lunedì 29 aprile 2013

IL MORBO di Matteo Bigarella

                                
Era un morbo silenzioso e implacabile quello che si abbatté sul Paese, seminando ovunque rovina e devastazione. La scienza medica, allora come oggi, era assolutamente impotente di fronte a una simile piaga. Oh, quanti amici e parenti vidi cadere, piegati da quel male oscuro!
Non esistendo alcuna cura, si poteva soltanto cercare di evitare il contagio. Mi ritirai in una sperduta baita sulle Alpi, lontano dal consorzio umano. I mesi passarono, uno uguale all'altro, e con essi le stagioni. Nel tentativo di alleviare la noia, presi a fare lunghe escursioni nei boschi.
Un giorno, durante una di queste passeggiate, mi parve di udire una voce in lontananza. Mi voltai, spaventato. Tesi l'orecchio. Un frusciare di sterpi, stavolta più vicino, seguito dal rumore secco di un ramo spezzato. Non mi ero sbagliato, qualcuno si stava avvicinando. Che i contagiati si fossero spinti fin lì? L'istinto fu quello di scappare. Ma non vedevo altre persone da troppo tempo e la curiosità ebbe il sopravvento. Mi acquattai dietro un cespuglio di rovi, in attesa.
Dopo qualche secondo, vidi un ragazzo e una ragazza muniti di grossi zaini da campeggio. Entrambi belli, biondi e sorridenti. Lui la spinse da dietro per scherzo, lei gorgheggiò divertita e gli diede uno schiaffo affettuoso sul braccio. Non fecero caso a me, troppo presi dai loro giochi d'amore. Così come erano apparsi, proseguirono e scomparvero nella macchia. Il bosco portò via le loro risate.
L'apparizione dei due giovani mi lasciò turbato. Di più, irritato. Decisi di rincasare. Mentre ripercorrevo a ritroso il sentiero, realizzai che a colpirmi era stato soprattutto l'enorme squilibrio tra la mia condizione e la loro. Quei ragazzi avevano una vita davanti, una vita ricca di gioie e allietata dalla reciproca compagnia. Io ero solo e destinato a restarlo. Loro avevano tutto, e io niente.
Avvertii un rimescolio di budella, e una sensazione calda e dolorosa nel petto, come se qualcuno si divertisse a straziarmi il cuore con uno spillone incandescente. Era un sentimento nuovo eppure familiare.
Davanti al cancello di casa mi fermai, boccheggiante. Capii d'un tratto d'essere perduto.
Nonostante le mie precauzioni, il morbo, il terribile morbo a cui nessun uomo può sfuggire, mi aveva finalmente ghermito.
L'invidia era entrata in me.
(Per gentile concessione dell'autore)

domenica 28 aprile 2013

DIO E GESU' di Marco Viggi

                                 


 Oltre i mari e le terre, sopra tutto il creato, ci sono distese di nubi di piombo grondanti di pioggia, in mezzo a ululati di venti taglienti sulla pelle. L’oscurità è illuminata solo a momenti dalle corse di fulmini senza pace.
Lassù, un volto di rughe profonde come le ere stringe gli occhi tra una barba arruffata ed i lunghi capelli:
“Ma me bono, guarda qua!”
Non ha corpo, o forse ce l’ha ma non si vede. Non si distingue nulla lassù, la realtà non è reale, o forse è quella la realtà, non si capisce.
“Capo, scusa, ma lo sai com’è...”
“Non rispondere!” Dieci tuoni accompagnano la frase. “Lo sai, mi devo sfogare.”
“Certo, capo.”
L’ufficio adesso è reale. Il volto ha un corpo, ora, e parla al piccolo essere in tunica bianca:
“Guarda queste carte: il mondo va a rotoli! Il totale mondiale di preghiere è in flessione del sette per cento, anche quest’anno. La frequenza media di messa pro-capite: c’è più gente in gelateria a Natale. Santo me, guarda!” Dio sventola i fogli sotto il naso del suo angelo, gli occhi taglienti. Quello china di più il capo biondo, mani in grembo. “E’ tutta colpa sua! Una volta, mille anni fa, prima che fosse grande; quelli erano tempi. La gente mi temeva, mi capisci? Diluvi, piaghe. Così si fa! Mi dovevano rispetto, onorarmi, o giù botte, chiaro? Schiena dritta o mi faccio vivo, chiaro? E invece quello là... Avrei dovuto usare il mio sistema, tirarlo su con mani di ferro. Invece, Maria...” Si passa la mano sul volto: “Le voglio bene, ma lei ha il cuore troppo tenero. Troppe concessioni, troppi vizi. Così più moscio di Budda mi è venuto su! Già da ragazzo: prima quei capelli lunghi, ma tagliali! Poi sempre vestito tutto stracciato, camicioni, fiori e pantaloni larghi: è la moda, mi fa; l’ho inventata io, tu manco sai cos’è! Ma smettila! Ma poi arrivava sua madre e... E sempre a bighellonare, a suonare la chitarra e girare nei prati, a non far niente e guardare lontano e pensare. E sorrisoni e vogliamoci bene. Avrei dovuto metterlo a lavorare sodo, altro che studiare.
E quando è stato grande? E dai, e passagli l’attività di famiglia, e dagli una possibilità. E poi lasciagli fare a modo suo. Così gli ho lasciato in mano un mondo modello, capisci? Il mio popolo mi rispettava, sapeva che non c’era da scherzare. Ero il primo dei suoi pensieri, sapeva quanto fossi severo. Amatemi o sono dolori! E tutti sempre attenti, messa, preghiere, buone azioni. O giù calamità. Invece...
Mi ricordo quando mi fa: papo, me ne vado sulla terra. Bello, mi dico. Che ti vuoi presentare tipo mega idolo d’oro e piazzare qualche monito qua e là, gli chiedo. Sai che mi disse, eh? Ma no papo, devo camminare tra il mio gregge, vivere come loro, vedere nuovi mondi, nuovi luoghi, trovare la mia via. E poi farmi uomo di carne, essere debole e sofferente, come e più di loro. Dare l’esempio di massima umiltà, di estremo sacrificio, immolarmi. Così sarò il modello perfetto di amore cosmico, con la A maiuscola; e loro mi seguiranno. Vivranno nell’abbraccio eterno dell’amore, in un idillio di felicità.
Ecco, in quel momento ho pensato dovesse essere drogato, anche se non è possibile. Non credo di essere riuscito a parlare per un po’. E lui? Sorrise, e mi disse tipo: non è proprio cosmico? E la V con le dita... la V... Una cosmica idiozia, ecco cos’era! E lui se l’è presa, pure: ma papo, tu non capisci... I tuoi modi della scorsa era... I tempi cambiano, ti devi adeguare...
E così è andato sulla Terra. Ti giuro su di me, fui curioso di vedere fin dove sarebbe arrivato. E così, invece che una bella guerra di religione, ad esempio, condurre il popolo ad ammazzare qualche milione di infedeli, s’è ammazzato lui. Trent’anni a predicare come un figlio dei fiori e poi... Mah, guarda, non farmi continuare. E adesso? Che fa adesso?”
Lo sguardo sull’angelo, che alza la testa:
“È nella prateria del terzo cerchio, sta... cantando con le anime dei bambini...”
“E te pareva! E canta, canta pure! Ma adesso basta, nuovo corso! Bisogna tornare alla severità! Un bel periodo di austerità, rigore, impegno e lavoro. Ma bisogna cominciare con qualcosa di forte. Gabriele! Dov’è Gabriele? Chiamatemelo!”
Batte le mani ed il rumore è un tuono. L’ufficio si squaglia in nuvole di pece.
La figura di Dio si gira e si allontana veloce. Il vortice di nubi e lampi perde intensità. I tuoni si fanno più lontani. Rimane il piccolo angelo in un cielo senza confine. Poi accanto a lui arriva da non si sa dove un ragazzo, poca barba e capelli lunghi, jeans e camiciona mezza fuori, sandali. Guarda l’angelo e sorride:
“Tranquillo, poi gli passa al mio vecchio, vedrai.”
“Fosse umano, direi che non gli fa bene alla salute.”
“Che ci vuoi fare? Ha una certa età.” Si stringe nelle spalle: “Ti va una canzone?”

(Per gentile concessione dell'Autore)

sabato 27 aprile 2013

TUTTI VOGLIONO QUALCOSA di Giuliana Acanfora

                            
Rudji cammina scalza, i lucidi capelli neri intrecciati sulla testa come serpenti.
L’uomo bianco le guarda il petto nudo, le forme acerbe dell’adolescenza intagliate nell’ebano della fanciullezza. Si deterge il collo con un fazzoletto, il sole ghermisce come un leone fuori dalla capanna di Mama Asha.
Rudji versa dell’acqua e gli offre da bere. A lui trema la mano mentre prende la ciotola. La ringrazia con un cenno del capo. Rudji si allontana.
Sono tanti, ogni giorno, quelli che aspettano di parlare con Mama Asha.
Tutti vogliono qualcosa.
Quando l’uomo bianco esce dalla capanna, lo sguardo che posa su Rudji contiene già l’arroganza di chi ha comprato. La soggezione che dava il desiderio si è dissolta nel presagio del suo compimento. Ma le parole di Mama Asha sono come i passi di un elefante. Vanno guardate. Lui non l’ha fatto.
La notte cade come una scure sul villaggio di Usubu.
I tamburi battono. Il grido di Mama Asha li sovrasta. Dalla savana si alza un frullio d’ali. Gli uccelli, svegliati dal riposo della notte, volano via in stormo. Resta il sussurro delle fronde e, a rispondere, il crepitio del fuoco davanti alla capanna.
I tamburi continuano a ritmare. Mama Asha grida e canta, contorce il corpo come una salamandra dentro al fuoco, le sclere rovesciate sono due lune piene nella notte della sua pelle.
L’uomo bianco ha già bevuto quello che crede un filtro d’amore.
“Domani il tuo cuore sarà suo”, gli ha detto Mama Asha.
È felice, non ha guardato parole. Ma le parole di Mama Asha sono come i passi di un elefante.
Domani Rudji contenderà il vento alle gazzelle, sfiderà le correnti del fiume, danzerà per la sua tribù. Domani potrà farlo.
L’uomo bianco sente il cuore che gli sfugge, come un uccello che evade dalla gabbia. Le parole sono i passi di un elefante e lo stanno schiacciando. Stringe la mano sul petto, lì dove il battito rallenta. Si accorge che la vita lo abbandona. Il suo grido di agonia è inghiottito dalla terra, si riunisce a quello di Mama Asha che lo libera in cielo. Domani, quando i dottori bianchi lo apriranno, vedranno che nel suo corpo manca il cuore, svanito come svanisce un’ombra al calare del sole.
Rudji sente già una forza nuova che si istilla nelle vene; col respiro che si fa più ardito, il profumo della savana le addolcisce il petto. Accarezza il riflesso del suo viso specchiato nella fonte. L’acqua trema e i lineamenti corrono in ogni direzione, poi la superficie si ricompone e nel dondolio lento e ipnotico le rimanda il sorriso.
Domani Rudji sarà guarita.
Tutti vogliono qualcosa.
(Per gentile concessione dell'Autrice)

venerdì 26 aprile 2013

IL MOSTRO di Giuseppe C. Budetta


La platea si azzittì. C’era ancora del movimento in sala. Alcuni s’affrettarono a prendere posto sulle poltrone perimetrali, col lungo tavolo del buffet posizionato di fronte al palcoscenico, a non molta distanza da esso. Nelle prime file, alcuni si spostavano con le poltrone per dare posto ai nuovi sopraggiunti. Da una porticina laterale sbucò il grande Rigor Mortis mascherato. La maschera rendeva il volto mostruoso: labbra enormi, zigomi brufolosi, il mento deforme e la capigliatura arruffata da orango. Come un vero attore, Rigor Mortis si portò al centro della scena. Si spensero le luci, mentre solo alcuni riflettori agli angoli illuminavano il personaggio. La voce cavernosa franse il silenzio tenebroso della sala. Rigor Mortis disse:
“Sono un mostro diverso dal solito e striscio nei veli dell’esistenza.”
La platea degli spettatori aveva notato la reale tonalità femminile della voce, benché contraffatta da una cupa sonorità, ampliata dalle vibrazioni della bocca mascherata. Si trattava di Galla Placidia, travestitasi da mostro. Il corpo slanciato e snello. Il padrone della villa dove c’era il ricevimento serale con tanti ospiti di riguardo, aveva avuto l’originale idea di far esibire la sua amante mascherata da mostro sulla pedana da ballo. Il ricco padrone della villa le aveva raccomandato di non esibire il volto alla gente e di andarsene via dalla scena da mascherata. Girando lo sguardo qua e là, la bella donna travestita da mostro continuò l’angosciosa cantilena:
“Sono un mostro che vaga nel buio. Amo restare nell’ombra che è la parte più vera del mondo. Lavoro soltanto per dissipare. Amo le feste insensate, il lusso dispendioso ed improduttivo. Io vivo nella maledizione. Amo il riso, l’ebbrezza, l’efferatezza erotica, il male ed infine la morte. Io amo tutto ciò che per gli altri è impossibile.
Vivo nel Labirinto ch’esiste da sempre. So cosa sono: un’entità di sole parole. So dove sto e non ignoro il buio luogo da cui vengo. La mia origine è nei viventi che sono al di là di questo mio mondo. Per quanto percorra di giorno e di notte tutti gli anfratti che mi girano attorno, non trovo l’uscita e non esco all’esterno, né raggiungo la soglia del Labirinto, scavato nei Sogni. In me, la mente umana spande rami profondi e forma per gemmazione nuove caverne, cunicoli e anfratti. La mia esistenza è tra la vita e la morte, tra ordine e caos, tra Essere e Nulla. Ognuno vorrebbe ignorarmi e non guardare il mio loco. Sembra che nessuno mi veda, o ci faccia caso. Seppure ignorato, scavo senza dolore nelle altrui caverne e nel momento in cui lo scavo è completo, espongo il materiale sterrato alla luce del sole. Si tratta di materia grumosa, informe e caotica che riempie gli abissi dell’esistenza.
Vedete? Escrescenze e protuberanze mi coprono il corpo di scaglie, aculei e piaghe. Sono un mostro di…pura follia e senza specchiarmi da sempre lo so. Mi nutro di gente nel mio Labirinto per caso caduta. Alcuni vi entrano senza saperlo; s’aggirano cauti con apprensione, con paura ed angoscia. Guardano gli anfratti, ascoltano eventuali rumori; a tentoni avanzano entro le forre crepuscolari. Impauriti per chimeriche ombre, i miei prigionieri elevano grida ed invocano aiuto. Nessuno sente, nessuno risponde ai loro forti, continui richiami. La gente comune è altrove. Altrove c’è gioia e benessere. La vita vera è oltre la soglia del Labirinto, scavato nei sogni. Le mie vittime vagano senza riposo in questi anfratti, cupi e profondi.
Tutti cercano con la fuga l’uscita, la libertà, anelando la vita felice, ma nella trama sottile e cangiante, cadono esausti ed hanno la morte. Li assalgo famelico cogli artigli pungenti. Attanagliati dalla mia forza, li sbrano con le fauci taglienti-sanguinolenti e l’ingoio nelle viscere putrescenti. La gente lì fuori si ama e si aiuta, ma se cade per caso in questa rete d’inconsce caverne è per sempre perduta. Più si dimena contro il destino e più si avvicina alle mie possenti, fameliche brame. La salvezza è altrove. Nella mia tela tutta interiore, non c’è speranza. Sono il mostro che come il ragno aspetta le prede nella sua trappola buia.

Nessuno sforzo aiuta i perdenti, caduti per sempre nel Labirinto.”

Il cupo soliloquio era terminato. Si erano accese le luci ed un lungo applauso accompagnò la snella figura tenebrosa che si avviò verso la porticina da cui era entrata, quasi di soppiatto. Qualcuno disse che era stato uno spettacolo di cattivo gusto. Qualcuno disse che strideva con l’ambiente festoso. Maria Bissettis disse: “Quelle parole mi mettono i brividi addosso.”
Il padrone della villa disse: “Il mostro non farà vittime. Ci sono qua io a proteggere tutti.”
La bella Koschignotis, occhioni scuri su una pelle diafana, sottolineati dal trucco smoky, estrinsecò il dubbio: “Secondo me, è una donna mascherata da mostro.”
Era ripreso il chiacchiericcio tra gli ospiti che consumavano sciampagna ed altre bibite. Luce soffusa e tenebrosa nella grande sala. Ripensando alle parole ascoltate dalla persona mascherata da mostro, qualcuno aveva i brividi addosso.

(Per gentile concessione dell'Autore)

giovedì 25 aprile 2013

LA CODA DEL DIAVOLO di Sergio Bissoli

                               
“La gallina del diavolo! La gallina del diavolo...” grida la donna entrando di corsa dalla cucina.
L’oste suo marito da dietro il bancone indaffarato a riempire i gotti di vino, cerca di minimizzare la faccenda:
“Macché diavolo, ma stai a vedere che dovremo far venire il prete adesso, solamente per una gallina...”
Ma la moglie, una grassona tutta agitata e sudata, non dà segno di volersi calmare:
“É indemoniata ti dico, Amedeo, non è una gallina come tutte le altre; ha fatto scappare il nostro cane, non è neppure una gallina quella...”
Il marito anche lui grasso e in più calvo seguita a brontolare sottovoce per calmarla:
“Ma che razza di discorsi vai a tirar fuori, sono assurdità, sciocchezze... Tu e i tuoi ragionamenti strampalati...”
L’osteria è piena di uomini tutti mezzi ubriachi che giocano a carte e discutono tra di loro, e nessuno, credo, fa attenzione a questo dialogo.
Io sono da poco entrato in questo locale basso e incatramato dal fumo delle lucerne e delle pipe. Mi faccio largo fra un gruppo di vecchi avventori avvicinandomi al grosso banco con il ripiano in granito.
La donna sta cuocendo i cotechini. Il camino ha poco tiraggio poiché c’è un gran vapore che si spande dall’acqua in ebollizione. Portacandele, sale e un macinino del caffè stanno sulla mensola.
“Che cosa ha di tanto strano, eh, questa gallina?” incomincio con tono rassicurante.
La donna si volta di scatto. É ancora sotto l’effetto di uno spavento subìto, lo si nota bene.
“Misericordia signore, c’è la gallina del diavolo nel nostro pollaio!”
“Ma cos’ha di tanto diverso dalle altre?” insisto a chiedere.
“Ha gli occhi rossi, come il fuoco. É cattiva. Non è né maschio né femmina, e aggredisce il nostro cane che ha paura.”
“Oh questa poi! Non mi sembra possibile” dico per stimolarla a parlare.
“Le assicuro che è così signore, è proprio così. C’è il demonio le dico...”
E alla mia espressione di curiosità mista a incertezza prosegue: “Anzi, venga a vedere, venga a vedere anche lei giù nel pollaio!”
Passiamo in un retrocucina semibuio, umido e stipato di scatoloni e bottiglie.
Da un sottoscala si scende in una vecchia lavanderia. Dalla finestrella non entra quasi più luce ormai e il freddo si fa sentire pungente in quello stanzone pieno di spifferi alle fessure. Quasi mi spiace di aver abbandonato il tepore fumoso della taverna per scendere fino qui. Cammino fra le vasche sulle pietre consumate e insudiciate dalle sciacquature.
La donna tira i catenacci e spalanca una porticina là in fondo.
Un cortile grigio appare rischiarato dalla luce color cenere di un pomeriggio di gennaio. Freddo intenso e tagliente intorno a noi.
“Guardi là, è quella” indica la donna.
Nel cortiletto incassato fra la vegetazione brulla e i vecchi edifici, razzolano alcune galline spennacchiate che a prima vista sembrano tutte uguali. Mi volto per guardare il braccio teso della donna e allora di colpo, la vedo.
É diversa dalle altre, sì, senza alcun dubbio.
Le altre galline sono tutte radunate a pochi passi da noi ma quella invece sta da sola, all’estremità del cortile. Al contrario delle altre galline, questa ci ignora completamente così mi azzardo a spingermi un po’ più in là per osservarla meglio.
Ha la forma diversa, più tozza per le penne che formano la coda forcuta e rivolta verso il basso. Sulla testa ha una cresta piumata appena accennata. É brutta. Con gli occhi rossi. Séguita a camminare a destra e a sinistra laggiù, con superiorità, come se noi non esistessimo.
Mi giro con comprensione verso la donna accennandole di aver visto abbastanza.
Allora rientriamo con un sollievo e lei rinchiude in fretta la porticina che ci protegge e lascia fuori quella cosa diabolica.
(Per gentile concessione dell’Autore)




mercoledì 24 aprile 2013

COMMENSALI di Paolo Secondini

                              
«Mangiare con voi è un vero tormento, un qualcosa di insopportabile. A chiunque fareste passare l’appetito o venire il voltastomaco. Perfino un branco di cani famelici trangugerebbe il cibo in modo sicuramente più decente.»
«Mboum unfan vulf mank kom… unl…»
«Mugugni! Solo mugugni!... Le vostre luride gole non sanno emettere altro. Siete bestie! Non si può conversare con voi. Vedervi divorare quel pasto sarebbe meno disgustoso se foste capaci di un qualche discorso.»
«Monk ounar mbuen felm… gnoral mord volan…»
«Macché! Non si capisce un bel niente!… Vi sbrodolate senza ritegno, vi imbrattate le mani, il viso, i capelli e i vestiti di sangue... Che spreco! La parte migliore sciupata. Non siete per nulla raffinati, né buongustai. Pensate soltanto a riempire più che potete gli stomaci immondi.»
«Womb kunf olak sint lumak detel on…»
«Abbiate almeno la decenza di chiudere la bocca quando masticate. Pezzi di fegato e cervello schizzano fuori tra i denti e cadono sul desco, macchiando la bianca tovaglia di Fiandra tutta ricami e merletti.»
«Verm lon okal sener… tuon offl…»
«Ma già! Cos’altro c’è da aspettarsi da voi, putridi zombie?»
«Kuom unt?»
«Prendete esempio da noi, dalla nostra indiscussa squisitezza. Osservate, elegante e compìto, il nostro onorevole pari, il conte Dracula, con quanta impareggiabile grazia sorseggia la sua coppa di sangue.»


martedì 23 aprile 2013

VICOLO CIECO di Sergio Bissoli




Il vento soffia giù nel vicolo stretto e mal lastricato, portandomi in faccia la fuliggine e il fumo dei comignoli.
Cammino in fretta sfiorando i muri di case scurite alte e storte. L’ultima luce del crepuscolo di febbraio spande un chiarore gialliccio.
Cammino sul marciapiede sfondato in più punti e pieno di pozzanghere. Gatti rognosi strisciano negli angoli delle vecchie case da dove proviene odore di urina. N° 515 un barbiere, Rossene. L’insegna sbatte al vento tagliente di tramontana. Più sopra abita la vecchia Boa, quella che lava i morti. Ancora più in su un vestito viola sta appeso alla finestra.
La notte scende nel vicolo, fredda e ventosa, una notte degli ultimi giorni di carnevale.
Dopo l’angolo di un barbacane la finestrella quadrata sfavillante di luce getta una pioggia d’oro sulle pietre di basalto del selciato. Ombre di persone che danzano si vedono all’interno. La festa dell’ultimo di carnevale dell’amico Livio è già cominciata, e adesso sono arrivato.
Spingo la porta che è solo accostata e subito sono preso dall’atmosfera della festa. Luce, caldo, vertigine... L’aria è satura di profumi, stelle filanti cadono dal soffitto.
Mi tolgo il cappotto e vado verso l’amico Livio che ho intravisto insieme ad altri con un bicchiere in mano. Ma prima di arrivare un brutto pirata intabarrato mi sbarra il passo. Una manciata di coriandoli mi fa chiudere gli occhi. Il pirata si allontana nella folla insieme a una bambina con i seni da donna.
Le luci calano di intensità. Ancora coriandoli e stelle filanti. Grida e risate.
Una ragazza con la mascherina azzurra mi viene vicino e mi guarda con insistenza. É snella con i lunghi capelli biondi.
“Chi sei?” chiedo.
“Ah ah...” Mi viene ancora più vicino e mi mette una mano sulla spalla. Sento il suo profumo dolce che fa stordire.
“Non mi riconosci... ah ah...”
La voce anche se contraffatta mi è familiare... Uno spintone e subito sono preso tra il flusso di folla di nuovi arrivati, cosicché non vedo più la mascherina.
Ritrovo la ragazza a metà della serata, quando la luce è ancora più bassa e le stelle filanti formano una ragnatela sopra di noi. Il suo vestito è un velo lungo e ne tiene una parte davanti alla bocca:
“Ah ah... Pietro...”
“Sei Chiara?”
Fa segno di no con la testa.
“Sei Stella?... Ma chi sei...?”
“Sarà tua moglie, Pietro...” risponde un amico di passaggio.
“Non ti ricordi più di me, Pietro?” lei sussurra con voce argentina.
“Sì, io ti conosco, ma adesso...”
I vetri delle finestre sono tutti appannati e vi appaiono strane figure di fiato come in un paese di sogno.
A mezzanotte, quando ormai credevo di non rivederla più mi ritrovo vicino alla ragazza, sempre più attraente, sempre più misteriosa...
Sento di essere vicino a svelare il segreto, infatti lei si appoggia al mio corpo mormorando qualcosa e sta per togliersi la mascherina...
La luce si spegne. Colpi di bottiglia, tonfi, rumori, gran baccano. Musica discordante e indiavolata.
La luce si accende e si spegne più volte. Dov’è, dov’è... mio Dio! Mi appoggio a un divano per versarmi da bere.
L’alba versa la sua luce malata dalla finestra facendo impallidire i lumi.
Qualcuno ha vomitato giù nel vicolo. Rumori di bidoni che vengono spostati e cozzano fra di loro. Una forchetta alla quale manca un dente sta sul marciapiede e la sposto con un calcio.
Dalla fogna sgorga un liquido scuro davanti alla bottega del ciabattino. Freddo pungente e rumore di passi che si allontanano.
Nauseato percorro in fretta il vicolo. Quando alzo gli occhi vedo una bambina che disegna un cuore sul vetro appannato di una finestra.
Alcuni giorni dopo sono costretto a dover passare ancora di lì. Una tosse catarrale accentua il silenzio della mattina bianca e lucente.
Il gelo della notte ha fatto scoppiare le tubature in casa di Livio e gli operai stanno lavorando per sostituirle. Sollevano il pavimento e sotto ci sono ossa e scheletri umani.
“Credevo di essere solo e invece ero in compagnia” commenta Livio.

(Per gentile concessione dell’Autore)

domenica 21 aprile 2013

VENDETTA di Paolo Secondini





In un grande palazzo avito, verso la fine del XVII secolo, il nobile signore Gherardo Dasseni, comodamente seduto in una poltrona vicino al camino della sala, osservava in silenzio la sua unica figlia, Adelasia, che ricamava accanto a lui.
Era una ragazza ventenne, bionda, graziosa, che il padre voleva maritare il prima possibile, sperando, ovviamente, in un buon partito.
Nella sala, piuttosto in penombra, non si udivano altri rumori oltre al crepitare dei ciocchi accesi, che diffondevano attorno un piacevole calore.
«È meglio per te se ti levi dalla testa quel mascalzone!» gridò d’un tratto Gherardo facendo sobbalzare la figlia. «Un uomo senz’arte né parte dovrebbe sparire dalla faccia della terra.»
«Ma io… io l’amo, padre,» azzardò la ragazza alzando la testa dal ricamo.
«Tu amare uno sciocco perditempo, un vagabondo, uno squattrinato?» sbraitò Gherardo schiumante di rabbia. La sua voce risuonò cupamente nell’alto soffitto della sala. Poi l’uomo parve calmarsi. Con voce meno aggressiva: «Io credo, figlia mia, che ti abbia dato di volta il cervello…»
«Ma, padre… io… io…»
«Tu niente! Farai ciò che ti dico, se non vuoi essere diseredata.»
Ma Gherardo Dasseni era sicuro che quella minaccia, da sola, non sarebbe bastata a indurre  Adelasia a cambiare idea. Era troppo innamorata di quel miserabile Enrico Tomei.
Che fare?
La soluzione più ovvia gli parve quella di toglierlo di mezzo una volta per sempre. Non di persona, ovviamente. Sarebbe stato troppo rischioso e compromettente. Bastava assoldare qualche bravaccio che, per un bel gruzzoletto di denaro, avrebbe volentieri svolto quel lavoro.
Così fu, infatti.
Una notte, il povero Enrico Tomei fu trafitto alla schiena dalla lama di una spada. Le ultime parole che egli sentì, prima di morire, furono le seguenti:
«Questo da parte del nobile Dasseni, che spera tu vada dritto all’Inferno.»
Ma a essere ucciso, poco dopo, fu anche lo stesso Gherardo il quale, spilorcio com’era, si rifiutò di dare al bravaccio tutta la somma di denaro che era stata pattuita.

* * *

Il caso volle che le tombe dei due assassinati venissero a trovarsi l’una vicino all’altra, nel vecchio cimitero del paese.
E avvenne che, nottetempo, mentre intorno regnava il silenzio più assoluto, dal terreno dov’era sepolto il Tomei venne fuori una mano, poi l’altra, poi la testa, infine il corpo.
 Con un’espressione crudele sul volto, il cadavere  s’inginocchiò vicino alla tomba di Gherardo Dasseni e si diede, furiosamente, a scavare la terra con le unghie, finché non raggiunse la bara del nobile signore.
L’aprì e, con morsi furenti, bestiali, fece scempio del corpo in essa contenuto. Quindi, soddisfatto, se ne tornò nella sua tomba, deciso ogni notte a uscirne per cibarsi del cadavere del nobile signore, fino a quando non fossero rimaste che le ossa.

sabato 20 aprile 2013

LE DUE PORTE di Giuseppe Novellino



 In cima alla scala della villa antica, sul ballatoio due porte si fronteggiano. Una immette nel salone a volta; l’altra nel buio corridoio che porta al mezzanino. Custode della casa, sono inquieto. Mi incute soggezione questa vecchia costruzione un tempo signorile.
Lei esce da una porta, in abito antico; dall’alto mi guarda, il volto illuminato dal candelabro che tiene nella mano. Passa sospesa e varca l’altra soglia. È una donna bellissima… Ora è nel salone a volta? Un impulso. Ma mi arresto a metà della scala.
Le due porte, là sul ballatoio, portano da un nulla a un altro nulla.

(Per Gentile concessione dell’Autore)

venerdì 19 aprile 2013

DESERTO di Sauro Nieddu

                                

Ordino alle mie mani di accendere il portatile. Le costringo a consegnarmi un foglio bianco su cui scrivere. Le mie mani stesse sono dei fogli bianchi. Ordino al foglio bianco di riempirsi della mia angoscia, dei miei incubi a occhi aperti. Non ottengo niente; il foglio resta bianco e tutto ciò che si agita dentro di me continua a tormentarmi.
So che esiste un altro sistema. Dovrei razionalizzare ogni argomento del dolore, separarlo dagli altri, dargli un ordine. Poi dovrei prendere ciascuno di quei foglietti accartocciati, ognuno dei quali non rappresenta, ma è esso stesso uno dei miei vuoti, e spiegarlo con attenzione fino a che risulti leggibile. Solo allora potrei vedere che si tratta solo di scarabocchi incomprensibili.
Allora potrei provare a tradurli in un linguaggio che tutti possano capire, ma si tratta di un lavoro lungo e faticoso; varrà la pena? Non ho nient'altro da fare. Non so se ne valga la pena ma decido di farlo lo stesso; così, per passare il tempo.

* * *

Svolto il lavoro, osservo con attenzione il risultato. Il risultato è un foglio coperto di scarabocchi incomprensibili. Lo appallottolo e lo getto nel cestino.
Ho lavorato per niente. Eppure... potrei essere comunque nel giusto! Forse ho semplicemente sbagliato il foglio da decifrare, forse prendendone un altro il risultato potrebbe essere migliore.
Così prendo un altro foglio accartocciato, lo bagno col sudore che mi cola dalla fronte, resto sveglio notti e notti nel tentativo di trasformarlo in un’espressione coerente del mio essere.
Poi prendo il frutto del mio lavoro, lo appallottolo, lo scaglio con rabbia, nel cestino.
Eppure sono tanti, quei fogli accartocciati da controllare, sporcare di sudore nel tentativo di esplicarli. Sarebbe stato un colpo di fortuna trovare quello giusto appena al primo o al secondo tentativo.
Non mi va di stare a spulciarli uno per uno. Non mi va di grondare sudore per un risultato forse possibile, ma tutt'altro che certo. Però non ho niente di più importante da fare e mi sentirei in colpa ad abbandonare così l'impresa.
Passano giorni, anni... ora mi trovo in una stanza ricolma dei fogli che, insoddisfatto, ho preso e gettato alla rinfusa attorno a me. I fogli mi guardano. Mi giudicano senza emettere nessun verdetto.
Quei fogli sono la mia vita, i tanti mattoni della mia sofferenza che invece di ridursi si sono accumulati fino quasi a soffocarmi sotto il loro peso. Quello che ho in mano potrebbe essere l'ultimo, quello il cui peso potrei non riuscire a sopportare.
È per questo motivo che lo soppeso bene prima di gettarlo; se fosse l'ultimo, il suo significato intrinseco potrebbe dare un senso a tutta questa vita, incomprensibile per chiunque forse, ma carico di implicazioni a un livello superiore.
Solo allora un barlume di luce si fa strada nei miei pensieri; forse ho cercato una soluzione troppo immediata. Forse le cose non sono così semplici. Forse non devo concentrarmi su ogni singolo punto, ma lavorare per cercare dei collegamenti che diano un significato a tutto l'insieme.
Mi guardo attorno, e pensare di fare ordine del caos che mi circonda, sembra impossibile; ci vorrebbe una vita intera. Ma come al solito non ho altro da fare e pian piano mi metto all'opera.
Inizio a catalogare tutto, riponendo in ordine i fogli che mi sembrano importanti, gettando dalla finestra quelli che invece appaiono irrilevanti oppure ripetono concetti già espressi altrove.
Dopo un’intera giornata di lavoro non ho fatto praticamente nulla; una goccia nel mare, un granello di sabbia. Mi lascio prendere dallo sconforto, crollo disfatto dalla fatica.
Quando mi sveglio, mi guardo attorno. La situazione non è cambiata ma devo pur passare il tempo, in qualche modo. Cerco di farmi forza pensando che dopotutto una spiaggia è fatta da granelli di sabbia.
La mente è tanto stanca che mi duole in ogni sua parte, ho delle fitte insopportabili alla memoria e un dolore cupo e pulsante ai sentimenti, la creatività brucia di un’infiammazione letale.
Nonostante tutto cerco di scuotermi per portare a termine ciò che ho iniziato.
Intanto il tempo continua la sua marcia inarrestabile; non esistono ancora dei calendari capaci di misurarne la reale essenza.
Io sono ancora qua, che sistemo i miei fogli e ogni tanto prendo qualche appunto. Il lavoro è ancora ben lontano dall'essere finito, ma un mucchietto di sabbia fa bella mostra di sé, proprio al centro della stanza. La mia barba e i miei capelli sono lunghi e hanno un aspetto candido e selvaggio, la pelle è solcata di rughe.
Poi un giorno mi sveglio e sento in me qualcosa di diverso. Mi frugo per capire cosa sia cambiato e lo trovo subito. Dentro di me si è creato un grosso spazio vuoto, questo vuoto ha preso il posto che prima era occupato da quell'angoscia insopportabile. Un senso di libertà mi pervade l'anima.
Dalla finestra socchiusa filtra un raggio di sole, la spalanco e mi affaccio a guardare il mondo, dopo tanto tempo. Guardo fuori e cerco il mondo con lo sguardo, ma non c'è più alcun mondo là fuori, solo un’infinità di fogli accartocciati, macchiati d'inchiostro e sudore, intrisi di solitudine. La mia angoscia ha preso la forma di un deserto bianco sporco che si estende a perdita d'occhio.
Chiudo la finestra e torno a stendermi nel letto; il lavoro è finito e ormai non ho più molto da fare.

(Per gentile concessione dell’Autore)

giovedì 18 aprile 2013

URANIA di Giuseppe Novellino






     Ogni otto giorni correvo in edicola a comprare il nuovo numero di Urania. Negli anni ’60 era settimanale: cinquantadue promesse di meraviglie rigorosamente mantenute.
     E tutto cominciava con la sorpresa della copertina. A quell’epoca il disegnatore era Karel Thole. Nei celebri cerchi in campo bianco, l’artista ci dava un vago assaggio della storia, ma soprattutto ci stupiva con quelle immagini surreali. L’occhio veniva gratificato prima della mente.
     Correvo a casa e mi mettevo subito a leggere. Ma spesso la giornata era caotica; allora aspettavo la sera e mi mettevo il libretto sotto le coperte e facevo scorrere le pagine al lume di una torcia elettrica. Non era raro che mi immergessi nella lettura durante i compiti, tralasciando una versione di latino che poi avrei dovuto copiare frettolosamente il mattino dopo dal quaderno di un compagno compiacente. E ci fu quella volta che il professore di filosofia mi beccò mentre sbirciavo un numero di Urania che tenevo aperto sotto il banco: era il modo per sopravvivere a una delle sue micidiali lezioni frontali.
     Quello che mi capitò la prima volta fra le mani fu il numero 399, del 29 agosto 1965. Era una raccolta di racconti di Ballard dal titolo “Passaporto per l’eternità”. Fu una folgorazione. Ero stufo di leggere romanzi di fantascienza avventurosa per adolescenti, reperiti per lo più nella biblioteca scolastica. Opere come “XP-15 in fiamme” di P. Devaux, oppure “La conquista dell’Almeriade” di H.G. Viot cominciavano a farmi sbadigliare. Il mio palato si era raffinato, dovevo nutrirmi meglio. Leggevo anche altro, i grandi classici della letteratura, ma la mia fame di fantascienza era cresciuta.
     E Urania fu fondamentale.
     Di quelle prime letture, capaci di introdurmi in un mondo ricco di immagini e di idee, ricordo altri titoli che nella mia mente riemergono come degli archetipi. Sono ancora in grado di rievocare la paura che mi suscitò “I giganti di pietra” di Donald Wandrei (Urania n° 410), oppure l’agghiacciante sorpresa provocata da “Dalle fogne di Chicago” di Theodore L. Thomas e Kate Wilhelm (Urania n° 436). Ma potrei elencare altri miei incontri con i mondi dell’impossibile o dell’improbabile: “Cronache del dopobomba” di Philip K. Dick (Urania n° 409), “Oltre l’invisibile” di Clifford D. Simak (Urania n° 414), “La casa senza tempo” di A. E. Van Vogt (Urania n° 420).
     Nel corso degli anni ’60, la cura del periodico fu affidata a Carlo Fruttero e a Franco Lucentini. Allora i due nomi non mi dicevano nulla; più tardi avrei scoperto che la direzione era stato data a due letterati di gran classe, che prima di essere autori erano lettori appassionati e curiosi… sì, anche di fantascienza.
      Le pubblicazioni vedevano l’alternanza di queste tre categorie: i romanzi, i capolavori, le antologie. Tre modi per godere della narrazione fantascientifica attraverso la brevità, la novità e la riedizione di opere che erano già entrate nel mito. E poco importava, a quell’epoca, se a volte i testi non erano integrali.
     Ho continuato a leggere Urania negli anni successivi, ma non con la stessa assiduità. Comunque per me rimase un punto di riferimento.
     Oggi, con i suoi sessant’anni e i suoi 1594 numeri, rappresenta un segno indelebile per la divulgazione fantascientifica.

 (Per gentile concessione dell’Autore)

mercoledì 17 aprile 2013

IL TESCHIO di Giuseppe C. Budetta





   Nel 1846 il Giornale del Regno delle due Sicilie pubblicò la notizia della scomparsa del marchese Leopoldo Santacroce, morto all’età di trent’anni. L’articoletto descrisse i solenni funerali in Santa Chiara. Il rapporto del commissariato Quartiere - Porto specificò che il Santacroce era precipitato in mare inciampando sul teschio di un cadavere ivi trasportato dalle acque torrenziali insieme con altro ossame proveniente dalla prospiciente grotta del Chiavicone. Il rapporto della polizia ammise un particolare importante: il teschio apparteneva a persona giovane perché aveva tutti i denti intatti, tranne un incisivo troncato a metà. Dalla circonferenza della scatola cranica, poteva dedursi l’appartenenza ad una donna. Un commissario più acuto avrebbe facilmente rapportato il teschio con dente spezzato alla scomparsa di una giovane l’anno prima. All’epoca dei fatti, testimonianze accurate e dicerie non mancarono. Può essere che la polizia non indagò oltre per evitare di compromettere il ricordo del marchese morto in modo tragico. Né la polizia tenne conto di testimoni che videro il marchese buttarsi in mare, urlando stralunato come un pazzo. Adesso è facile ricucire i fili di quella vicenda oscura.

* * *

   Nel 1845, il marchese s’invaghì di una giovane ventenne sfortunata e povera di nome Giulia. Era figlia di un certo Rocco Damiano finito in carcere perché in un momento d’ira aveva ammazzato la moglie con un colpo d’ascia. Toccò a Giulia mantenere le due sorelline ed il fratellino, rimasti soli. Fu operaia in uno dei capannoni del marchese in Via Medina. La ragazza era cucitrice insieme con una ventina di coetanee. Come le altre operaie era diretta da una sarta di professione, madama Durso. Giulia ricuciva i pezzi di stoffa ritagliati da madama. La ragazza era alta e ben fatta. Aveva solo un dente rotto in bocca. Anni prima dei monelli le avevano lanciato pietre e reciso a metà uno degli incisivi. Il marchese Leopoldo la notò lavorare e s’infiammò per lei. Giulia per necessità o perché non si poté sottrarre, fu amante del marchese. Dopo alcuni mesi era incinta. La poveretta non poteva nascondere il fatto ai parenti e non sapeva come fare. Il marchese stravolto la uccise e di notte buttò il cadavere nel Pertugio parte iniziale del Chiavicone, un ampio condotto sotterraneo. Questo canalone passava sotto Via Toledo e finiva a poca distanza dal mare in Via Chiaia, convogliando le acque dagli avvallamenti di Monte San Martino.
   Lo storico Carlo Celano riferisce che durante la peste del 1656 a Napoli ci furono oltre duecentomila morti su una popolazione di poco più di 400.000. Non si sapeva dove seppellire i cadaveri. I becchini promettevano di dare sepoltura ai morti in un luogo sacro e invece li buttavano nel Chiavicone. Nei secoli successivi, il canale fu usato come immondezzaio. D’estate in particolare, miasmi melensi di morte emanava la forra piena di sorci.
   Il 14 agosto 1846, ci fu a Napoli un terribile temporale. Piovve e grandinò con tuoni e fulmini dal primo mattino. Si formò un devastante torrente che s’incanalò nel Chiavicone dove trovò ostruito il percorso al mare. La massa d’acqua fracassò le pareti del condotto e penetrò nelle fondamenta delle case prospicienti facendole crollare. Crollò anche il collegio di S. Tommaso e l’antica costruzione del Monte dei Poveri Vergognosi. La gran parte degli scheletri che il Chiavicone custodiva, si riversò in strada e Via Toledo ne fu piena. Dopo il temporale che cessò verso il pomeriggio, alcune carrozze transitanti per quella via non poterono evitare di passare su carcasse e scheletri umani. Il marchese Lorenzo Santacroce andava dalle parti di Via Chiaia a vedere come stava sua madre. Il cocchiere fermò la carrozza perché doveva rimuovere uno di quei cadaveri espulsi dal Chiavicone. Incuriosito e schifato dall’insolito e tragico spettacolo, scese anche il marchese che si trovò davanti ai piedi un teschio con resti di lunghi capelli neri e pelle. Il teschio sembrava sorridergli con quei denti incisivi in bella mostra, si era conservato anche un occhio nell’orbita ossea che sembrava fissare l’incerto cielo. Il marchese notò subito l’incisivo tronco della sua vittima e fu stravolto. Urlando si gettò in mare.
   Nel 1890, un prete discendente del marchese fece pubblicare a proprie spese il diario dell’avo in cui era descritto l’infame delitto di Giulia Damiani. Il marchese Leonardo Santacroce scrisse il diario forse per mettere a tacere la coscienza ed il prete volle far luce su tanta infamia.

(Per gentile concessione dell’Autore)