo vuol dire che posso portarti in qualunque luogo che la tua mente desideri.
– Puoi portarmi a Disneyland?
– Posso portarti a Disneyland così come tu la immagini.
– Quindi non sarò lì per davvero, è così?
– I tuoi viaggi con me saranno fantastici, non reali. Andremo tanto lontano come vorrai, vedremo e faremo ciò che vorrai. Tutto quello che la tua immaginazione sia in grado di contenere.
– Altri pianeti?
– E altri universi. Qualsiasi cosa immagini.
In pochi secondi, cento possibilità affluirono alla sua mente. Poi ricordò un dettaglio importante: – Perché hai detto che mi aspettavi? Perché io?
– Perché solo tu puoi condurmi in posti incredibili. Gli altri bambini non sarebbero capaci di uscire da questa stanza. Non vedrebbero mai al di là della carta da parati.
Roberto ricordò quel primo viaggio e i successivi, nei luoghi più curiosi e lontani, in ambienti insoliti e meravigliosi. Visitarono insieme terre conosciute e sconosciute, sperimentarono sensazioni magiche e indimenticabili, conobbero personaggi storici e di fantasia, e loro stessi furono qualcosa di diverso ogni giorno. Finché al bambino, inspiegabilmente, iniziò a mancare l’immaginazione.
– Non è colpa mia – cercò di giustificarsi. – Sto crescendo, sono quasi un adolescente… Tu sei un’automobile fantastica e abbiamo vissuto insieme avventure incredibili, ma… non erano vere. Quello che voglio adesso – lo sguardo gli cambiò. Guardava oltre le nuvole che adornavano la carta da parati, oltre quel cielo che tutto a un tratto gli sembrava infantile e poco credibile, – ciò che voglio adesso è qualcosa di diverso. Voglio poter vedere, toccare, camminare in luoghi reali. Voglio una macchina vera, che mi porti per davvero in tutti quei posti che abbiamo immaginato. Voglio che le fantasie diventino realtà.
– La realtà non sempre corrisponde alle nostre fantasie.
– Ne sono cosciente. Ma non posso vivere di sogni.
Ci fu un momento di silenzio. Dopodiché la voce della macchina pronunciò quella che sarebbe stata l’ultima frase rivolta a Roberto: – Sei stato un buon conducente.
– E tu un buon giocattolo. Però devo uscire, prendere contatto con il mondo reale.
A seguire ci furono gli anni in città, il liceo, le prime ragazze… e infine, la sua prima macchina. L’illusione di viaggiare e trasformare in realtà i suoi sogni di bambino, l’impazienza prima e la delusione dopo. Le cose non erano mai come le aveva immaginate. Erano molto più grigie, più comuni e insignificanti. La vita in generale lo era.
Gli costò quattro anni decidersi. Diceva a se stesso che doveva essere matto e due minuti dopo si convinceva che non era mai stato così sano di mente. Fu quest’ultima convinzione a vincere la battaglia che lo riportò, infine, al negozio di giocattoli di quel piccolo paese italiano, quella mattina di novembre.
Pinò lo vide uscire dal negozio e attraversare la strada senza guardare, per andare a sedersi su una panchina nelle vicinanze. Tutto a un tratto, sembrava un bambino perso e confuso. Una farfalla piccolina, con il corpo di legno e un cappello a cilindro, ali di seta su un’intelaiatura di filo, scappò dalla vetrina e volando andò a posarsi sulla spalla del giocattolaio, quando questi tornò all’interno.
– Non credi che si meriti un’altra opportunità?
– Conosci le regole.
– Ma è ritornato.
In silenzio, Pinò camminò piano fino a una piccola stanza sul retro. Si fermò un attimo a riflettere contemplando un enorme rilievo coperto con un telo. Infine lo sollevò, lasciando scoperta la vecchia automobile rossa, impeccabile e tanto magica come negli anni precedenti.
– Ci sarà da pulirla e darle qualche ritocco prima di esporla di nuovo.
– Questo vuol dire… – cominciò la farfalla, ancora sulla spalla di Pinò.
– Non è lui. Non è neanche lui. Sembra un compito impossibile. Tutti finiscono col diventare adulti. E io sono molto stanco. Ho bisogno di trovare qualcuno che prenda il mio posto alla fine. Un sostituto.
– Ne avevamo trovato uno, ricordi? Peter.
– Sì, lui sarebbe stato adatto. Ma decise di fermarsi nell’Isola che non c’è. Ho dovuto rispettare la sua decisione.
– Che cambiamenti pensi di fare alla macchina? – La farfalla cercò di cambiare argomento, per animarlo un po’.
– Non so, dovrò aggiornarla, modernizzare il design…
– Come hai fatto con me? Riconosco che essere una farfalla è molto meglio che essere un grillo.
– Immagino ­– annuì il giocattolaio.
– Sei sicuro che non possiamo dargli un’altra opportunità?
Senza dire una parola, Pinò si diresse all’ingresso e guardò la strada. Roberto era ancora seduto sulla panchina.
– Lo vedi che non si può.
Dalla testa, dalle mani e dai piedi di Roberto si innalzavano fili sottilissimi, di colore grigio, che salivano fino al cielo e si perdevano in altezza. Lo facevano sembrare un burattino. C'erano diversi passanti che attraversano la strada e la piazza vicina. Erano tutti appesi a fili colorati: verdi, rosa, azzurri, neri, bianchi. Alcuni multicolore. Certi più grossi di altri. Anche i conducenti d’auto avevano fili, che curiosamente non si impigliavano tra loro, né con i fili degli altri. Solo i bambini correvano o giocavano liberi, senza quella strana condizione che nessuno, tranne Pinò e il giocattolo, sembrava avvertire.
– È già un adulto. Come gli altri. Non c’è rimedio.
– Non puoi essere l’unico, Pinò. Deve esserci qualcun altro.
– Diventare un bambino vero, quello fu il mio desiderio e il desiderio di mio padre. Perdere i miei fili per sempre. Ma per sempre è troppo. È un testimone molto pesante da portare per tanti anni. Ho bisogno di trovare qualcuno che mi sostituisca in negozio. Sono così stanco, amico mio. Anche se la mia mente è quella di un bambino, il mio corpo si deteriora. Certo, molto lentamente, però...
– Beh, questo è lo svantaggio di non essere più di legno per essere finalmente di carne e ossa. – La farfalla cercò di far sì che quella frase suonasse allegra, ottimista. Ma senza risultato. Decise di cambiare tattica e parlò con determinazione. – Troveremo qualcuno, vedrai. Prima o poi.
– Ho pensato che poteva essere lui. Era sul punto di riuscirci.
­– Infatti ci ha ripensato. Ed è tornato.
Guardarono di nuovo Roberto, che in quel momento si alzò piano, come invecchiato, con i fili che muovevano le sue membra e lo conducevano in piazza, fino a quando girò l’angolo e scomparve alla loro vista. Imbruniva e facevano timidamente capolino le stelle. Una brillava in particolare sopra al negozio di giocattoli.
– Sì, è tornato. Troppo tardi – sospirò l’anziano. E scosse la testa, come a voler dimenticare ciò che non aveva più rimedio. – In ogni caso, Pepito, ci sarà da mettersi al lavoro.
E Pinò, come Pepito lo chiamava, l’eterno bambino che non era mai tornato a essere un burattino, entrò in negozio. Sulla sua spalla la farfalla, cosciente che in quel momento non gli restava altra opzione che dimostrargli il suo appoggio in silenzio. Pinò prese lo sgabello, che insieme ad alcuni strumenti era l’unica eredità del vecchio Geppetto e si mise a lavorare all’automobile rossa un’altra volta. Attraverso la finestra aperta la stella illuminava le sue mani rugose ma abili, che tagliavano, pulivano, dipingevano, ritoccavano il giocattolo in modo paziente e amorevole.
Non fu pronto fino a tre settimane più tardi, giusto prima della vigilia di Natale. Quella stessa mattina, una bambina di circa sette o otto anni si fermò ad ammirarla: un’automobile a grandezza naturale! Mai, in tutta la sua vita, aveva visto qualcosa di tanto bello. Era semplicemente perfetta.

(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)