mercoledì 27 aprile 2016

L’ENIGMA DI PIERO DELLA FRANCESCA di Giuseppe C. Budetta

Nel 1492, il giorno in cui Piero della Francesca trapassò in aldilà (lo stesso della scoperta dell’America), Luca evangelista in pompa magna convocò, in un celebre convegno ultraterreno, i principali artisti della futura arte pittorica. Tema del convegno era la dissertazione puntigliosa sull’arte di Piero della Francesca, da imitare sulla Terra. Nell’aula magna dell’ultratombalità, il santo evangelista fu assistito da due tecnici, angeli d’indiscussa professionalità, che ad ogni cenno, proiettavano sullo schermo le immagini pittoriche del sommo artista toscano, trapassato, guarda caso, lo stesso giorno della scoperta dell’America da parte di Cristoforo Colombo. Il titolo del convegno, illustrato per sommi capi su un dépliant distribuito ai presenti, fu, com’è noto:
L’ENIGMA DI PIERO DELLA FRANCESCA.
L’aula a forma di ferro di cavallo era affollata da artisti per lo più italiani che sarebbero venuti al mondo nei secoli successivi. Prima della rispettiva nascita sulla Terra, era degno di nota positiva che ci s’industriasse sull’originale opera pittorica di Piero della Francesca, da poche ore trapassato in aldilà. Nei primi scanni, avevano preso forma alcuni sommi artisti addivenienti tali, una volta nati sulla Terra: il livornese Guido Guidi (1901 – 1998) ed il romano con lo stesso cognome ma che di nome avrebbe fatto Virgilio (1891 – 1984). Accanto ad essi, c’erano i futuri Carrà, Donghi, de Chirico, Casorati, Morandi, Fiumi, Campigli (Le cucitrici ed il grande olio La spiaggia del 1937). San Luca comandò ai due angeli-tecnici-assistenti di proiettare in alula le prime immagini in riferimento alle opere del trapassato fresco Piero della Francesca. L’evangelista dunque disse ai presenti in ossequioso ascolto:
“Le madonne con lo sguardo allucinato, il volto severo, isolate dal conteso della rappresentazione pittorica…mi chiedo e vi chiedo: l’immagine può funzionare come imitazione dell’apparenza?”
I futuri artisti fecero tutti cenno di un mezzo sì. San Luca spiegò la gigantesca immagine “La flagellazione di Cristo” proiettata sullo schermo alle sue spalle:
“Vedete? Il Cristo che sta per essere flagellato, ma è in una invisibile nicchia spaziale, lontanissima dall’individuo con la frusta in mano. Pilato, un simulacro afflosciato su se stesso sopra un trono di pietra. Oltre le colonne di stile corinzio, tre uomini in primo piano con lo sguardo fisso, come statue viventi. Ogni figura è nettamente isolata dall’altra. La forma umana è una rappresentazione pittorica compiuta che esclude ogni altra. C’è solo vicinanza raffigurativa. Icone, sperse nel vuoto. La rappresentazione religiosa della flagellazione è nello sfondo, al di là dello spazio-tempo, con le colonne dell’antichità romana e greca a sottolinearne la lontananza prospettica. In primo piano, il tempo presente con tre personaggi che sembrano dialogare tra loro, ma serrati nell’ampio silenzio di un eterno presente, incapsulati in una invisibile e statica geometria.”
Nei loro scranni, i presenti-futuri-artisti sembravano interessarsi alle immagini che gli angeli tecnici-assistenti andavano proiettando dietro la grande cattedra, dove signoreggiava, come un docente universitario di ruolo San Luca evangelista. La spiegazione su Piero della Francesca si ampliò sull’epoca medioevale: “Le residuali nebbie del medioevo si stavano diradando, ma resistono davanti alla misteriosa simbologia di Piero della Francesca. La sua arte figurativa non rappresenta la realtà cangiante, ma la fissità ieratica di un unico momento che per questo motivo diviene un simbolo in cui credere, come le tante statue e reliquie sacre nelle chiese di quel secolo. La pittura come pura immagine, da ammirare e da venerare, ma impossibile da interpretare e verso cui commuoversi. Assordante silenzio.”
Il silenzio era totale, si può dire mistico, anche nell’aula magna della perfetta ultratombalità. Che significava questo assordante silenzio? Chi è che taceva? Dunque, Piero della Francesca voleva evidenziare sia il vuoto esistenziale dei tempi andati, sia la perdizione umana in epoca medioevale?
 Nessuno degli addivenienti artisti presenti in aula volle obiettare alcunché rispetto alle spiegazioni ed alle domande esistenziali dell’evangelista. Poteva essere che il santo se ne risentisse, ma meglio non interromperlo. Egli dunque disse ai muti ascoltatori:     
“Dovete sapere, o futuri artisti, che i dipinti di Piero della Francesca, almeno quelli di carattere religioso, non indicano l’aldilà come meta della vita umana, ma sono immagini monumentali come muri impenetrabili, muraglie medioevali erette dal potere ecclesiastico. Parlo del potere ecclesiastico di quei tempi bui. Lunga muraglia imperiosa davanti a cui era lecito genuflettersi e pregare. Chi cercava d’infrangere la muraglia rischiava la pena di morte. Oltre l’invisibile confine, l’inferno. Al di qua, rimanevano le guerre continue, le epidemie e le carestie che bisognava comunque accettare. L’unica cosa che restava da fare sarebbe stato l’atto di genuflessione davanti alle icone religiose, anche se enigmatiche come sfingi.”
I presenti che ascoltavano ammutoliti, si scambiavano muti sguardi, non osando contraddire al momento l’oratore, lo sapevano: le ambiguità erano e sarebbero rimaste nella Chiesa terrena, davanti a cui la ragione umana deve comunque arrestarsi per un incerto percorso di fede. Il santo evangelista spiegò:
“Cari beati che qui albergate ben lungi dai problemi terrestri, aspettando il tempo di nascere in qualità di sommi artisti, vi dico questo. Vedete i volti che Piero della Francesca ha dipinto nel corso della vita terrena? Rifletteteci. Non sono facce ch’emozionano per l’estrema solitudine che li circonda e permea. Intenzionalmente, voi artisti delle future epoche cercherete di trasmettere allo spettatore questo tipo d’impressione. Però, cercate di comprendere…Vedete? In Piero della Francesca, le figure umane respingono oggettivamente qualsiasi sentimento. Si tratta di cariche negative, che contrastano con la comune commiserazione. Le immagini prodotte da Piero della Francesca sono atemporali ed anaffettive. Facce realistiche, ricordatelo. Le stesse facce che avevano i nobili di allora, insensibili alla disperazione dei popoli a loro sottomessi.”
Giudo Guidi avrebbe voluto esclamare: gente di merda, ma stette zitto per non urtare l’evangelista che disse ancora:
“Amici artisti, addivenienti tali una volta nati sulla Terra, vedete? C’è solo l’ammirazione per un’arte unica e la curiosità per gli enigmi che pone e che resistono a qualsiasi interpretazione razionale. L’enigma incrementa l’incertezza, l’indeterminazione e l’ambiguità, piena di mistico silenzio e di raccoglimento. Il fatto è che la simulazione muta che i personaggi di Piero della Francesca mostrano, non si accosta all’immobilismo ieratico della statue dell’antichità classica. Si tratta di simulacri allo stato puro, dove lo spazio ed il tempo si annullano in un problematico misticismo. Gruppi di figure umane e divine che si fronteggiano in una misteriosa e profonda simmetria invertita. Figure umane e divine che nella eterna fissità fanno trapelare l’assenza di un conforto ultraterreno.”
Un futuro artista presente in aula e precisamente Felice Casorati volle chiedere all’oratore:
“Ma Piero della Francesca che vi apprestate ad accogliere in paradiso ci credeva o no nei santi ed in tutti voi altri beati evangelisti?”  
San Luca evangelista non fu sorpreso dell’obiezione del futuro Casorati, artista anche lui problematico una volta incarnatosi sulla Terra. L’evangelista disse:
“E questo il punto. Piero della Francesca non è stato un vero santo. Egli ha cercato di comprendere l’aldilà con l’arte, ma l’arte non dà risposte certe. Solo la fede va oltre. Comunque, Piero della Francesca va premiato perché il problema metafisico se lo poneva sinceramente ed era ossequioso della parola evangelica. E’ stato un vero cristiano, oltre che sommo artista. La sua arte pone dei problemi, questo è vero, come tanti artisti. Però Piero della Francesca illustra alla gente la via mistica da seguire per raggiungere il paradiso. Lui offre alla gente una soluzione mistica”
Un altro futuro artista, questa volta de Chirico che una volta nato in al di qua e dopo essere stato regolarmente battezzato si sarebbe chiamato Giorgio, disse:
“Evangelista, scusa, ma le opere di questo sommo e problematico artista saranno preservate nel tempo, o resteranno sulla terra solo infruttuose imitazioni?”
Il santo evangelista che nel periodo in cui visse sulla Terra come tanti altri, si chiamò Luca fece una breve disquisizione sulle eterotopie del tempo e la tendenza del tutto umana a preservare le opere d’arte nei musei, disse:
“Nella società umana, c’è la tendenza a preservare dal flusso del Tempo alcuni luoghi, illudendosi che tutto resti fissato in un eterno presente. Sono queste le eterotopie del Tempo di cui Michel Foucault, un altro che vivrà nel futuro remoto, parlerà in un suo saggio pubblicato nella seconda metà del XX secolo. Le eterotopie del Tempo si accumulano all’infinito in alcuni edifici come i musei, le biblioteche. Le eterotopie del Tempo si trovano in un più ampio raggio, in alcune zone geografiche ed addirittura in alcune grandi chiese. Le opere di Piero della Francesca parlo della gran parte, saranno preservate dalla distruzione che i secoli futuri apporteranno ovunque. Parte delle sue opere sopravvivrà perché conservate in appositi musei. Il futuro de Chirico chiese:
“Ma, evangelista, ci spieghi cos’altro indica la pittura di Piero della Francesca che può esserci utile una volta operativi sulla Terra?”
“La pittura di Piero della Francesca esprime la tendenza all’isolamento dal contesto spazio-temporale del mondo circostante. Nel pittore aretino, c’è il desiderio di voler accumulare tutto in un dipinto, di fermare in qualche modo il tempo, o di farlo depositare all’infinito in uno spazio privilegiato, rinchiudere in una rappresentazione pittorica ogni immagine, ogni forma per ogni epoca, una specie di eterotopia del Tempo. In Piero della Francesca, ascoltatemi o futuri artisti, c’è l’illusione che nulla fluisca al di fuori dell’immagine pittorica, essendo questa la somma eterotopia del Tempo. Si tratta d’immagini che neutralizzano e contraddicono tutte le altre rappresentazioni, perché in esse, la differenza col mondo reale è assoluta. Piero della Francesca è stato un artista pienamente intercalato nel suo tempo, quando il potere costituito, più che l’essere umano, si è cominciato a porsi al centro della realtà economica e sociale umana. Intorno al potere costituito, essendo propinquo alla divinità, ruotava tutto il mondo medioevale, mentre intorno all’altro, il nostro, quello dello spirito, ruotavano i sette cieli. Nel medioevo dunque, si pensava che oltre c’era il Cielo del Paradiso, governato dai Cherubini e che allogava le stelle fisse. Ogni cosa, compreso gli esseri umani, aveva la perfetta ed imperturbabile collocazione. Sulla Terra, regnava il potere politico e religioso, splendente in un’unica sfera come il sole, con un proprio invalicabile firmamento. La fisica moderna avrebbe capovolto drasticamente le antiche teorie del tardo medioevo. Ad avere importanza cruciale sarebbero state le interrelazioni e le connessioni, dirette od indirette tra gli esseri umani e l’ambiente circostante.”
Alzandosi dallo scranno, Casorati obiettò:
“Maestro, allora nel prossimo futuro, la gente cercherà le interazioni sociali e non andrà più in chiesa a pregare…è vero questo?”
“Per alcuni, soprattutto i giovani che nel XXI secolo dialogheranno con gli I-phone questo è vero. Per molti altri, la fede si rinsalderà e andranno in chiesa, anche nel XXI secolo.”
De Chirico chiese:
“Maestro evangelico, il potere politico, quando saremo viventi veri, come si evolverà?”
 “Ai tempi di Piero della Francesca, c’è stato il potere politico e quello economico che però rappresentavano la sottile rete che sorreggeva le umane vicende. La statica visione del mondo coi suoi sette cieli, più l’ottavo, propria del tardo medioevo sarà annullata in modo radicale dalla scienza moderna, quella più o meno che sarà a voi contemporanea.”
Massimo Campigli che stando a quanto stabilito dalla divine sfere, sarebbe nato il 4 luglio del 1845, si interessò della nuova scienza e chiese:
“Maestro, ci dica. E’ vero che la relatività generale di cui qui se ne sente il clamore, sconvolgerà la visione del mondo?”           
“La relatività generale smentisce l’immagine intuitiva dello spazio-tempo come un contenitore in cui si trovano oggetti vari. Lo spazio-tempo non può sostenere alcuna struttura localizzata. Non osserviamo le cose in posizioni assolute, isolate da un contesto. L’ubicazione di un oggetto nello spazio-tempo avviene in base alla disposizione con cui si collega ad altre strutture materiali. Ad essere oggettive, sono le reciproche posizioni. Ripeto, sono concezioni scientifiche che si diffonderanno nel XX secolo. Nel medioevo di Piero della Francesca tutto ciò era ignoto. Nel XX secolo, si capirà che sono le relazioni, i rapporti tra persone, oggetti e cose i veri punti di riferimento e sono essi a determinare gli eventi del mondo esterno. La fisica del futuro mondo dimostrerà alla gente che ogni oggetto materiale non è distinto dagli altri, ma legato in maniera inseparabile all’ambiente e le sue proprietà possono essere comprese solo nei termini delle sue interazioni col resto del mondo. Secondo il principio di Mach, un altro scienziato del prossimo futuro che alcuni di voi conosceranno, questa interazione si estende all’universo in generale, perfino alle stelle ed alle lontane galassie. Sarà chiaro che l’unità fondamentale del cosmo è presente, non solo nel mondo dell’infinitamente piccolo, ma anche a livello macroscopico. Tutto ciò sarà sempre più evidenziato dall’astrofisica e dalla cosmologia del futuro in cui la maggior parte di voi, ripeto, vivrà. Concezioni nuove che in seguito saranno a loro volta confutate.”
Massimo Campigli disse: “Allora, maestro, Piero della Francesca non aveva capito niente. Noi Non siamo statue con una vita del tutto scollegata da quella degli altri. Non siamo come i personaggi ritratti da Piero della Francesca.”
“E così e non è così. Per esempio lei, Campigli, quando vivrà sulla Terra cercherà d’imitare Piero della Francesca pur sapendo fin da adesso che non aveva capito niente. Cercherà d’imitarlo perché nonostante le cose girino in modo diverso, parlo del prossimo futuro. Lei capirà che c’è qualcosa che di Piero della Francesca sfugge comunque. C’è un qualcosa d’indeterminato, ma che è pieno di allusione mistica.”
 Morandi ne voleva sapere di più: “Maestro ci dica qualcosa in più del prossimo futuro in cui noi siamo destinati a vivere.”
“Nel prossimo futuro, perfino a livello inconscio e nei sogni, sarete interconnessi gli uni con gli altri. Invece, la fissità e la solitudine degli esseri umani, dipinti da Piero della Francesca, esistono come icone solo all’interno della sua arte. Plotino aveva scritto che non c’è un punto dov’è possibile fissare i propri limiti in modo da affermare: fino a qui, sono io…Mi capite? Contro questo pericolo del non limite, il potere costituito del medioevo aveva posto ferree barriere nella sfera politica e religiosa. L’Uomo doveva restare come lo aveva definito Aristotele: un animale vivente ed inoltre capace di una esistenza politica. L’invalicabilità dei limiti imposti dall’alto è affermata da molti artisti tra cui Piero della Francesca. Mi Capite? E adesso, non chiedetemi perché nel futuro in cui siete destinati ad esistere ci saranno guerre mondiali con milioni di morti. Non chiedetemi a che serve l’Arte di fronte a simili catastrofi. Vi dico solo che l’Arte agisce meglio per lunghi periodi. L’Arte fa in modo che la pianta millenaria dell’umanità, nonostante gli attacchi del Male, cresca armoniosa e bella.” 
Sul grande schermo dell’aula magna ultraterrena, apparve la proiezione di un’opera pittorica che Felice Casorati avrebbe prodotto di lì ad alcuni secoli, quando una volta nato con tutti i crismi, avrebbe raggiunto la piena padronanza dei mezzi pittorici. La pittura del Casorati avrebbe fatto riemergere, a livello inconscio, quella di Piero della Francesca.
I presenti, futuri artisti terreni, fecero un breve applauso al relatore e si apprestarono a lasciare l’aula.  
 

mercoledì 20 aprile 2016

DUE TIPI A POSTO di Laura Silvestri

Mio fratello è un tipo a posto.
È anche morto, a volerla dire tutta, ma questo è meno rilevante.
Mi preme innanzitutto sottolineare che è un tipo davvero a posto, anche se ha il brutto vizio di morire, o meglio di farsi ammazzare. Ma ritorna, sapete? Ritorna ogni volta. Se esiste il detto che l’erba cattiva non muore mai, lui è la prova che anche quella buona ha i suoi modi per riproporsi e, fidatevi, ve lo dice uno che di erba buona ne sa parecchio.
Mi rendo conto che molti di voi non avranno un fratello come il mio, che si fa accoppare e poi rispunta all’improvviso ma, in fondo, non sono tutti quanti spine nel fianco, i fratelli minori, ognuno a modo proprio?
Ma lasciate che mi presenti: potrei dire di essere un uomo facoltoso e raffinato, ma sarebbe un po’ scontato. Dirò invece che anche io sono un tipo davvero a posto, come mio fratello, anche se di solito per tutti è più facile credere che io lo sia. Sapete, penso sia colpa del look. Per quanto mi sforzi di consigliarlo per il verso giusto, lui continua a essere affezionato a quel suo stile anacronistico da hippie. Glie l’ho detto, che quella barba non sarebbe stata ammissibile nemmeno su un rocker degli anni settanta, che la gente lo scambia per qualcuno di pericoloso, in giro per la strada, e cambia marciapiede in gran fretta. Ma lui, sapete, è un tipo testardo. Gli piace quello che gli piace. È un po’ viziato, perché è il piccolo di casa, e lo sa che papà un giorno se ne andrà in pensione e lo metterà a dirigere la baracca, a prescindere da quante bravate abbia compiuto in gioventù il suo ragazzaccio.
Quanto a me, mi è toccato mettere da subito la testa a posto.  Fratello maggiore e tutto il resto, sapete. Il mio vecchio mi ha fatto capire sin dall’inizio che a me sarebbero toccate le rogne da gestire, e ho cercato di farmelo piacere. Dopotutto, quando si fissa abbastanza a lungo qualcosa, qualsiasi cosa, non importa quanto noiosa o patetica, si finisce per trovarci qualcosa di positivo, e io ho guardato molto, molto a lungo.
All’inizio ho avuto i miei momenti di disaccordo con mio fratello, come spesso succede fra ragazzi, ma direi che ormai siamo una bella squadra. O, per lo meno, adesso riusciamo a capirci. Più che altro è lui che viene a piangere da me quando qualcosa gli va storto, il che significa che me lo ritrovo fra i piedi piuttosto spesso. Ma sono affezionato al mio fratellino scavezzacollo, e non mi dispiace averlo in giro per casa mia. Vorrei soltanto che fosse un po’ più propenso ad ascoltare i miei consigli. Dopotutto, sto al mondo da più tempo di lui, conosco come vanno le cose, capisco la gente. Ma no, è come parlare con il muro: lui ascolta, sorride, mi volta le spalle e va a farsi sparare, tutto a modo suo.
Questa volta è così che è successo: gli hanno sparato. Niente di eclatante, si sarà guadagnato si e no un trafiletto sulla prima pagina dei giornali locali. “Opinionista di talk show assassinato all’uscita degli studi televisivi”. In realtà, questa volta è stata un po’ colpa mia. Mio fratello ci tiene tanto che la gente lo stia a sentire, ha tante cose da dire, è fatto così. È un utopista, un sognatore, e finisce che riesce a rendersi antipatico anche al più paziente degli ascoltatori. Ho pensato: se prova a parlare a tanta gente, qualcuno d’accordo con lui dovrà pur trovarlo, e gli ho proposto un’ospitata in un bel programma di prima serata. Ci ho messo due mesi a convincerlo: lui diceva che non era il suo stile, che non era capace a stare davanti alle telecamere. Io conosco tanta gente, non mi è stato difficile trovargli un posticino al sabato sera, e un’intervistatrice intraprendente, di quelle che saprebbero rendere interessante anche il sermone di un pastore protestante. E mio fratello, incredibile ma vero, per una volta si era preparato un discorsetto come si deve, accattivante, pieno di attivismo, intriso di protesta vibrante. Tutta roba pacifista, naturalmente, niente incitamento alla violenza, soltanto sani, vecchi valori di una volta. Un discorso di quelli che strappano applausi spontanei, sincero e mai retorico. Be’, non ci crederete, ma gli ascolti erano stati buoni, e gli sponsor si erano subito dichiarati pronti a sborsare un bel po’ di quattrini per fargli fare un bis. Ma figurarsi se lui avrebbe accettato di farsi pagare. È un cane sciolto, mio fratello, chi lo conosce da un po’ ormai se n’è accorto.
E così, alla diretta successiva, eccolo pronto a dirne altrettante, inveendo col suo solito stile irriverente contro il malcostume e un sacco di altre cose tanto di moda, che probabilmente hanno dato fastidio a più di una persona in posizione di rilievo. Gli hanno sparato all’uscita degli studi, e la Polizia sta ancora indagando su chi sia stato il mandante dell’assassinio. Io ho una mezza idea in proposito, ma poco conta. So già che tanto, di qui a qualche giorno, mio fratello si rifarà vivo, nel senso letterale del termine. Mica come queste storie dell’occulto da quattro soldi in edicola, con case infestate e fantasmi che sbattono le catene. Si rifarà vivo e, come sempre, col suo gusto per il plateale, farà prendere un grande spavento a Consuelo, la governante, mostrandole i nuovi fori di proiettile proprio al centro del petto. Ma è un giocherellone, in realtà, non lo fa con cattiveria. Forse, un po’ è colpa anche dei suoi amici, che gli danno sempre ragione. Se li porta dietro da un sacco di tempo, ormai non riescono più a contraddirlo per abitudine. Sono tipi a posto, anche loro. Quasi tutti. Quando passano dalle mie parti li chiamo J.C. and the Sunshine Band, e loro ridono sempre.
Ecco, credo proprio che questa volta si sia sbrigato, sento dei rumori dal piano di sotto. È una fortuna che Consuelo sia a portare a spasso il cane.
I passi sono pesanti, stanchi, proprio quelli che ormai riconosco a mio fratello. Mi alzo dal salotto e gli vado incontro. Eccolo lì, sulla porta, con la sua aria scarmigliata da bello e dannato che gli ha sempre valso un certo successo con le donne. Ha indosso i vestiti della sera che gli hanno sparato, la camicia ancora strappata dove i proiettili, più di uno, si sono conficcati. È un bel ragazzo, anche se non ha più vent’anni, ma io sono meglio, e non lo dico per vantarmi. Nel nostro circolo sostengono tutti che papà con me abbia fatto un mezzo capolavoro.
- JC, ce ne hai messo stavolta! – esordisco aprendo le braccia in un invito silenzioso – Quanto ti ci è voluto, una settimana? Un tempo te la cavavi nella metà del tempo!
Mio fratello storce il naso. Non gli piace quando lo chiamo con le sue iniziali, ma ha smesso di rimproverarmelo. Dopotutto, lo ha capito persino lui che ogni tanto bisogna adattarsi al nuovo che avanza. – Provaci tu, a svignartela da una camera mortuaria senza far prendere un accidente al custode. – mi risponde abbracciandomi sbrigativamente. – Ho dovuto aspettare il week end.
- Che peccato. – commento andando a versare una coppa di vino per entrambi dal raffinato mobile bar. Mi piace coccolarlo, quando ritorna da qualche peripezia finita male. Una volta era molto popolare, più di me, ma adesso mi pare che non esista una sola persona al mondo in grado di comprenderlo come lo comprendo io. – Stavolta avevi fatto un buon lavoro, sai? Tutta quella passione, quell’accusare i corrotti insospettabili, il clero e tutto il resto. Avrei scommesso che ti avrebbero creduto, a questo giro.
- No, non lo fanno mai. Mi hanno creduto a malapena la prima volta che sono venuto da queste parti. – mio fratello si stringe nelle spalle, con l’aria affranta. – Mi sa che hai ragione tu. Finirà che verrà il gran giorno, e nessuno si sarà fidato di me, di quello che ho da dire.
- Oh bè, peggio per loro, fratello caro. Lo sai come la penso su questa gente. Non ti meritano, non ti hanno mai meritato. – gli dico porgendogli un calice di cristallo. Lui lo prende, con la mano stanca e segnata dall’ennesima cicatrice. – E alla fine, verranno tutti alla mia festa. È una fortuna che io sia un così bravo organizzatore di eventi. Sarà proprio la fine del mondo.
Mio fratello non apprezza il mio umorismo. Lo trova troppo cinico, dice, e forse ha ragione. Ma come potrei non esserlo? Provateci voi, a vedere vostro fratello spiegare il bene a piccole menti ottuse, tentativo dopo tentativo, secolo dopo secolo, rivolgersi ai presunti pii, agli autoproclamati benefattori, e venire scacciato, deriso, assassinato. Voi, non sareste amari di fronte a un simile trattamento, se aveste per fratello la migliore persona che abbia mai calcato la terra?
- Ti dispiace se sto un po’ da te, Luke, prima di tornare alla base? – mi chiede con quel viso triste che gli conosco, e come posso dirgli di no?
È un tipo a posto, mio fratello, ma ancora una volta non ha avuto successo. Quando ci riproverà, per cortesia e per il vostro stesso bene, siate un po’ più gentili con lui. Voglio dire, lo so che è facile avermi in simpatia, perché io ci so fare, ho i modi accattivanti, i soldi e le amicizie, e un senso dell’umorismo al quale non si può resistere. So come prendere le persone, so che proposte fare, e finisce che sono sempre molto popolare, in ogni stagione, anno dopo anno, dopo anno.
Ma mio fratello… be’, lui è un tipo scomodo. Lo è stato sin dalla prima volta che se l’è presa con alcuni mercanti in un vecchio tempio. Si infervora quando dice le sue cose, ma voi dovreste proprio starlo a sentire, sapete? Quindi date retta a uno come me, un uomo ricco e di buon gusto, in giro da parecchio tempo: se per caso doveste incontrare mio fratello, e lui dovesse dirvi il suo nome per intero e darvi qualche consiglio su come evitare di essere invitati alla mia grande festa… be’, fatemi un piacere: dimostrate per lui un po’ di simpatia, e delle buone maniere.
E forse, quando verrà il momento di scegliere cosa fare di voi, una volta che le vostre anime patetiche singhiozzeranno e attenderanno di diventare carne da macello per i miei mastini… potrei chiudere un occhio.

lunedì 11 aprile 2016

APPROACH TO MARS di Fabio Calabrese

Gino Lazzari era appena uscito dal terminale dell'aeroporto guardandosi intorno con aria disorientata. I paesaggi tropicali avevano questo di negativo: ti aggredivano con un flusso stordente di colori e sensazioni.
All'improvviso si senti chiamare:
“GINO, GINO!”
Una squillante voce femminile richiamò la sua attenzione.
Gino Lazzari si avvicinò. Accanto a un piccolo elicottero, c'era una ragazza che si stava sbracciando nella sua direzione, una ragazza, dovette ammettere subito, dalle curve di tutto rispetto, una cascata di capelli biondi, e il cui abbigliamento, tolti occhiali da sole e zoccoli, non era costituito da nulla di più di un generoso bikini che non nascondeva per nulla le curve procaci.
“Gino”, disse lei togliendogli la sacca dalle mani e sistemandola dietro i sedili dell'elicottero, “sono la sua elicotterista”.
Per un istante, Gino Lazzari si domandò come avesse fatto a non rendersene conto: l'emisfero australe è completamente diverso da quello boreale: distanze enormi riempite da una quantità spropositata d'acqua marina, rade isole dove viveva un'umanità ancora più rada. Era quasi ovvio che non ci fosse nessun collegamento di linea tra Noumea e Mururoa, ma ci si dovesse andare in elicottero.
“Mi chiamo Denise”, disse la ragazza mettendosi ai comandi, “hanno scelto me per venirti a prendere perché parlo italiano. Mia mamma è italiana, ma mio padre è un vero french polinesian”.
Gino sorrise.
“Qualunque sia la combinazione”, disse, “il risultato mi pare particolarmente riuscito”.
Mentre l'elicottero si sollevava, la ragazza fece finta di non aver sentito il complimento.
“Dì un po'”, chiese Gino,”ma questi affari non sono pericolosi?”
“Meno della tua automobile”, rispose lei, “a meno che tu dimentichi di stare fermo fino a quando le pale e il rotore hanno smesso di girare”.
Dopo poche ore stavano sorvolando Mururoa. Gino era del tutto impreparato a quello che avrebbe visto, ma Denise che aveva lasciato l'isola poche ore prima, era altrettanto impreparata. Sotto di loro, la superficie dell'isola era un caos di polvere e detriti che a tratti ne mettevano a nudo il bianco scheletro calcareo.
“Sembra sia stata bombardata”, disse Gino.
“Qualcuno deve avere usato un esplosivo ad alto potenziale”, commentò Denise. “È chiaro che qualcuno vuole impedirci a tutti i costi di arrivare su Marte”.
Qualche ora più tardi, Gino ebbe modo di incontrare gli altri membri della spedizione in una villetta isolata. Tranne i comandanti della spedizione, i colonnelli Lapierre e Savcenko, rigidi nelle loro uniformi militari, tutti gli altri avevano adottato un look alquanto disinvolto. Quei fisici da pin-up e culturisti che strabordavano dai costumi e dalle magliette tropicali, tendevano a far dimenticare che quegli uomini e quelle donne erano tutti scienziati o tecnici con un'elevata specializzazione e militari addestrati a una rigida disciplina.
Al centro dell'ampio tavolo c'erano le bandierine dell'Unione Europea e della Federazione Russa. Questo sorprese Gino: si era aspettato la bandiera dell'ONU, come di solito si usava per le missioni internazionali, ma evidentemente le Nazioni Unite non avevano dato la loro benedizione. Gli altri membri dell'equipaggio erano europei, in netta maggioranza francesi, e c'erano alcuni russi.
Jean Lapierre, un uomo di circa cinquant'anni, dai capelli grigi, rigido ma in qualche modo elegante nell'uniforme militare, comandante semi-ufficiale della spedizione, prese la parola.
“Abbiamo controllato i danni alle attrezzature”, disse, “sono andati distrutti un hangar prefabbricato e due booster vuoti. I danni non sono gravissimi, gli attentatori sono stati alquanto maldestri. Tuttavia è chiaro che ci stiamo confrontando con una forza ostile che desidera che questa spedizione non si faccia. Mi sono confrontato con il colonnello Savcenko e abbiamo convenuto sulla stessa linea di condotta: Emetteremo un comunicato molto drammatico dal quale risulterà che i danni alla base siano molto più gravi di quanto in effetti non sono, tali da metterci fuori gioco per molti mesi, e intanto procederemo più velocemente possibile alla preparazione della spedizione”.
Il colonnello Savcenko era un uomo molto diverso da Lapierre: aveva l'aspetto volpino e sornione di chi ha fatto carriera soprattutto a forza di astuzie.
“La Russia”, disse, “senza il KGB non sarebbe niente, ma in questo caso scomodare il KGB non è proprio necessario. Ricordate che la nostra non è una spedizione internazionale, ma euro-russa. Se il Giappone ha declinato la sua partecipazione, e la Cina ha fatto altrettanto, c'è una sola spiegazione: pressioni da parte degli Stati Uniti, o almeno da una parte dell'élite americana; questo spiega anche il mancato appoggio dell'ONU. Il problema è che sappiamo chi, ma non sappiamo il perché. Ci è tuttora ignoto perché almeno una parte dell'élite statunitense intende sabotare la prima spedizione umana su Marte”.
 
Dopo la conferenza, Gino Lazzari ebbe modo di conoscere gli altri membri della spedizione. A parte le quattro persone di nazionalità russa, tra cui una bella ragazza, Tanja Georgeva, gli altri erano tutti europei, francesi la più parte, anche se c'erano uno spagnolo, un tedesco, e Paula Van Djemen, una graziosa ricercatrice olandese. Tuttavia, quel che lo stupì di più, fu la distribuzione delle specializzazioni. A parte i tecnici come lui, specialista nell'assemblaggio di strutture modulari, fra gli scienziati c'erano soprattutto geologi e vulcanologi.
“Ma come, non lo sai?”. Glielo spiegò Tanja Georgeva con il tono che avrebbe usato con un ragazzino. “Noi sbarcheremo nei pressi del Monte Olympus, che è il più grande vulcano del sistema solare, e quando Marte era geologicamente attivo, deve aver eruttato un bel po'. C'è un motivo preciso e semplice: sulle pendici dei vulcani durante le eruzioni si formano i cosiddetti tunnel di scorrimento. La lava più esterna si raffredda e si solidifica, mentre quella all'interno continua a scorrere, così si forma una sorta di galleria. Noi pensiamo che su Marte, durante le eruzioni del Monte Olympus di tunnel di scorrimento se ne debbano essere formati un bel po', anche perché data la sottile atmosfera marziana, e il fatto che questo pianeta si trova più lontano rispetto al sole della Terra, la differenza fra temperatura esterna e quella della lava incandescente doveva essere considerevolmente maggiore. In sostanza, noi ci aspettiamo di trovare nei tunnel di scorrimento del Monte Olympus qualcosa di molto simile a una base naturale già bella e fatta che potremo adattare facilmente alle nostre esigenze”.
I giorni seguenti passarono molto in fretta per Gino: c'era da fare tutto il lavoro di preparazione al lancio: preparazione fisica ed esami medici, e un po' di ripasso teorico sul lavoro che gli sarebbe stato affidato una volta giunti sul Pianeta Rosso. Il comunicato del colonnello Lapierre che teoricamente rinviava la spedizione quasi sine die lo faceva sentire abbastanza al sicuro. Chiunque fossero gli attentatori, li avrebbero gabbati con una partenza improvvisa. Sdraiato sulla cuccetta anti-accelerazione, Gino Lazzari aveva l'impressione che una mano gigante gli premesse le viscere verso il basso per fargliele uscire dalle reni. Quello era davvero il momento critico a cui tutto il lavoro teorico e gli allenamenti precedenti non preparavano veramente mai, l'improvviso aumento dell'accelerazione quando l'astronave si staccava dalla superficie e poi dal campo gravitazionale terrestre. I veterani delle missioni spaziali finivano per acquisire una certa abitudine, ma per i novellini era il momento più duro, il battesimo dello spazio.
Tuttavia passò. Pian piano, dopo qualche minuto l'attrazione gravitazionale tornò dapprima alla normalità, per poi scendere al disotto dei livelli abituali sulla superficie terrestre, e trasformarsi in caduta libera a gravità ridotta. Questa era una sensazione completamente diversa che dava piuttosto una sorta di euforia. Gino si ricordò quasi con sorpresa, che quella gravità ridotta sarebbe stata appunto la condizione in cui avrebbe dovuto vivere per la maggior parte del tempo nei mesi seguenti. C'era da ringraziare comunque la propulsione a ioni, che avrebbe consentito di arrivare sul Pianeta Rosso in un paio di mesi, invece dei quattro anni che sarebbero occorsi con un razzo a propulsione chimica.
Certo, venne da pensare a Gino; in realtà Marte sarebbe stato raggiungibile anche nel XX secolo, quando poco dopo la metà di esso, era iniziata la corsa allo spazio, ma sarebbe stato necessario un tempo spropositato.
Gli altri membri dell'equipaggio cominciarono a uscire dalle cuccette, e anche Gino lo fece con la maggiore prontezza che gli fu possibile, non ci teneva a fare la figura del novellino. Era strano fluttuare in quel modo, ma non spiacevole.
Poco dopo, arrivò il comandante Lapierre che teneva una scatola sotto il braccio. La sua espressione era raggiante.
“Ragazzi”, disse, “ho aperto adesso la busta sigillata con gli ordini per la missione. Vi comunico che sono stato ufficialmente nominato comandante della spedizione e che mi sono stati conferiti i gradi di generale. Qui ci sono dei cioccolatini per tutti voi. Attenzione quando li togliete dalla scatola, che con la bassa gravità non schizzino chissà dove. Poi però scordatevi che possano fare parte delle vostre razioni abituali nei prossimi mesi”.
Fra i membri dell'equipaggio, l'applauso scoppiò spontaneo.
Qualche minuto più tardi, arrivò il colonnello Savcenko, e la sua espressione era completamente diversa, aveva una faccia rabbuiata che non lasciava presagire nulla di buono.
“Devo darvi delle notizie”, disse l'ufficiale russo. “Poco fa mi sono fatto trasmettere le coordinate della missione da Houston, da Baykonur, da Atacama nelle Ande peruviane, che come sapete, è una base europea. Naturalmente, i nostri amici americani sono all'oscuro del fatto che il nostro controllo è triplice, e credono di essere gli unici a fornircele. Bene, i risultati sono molto chiari. Mentre le coordinate che ci hanno fornito russi ed europei coincidono, quelle che ci ha dato Houston sono completamente sballate, ci porterebbero a perderci nello spazio”.
L'espressione di Lapierre si era incupita.
“Vuoi dire”, commentò, “che sacrificherebbero con tanta facilità la vita di una trentina di persone?”
“A quanto pare, si”, rispose il russo.
“Devono avere qualcosa di grosso da nascondere”.
La vita a bordo dell'astronave, che i francesi avevano deciso di chiamare “Ariane” come i loro primi razzi, si stava assestando su di una routine che contribuiva a dare alle cose un senso di normalità.
Di tutte le procedure che formavano la routine a bordo della Ariane, quella che Gino gradiva di meno, era la cosiddetta ruota del criceto, si trattava di un'apparecchiatura di forma circolare che in effetti Gino trovava molto simile alle ruote nelle gabbie dei criceti, ma il suo scopo era quello, ruotando su se stessa, di creare una sorta di gravità artificiale. Lapierre era stato categorico: tutti i membri della spedizione dovevano fare una corsa di almeno un'oretta al giorno su quella sorta di tapis roulant circolare per non disabituarsi a una gravità di tipo terrestre: l'assenza di gravità indeboliva il sistema osseo e poteva procurare seri problemi circolatori.
Nulla appariva più appropriato alla dimensione onirica, che fluttuare nella bassa gravità, sembrava di spostarsi come una medusa immersa nell'acqua marina, piuttosto che come un vertebrato terrestre. Ovviamente, nello spazio interplanetario non c'erano né giorno né notte, ma Lapierre e Savcenko avevano imposto un ciclo giornaliero preciso simil-terrestre, e in quel momento a bordo della Ariane era “notte”. In quel momento, Gino Lazzari non sarebbe stato capace di dire se fosse sveglio o stesse sognando un sogno con strane coloriture realistiche.
Si avvicinò all'impianto di regolazione dei gas e dei propellenti. L'impulso che provava era estremamente forte: sarebbe bastato aprire un paio di valvole e chiuderne un altro paio, per fare in modo che il comburente destinato all'alimentazione dei razzi ausiliari, si espandesse nell'impianto di aerazione della Ariane. Pochi minuti e tutti sarebbero morti avvelenati, non sarebbe stata un'agonia lunga.
Si bloccò. Per quale motivo avrebbe mai dovuto fare una cosa tanto assurda? Con uno sforzo si allontanò, fluttuando di nuovo verso la propria cuccetta.
Era di nuovo là: il tempo sembrava aver girato all'indietro riportandolo al punto di partenza. In realtà, Gino Lazzari era semi-conscio che le cose non stavano così, che quella era la notte successiva, nel corso della quale un impulso incontenibile l'aveva di nuovo riportato davanti alle valvole dell'impianto di regolazione. Questa volta, l'impulso era fortissimo. Allungò la mano verso la valvola, ma non la raggiunse mai. Un dolore fortissimo gli esplose poco sotto la mascella, e prese a volare all'indietro, finché la sua testa andò a sbattere con forza contro una paratia. Nella bassa gravità sembrava impossibile farsi male, ma non era così, perché non c'era nessun attrito, nessuna resistenza a frenare gli effetti di un colpo o di una spinta. Non solo gli incidenti nella bassa gravità erano possibili, ma a volte potevano anche essere parecchio dolorosi. Gino Lazzari svenne.
Quando riprese conoscenza, Gino si accorse di essere saldamente legato a una branda. Vide sopra di sé il volto di Konstantin Savcenko.
“Mi dispiace”, disse il russo, “ho dovuto usare la mano pesante, ma ne andava della sicurezza di tutti”.
“Non capisco”, rispose Gino.
“La cosa non mi sorprende”, replicò Savcenko, “sotto alcuni lati, gli Americani sono gente molto in gamba, ma ti sorprenderesti di sapere quante volte il nostro KGB li ha presi per il naso. Abbiamo subito pensato che avessero infiltrato un sabotatore nel nostro equipaggio, e tu eri il candidato più probabile, perché hai avuto un periodo di studio e addestramento negli Stati Uniti”.
“Ma io non volevo fare del male a nessuno!”, obiettò stupefatto Gino.
“Su questo non ho dubbi”, rispose il colonnello. “Non siamo sulla Terra ma nello spazio. Un sabotaggio qui, è anche un suicidio. Io sono sicuro che sei stato ipnotizzato. Io, tu e il comandante Lapierre rimarremo gli unici a conoscenza della faccenda, ma capirai che per non correre ulteriori rischi, ti terremo sotto controllo”.
 
Il secondo mese di viaggio fu per Gino un vero tormento: sentirsi sorvegliato, sia pure con molta discrezione, era estremamente sgradevole. Per sfuggirle, si tuffò nel lavoro: la sequenza di operazioni robotiche che avrebbero trasformato le pendici del Monte Olympus in una base abitabile per gli esseri umani, poteva essere progettata con un certo anticipo anche senza conoscere esattamente la morfologia dei tunnel di scorrimento lavico che i vulcanologi si aspettavano di trovare: occorreva per prima cosa sigillarli in modo che non disperdessero la preziosa atmosfera, poi occorreva portarvi luce e calore; infine si arrivava all'installazione robotica dei moduli prefabbricati, che avrebbero trasformato quei cunicoli in un posto decente dove vivere.
Certo, Gino avrebbe voluto controllare i risultati con qualcuno; magari Denise, la ragazza italo-kanak, oppure la russa Tanja Georgeva, ma a quanto pareva, era già fortunato che le cose erano andate come erano andate, e non si trovava agli arresti.
Quasi non se ne accorse fino a ventiquattro ore prima dello sbarco. Quello era un momento storico: era la prima volta che gli esseri umani atterravano su di un pianeta diverso da quello che li aveva generati; almeno questa era la versione ufficiale, ma era davvero così, oppure no?
Una dozzina di ore dopo lo sbarco sul suolo marziano, Gino Lazzari era già al lavoro; questo gli dava una soddisfazione enorme, sentiva di aver riguadagnato credibilità. Alle falde del Monte Olympus c'era una quantità di tunnel di scorrimento lavico, che formavano un labirinto intricato. Qualche ora dopo aver iniziato il lavoro, soprattutto dopo aver cominciato a posizionare le luci, le prove cominciarono ad apparire evidenti: loro non erano i primi esseri umani provenienti dal pianeta Terra ad aver messo piede su Marte.
Gino aveva chiesto di poter parlare all'equipaggio nel salone centrale dell'astronave, dove c'era il lungo tavolo in grado di ospitarne i membri al completo. Ora che il momento era arrivato, però, si sentiva in forte imbarazzo: non era un oratore, sapeva di non esserlo; sperò ardentemente che il materiale che aveva raccolto e custodiva nella grossa sacca per campioni vicino a lui, fosse abbastanza eloquente di per sé.
“Ci sono prove evidenti”, esordì, “che noi non siamo i primi esseri umani a mettere piede su Marte. Siamo stati preceduti da una o più spedizioni statunitensi e, direi in base al materiale da me ritrovato, che siamo stati preceduti da qualcosa come mezzo secolo. Quel che tuttora non mi rimane comprensibile, è il perché sia finora stato mantenuto il segreto su ciò”.
A questo punto, fu Savcenko a prendere la parola.
“Caro Lazzari”, disse, “io mi sorprendo che tu abbia ancora dei dubbi a questo riguardo. Io ci ho riflettuto e qualche idea me la sono fatta. Considera l'epoca nella quale sarebbe avvenuto ciò. Agli inizi degli anni '70 del XX secolo, il programma Apollo fu improvvisamente interrotto dopo lo sbarco umano sulla Luna. Possiamo pensare che non sia stato affatto interrotto, ma proseguito in segreto, avendo come obiettivo non più la Luna, ma Marte. Il motivo, lo si comprende anch'esso molto bene se si tengono presenti l'epoca e il contesto storico. Erano gli anni della guerra del Vietnam, della contestazione generale, dell'avanzata comunista negli stati ex coloniali del Terzo Mondo. La sensazione generale era che il crollo del sistema americano e l'avvento di un sistema comunista mondiale fossero imminenti, poi sappiamo che dagli anni '80 la tendenza si è del tutto invertita. Mettiamoci nei panni dell'élite statunitense dell'epoca, o almeno di una parte di essa. Cosa di meglio per mettersi al sicuro, che trasferirsi su Marte dove vivere beatamente nello stile dei piantatori del vecchio sud, serviti da migliaia di schiavi robotici? Noi comunicheremo la nostra scoperta alla Terra, e quando torneremo, sono sicuro che troveremo un mondo cambiato, dove sicuramente la reputazione degli Stati Uniti avrà subito un notevole ribasso”.
“Benissimo”, replicò il generale Lapierre, “possiamo vedere queste prove?”
Gino estrasse un oggetto dalla sacca: era un bidoncino per la raccolta dei rifiuti: sul lato superiore del coperchio, si leggeva chiaramente la scritta TRASH.
“Non vorrei essere polemico”, disse Lapierre, “ma si potrebbe anche pensare a un oggetto recente che ci siamo portati dietro per costruire una messinscena”.
“Capisco”, rispose Gino, “Forse troverà questo più persuasivo. Intendiamoci, nulla garantisce nemmeno in questo caso che non sia un falso, e sono sicuro che al nostro ritorno dovremo confrontarci con polemiche furiose, ma certamente è più nello spirito dell'epoca”.
Estrasse un altro oggetto dalla sacca: era una lattina dove qualcuno aveva inciso una caricatura, schematica ma riconoscibile, di un Elvis Presley molto capelluto. Più sotto era stato inciso:
“US HAIR FORCE”.
 

giovedì 7 aprile 2016

SUL PONTE di Teresa Regna

Si svegliò sul ponte. Era nudo, e non aveva motivo di essere nudo, in pieno inverno. Non avvertiva il freddo, però, era come se la sua pelle fosse divenuta insensibile, impenetrabile alle sensazioni provenienti dall’ambiente circostante.
Al di là del ponte non riusciva a scorgere nulla: né il cielo sopra di lui, né colline o alberi che delimitassero l’orizzonte, e nemmeno il fiume che il ponte gli consentiva di attraversare. Il mondo intero era celato da una fitta nebbia, che pareva scaturire dalle viscere del cielo al solo scopo di occultare il paesaggio e annebbiare i sensi dell’uomo.
Persino le sue percezioni erano distorte: il ponte gli appariva ricoperto da un sottile strato di ghiaccio, mentre un attimo prima gli era sembrato composto dal terreno arido e pietroso tipico della sua regione natale, la Persia.
Avrebbe voluto scuotere la polvere impalpabile dell’incertezza dalla sua mente, perforare la nebbia che lo avviluppava con il pensiero logico, ma non ne era capace. Sentiva di non poterlo fare. Mai più.
Il pragmatico guerriero mercenario, al soldo del miglior offerente, che aveva assassinato le persone a centinaia, dato fuoco ai villaggi e saccheggiato le città, depredando senza scrupoli di sorta le case ormai vuote e i cadaveri mutilati, era confuso. Sempre più confuso e incerto. Come un puledro allontanatosi dal branco, come un bambino perso nel buio bosco della vita.
Un piede davanti all’altro, passo dopo passo, avanzava. Quale fosse la meta, non gli era dato sapere. Era costretto ad avanzare da una  forza  sconosciuta,  da  un  misterioso potere che gli imponeva: cammina. Era sottoposto al dominio dell’incomprensibile, invischiato nella nebbia densa come melassa, con l’animo in tumulto. E il ponte diveniva sempre più stretto, come se la mano dispettosa di un gigante lo affettasse ad ogni suo passo.
Un lampo gli percorse la mente. Il ponte aveva un nome: Cinvat. Però non riusciva a ricordare il suo, di nome. Ne aveva avuto uno, ne era certo, ma in quel momento gli sfuggiva. La confusione aumentava con l’assottigliarsi della striscia di terreno su cui poggiava i piedi.
Volse lo sguardo verso il basso, sforzandosi di concentrarsi, di rammentare un qualche particolare, o almeno il suo nome. Non vide più il ponte, bensì una lama affilatissima che minacciava di affettargli le piante dei piedi, se avesse continuato ad avanzare.
Urlò, mentre una consapevolezza improvvisa gli agghiacciava la mente: il ponte era la via che conduceva al luogo dell’eterna delizia; la lama lucente di sangue lo condannava, invece, all’eterna dannazione, al tormento senza fine. Non possedeva più un corpo, ormai, né un nome, né un barlume di speranza: era costretto a gettare la sua anima nel profondo abisso degli inferi.

 

sabato 2 aprile 2016

LADRI di Paolo Secondini

«To’, guarda, Gedeone, ci sono due tipi in fondo alla sala,» bisbigliò Evaristo all’orecchio dell’amico. «Hanno anch’essi le torce elettriche. Chi saranno?»
«Certamente non sorveglianti. Ci avrebbero già intimato di fermarci e, probabilmente, sparato contro.»
«Vuoi dire che come noi sono qui per rubare?»
«Nessun dubbio. Tra ladri c’è concorrenza al giorno d’oggi,» rispose Gedeone cercando di penetrare con lo sguardo la fitta penombra.
«Che cosa facciamo?»
«E che vuoi fare?! Il palazzo è grande: c’è spazio per tutti. L’importante è non intralciarsi.» Rimase un istante in silenzio, deglutì, poi: «Aspettami qui. Vado a dir loro se possono agire al piano di sopra, mentre a noi riserveremo il piano terra. O viceversa.»
«Sì, sì, ottima idea!» convenne Evaristo annuendo. «Vai, vai!»
Gedeone si diresse verso i due tipi, ancora fermi nel punto di prima, no, anzi… uno di loro, adesso, gli veniva incontro.
Qualche metro distante, Evaristo assisteva alla scena, respirando adagio.
Spero di giungere a un rapido accordo, pensò Gedeone mentre avanzava per la sala. Dovunque, in questo palazzo, ci sono oggetti di grande valore: quadri, statue, orologi, argenteria, porcellane varie… Possiamo far tutti un ottimo bottino.
* * *
«Ebbene?» chiese Evaristo allorché Gedeone fu di ritorno. «Che cosa ti ha detto?»
«Non ha pronunciato una parola.»
«Ma come è possibile? Gli hai esposto la nostra intenzione?»
«Non ho potuto.»
«E per quale motivo?»
 «Ti assicuro che è molto difficile fare un accordo con uno che altri non è… se non te stesso.»
«Spiegati meglio. Non capisco.»
«Accidenti, Evaristo! Siamo noi due quelli là in fondo, riflessi nello specchio della sala.»
«Oh, caspita!» esclamò l’amico scaricando di colpo la propria tensione. «Che bellezza! Arraffiamo tutto noi due?»
«Muoviamoci!»