INTERVISTA A LABOULE di Giuseppe Novellino
Perché il nome d’arte Laboule?
Il nome LABOULE nasce 4 anni fa. Durante un inverno molto freddo,
decisi di mettermi a suonare in solitaria. Il nome ha lo scopo di non
identificare la musica con una persona ma con un contenitore, con un luogo, o
con una sensazione.
Quando e come è cominciato
l’itinerario musicale di Laboule?
Direi che è iniziato da bambino
quando ho cominciato a suonare; ma è il frutto di un percorso e di una visione
personale passata per le esperienze giovanili, suonando svariati strumenti in
diverse formazioni rock e avant punk fino alla riscoperta della chitarra
acustica da un nuovo e rivoluzionante punto di vista. La cosa è avvenuta circa
3 anni fa.
Da un primo ascolto dei tuoi
due CD, sembra che lo strumento sia supportato dalla voce e dal testo, non
viceversa come nel repertorio del cantautore tradizionale. È vero, secondo te?
Puoi darci una sintetica definizione della tua arte?
È vero, non mi sento un cantautore, è difficilissimo essere cantautore
(roba per pochi). Non ho quella facilità nello scrivere una canzone, non parto
mai da un concetto ma più spesso da un’improvvisazione strumentale. La voce e
la forma canzone credo siano parte della mia storia di ascoltatore ma credo che
la mia musica col tempo si discosterà dalla struttura canzone e dall’utilizzo
della voce per muoversi verso territori più aperti liberi e sperimentali.
Il primo CD è autoprodotto, il
secondo è uscito presso la casa produttrice Long Song Record. Come sei arrivato
a questa meta?
Ci sono arrivato per testardaggine e collaborando con ottimi musicisti
come Fabio Bonelli e Lorenzo Monti (che ha registrato il disco), i quali mi
hanno introdotto alla “corte” Longsongrecord, con i live e per una visione
musicale affine a quella di Fabrizio Perissinotto (produttore del disco).
Perché l’ultimo tuo CD è
intitolato Rifugio?
C’è un filo conduttore nel disco: la ricerca di uno spazio fisico,
sonoro e spirituale e la parola Refugio
mi sembrava perfetta per descriverla.
Inoltre il disco è stato registrato in un rifugio montano alle pendici
del monte Grona (Menaggio, Lago di Como)
Quali sono i tuoi progetti
futuri?
Intensificare l’attività live, fare un nuovo disco (magari solo
strumentale) tornare a collaborare con altri musicisti. e magari musicare,
live, un film muto.
INTERVISTA A SHEL SHAPIRO di Giuseppe Novellino
Cominciamo
con una domanda un po’ frivola: ti senti più inglese o più italiano?
Sicuramente è una domanda frivola. Non mi pongo il problema. Dopo più di quarant’anni che sto in Italia, mi sembra logico che mi senta più italiano che non inglese. Comunque non vivo nell’incertezza. Mi sento libero di agire come voglio.
Ti sentiresti di esprimere un breve giudizio sull’Italia del 2012?
Io ho un passaporto inglese e un passaporto italiano, quindi sostanzialmente posso parlare come cittadino di questo paese. Anzi sono a tutti gli effetti cittadino italiano.
Sicuramente una volta, quando sono arrivato agli inizi degli anni ’60, l’Italia era un paese più affascinante, con più spazio e possibilità di azione. Questo vale per l’Italia come per gli altri paesi, diciamo così, provinciali. Nel frattempo le cose sono cambiate. Trovo che abbiamo passato diciassette anni di disastro culturale. Penso che la recente affermazione di questi governi cosiddetti liberali, di centrodestra, sia stata dannosa per la crescita morale, mentale, culturale, etica dei cittadini di questo paese.
Che cosa pensi dei giovani d’oggi?
Che non hanno vita facile, e noi non contribuiamo a rendergliela agevole. Risolvendo per loro i problemi e riempiendoli di comodità, pensiamo di dare a loro un vantaggio. Invece, proprio a causa di questo nostro comportamento, rendiamo difficile la loro esistenza.
Quali motivazioni ti hanno spinto a scrivere l’autobiografia?
Edmondo Berselli, che pubblicava i suoi libri con la casa editrice Il Mulino, dove era direttore editoriale, e successivamente con la Mondadori, sosteneva che ero uno di quei personaggi degli anni ’60 che avevano diritto di parola. Edmondo mi ha spinto a raccontare la mia esperienza. Io non sono uno di quelli che amano guardare indietro, nella vita trascorsa, con l’intento magari di celebrarsi; ma penso che certe volte faccia bene gettare uno sguardo alle spalle per rendersi conto degli errori che si sono commessi, ma anche delle cose giuste e buone. Quindi ho agito soprattutto perché la Mondadori ha insistito perché scrivessi un libro sulla mia vita. Mi hanno un po’ spinto, devo dire.
Sono stato assistito da Marco Cavani, scrittore bolognese, amico e conoscente. Mi dispiace che la Casa Editrice non abbia messo il suo nome sulla copertina. Nel mio sito, però, il nome compare e il danno, mi sembra, è stato riparato.
La motivazione, dunque, è stata quella di cercare di guardare con spirito critico quello che abbiamo fatto e questa eredità che abbiamo lasciato. L’idea di autocelebrarsi, di esaltare quegli anni è decisamente fuori luogo. Chi ha vissuto i ’60 può andare giustamente fiero perché erano anni belli. Chi non li ha vissuti pensa di avere perso una grande occasione. Ma io ritengo sia un giudizio non del tutto giusto, in fondo.
Se un tuo figlio diciottenne ti dicesse: “Papà, voglio andarmene in America a vivere di musica, come commenteresti questa sua decisione?
Non glielo impedirei, alla fine, ma cercherei di convincerlo a non andarci. Proverei a fargli capire che sarebbe meglio fare qualcosa di più solido. Però, se lui è convinto e decide di provare, di affrontare tutte le difficoltà per vedere realizzato un suo sogno, allora ritengo che sia una cosa positiva. La convinzione e la fiducia in se stessi sono sintomi di maturità. Io penso, infatti, che occorra agire con senso di autocritica, per evitare di vivere delle tragedie più avanti.
Io non ricordo cosa pensassero i miei genitori, quando decisi di andare all’estero (prima ad Amburgo e poi in Italia) per mettere a profitto i miei talenti musicali e artistici.
Che cosa trovi nella professione dell’attore, sia di teatro che di cinema?
Soprattutto questa possibilità di perdersi e di essere qualcun altro, per un momento. Tutti sanno che Shel canta e suona la chitarra. Lo danno per scontato. Ma se lui potesse, per un giorno, essere, che so, un imperatore romano o un serial killer, gli piacerebbe. Ho avuto delle esperienze in merito e trovo che sia una cosa molto esaltante entrare nella psiche di un’altra persona. Non essere più se stesso per un po’. I grandi attori, infatti, cambiano addirittura la faccia, non sembrano più loro stessi. Vedi, per esempio, Pacino e De Niro. Questa però è una caratteristica, diciamo così, anglo-americana di fare l’attore. In Italia è diverso. Nella professione di attore si richiede che tu rimanga te stesso. Non c’è film di Gasman dove non si capisce che è lui. Rimane sempre se stesso. Forse Marcello Mastroianni è l’unico che sia riuscito veramente a uscire da se stesso, movendosi nella scia degli attori anglosassoni.
Nel libro e nel tuo ultimo spettacolo sull’America della beat-generation, si nota un bisogno di impegno anche di carattere politico (in senso lato). Hai dei progetti in tal senso?
L’idea di poter fare il politico di professione, se l’ho avuta, l’ho lasciata ormai dietro le spalle. Oggi cerco di dare un senso a quello che dico e a quello che faccio, insomma.
Mi va di provare a combattere questa voglia di metterti dentro una scatola e comportarti secondo delle regole che ti detta qualcun altro. Poco prima di questa nostra chiacchierata, ho parlato al telefono con Mario Capanna, una persona che mi ha sempre capito e mi ha sempre sostenuto nel mio impegno di uomo e di artista.
Credo che noi abbiamo vissuto una quindicina di anni veramente brutti. Tutte le volte che ho fatto uno spettacolo, ho sempre cercato di spingere la gente a reagire, a indignarsi. Io sto usando questa parola, “indignazione”, da almeno dodici anni, da quando ho rilasciato un’intervista a L’Unità, dove mi dichiaravo indignato e denunciavo Blair e Berlusconi.
Insomma cerco di dire quello che penso, e se il mio pensiero aiuta ad aprire gli occhi di qualcun altro, ne sono felicissimo.
Quali sono i programmi di Shel artista?
In questo periodo mi è tornata un po’ la voglia di suonare, alla grande. Per questo farò una serie di concerti in alcuni clubs, con un gruppo che ho battezzato Hamburg ‘63. Come tu sai, nel 1963 suonavo ad Amburgo. Lì mi sono fatto le ossa, come musicista, in un locale che un po’ di tempo prima aveva visto passare i Beatles.
Nello stesso tempo continuerò con lo spettacolo “Beatnix”, un recital sulla musica, la letteratura, la società dell’America dalla Grande Depressione agli anni ’60.
Concludo con una leggera (e forse ingenua) curiosità, più che una domanda. Quale rapporto c’è, oggi, tra Shel e gli altri tre ex-Rokes (Bob, Mike e Johnny)?
Io non parlo di loro. Se vuoi sapere qualcosa dei Rokes, sono a disposizione, ma non mi piace parlare delle singole persone e dei miei rapporti con esse.
Comunque Johnny lo sento spesso. Vive a Roma e fa il pittore. Bob e Mike, invece, sono in Inghilterra.
Sicuramente è una domanda frivola. Non mi pongo il problema. Dopo più di quarant’anni che sto in Italia, mi sembra logico che mi senta più italiano che non inglese. Comunque non vivo nell’incertezza. Mi sento libero di agire come voglio.
Ti sentiresti di esprimere un breve giudizio sull’Italia del 2012?
Io ho un passaporto inglese e un passaporto italiano, quindi sostanzialmente posso parlare come cittadino di questo paese. Anzi sono a tutti gli effetti cittadino italiano.
Sicuramente una volta, quando sono arrivato agli inizi degli anni ’60, l’Italia era un paese più affascinante, con più spazio e possibilità di azione. Questo vale per l’Italia come per gli altri paesi, diciamo così, provinciali. Nel frattempo le cose sono cambiate. Trovo che abbiamo passato diciassette anni di disastro culturale. Penso che la recente affermazione di questi governi cosiddetti liberali, di centrodestra, sia stata dannosa per la crescita morale, mentale, culturale, etica dei cittadini di questo paese.
Che cosa pensi dei giovani d’oggi?
Che non hanno vita facile, e noi non contribuiamo a rendergliela agevole. Risolvendo per loro i problemi e riempiendoli di comodità, pensiamo di dare a loro un vantaggio. Invece, proprio a causa di questo nostro comportamento, rendiamo difficile la loro esistenza.
Quali motivazioni ti hanno spinto a scrivere l’autobiografia?
Edmondo Berselli, che pubblicava i suoi libri con la casa editrice Il Mulino, dove era direttore editoriale, e successivamente con la Mondadori, sosteneva che ero uno di quei personaggi degli anni ’60 che avevano diritto di parola. Edmondo mi ha spinto a raccontare la mia esperienza. Io non sono uno di quelli che amano guardare indietro, nella vita trascorsa, con l’intento magari di celebrarsi; ma penso che certe volte faccia bene gettare uno sguardo alle spalle per rendersi conto degli errori che si sono commessi, ma anche delle cose giuste e buone. Quindi ho agito soprattutto perché la Mondadori ha insistito perché scrivessi un libro sulla mia vita. Mi hanno un po’ spinto, devo dire.
Sono stato assistito da Marco Cavani, scrittore bolognese, amico e conoscente. Mi dispiace che la Casa Editrice non abbia messo il suo nome sulla copertina. Nel mio sito, però, il nome compare e il danno, mi sembra, è stato riparato.
La motivazione, dunque, è stata quella di cercare di guardare con spirito critico quello che abbiamo fatto e questa eredità che abbiamo lasciato. L’idea di autocelebrarsi, di esaltare quegli anni è decisamente fuori luogo. Chi ha vissuto i ’60 può andare giustamente fiero perché erano anni belli. Chi non li ha vissuti pensa di avere perso una grande occasione. Ma io ritengo sia un giudizio non del tutto giusto, in fondo.
Se un tuo figlio diciottenne ti dicesse: “Papà, voglio andarmene in America a vivere di musica, come commenteresti questa sua decisione?
Non glielo impedirei, alla fine, ma cercherei di convincerlo a non andarci. Proverei a fargli capire che sarebbe meglio fare qualcosa di più solido. Però, se lui è convinto e decide di provare, di affrontare tutte le difficoltà per vedere realizzato un suo sogno, allora ritengo che sia una cosa positiva. La convinzione e la fiducia in se stessi sono sintomi di maturità. Io penso, infatti, che occorra agire con senso di autocritica, per evitare di vivere delle tragedie più avanti.
Io non ricordo cosa pensassero i miei genitori, quando decisi di andare all’estero (prima ad Amburgo e poi in Italia) per mettere a profitto i miei talenti musicali e artistici.
Che cosa trovi nella professione dell’attore, sia di teatro che di cinema?
Soprattutto questa possibilità di perdersi e di essere qualcun altro, per un momento. Tutti sanno che Shel canta e suona la chitarra. Lo danno per scontato. Ma se lui potesse, per un giorno, essere, che so, un imperatore romano o un serial killer, gli piacerebbe. Ho avuto delle esperienze in merito e trovo che sia una cosa molto esaltante entrare nella psiche di un’altra persona. Non essere più se stesso per un po’. I grandi attori, infatti, cambiano addirittura la faccia, non sembrano più loro stessi. Vedi, per esempio, Pacino e De Niro. Questa però è una caratteristica, diciamo così, anglo-americana di fare l’attore. In Italia è diverso. Nella professione di attore si richiede che tu rimanga te stesso. Non c’è film di Gasman dove non si capisce che è lui. Rimane sempre se stesso. Forse Marcello Mastroianni è l’unico che sia riuscito veramente a uscire da se stesso, movendosi nella scia degli attori anglosassoni.
Nel libro e nel tuo ultimo spettacolo sull’America della beat-generation, si nota un bisogno di impegno anche di carattere politico (in senso lato). Hai dei progetti in tal senso?
L’idea di poter fare il politico di professione, se l’ho avuta, l’ho lasciata ormai dietro le spalle. Oggi cerco di dare un senso a quello che dico e a quello che faccio, insomma.
Mi va di provare a combattere questa voglia di metterti dentro una scatola e comportarti secondo delle regole che ti detta qualcun altro. Poco prima di questa nostra chiacchierata, ho parlato al telefono con Mario Capanna, una persona che mi ha sempre capito e mi ha sempre sostenuto nel mio impegno di uomo e di artista.
Credo che noi abbiamo vissuto una quindicina di anni veramente brutti. Tutte le volte che ho fatto uno spettacolo, ho sempre cercato di spingere la gente a reagire, a indignarsi. Io sto usando questa parola, “indignazione”, da almeno dodici anni, da quando ho rilasciato un’intervista a L’Unità, dove mi dichiaravo indignato e denunciavo Blair e Berlusconi.
Insomma cerco di dire quello che penso, e se il mio pensiero aiuta ad aprire gli occhi di qualcun altro, ne sono felicissimo.
Quali sono i programmi di Shel artista?
In questo periodo mi è tornata un po’ la voglia di suonare, alla grande. Per questo farò una serie di concerti in alcuni clubs, con un gruppo che ho battezzato Hamburg ‘63. Come tu sai, nel 1963 suonavo ad Amburgo. Lì mi sono fatto le ossa, come musicista, in un locale che un po’ di tempo prima aveva visto passare i Beatles.
Nello stesso tempo continuerò con lo spettacolo “Beatnix”, un recital sulla musica, la letteratura, la società dell’America dalla Grande Depressione agli anni ’60.
Concludo con una leggera (e forse ingenua) curiosità, più che una domanda. Quale rapporto c’è, oggi, tra Shel e gli altri tre ex-Rokes (Bob, Mike e Johnny)?
Io non parlo di loro. Se vuoi sapere qualcosa dei Rokes, sono a disposizione, ma non mi piace parlare delle singole persone e dei miei rapporti con esse.
Comunque Johnny lo sento spesso. Vive a Roma e fa il pittore. Bob e Mike, invece, sono in Inghilterra.
INTERVISTA A SERGIO BISSOLI di Paolo Secondini
D. Come è sorta in te la passione per la scrittura, e che
cosa, quest’ultima, rappresenta?
R. Non so come è nata questa passione. E' arrivata nel
1959: avevo 12 anni e ho incominciato a scrivere. Forse l'eccessiva timidezza
nei rapporti sociali mi ha spinto a scrivere; non so. Ho abbandonato questa
passione nel corso degli anni e poi l'ho ripresa. L'ho combattuta quando
mi sono accorto che non rendeva niente. Ma è stata più forte di me. Ho dovuto
assecondarla e adesso sono contento. È uno degli scopi principali della mia
vita.
D. Da che cosa scaturisce la tua predilezione per il
genere fantastico?
R. Fin da giovane ho notato il lato misterioso, insolito
degli eventi. A 15 anni ero attratto dallo spiritismo, dall'occultismo.
Forse speravo di ottenere qualche potere per uscire dalla mediocrità. Il
potere non è arrivato, ma è arrivato un arricchimento della mente e una più
profonda sensibilità.
D. Che cosa
fornisce ispirazione alla tua narrativa?
R. Sempre la realtà. La realtà è così strana! Mi stupisco che
le persone non vedano i lati misteriosi della realtà. Forse perchè sono
imbevute di dottrine, cliché di pensiero, modi standardizzati di guardare il
mondo.
D. Chi è lo
scrittore Sergio Bissoli?
R. Arrivato a questa età posso rispondere con certezza: è
l'uomo. L'uno non può esistere separato dall'altro. È come se il marchio di
scrittore fosse inciso nel mio dna. Non ho colpa né merito. È così.
INTERVISTA A DONATO ALTOMARE di Giuseppe Novellino
R. E’ importante sottolineare che sono stato, e sono tuttora, un lettore
onnivoro, anche se preferisco di gran lunga il genere fantastico. Molti anni
fa, ma davvero tanti, mi è capitato di leggere un pessimo racconto di un autore
abbastanza noto. Alla fine, con l’amaro in bocca, ho borbottato tra me e me la
fatidica frase: anch’io saprei scrivere una stupidaggine come questa. E lo
feci. In effetti non mi ero sbagliato, il mio primo racconto era una
stupidaggine, ma ormai il germe mi era entrato nel sangue. Poi accadde
l’inimmaginabile: un giornaletto scolastico pubblicò il racconto. Era
sbalordito anche dalla imperitura fama che avevo acquisito nella mia scuola,
per cui continuai. Ed eccomi qui.
Che cosa ti spinge a scrivere
fantascienza?
R. Il confine inesistente. Il desiderio di andare oltre. Ma anche di
creare mondi ‘nuovi’, dato che quello attuale non è proprio dei più riusciti.
Ho una buona fantasia e questo mi permette di sbizzarrirmi e di poter affermare
che, nonostante abbia scritto più di duecento racconti e un numero imprecisato
di romanzi, saggi, poesie, sketch teatrali, ecc. non ho mai utilizzato la
stessa idea. Infine la fantascienza, meglio dire il fantastico in genere, si
presta a un gioco mentale che adoro: E se… Ogni tanto mi chiedo: E se avvenisse
una cosa strana, oppure non avvenisse una cosa normale… ecc. ecc.. Magari poi
nasce qualcosa.
Come Vittorio Catani, sei pugliese. Pensi
che quella bellissima terra sia in qualche modo favorevole all’ispirazione
fantascientifica?
R. Infinite le ispirazioni, anche se, per quello che mi riguarda c’è anche
un’altra ragione della collocazione tutta italiana di tantissimi miei lavori.
Anni fa, non rammento se Fruttero o Lucentini che dirigevano Urania, insomma,
uno dei due, se ne uscì con la terribile frase: ‘Un disco volante non può
atterrare a Lucca’. Io la interpretai in due modi: che gli italiani non sanno
scrivere fantascienza, e che non è possibile ambientare le nostre storie in
Italia. Da allora, a meno che il narrato non richiedesse necessariamente altro,
ho ambientato le mie storie in Italia, e in Puglia. A Bari e a Molfetta, anche
dietro casa mia. Un romanzo su tutti: ‘Sinfonia per l’Imperatore’, premio
Italia e premio Vegetti, che è incentrato sul Castel del Monte ad Andria, il
Castello di Federico II. Non so se sono riuscito a smentire quell’affermazione,
ma poco poco direi di sì.
Se hai pubblicato su Urania, sarai stato
anche un lettore dello storico periodico. Puoi dirci qualcosa sul tuo personale
rapporto con esso?
R. Urania ha la ‘colpa’ della mia passione per la fantascienza. L’ho
raccontato altre volte, quindi chi sa la storia mi perdoni. A casa dei miei,
mio padre aveva una fornitissima libreria a muro. Tanto alta che raggiungeva il
soffitto di oltre tre metri. Mi ero accorto che, mentre i primi ripiani erano
fitti fitti di libri ‘classici’, da Verne a Calvino, passando per Verga e Hugo,
in cima c’erano pochi libri. Pensai che fossero libri ‘particolari’, che lui
voleva tenere in alto lontani dalla mia portata, per cui un giorno,
approfittando dell’assenza dei miei, mi arrampicai sulla libreria, dovevo avere
13 o 14 anni, e raggiunsi il ripiano più alto. Pescai a caso e mi ritrovai tra le
mani un Urania di cui rammento ancora il titolo: ‘Mondo senza sonno’. Lo lessi
e il guaio era stato fatto. Per inciso, appresi più tardi da mio padre che
lassù metteva semplicemente i libri che aveva già letto.
Quali sono i tuoi temi preferiti? Che cosa
vuoi trasmettere ai lettori con i tuoi racconti?
R. Andiamo in ordine: i miei temi preferiti. Per la fantascienza, mi piace
assai l’avventura spaziale tout court, senza ‘messaggi’ impegnativi o
moraleggianti. Tipo ‘Vladimir Mei, libero agente’, un romanzo che ha vinto il
premio Italia e che mi sono divertito moltissimo a scrivere, tanto che sto
scrivendo il seguito. Oppure come Mater Maxima, vincitore del primo premio
Urania. Poi mi piace molto la storia alternativa. Ho scritto diversi racconti
del genere (in antologie come ‘E se l’Italia’ o ‘Altri risorgimenti’ a cura di
De Turris) e ne sto scrivendo altri, ma anche come ‘Il dono di Svet’, romanzo
vincitore del secondo premio Urania. Infine adoro l’heroic fantasy, e ho ideato
un personaggio alla ‘Conan’, che si chiama L’Artiglio. Anche questo romanzo è
stato premio Italia (sì, è vero, sono monotono, ma mi piace…). Ciò che invece
non amo molto, anzi per nulla, è il grandguignolesco. Non mi piace chi dice di
fare horror proponendo ammazzamenti, evisceramenti, spellamenti, squartamenti,
ecc. ecc…menti. L’horror è altro.
Cosa voglio dare ai lettori? Un po’ di spensieratezza, soltanto un po’
di piacere nella lettura e, se possibile, portarli a pensare che forse un mondo
migliore potrebbe esserci se soltanto ci impegnassimo un po’ di più. Vedi, ho
scritto ‘ci’, perché non appartengo alla categoria di gente che dà sempre agli
altri la colpa di quello che accade.
Quali sono i tuoi
progetti futuri di scrittore?
R. Perdonami, ma preferisco essere chiamato ‘narratore’, non ‘scrittore’.
Oggi gli scrittori si sprecano, ma quelli in grado di narrare ‘siamo’ in pochi.
E scusa il modesto gesto di presunzione. I miei progetti sono oltre
l’umana possibilità. Lavoro contemporaneamente
a cinque romanzi, mi annoio in fretta e quindi devo passare da un genere
all’altro, poi scrivo racconti che mi vengono chiesti e altri che mi piace
scrivere. Partecipo a iniziative, manifestazioni e sono membro di giuria di tre
o quattro concorsi. Faccio tutto questo perché sono certo che avrò bisogno di
almeno altri cento anni per finire tutto ciò che ho iniziato e poiché non ho
lasciato mai nulla a metà, è una garanzia di lunghissima vita. Ma il mio sogno è di vedere ‘Il dono di Svet’
a fumetti, unica ragione per cui ho scritto quel romanzo a episodi. Sto anche
inseguendo una specie di follia: riportare come lingua parlata il latino. Ho
pubblicato l’unica antologia al mondo di racconti di fantascienza in latino:
Omne Ignotum Pro Magnifico (ed. della vigna). Senza poi parlare del fatto che
sono stato eletto Presidente della World SF Italia e che mi sto impegnando
tantissimo per portare l’associazione ai livelli che merita.
Che cosa pensi del panorama
fantascientifico italiano che si presenta oggi sotto i nostri occhi?
R. Penso che il lavoro mio ma, principalmente, degli ‘eroi’ che mi hanno
preceduto, ha finalmente dato i suoi frutti. Nei tempi passati, quando
‘confessavi’ di scrivere fantascienza, nel migliore dei casi passavi per uno
che ‘crede agli UFO’. Le prese in giro si sprecavano, come i rifiuti di
pubblicare qualsiasi cosa di genere. Oggi gli scrittori di fantascienza sono
tanti e, incredibile dictu, sono pubblicati anche da case editrici importanti.
Merito loro certo, e di quello che scrivono, ma anche merito di chi, a furia di
martellate, ha fatto entrare nella ‘zucca’ degli editori che si può scrivere, e
quindi leggere, buona fantascienza italiana.
I giovani di oggi, per
quanto mi risulta, seguono più il cinema di fantascienza che la letteratura.
Che cosa ne pensi?
R. Questo è un tasto amarissimo. In realtà, i giovani d’oggi, nella
maggior parte, ma ci sono le preziosissime eccezioni, non vogliono ‘pensare’ e
non hanno immaginazione. Loro vogliono soltanto prodotti omogeneizzati, come le
pappine che si danno ai bambini piccoli, una questione di pigrizia mentale che
porta all’appiattimento. Questo accade nella cinematografia, dove non hai
bisogno di immaginare in quanto ci pensano gli altri a dare forma al
fantastico, quindi incrementando quella pigrizia che è indispensabile per
vendere i loro prodotti. Colpa di una pubblicità millantatrice e ingannevole
che ti fa sentire povero, e quindi escluso, che non hai l’Hi Tech di
ultimissima generazione. I pochi giovani di carattere emergono, ma vengono
falcidiati ed emarginati in quanto oggi è imperante la mediocrità. Prova a
riflettere. E’ meglio vendere un prodotto differente a migliaia di persone
differenti, oppure vendere lo stesso prodotto a migliaia di persone omologate?
Facile la risposta. Non sei nessuno se non sei su facebook o non twitti o non
telefoni con l’ultima diavoleria che ti fa anche la barba in macchina, non sei
nessuno se non ti mettono su You Tube o non chatti con amici d’oltreoceano. E’
quello che la pubblicità vuole che si creda e agisce sulle menti giovani e la
stragrande maggioranza di giovani cade nella rete. Ho faticato una cifra per
far capire a mio figlio tredicenne che una certa tuta con un certo marchio è la
stessa cosa della stessa tuta senza quel certo marchio. Ma lui quando l’indossa
si sente ‘diverso’. Il trucco è tutto qui. I nostri figli sono il nostro
futuro. Se ci arrendiamo alla loro omologazione non avremo più un futuro.
Sono sicuro che proprio dalle nuove generazioni di appassionati di
fantascienza può venire la riscossa.
Puoi esprimere una tua
impressione riguardante il sito Pegasus SF, che ha avuto l’onore di pubblicare
dei tuoi racconti?
R. Una domanda difficile con una risposta difficilissima. Come quando si
invita un ospite straniero a una manifestazione e gli si chiede che ne pensa
del paese che lo ospita. La risposta è scontata. Ma cercherò di non essere
retorico. Premesso che sono un entusiasta (e questo molte volte non è un bene),
quindi se vedo qualcuno che si impegna nel genere di narrativa che adoro mi
faccio in quattro per sostenerlo, per cui ben venga Pegasus SF, anzi, mille e
mille Pegasus SF. Tra i suoi difetti c’è quello di tenere i racconti ‘in prima
pagina’ solo pochi giorni, cioè di rendere quasi subito obsoleti ottimi
racconti che pochi si andranno a prendere la briga di cercarli e leggerli
nell’archivio. Tra i suoi pregi c’è quello di avere ottimi lettori fissi che
esprimono il loro parere e ti fanno sentire, te scrittore, letto. Perché devi
sapere che la cosa peggiore per chi scrive e di passare inosservato. Inoltre la
buona scelta dei testi è molto importante per dare spessore alla pubblicazione.
Se poi aggiungi il disegno ‘di copertina’ per ogni racconto… beh!, davvero
lunga vita a Pegasus SF.
INTERVISTA A
GIUSEPPE C. BUDETTA di Paolo Secondini
Da dove è scaturita la tua
passione per la scrittura?
R. La mia passione per la scrittura è stata consequenziale
all’interesse per la lettura, unita a una particolare sensibilità per le arti
in genere. Fin da ragazzo ho letto molto: quotidiani, settimanali, libri ecc.
Molti anni fa, mi diplomai presso il liceo classico A. Genovesi di Napoli. Lo
studio dei classici ampliò le mie conoscenze nei campi della poesia, della
filosofia e della critica letteraria, traducendo numerosi paragrafi di
scrittori latini e greci.
Sei uno scrittore di origine
campana, nato, con esattezza, a Bellosguardo, in provincia di Salerno. È dal
brio e dalla gioiosità tipiche della tua terra che deriva la tua spiccata vena
umoristica?
R. Penso di sì, anche se la mia formazione culturale è maturata a
Napoli (periferia est).
Quali sono i generi letterari
che prediligi maggiormente, e quale libro, tra quelli letti, ti ha comunicato
qualcosa in più rispetto ad altri?
R. Non ho preferenze. Mi piace leggere saggi scientifici che
esplorano i segreti della mente umana e volumi di critica letteraria.
Dove trai, in genere,
ispirazione per i tuoi racconti?
R. Traggo ispirazione dalla vita che si svolge intorno a me. Osservo
la gente in strada e mi trattengo volentieri a discutere di cose varie (anche
di sport) nei bar e in qualche circolo.
Chi è lo scrittore Giuseppe
Costantino Budetta?
R. Non saprei.
Come per tanti altri, vale il detto: uomo, conosci te stesso.
INTERVISTA A VITTORIO CATANI di Giuseppe
Novellino
Per gli appassionati di
fantascienza non hai bisogno di presentazioni. Ma puoi dirci lo stesso qualcosa
della tua carriera di scrittore?
Anzitutto ti ringrazio per questa intervista, che mi consente di
raccontare qualcosa circa quegli strani ET che si dice siano gli scrittori di
fantascienza. La “carriera” di cui mi chiedi, parte… a mia insaputa
(espressione di moda) dalla tenera età di circa dieci anni. Insomma c’era quel
bel giornalino formato tabloid: “Topolino”, che pubblicava anche un fumetto a
puntate di fantascienza (parola che a quei tempi, seconda metà degli anni ’40,
ancora non esisteva). Il fumetto, a colori, si chiamava “Satana dell’Universo”
e narrava del (classico) scienziato pazzo, che voleva distruggere la Terra, e
per farlo riusciva a scaraventare il pianeta Marte contro di noi. Incidenti che
succedono, nella fantascienza. E c’erano anche i Marziani, che venivano a
trovarci: gente dall’aspetto distinto, alta due metri, con addosso palandrane
vivacissime e con la pelle verde, una cresta gallinacea sul cranio e le grandi
orecchie appuntite (chissà che Spock non abbia copiato da loro…) Questa storia
fu per me come un film tridimensionale a colori: mi suscitò sensazioni inedite.
Mai visto prima nulla di simile. Mi faceva pensare allo spazio interstellare e
a profondità abissali, viaggi tra mondi lontanissimi attraverso un cielo
rigurgitante di stelle, comete, galassie, macchine meravigliose mai immaginate,
storie sgargianti e avvincenti che ti prendevano alla gola: era il subdolo
virus. E mi aveva contaminato. Pochi anni dopo, nel 1952, nelle edicole apparve
la collana mondadoriana “Urania”. Pubblicava romanzi di autori statunitensi
sconosciuti (Asimov, Clarke, Heinlein e altri), ma erano storie davvero
straordinarie, del tutto fuori dai canoni narrativi cui ero stato abituato. La
fantascienza faceva il suo ingresso in Italia. Ne fui tanto coinvolto che due o
tre anni dopo mi venne voglia di scrivere qualcosa che imitasse le opere di
quegli scrittori, che io immaginavo divinità inavvicinabili. Scrissi il primo
raccontino, e anche un tentativo di romanzo. Una cosa creata solo per me
stesso. Un secondo raccontino. E così via. Alcuni anni dopo, era il 1962,
riuscii a pubblicare un racconto. Apparve su “Galaxy”, una rivista americana
(versione italiana). Fui retribuito con 15.000 lire. Non male, per quei tempi.
Poi ho sempre proseguito su questa strada. Ma molto lentamente, perché a 18
anni trovai lavoro nella ex Banca Commerciale Italiana, che ora è Banco di
Napoli. Il mio primo libro vide la luce nel 1972, un tascabile della collana
piacentina “Galassia”: conteneva un romanzo breve e tre racconti. Sono sempre
stato un autore di racconti, ne ho scritti moltissimi, sui temi più svariati.
Il romanzo mi attirava poco, ma soprattutto mi è sempre piaciuto cambiare temi
e scenari. Non scriverei mai un “seguito” di una mia storia: mi sembrerebbe di
copiarmi.
Come sei arrivato al primo
Premio Urania?
Al Premio Urania sono arrivato per puro caso. Era il 1989. Avevo
scritto il mio primo romanzo, “Gli universi di Moras”, impiegando una diecina
d’anni. Il lavoro in banca mi occupava dalle 8 di mattina fino quasi alle 8 di
sera, e quindi potevo scrivere solo durante i sabati, le domeniche, nelle
festività, nelle ferie, di notte, nelle convalescenze. Il che, tra l’altro, non
entusiasmava affatto la mia ex consorte, e quindi spesso avrei voluto scrivere
ma non potevo. Comunque alla fine mi ritrovai con 230 cartelle dattiloscritte
senza sapere che farne. La fantascienza non è stata mai, in Italia, merce molto
commerciabile. Anche la casa editrice Nord, che accettava ogni tanto scrittori
italiani, aveva abbassato la saracinesca. Ma un amico mi segnalò una novità: il
Premio Urania, per il quale stavano scadendo i termini. Telefonai alla
Mondadori accertandomi che avrebbero accettato l’opera anche se fosse arrivato
qualche giorno dopo la scadenza. Fotocopiai il testo, lo spedii e me ne
dimenticai. Alcuni mesi dopo ricevetti una telefonata da Lino Aldani (uno dei
cinque giurati del Premio) che mi diede l’inattesa (quindi ancora più gradita)
notizia. Aldani è stato uno dei padri fondatori della fantascienza scritta in
Italia nonché – a mio parere – il miglior scrittore. Il mio romanzo riprendeva
uno dei temi più affascinanti della fantascienza, gli universi paralleli. Il
protagonista, Antonio Moras, era un “viaggiatore”, ovvero uno di quei pochi
che, per finalità di studio e di esplorazione, (una iniziativa
tecnologico-scientifica promossa da un ente statale) visitavano altri universi,
per poi rientrare e fare rapporto di quanto scoperto. Aver vinto quel premio
ebbe notevoli ricadute positive, prima fra le quali la mia collaborazione alla
pagina culturale del quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
Una domanda un po’ frivola.
Puoi dirci in che modo il luminoso ambiente pugliese ti ha ispirato a scrivere
fantascienza?
Il “luminoso ambiente” mi ha ispirato moltissimo. Qualcuno si chiederà
cosa c’entri la Puglia con la fantascienza. C’entra, eccome. Diversamente da
quanto si può credere, la “sf” (science fiction è il nome anglosassone di
questa narrativa) nasce dal mondo reale. L’autore focalizza un aspetto
particolare della realtà e si pone la classica domanda: “Cosa accadrebbe se…?”
Cosa sarebbe accaduto se il Terzo Reich avesse vinto la guerra. Cosa accadrebbe
se si inventasse qualcosa che cancella nella mente i brutti ricordi. Se l’uomo
potesse costruire una piccola protesi cerebrale che gli permettesse di
“parlare” mentalmente con il possessore di un’altra protesi. E via dicendo. Il
bellissimo scenario pugliese, ingigantito e amplificato (o impoverito) in
qualcuna delle sue componenti, si ritrova nello scenario di molti miei
racconti, a volte trasfigurato in foreste di altri pianeti. Non sono un
ecologista di professione, ma sostengo molto la difesa dell’ambiente. Anche
scrivendo storie di sf “ecologica”. Ritengo che l’ecologia sia un elemento
primario nelle storie di fantascienza.
Veniamo a “Il Quinto
Principio”. Che genesi ha avuto?
Anche qui ho impiegato un decennio per scrivere e veder pubblicato
questo mio secondo romanzo. Nel 2000, incoraggiato sia dalla mia compagna Elisa
– che benignamente mi rimproverava di dedicarmi solo ai racconti – sia dal
fatto che ormai ero in pensione e quindi con maggior tempo disponibile, decisi
di riprovare. All’inizio non avevo un’idea precisa, sapevo solo che volevo uno
scenario a più ampio respiro, con molti personaggi, e una trama che portasse a
situazioni estreme in un prossimo futuro alcune storture del presente, specie
in campo sociale e politico (è questo il tipo di sf che mi interessa maggiormente).
Era l’epoca in cui imperversava la “finanza creativa” di Tremonti, il quale
tirava fuori dal suo cappello magico operazioni allucinanti, quali lo
“spargere” debiti sulle generazioni future. Non era nelle mie intenzioni tirar
fuori 550 pagine, non avrei mai creduto che ne fossi capace, ma scrivendo mi
accorgevo che la storia aveva bisogno di ulteriori supporti e personaggi, o
automaticamente si ramificava verso altri eventi. Alla fine (era il 2005),
anche qui mi ritrovai con un lavoro improponibile, stavolta per le dimensioni.
Mondadori me lo rifiutò senza leggerlo: Urania aveva un numero di pagine
standard e quindi insufficienti per ospitarlo. Lo inviai a due o tre case
editrici non specializzate in sf: non ebbi alcuna risposta. Dopo tre anni tornai
alla Mondadori. Stavolta riuscii a piazzarlo, perché piacque molto al Direttore
delle testate da edicola, che all’epoca era Sergio Altieri. Il romanzo uscì
dopo un paio di anni (2009) su un Urania “speciale”.
Mi ha colpito il fatto che lo
scenario si basa su realtà minacciose e disgregatrici attualmente in corso. Hai
voluto inviarci un monito su quello che potrebbe accadere?
La parola “monito” ricorre spesso quando si parla di un certo tipo di
sf, ma personalmente preferirei un vocabolo meno serio. In fondo l’autore
scrive soprattutto per coinvolgere piacevolmente (se ci riesce) il lettore.
Insomma scrive per “divertire”, nel senso più ampio del termine; per “far
riflettere”. Era questo lo scopo del mio romanzo. E certamente, un romanzo così
lungo avrà momenti ben riusciti e altri meno. Comunque ne esco soddisfatto. Ho
ricevuto moltissimi commenti e recensioni positivi, talora entusiastici, ma
anche qualche stroncatura. Accadde anche con il primo.
Non ti sembra che quello
scenario possa essere un po’ prematuro, nel 2043?
Mah… Tutto sommato direi di no. Ci corre un trentennio. Se si pensa
com’è mutata la nostra vita dai primi anni Ottanta, quando eravamo senza
computer e cellulari e coronarografie etc, e se si pensa alle innumerevoli
piccole (ma importanti) scoperte di questi ultimi anni, specie nei settori
tecnologico e biologico, lo scenario del romanzo mi sembra abbastanza congruo.
Nel tuo romanzo hai voluto
fare qualche allusione alle profezie del 2012?
Rispondo con la massima decisione: no. I Maya mi affascinano
enormemente, ma la scienza è un’altra cosa.
Dove sta andando, secondo te,
la fantascienza italiana?
Anche qui risposta rapida: da nessuna parte. In 60 anni di esistenza,
la sf nostrana non ha saputo tirar fuori un qualcosa di concreto, come è invece
accaduto in altri Paesi che non siano gli Usa: Francia, Germania, Spagna,
Inghilterra… per non dire dell’Est Europa. Fin dall’inizio, il lettore ha
nutrito un rigetto per la sf italiana, tranne casi rarissimi. Il fatto è che la
nostra sf è inevitabilmente diversa da quella “standard” (leggi: statunitense),
perché diversa è la nostra cultura europea. Come è differente quella francese,
o tedesca. E i nostri editori (diversamente che in Francia o in Germania) non
hanno mai preso davvero a cuore la questione, e quando l’hanno presa non hanno
saputo gestirla, pretendendo da autori italiani romanzi all’americana. Il
discorso è troppo lungo e controverso, non vado oltre. Dico solo che certamente
ci sono e ci sono stati autori validissimi, ma sono molto “personali”, diversi
tra loro, che pertanto non fanno scuola. E al di fuori dell’ambiente specifico
non li conosce nessuno. Alcuni nomi tra i maggiori (oltre Lino Aldani, già
citato): Vittorio Curtoni, Renato Pestriniero, Paolo Aresi, Remo Guerrini, Franco
Ricciardiello, Sandro Sandrelli, Laura Serra, Nicoletta Vallorani, Dario
Tonani, Lanfranco Fabriani, Giovanni De Matteo. Anche grossi nomi della nostra
cultura hanno scritto occasionalmente fantascienza. Fra questi Luce d’Eramo,
Dino Buzzati, Ennio Flaiano, Primo Levi, Italo Calvino, Gianni Arpino, Paolo
Volponi, Corrado Alvaro, Giorgio Scerbanenco.
Puoi
dirci quali sono i tuoi progetti futuri?
Al momento non ho programmi particolari, a parte raccogliere in volume
alcune mie storie che hanno tematiche in comune. Da alcuni anni esiste una
rivista online di ecologia, Villaggio Clobale, che è trimestrale; ogni uscita
tratta un tema, e per ciascuno di questi temi, volta per volta, io invio un mio
racconto che tratta l’argomento. È un po’ anche una sfida a me stesso. Finora
ne ho scritti una cinquantina. Inoltre prosegue la collaborazione con la
“Gazzetta del Mezzogiorno” con articoli che “sfiorano” la fantascienza (caso
forse unico in Italia). Questo è tutto. In realtà – ci penso solo ora – io non
ho mai avuto un programma ben determinato in questa mia attività, se non quello
di scrivere ciò che mi passa per la mente. D’altronde, con una editoria così
rachitica e una platea di lettori non sempre ben disposti, è davvero difficile
progettare…
Da qualche tempo sei ospite di
Pegasus. Che cosa pensi di questa esperienza?
Dico che ne sono lietissimo, per vari motivi. È bello ritrovarsi in rete, circondato da materiale valido e da nomi noti, e anche ignoti ma promettenti. In Italia il genere narrativo “fantastico”, con le sue diramazioni (fantasy, sf, horror eccetera) non è mai stato davvero valorizzato. Eppure la storia della nostra letteratura sia dell’Ottocento sia del Novecento è costellata da opere palesemente fantastiche, di ottima fattura, praticamente dimenticate: potrei elencarne pagine. Oggi la rete diventa una enorme vetrina. Non sono il solo a pensare che l’editoria tradizionale, che già sta subendo scosse, dovrà in qualche modo aggiornarsi. Il web rigurgita di scrittori e poeti, ovviamente non sempre all’altezza, ma è bene che tutti possano partecipare: il popolo della rete saprà scegliere.
Dico che ne sono lietissimo, per vari motivi. È bello ritrovarsi in rete, circondato da materiale valido e da nomi noti, e anche ignoti ma promettenti. In Italia il genere narrativo “fantastico”, con le sue diramazioni (fantasy, sf, horror eccetera) non è mai stato davvero valorizzato. Eppure la storia della nostra letteratura sia dell’Ottocento sia del Novecento è costellata da opere palesemente fantastiche, di ottima fattura, praticamente dimenticate: potrei elencarne pagine. Oggi la rete diventa una enorme vetrina. Non sono il solo a pensare che l’editoria tradizionale, che già sta subendo scosse, dovrà in qualche modo aggiornarsi. Il web rigurgita di scrittori e poeti, ovviamente non sempre all’altezza, ma è bene che tutti possano partecipare: il popolo della rete saprà scegliere.
INTERVISTA A
GIUSEPPE NOVELLINO di Paolo Secondini
Come è nata in te la passione
per la scrittura e quando?
R. La mia
passione per la scrittura risale alla più tenera età. Avevo undici anni, quando
scrissi una poesia per Paola, mia coetanea. Naturalmente la tenni in un angolo
del mio cassetto personale. In seguito la stracciai, contento di non averla mai
sottoposta all’attenzione della ragazzina in oggetto.
Il piacere di scrivere è scaturito dal piacere di leggere. Sono sempre
stato un lettore appassionato, spinto dalla voglia di esprimere, a mia
volta, idee e fantasie che mi frullano nella mente.
Quali sono i generi letterari
che più prediligi, e quale libro, di un autore famoso, avresti voluto scrivere?
R. Sono un
lettore onnivoro. Tendo anche a rivisitare i cosiddetti libri che contano
(romanzi, opere di poesia, saggi), che hanno lasciato un segno indelebile e che
chiamiamo classici. Tuttavia ho i miei gusti particolari. Amo il mistero,
dispongo di un’immaginazione e di una fantasia piuttosto fervide. Prediligo la
letteratura fantastica, soprattutto la fantascienza, il giallo e l’horror. I
miei autori preferiti, in questi ambiti, sono Richard Matheson, Philip Dick,
Joe Lansdale, Cornell Woolrich, Raymond Chandler. Ma adoro anche i nostrani
Dino Buzzati e Giorgio Scerbanenco.
Mi sarebbe piaciuto tanto scrivere un libro come “Fahrenheit 451” (Ray
Bradbury). Si tratta di una delle dieci opere che mi porterei su un’isola
deserta.
Quali emozioni avverti nel tuo
animo mentre inventi o scrivi una storia?
R. Il piacere dell’invenzione
innanzitutto. Godo letteralmente quando vedo che un’idea prende forma e mette
in moto un ingranaggio funzionante. Che poi il racconto lo legga qualcuno, per
me è secondario. Comunque, non scrivo mai per me stesso, ma sempre in funzione
di un possibile lettore.
Mi piace anche comporre articoli, brevi saggi, recensioni di libri e di
film.
Ho pubblicato anche due libri di racconti per bambini, presso La Scuola
Editrice di Brescia. In quell’occasione furono i miei tre figli, di otto, sei e
quattro anni, a fornirmi l’ispirazione.
Dove trai, in genere,
ispirazione per la tua narrativa?
R. Dipende
dalla storia. In genere mi calo nei panni dei personaggi e cerco di provare
quello che loro provano. Se avverto a mia volta dei brividi, delle emozioni,
allora sono consapevole che la storia funziona.
Chi è lo scrittore Giuseppe
Novellino?
R. Poche
parole: sono stato insegnante per quarant’anni; amo la gente (con tutti i vizi
e le virtù), gli animali e la natura; mi impegno per la giustizia, per la pace
e per la difesa dei diritti umani; non ho mai abbandonato il desiderio di
cercare senso e verità in ciò che faccio e in ciò che sta intorno a me. Eppure
mi definisco un allegro pessimista, nel senso che non mi faccio facili
illusioni, so che la vita non è mai facile. Ma sono credente e coltivo, dentro
di me, la speranza.
Non sono un bacchettone e neppure mi metto nel novero di quelle persone
solo serietà e impegno. La mia fantasia mi porta a staccarmi sovente, a volare
qua e là in altre dimensioni. Allora mi perdo un po’… e scrivo.
Ho pubblicato un romanzo (“Dinamite pura”) e una raccolta di racconti a
sfondo fantascientifico (“La vertigine e l’attesa”), ambientati nella mia
Valtellina. Ho altri due romanzi nel cassetto, ma per il momento mi sto
dilettando a scrivere raccontini per il mondo del web.
E intanto mi alleno ad affinare le mie capacità espressive.
INTERVISTA A VINCENZO DI PIETRO
di Paolo Secondini
R. Nasce dal fatto che, già
da bambino, destinavo la mia paghetta per ogni nuovo romanzo di Stephen King,
Clive Barker e altri autori capaci di aprire mondi fantastici nella realtà. Con
il tempo ho allargato la “cerchia” delle mie “amicizie” e oggi combatto con lo
spazio per custodire i miei libri…
Della narrativa
fantastica prediligi la fantascienza. Quali rapporti hai con gli altri generi,
per esempio l’horror, il gotico, il weird?
R. Credo che il genere fantastico sia il frutto di una
contaminazione tra le trame horror, gotiche e fantascientifiche. Ho amato molto
i romanzi di Crichton, dove fatti assolutamente reali sono utilizzati per
disegnare scenari inquietanti e plausibili. A giugno, per i tipi della Leone
Editore, nascerà il mio nuovo romanzo, IL NUMERO DI DIO, un bel “mattoncino”
che, attingendo da notizie vere, propone un’ipotesi parecchio inquietante sul
nostro futuro e sul rapporto con la fede.
Da chi o che cosa
t’ispiri per la tua narrativa?
R. Continuo a pensare che la scrittura sia un’esigenza
insopprimibile. Le storie nascono dalla necessità di trascinare sulla carta
un’idea, che si forma lentamente e con sofferenza attraverso la dedizione e il
sacrificio anche fisico.
Chi è lo scrittore
Vincenzo Di Pietro?
R. Un “ragazzo” che ha cominciato a scrivere con una Olivetti,
quando non era ancora tempo dei Word scritti e che, dopo aver pubblicato il suo
primo romanzo, si è ubriacato con uno spumante economico che sapeva di
tachipirina. Oggi, a trentotto anni, dopo sette romanzi pubblicati e parecchi
reading in giro per l’Italia, continuo a sentire il bisogno di creare storie, a
volte strutturate, a volte istintive, sperando che appassionino i miei lettori.
INTERVISTA A PIERRE JEAN BROUILLAUD di Giuseppe Novellino
R. Pierre Jean Brouillaud è vissuto molto e ha
vissuto, nella sua infanzia, la seconda guerra mondiale. Ha viaggiato parecchio
ed esercitato diversi mestieri: quello di insegnante, giornalista, traduttore,
amministratore. Ha presieduto per dieci anni l’associazione INFINI, che
raggruppava scrittori e lettori della
letteratura dell’immaginario, come la definiamo noi francesi.
Quali sono i tuoi gusti letterari? Su quali letture ti
sei formato?
R. Sono un poliglotta per formazione e ho,
dunque, letto moltissimo, in varie lingue, diverse forme di letteratura, senza
mai preoccuparmi dei "generi".
Come hai iniziato la tua attività di scrittore?
R. Ho cominciato scrivendo testi per il teatro (uno di essi è stato
diffuso dalla radio francese), poi sono passato alla stesura di novelle, adatte
a esprimere una certa drammaticità.
Che cosa trovi nella narrativa fantastica e in quella
fantascientifica in particolare?
R. Il fantastico è per tutte le età. La
science-fiction, che ha il grande merito di interrogarsi sul futuro dell’uomo,
della società e di un pianeta che ci adoperiamo per distruggere, non suscita
più, attualmente, lo stesso interesse presso i lettori. L’uomo – il suo
avvenire, la sua sopravvivenza, la sua possibile solitudine nell’universo, la
sua stessa identità – è rimesso in discussione, ma la scienza fa meno sognare
oggi, e impensierisce spesso.
Quali sono i temi che più ti interessano?
R. Si veda la mia risposta alla quarta domanda.
A quale delle tue opere sei più affezionato?
R. A quelle che hanno ottenuto meno successo,
perché l’autore e il lettore non hanno necessariamente lo stesso modo di vedere
le cose, la stessa ottica.
Che cosa intendi esprimere con la tua arte di narratore?
R. Cerco di trovare un contatto con i lettori
che condividono un po’ la mia visione o, per lo meno, che se ne interessano.
Cerco anche di intrattenerli.
Che cosa pensi delle attuali tendenze in campo
fantascientifico e fantastico in generale?
R. Si veda la mia risposta alla domanda numero
quattro. Io penso che la space-opera sia
un po’ passata di moda e che il problema essenziale è attualmente (lo
ripeto) : l’uomo rimesso in discussione.
Conosci le lingue piuttosto bene. Che cosa trovi nella
tua attività di traduttore?
R. Quello del traduttore è un mestiere
appassionante ma scoraggiante, perché il risultato non sarà mai corrispondente all’originale. Ci sarà sempre
una discordanza. Ma si mantiene il contatto. E si ha modo di fare amicizia.
Allo stesso modo anche qualche inimicizia.
Cosa consiglieresti a un giovane che voglia cimentarsi
nella scrittura di fantasy o di fantascienza?
R. Ho espresso qualche riserva sul modo in cui
il pubblico accoglie oggi la science-fiction.
Quanto al fantasy, non mi interessa granché. È una fuga in un passato di paccottiglia.
Una via senza uscita. Tutto il mondo non può scrivere Il signore degli anelli. Il fantastico resta un valore sicuro.
Anche a te due domande d’obbligo: come sei arrivato a
Pegasus SF? Che cosa pensi di questo
sito letterario?
R. Per il sito "Un auteur,
des nouvelles", che pubblica molti autori italiani, spagnoli e
latino-americani, in più francofoni, naturalmente, ho tradotto e fatto
pubblicare il racconto di Paolo Secondini UN OTTIMO PASTO, apparso
nell’antologia IUSTITIA MORTIS, Edizioni Scudo.
Poi, ho conosciuto
e molto apprezzato il lavoro del sito di Paolo. Sono lieto di collaborarvi.
INTERVISTA A SERENA GENTILHOMME di Giuseppe Novellino
Una fiorentina francese. Ci puoi fornire una spiegazione?
R. Correva
l’anno 1957. Avevo otto anni e mezzo e m’annoiavo a morte in villeggiatura con
i genitori, a Courmayeur, quando, a Ferragosto, la Provvidenza – o chi per lei
– mi fece incontrare una Parigina della mia età, con la quale mi accapigliai
subito. Le sonorità dei suoi insulti mi affascinarono a tal punto che,
l’indomani, annunciai alla mamma che da grande sarei stata professoressa d’italiano
in Francia – o niente. A più d’un mezzo secolo dall’evento, non solo non
rimpiango la mia precoce scelta, anzi: se fosse da rifare, la rifarei.
Come è nata la tua passione per la scrittura?
Su quali letture ti sei formata come scrittrice?
Quali motivazioni ti hanno spinta verso il genere fantastico?
R. Mi
permetto d’unire queste tre domande, perché sono strettamente legate: nata e
cresciuta in una famiglia austera e soffocante, con pochissimi amici, ma
stracarica di libri. Questi ultimi hanno costituito la sola evasione possibile,
la mia sola compagnia. My best friend era la Divina Commedia illustrata da Doré
– ma io ero convinta che Dante si fosse illustrato da solo – ed ho imparato a
leggere secondo un metodo mio, quello d’indicare le lettere e di chiederne il
suono corrispondente. Un giorno – avevo quattro anni –, mi misi a declamare
Dante ad alta voce, ed i miei genitori e nonni, allibiti, non sapevano se
rallegrarsi o scandalizzarsi: infatti ero capitata nella bolgia degli
adulatori… Scatologia dantesca a parte, credo che l’Alighieri sia stato il mio
formatore ed anche il catalizzatore del mio amore per il fantastico,
preferibilmente infernale.
Quali sono i temi narrativi che prediligi?
R. Provo
un’irresistibile attrattiva per l’attimo – che ci attende tutti – in cui la
morte ci rapisce. Cerco d’immaginare, con curiosità e paura, le sensazioni, se
sensazioni ci sono, che proveremo in quel momento. Detto questo, anche il tema
della follia m’ispira, senz’altro perché essa è l’agonia della ragione.
C’è un nesso tra la tua arte e l’interesse per la storia del cinema?
R. Il
nesso c’è, ed è strettissimo. Dopo le immagini di Doré, sono stati i fotogrammi
del cinema espressionista tedesco – Nosferatu e Caligaris principalmente – che
mi hanno segnata a vita. Anche in questo caso, lo choc visivo è stato precoce.
Tra Italia e Francia. Quale delle due lingue scegli per le tue opere?
R. Dipende dalla destinazione del
testo. Quando mi capita di tradurmi in un senso o nell’altro, provo una
sensazione stranissima, al limite della schizofrenia!
Che cosa pensi della fantascienza in generale?
Secondo te, oggi, gode di migliore salute il cinema o la letteratura di
fantascienza?
R. Data la mia incompetenze in merito, preferisco non pronunciarmi! In
compenso, per quanto riguarda il fantastico e l’horror, penso che la
letteratura sia in migliore condizione di salute, almeno nel fandom francofono
– Francia, Belgio e Québec.
Quali sono i tuoi progetti futuri in campo letterario?
R. Nell’immediato: un racconto destinato ad
un’antologia sulle leggende australiane, diretta da Marc Bailly per le edizioni
Voy’el. È una faticaccia, dato che l’Australia è il solo continente nel quale
non ho mai messo piede. Tra uno sforzo d’immaginazione e l’altro, scrivo una
novelletta macabra per partecipare ad una raccolta della mia amica scrittrice
pittrice quebecchese Valérie Bédard, di cui spero poter tradurre la prosa per Pegasus,
un giorno: si tratta d’una storia d’amore tra zombies… Ho anche due progetti di
romanzo ispirati dalla cronaca nera italiana e francese, ma è prematuro
parlarne.
Come ti sei accostata a Pegasus? Che cosa ne pensi?
R. È stato
grazie a Pierre Jean Brouillaud che mi ha messa in contatto con Paolo
Secondini: dato l’altissimo livello di Pegasus, non lo ringrazierò mai
abbastanza!