mercoledì 19 ottobre 2016

SENZA TITOLO di Paolo Secondini

Si ritrovarono, all’improvviso, in un vasto spiazzo bianco e privo di rilievo.
Erano lì, ferme, come cadute dall’alto.
«Che senso abbiamo?» domandò, sbigottita, l’una all’altra.
«Non so… non riesco a capirlo… Forse siamo l’aborto di un raglio?»
«Una cosa è evidente: così vicine e per l’aspetto che abbiamo potrebbero scambiarci per due elle minuscole,» rispose la i maiuscola alla propria gemella.

sabato 8 ottobre 2016

OSSA DI ZUCCHERO di Frank Bernardi

 
Non veder, non sentir m’è gran ventura
Michelangelo

 
Gli abeti, non pochi, erano però assai spelacchiati, paurosi, come colpiti da qualche virus.
“Non li ricordavo – dissi a mia madre accanto a me in macchina – così brutti”.
“Cosa?”, chiese lei da sotto le spesse lenti affumicate. Non aveva capito a cosa mi riferissi.
“Gli abeti, mamma”, precisai, “gli abeti sono spelacchiati”.
“Davvero, Gianna? Non ci avevo mai fatto gran caso...”.
“Forse, mamma, sono sempre stati così”.
“Boh!”, concluse e la vidi addormentarsi in pochi attimi. Russava.
Sette chilometri ancora fino al passo, poi una bella discesa e saremmo giunte al paese.
E sinceramente continuavo a chiedermi per quale motivo mi fossi offerta di accompagnare mia madre Alda al paese. Erano ormai svariati anni che mi rifiutavo di partecipare a quella delirante cerimonia sulla quale nessuno pareva avere niente da ridire o commentare. Questa volta una molla del cervello era malauguratamente saltata: di mia sponte, quasi con inspiegabile entusiasmo – che aveva in qualche misura sorpreso anche una donna semianestetizzata come mia madre - avevo aderito alla paurosa iniziativa, del tutto inutile nonché demenziale comunque si rigirasse la cosa. Già vedevo la porta antica che s’avanzava, l’unico rudere decente del nostro paesello insieme alle vecchie mura. La vettura con figlia e madre la stava attraversando a velocità assai moderata. Facile figurarsi che quell’arco fosse soprattutto la porta di un inferno custodito con cura.
Vetrine e vetrinette, le stesse. Io, la stessa. Mia madre, la stessa. Tutto è lo stesso, malgrado il tempo, tutto è sottratto al tempo. Io, la donna più brutta del quartiere e forse anche della città intera, o perlomeno fra le più brutte. Si comincia dalla faccia, che ha l’indubbio monopolio su tutto il resto, viso malamente scolpito, non finito. O, più in dettaglio: viso da criceta, forse da topa di fogna o magari topa da esperimento. Con fila di denti superiori mai coperti dalle troppo sottili labbra, talvolta violacee talvolta verdi e quasi trasparenti. Dipende da come cade la luce, se è artificiale o solare. Dipende. Con mento che si salda mollemente al busto, escludendo la possibilità di collo. Corpo da scricciolo, sottosviluppato, facile da stritolare. Con esili braccia, che magari ogni tanto si mettono a tremare. Con mani minuscole. Con unghiette piccole e ben curate, almeno quello. Con capelli perennemente unti e calanti (ma perché?). Con gobba. Non così pronunziata, certo, ma comunque un dettaglio, di cui non c’era bisogno, che si somma ad un quadro generale già spaventoso di suo. Non si può inoltre tacere della voce, anzi vocina, piccola, minuscola, tutta frequenze alte, altissime, sgraziate, tanto da muovere al riso l’ascoltatore. Tutto sembra un cartone animato, ma in realtà sono io, la più sgraziata e disgraziata delle donne, dotata non di voce ma di disco che si ode dalle viscere di una bambola Furga.
Poi, come accennavo, ho le ossa di zucchero, graziosissime da frantumare. Forse faranno, ove maciullate, un rumore da scheletro di quaglia d’allevamento, pigolante e prigioniera nel pugno dello chef boia. Una stretta più forte e decisa: e io reclinerò il collo in avanti, docile e cadavere. Cosa che in realtà non mi è tanto facile realizzare da sola nel mondo degli uomini, un po’ per rabbia mia profonda, un po’ per costrizioni oggettive. In altri termini: non m’ammazzo perché spero di vendicarmi, di rifarmi, di avere giustizia. E perché c’è mia madre, l’odiata. “Non puoi darle anche questo dispiacere”. Tutti i giorni, domenica esclusa, salva la messa centrale, fuori casa con codesta per la passeggiata di rito, entro la quale si fa rientrare anche la cerimonia della spesa e dell’irrisione celata - nei miei confronti - da parte dei negozianti. Alcuni bottegai sono ormai morti: li ho conosciuti sin da quando ero bambina e già brutta come oggi, e mia madre, triste sempre, colpevole sempre, mi portava nei fondi bui e impregnati di spezie, incatramati, ove mi spettava una sottile fettina di mortadella da assaggio. Guai se la mortadella non ci fosse stata; trattavasi di una sorta di compensazione. All’inizio perché ero piccola, poi per il mio stato mostruoso. Dalla bottega fino ai neon di supermercati ove l’esposizione agli sguardi del pubblico è massima e ove occorre un robusto allenamento psicologico per non soccombere, sebbene ciò che la gente pensa sia sempre la stessa cosa: guarda che mostro, giriamoci dall’altra parte. “Guarda che orrore, poveraccia, ma certo sarà abituata ad essere osservata”. “Come, del resto, si può evitare di guardarla”. Come, del resto, si può evitare di guardarmi? Vorrebbe dire essere privi della vista. E poi c’è al solito mia madre, non bella ma neppure un mostro come me: tollerabile, in fondo. Coi suoi baffi da vecchia, ma questo è quasi nulla. Mia madre che cammina dietro di me, mai davanti. Una bella coppietta, dunque, anche se risulta poco chiaro se io sia la guardiana di mia madre oppure ella la mia tutrice, l’angelo badante, del resto responsabile della mia venuta al mondo. La quale genitrice, credo io, non si renda perfettamente conto del tipo di gravame che mi ha consegnato dandomi alla luce. O meglio: sente, come un animale, di aver fatto un grave sbaglio, percepisce la colpa su di sé, ma sa anche come ridurre la questione, nel suo intimo, ad un nulla. Il tutto le viene naturale e insieme le conviene.

(Fine prima parte di abbozzo di stesura, estate 2016, Roma)