sabato 31 maggio 2014

IL BAMBINO DELLE STELLE di Peppe Murro



 (Illustrazione: Paolo Secondini - Astrattismo plastico)

...sebbene fosse il padrone del mondo, non sapeva bene ancora che cosa fare in seguito.
Ma avrebbe escogitato qualcosa.

Si fermò ancora ad osservare quelle palla lattiginosa che una radioattività rovente andava bruciando, pensò con un certo stupore ai popoli ed alle loro storie, pensò a quanti si erano un giorno guardati con sguardi d’amore, pensò a quanti avevano guardato le stelle con meraviglia.
Si sforzò, ma neanche tanto,  di capire tutto questo, e la musica, la poesia, le dolcezze di legno e di marmo che l’anima esprimeva. Decise però che l’odio e la stupidità erano più grandi e non assolvevano il pianeta, che era necessario un diverso esperimento, a cui avrebbe prestato cura maggiore di quella di un qualunque creatore.
E per un’ultima volta volle guardare in basso. E vide, con curiosità e meraviglia, un giunco che si piegava docile alla carezza mortale del fuoco, quasi accettandone l’abbraccio, cercandolo.
Capì qualcosa che lo colpì come una ferita… l’offrirsi a quel fuoco.
E pianse, sulla sua durezza pianse, sulla sua anima arida di dio pianse.
Era solo, e tutto era privo di luce.
Era solo come non aveva mai creduto… solo… il buio e se stesso.   

giovedì 29 maggio 2014

IL RICORSO di Fabio Calabrese



“Non avrei mai pensato”, disse Luis Alvarez Sosa, “Di trovarmi un giorno a esercitare in un tribunale come questo”.
Christian Bellinghouse non rispose nulla tranne un rassegnato scuotimento di spalle e uno sguardo sconsolato.
Alvarez Sosa era un giovane alto, bruno, elegante, dai modi aristocratici, che si sarebbe detto un ballerino di flamenco, ma era considerato il miglior penalista del foro di Lisbona.
Christian Bellinghouse era molto più anziano del collega, vestiva un abito di ottima fattura un tantino demodè e sfoggiava una candida criniera leonina che incorniciava il suo volto da patriarca; era da molti anni la star indiscussa dell’Old Bailey di Londra.
Entrambi apparivano fuori luogo in quell’ambiente, ma qualsiasi essere umano sarebbe sembrato fuori luogo in quell’ambiente.
Se i due uomini fossero stati in vena di reminiscenze letterarie, cosa che certamente non erano, il paragone che si sarebbe più spontaneamente presentato alle loro menti circa l’ambiente che si trovava poco oltre la cupola trasparente, era con l’inferno dantesco.
Il cielo là fuori era di colore prevalentemente marrone con vistose striature giallo vivo: un’atmosfera composta principalmente da metano e zolfo. A tratti, un lampo vivido scoccava fra le nubi giallastre seguito da uno scroscio di pioggia di acido solforico.
Il suolo era butterato di crateri, non tutti generati dagli impatti di meteoriti, infatti dalla bocca di alcuni uscivano fiamme vivide: non era sempre lava, non sempre eruttavano, il più delle volte erano solo le esalazioni di metano che bruciavano.
In lontananza si scorgeva un lago dalle “acque” violacee: era un lago di ammoniaca, era stato spiegato loro, e il colore violaceo era dovuto allo ione ammonio. L’ammoniaca era ricoperta da una schiuma sfrigolante che si formava quando veniva a contatto con l’acido solforico.
Poco lontano, quasi in riva al lago, si vedeva una lunga sagoma nerastra: era l’astronave da trasporto dei Beutzi, e i due uomini sapevano che nelle sue stive erano ammassati migliaia di esseri umani senza alcuna distinzione di sesso, età, razza, fede religiosa, opinioni politiche, e non erano che il “primo carico” di quanti sarebbero stati di lì a poco trascinati verso un destino ignoto, a meno che il collegio difensivo di cui i due uomini erano la punta di diamante, non riuscisse nell’improbabile impresa di vincere la causa davanti al tribunale galattico.
Le Nazioni Unite che erano la cosa che ancora somigliasse di più a un governo planetario terrestre, avevano scelto con un’attenta selezione il miglior collegio difensivo di cui si potesse disporre, ma c’era un inconveniente: nessuno sulla Terra poteva dirsi un esperto di legislazione galattica.
Alvarez Sosa e Bellinghouse si fissarono negli occhi: avevano fatto il meglio possibile, ma la responsabilità del destino di svariati miliardi di esseri umani, compresi loro due stessi, era un peso troppo opprimente.
Alvarez Sosa alzò lo sguardo a sbirciare il banco della parte avversa.
Più alti e robusti di un uomo, i Beutzi avevano una struttura che grosso modo si sarebbe potuta definire umanoide, erano bipedi con due braccia, ma la somiglianza con l’uomo finiva qui: avevano un esoscheletro esterno, forse di chitina come gli insetti terrestri, forse qualche altra sostanza, vallo a sapere, che solo alle articolazioni era sostituito da un tessuto più flessibile ed elastico ma pur sempre spesso come la pelle di un rinoceronte. Le facce erano delle maschere rigide senza espressione. Le bocche non avevano denti ma dei coriacei bordi seghettati; il colore era un uniforme grigiastro. Per quanto si sforzasse, Alvarez Sosa non era mai riuscito a distinguere caratteristiche individuali, neppure il sesso, sempre che ne avessero uno: sembravano il clone l’uno dell’altro o di un unico modello, e chissà forse lo erano.
Naturalmente, sulla maschera rigida che era la faccia dei Beutzi non era possibile leggere nessuna espressione, ma allora perché, si chiese il penalista portoghese, aveva l’impressione che avessero un’aria soddisfatta e gongolante?
Il servizio d’ordine era assicurato dagli Squirmi, piccoli bipedi pelosi dal muso simile a quello di una volpe con i peli ispidi e ritti come se avesse appena ricevuto una scossa elettrica ad altissimo voltaggio. Alvarez Sosa si chiese che senso avesse: era sicuro che se lo avesse voluto, un beutzi sarebbe riuscito a sopraffare uno squirmi in pochi secondi con estrema facilità.
“In piedi e silenzio!”, strillò uno squirmi con una vocetta acuta e stridula, “Entra la Corte!”
Suo Onore il giudice Umploogas entrò seguito da due cancellieri, due squirmi la cui funzione era puramente decorativa, perché gli atti del processo erano registrati elettronicamente dal vivo. Suo Onore il giudice Umploogas, però, non era né uno squirmi né un beutzi, somigliava all’incubo di un pittore surrealista che, sotto l’effetto di allucinogeni, avesse avuto uno “sballo” cattivo: sembrava una grossa vescia o vescica giallastra che si librasse nell’aria, parzialmente sgonfia, con due macchie fumose là dove ci sarebbero dovuti essere gli occhi, che forse erano e forse non erano gli organi della vista. Poco più sotto c’era un cespuglio di appendici, alcune simili a piccole antenne, altre stranamente piumose, che dovevano essere gli organi di un senso o di qualche senso sconosciuto agli umani del pianeta Terra.
Ai lati, là dove ci sarebbero dovute essere le braccia, c’erano delle appendici che ricordavano dei lombrichi giganti di singolare lunghezza e spessore; alle estremità di queste, una sorta di vermi grossi e tozzi erano in realtà le dita della creatura.
Suo Onore il giudice Umploogas non aveva arti inferiori, il suo corpo terminava in basso con un’estremità rotondeggiante da cui spuntava una sorta di ugello. Il popolo cui apparteneva il giudice Umploogas, i Booragooan, abitavano un pianeta a bassa gravità e si spostavano espellendo dall’ugello posteriore il gas che si formava nelle loro viscere a seguito delle fermentazioni intestinali dei processi digestivi.
Alvarez Sosa sapeva che qualcuno aveva proposto per il pianeta dei Booragooan il nome di Petonia, ma in quel momento non aveva nessuna voglia di scherzare.
Nel pianeta dove si svolgeva l’udienza c’era una gravità pressappoco di un “G”, e Suo Onore il giudice Umploogas si muoveva grazie a una cintura munita di piccoli razzi che portava all’equatore del corpo; senza di essa, si sarebbe afflosciato al suolo come un sacco vuoto.
Suo Onore il giudice Umploogas prese posto sul podio; per essere esatti, si ancorò ad esso, poi cominciò a parlare con una strana voce gorgogliante.
“Signori, buon giorno”, disse, “Sto per emettere la sentenza su questo caso, ma prima, a beneficio dei nostri convenuti terrestri che non sembrano avere molta pratica di diritto galattico, richiamerò brevemente le norme che riguardano il caso in esame.
Come sembra che tuttora non vi sia completamente chiaro, la nazione aderente alla Federazione Galattica che stabilisce un Primo Contatto con un popolo selv … non aderente alla Federazione, esercita su quest’ultimo un diritto di giurisdizione. Questa norma da secoli è considerata inderogabile, perché nel passato ci sono state molte feroci guerre interplanetarie fra le nazioni che oggi compongono la Federazione, guerre scoppiate per contendersi le risorse dei pianeti sottosvilup … non aderenti alla Federazione. Ovviamente, è stata introdotti una legislazione molto precisa e rigorosa per tutelare i popoli primit … non aderenti alla Federazione da possibili abusi.
Veniamo ai fatti: secoli fa dal pianeta Terra, dalla località nota con il nome di Arecibo, è stato inviato nello spazio un radiosegnale denominato CETI che, potendo viaggiare soltanto alla velocità della luce, è giunto a destinazione non prima di venti CGS fa, data nella quale è stato ricevuto dai nostri aventi causa, i Beutzi.
Il CGS, Ciclo Galattico Standard, ve lo ricordo perché in questa causa la questione dei tempi è estremamente importante, corrisponde approssimativamente a quaranta giorni terrestri.
Come è emerso dal dibattimento, i Beutzi hanno ricevuto e tradotto il segnale, e inviato una risposta che è giunta sul pianeta Terra in soli 0,5 CGS perché inviata per via subspazio infradimensionale.
Come previsto dalla Normativa Galattica per i Primi Contatti, la risposta conteneva sia la Dichiarazione d’Intenti sia il Protocollo Galattico di Garanzia redatti nelle lingue dei riceventi e in forma ad essi comprensibile.
La Dichiarazione d’Intenti deve indicare le intenzioni della nazione aderente alla Federazione nei confronti dei primit … non aderenti alla Federazione, e questi hanno due CGS di tempo per presentare ricorso presso la Commissione Galattica per i Primi Contatti nelle forme e nei modi indicati nel Protocollo Galattico di Garanzia. Qualora il ricorso non sia presentato nei tempi previsti, si intende approvata la Dichiarazione d’Intenti, vale il principio del silenzio-assenso.
Trascorsi tre CGS, i Beutzi hanno aperto un tunnel spaziale interdimensionale con un accesso nelle vicinanze del pianeta Terra, ed iniziato a operare in base alla Dichiarazione d’Intenti. A questo punto, i Terrestri hanno presentato ricorso presso la Commissione Galattica per i Primi Contatti secondo la procedura indicata dal Protocollo Galattico di Garanzia, ricorso che ha dato luogo al presente procedimento.
Dal dibattimento tuttavia è emerso che tale ricorso è stato presentato troppo tardivamente per avere effetto sulla Dichiarazione d’Intenti che s’intende accettata dalle parti, e d’altra parte non risulta che il comportamento successivo dei Beutzi sia stato tale da eccedere i limiti della Dichiarazione d’Intenti o da violare la stessa. Pertanto, il ricorso proposto dai Terrestri è rigettato da questa Corte”.
Bellinghouse era diventato rosso in faccia, stringeva i pugni e digrignava i denti cercando di contenere uno scoppio di collera.
“Vostro Onore”, esclamò cercando di controllarsi, “Vostro Onore, la supplico di ripensarci. Avrà certamente notato che, come noi abbiamo dimostrato nel corso del dibattimento, la terza parola della Dichiarazione d’Intenti non è in lingua inglese come tutto il resto del messaggio”.
“Nondimeno, avvocato”, replicò Suo Onore il giudice Umploogas, “E’ in una lingua terrestre ed è perfettamente chiara. Tale circostanza sulla quale voi avete basato interamente il vostro ricorso, non solo non è rilevante ai fini dell’obbligazione da voi contratta, ma la possibilità che la Dichiarazione d’Intenti sia redatta in una combinazione di lingue del popolo primit … non aderente alla Federazione con cui le nazioni membri della Federazione vengono in contatto, è una possibilità espressamente prevista dalla Convenzione Galattica sui Primi Contatti. In passato, prima della stipula della Convenzione nella sua forma attuale, era successo che diverse Dichiarazioni d’Intenti fossero contestate per irregolarità formali o linguistiche, dando luogo a rivendicazioni e conflitti fra i Popoli Membri per il controllo delle risorse dei pianeti selv… non aderenti alla Federazione, e preservare la pace galattica è un obiettivo assolutamente primario”.
“Ma Vostro Onore, ma Vostro Onore”.
L'avvocato Bellinghouse sembrava sul punto di esplodere.
“Vostro Onore”, proseguì, “Non le può essere sfuggito che i Beutzi hanno agito nei nostri confronti in modo fraudolento. Ci hanno comunicato la loro Dichiarazione d'Intenti in modo che non la riconoscessimo per tale, ma la scambiassimo per un semplice segnale di ricevuto del messaggio CETI con l'indicazione del luogo d'origine dello stesso”.
Se un pallone ambulante mezzo sgonfio con due macchie nebbiose al posto degli occhi e gli organi fonatori non visibili avesse potuto mostrare irritazione, quello era certamente il caso di Suo Onore il giudice Umploogas. La sua voce gorgogliante si alzò di un'ottava diventando stridula.
“Avvocato Bellinghouse”, gracchiò, “Ha intenzione di ripetere daccapo la sua arringa? Mi interrompa ancora una volta, e la faccio allontanare dall'aula”.
Bellinghouse si bloccò e impallidì. Essere allontanati dall'aula significava essere sbattuti fuori dalla cupola a respirare l'atmosfera fatta di metano, vapori di zolfo, esalazioni di ammoniaca sotto una pioggia di acido solforico.
“Se voi non siete in grado di capire le vostre stesse lingue”, disse Suo Onore il giudice Umploogas riprendendo la parola, “Questo non è colpa dei Beutzi né tanto meno di questa Corte. Il ricorso è rigettato e la sentenza è esecutiva. I Beutzi sono liberi di procedere”.
L'avvocato Bellinghouse abbassò la fiera testa leonina e si strinse nelle spalle, sembrava in tutto e per tutto un leone sconfitto, il vecchio leone che aveva perso la battaglia più importante per proteggere il proprio branco.
Bellinghouse e Alvarez Sosa si scambiarono una lunga occhiata silenziosa. Entrambi stavano pensando la stessa cosa: sarebbero tornati sulla Terra, e non da vincitori. E poi, sarebbe toccato a loro, ai loro figli, ai loro nipoti, e quando?
Dipendeva da molti fattori che non avevano elementi per stabilire: da quanti erano i Beutzi, da quanto era elevato il loro metabolismo, cioè in sostanza da quanto fossero voraci, e soprattutto dalla fortuna, di non essere tra gli estratti di quella sorta di atroce lotteria.
Con aria rassegnata, Bellinghouse aprì la cartella dei suoi appunti mettendo sotto gli occhi del collega una copia della trascrizione della risposta inviata dai Beutzi al messaggio CETI.
La prima riga era la Dichiarazione d'Intenti, mentre la parte seguente del messaggio era il Protocollo Galattico di Garanzia, una garanzia inutile se non s'impugnava tempestivamente la Dichiarazione.
Picchiettò con l'indice sul foglio.
“Ecco qui la frase che ci ha condannati”, disse, “Eppure avremmo dovuto capirlo”.
Lesse:
“You are CIBO”.  

martedì 27 maggio 2014

IL CORRETTORE DI BOZZE di Sauro Nieddu



Squilla il telefono interno.
Signor Malastorta! C’è il rappresentante della Vegan Imp-export in linea…
Passamelo, Carla.
Paolo Malastorta preme il tasto del vivavoce. Attende che la voce del fornitore si faccia sentire.
Buonagiornata, Malastorta. Chiamo per quella partita di ossidiana aurea cont…
Mi stia bene a sentire, Sherman! L’ossidiana che mi avete spedito è fuori dai canoni qualitativi pattuiti. Tutto qui. Avevate garantito dodici tonalità di riflessi differenti. I miei esperti, al controllo, ne hanno percepito al massimo nove, e nelle lastre migliori. Come la mettiamo?
Sherman esita.
Devo dissentire, mi spiace… I nostri esperti confermano che quella partita era della miglior qualità. Ho davanti le perizie; dicono che le lastre meno pregiate hanno fino a tredici tonalità…
Certo, capisco… risponde Paolo Malastorta, improvvisamente mellifluo ma ho idea che le vostre misurazioni siano state effettuate su Vega, sbaglio?
No, è vero…
Ammette la voce del fornitore.
E può darsi che sotto la luce di Vega, il materiale appaia piuttosto diverso da come appare invece sotto la luce del Sole. Mi sbaglio?
No, è possibile…
Ammette ancora.
Ma quell’ossidiana servirà a decorare le abitazioni terrestri, non quelle vegane, e il contratto dice chiaramente…
Capisco il suo punto di vista… lo interrompe Sherman potremmo venirvi incontro con uno sconto del dieci per cento.
Sherman, non mi faccia ridere. Per quella robaccia vi posso dare duecento Universali al metro cubo.
Ma è la metà di quanto pattuito! Non ci paga i costi!
Allora rimandatela su Vega. Qui sulla Terra, non vale di più.
Ma rispedirla ci costerebbe…
Sono affari vostri! – ringhia Malastorta – Non vi ho chiesto io di mandarmi quella robaccia. Allora? Che avete intenzione di fare?
Forse è meglio che parli con i miei soci.
Non ha capito la situazione, vedo. Tra cinque minuti ho un appuntamento con i clienti interessati. O accetta quest’offerta, o sarò costretto a riferire che l’affare è saltato.
Ma…
I clienti sono arrivati, mi scusi. lo interrompe freddamente Malastorta La devo lasciare.
Trecento?
Duecentocinquanta, non un Universale di più.
Dal microfono, qualche istante di silenzio, poi:
D’accordo.
D’accordo allora, ora devo andare.
Malastorta si alza e fa un giro dell’ufficio, sfregandosi le mani. Poi torna alla scrivania e chiama la sua segretaria:
Carla, chiama Kristoff, e digli che purtroppo, a causa di una confusione nei trasporti, l’ossidiana che avevo ordinato è di qualità superiore a quella stabilita, sì, ha un minimo di otto tonalità. Quella che doveva arrivarmi era garantita a un minimo di sette. Chiedigli se è interessato comunque… ovviamente, ci sarà da pagare qualcosa in più, diciamo un dieci per cento; cinque e cinquanta al metro cubo.”
Mi chiamo Paolo Malastorta. Ho quarantatré anni. Mi occupo di importazione e vendita al dettaglio di materie pregiate da tutto l’universo. Quella che vi ho mostrato è una registrazione di una mezz’ora qualunque all’interno del mio ufficio.
Fosse tutta così la mia vita! Invece, mentre la mia carriera lavorativa ha raggiunto il vertice, della mia vita privata non si può dire stesso. Due matrimoni falliti, gli amici che si sono rivelati tutt’altro che tali, pessimi rapporti di vicinato… insomma, nonostante abbia raggiunto il massimo sul lavoro, o forse a causa di questo, del resto della mia vita si può dire che è un disastro, anzi, meglio non dirne niente del tutto.
Però nel lavoro sono riuscito davvero bene. Sono ricco sfondato. Ricco al punto che ora posso permettermi di assoldare un correttore di bozze. I soldi possono fare tutto, anche rimettere in sesto una vita disastrata come la mia.

*   *   *
Mi ero appena alzato dal letto, non avevo neanche fatto colazione, quando suonò il campanello. Andai ad aprire personalmente. Di fronte a me c’era un ragazzone robusto, dall’aria ruspante. I capelli erano color stoppa, gli occhi verdi e lo sguardo franco. Indossava la classica tenuta nero-cangiante dei correttori di bozze. Poggiate sul pavimento accanto a lui c’erano due grosse valigie, anch’esse nere. Fece un passo in avanti allungandomi la mano.
Lei è il signor Malastorta?
Gliela strinsi, aveva una presa salda ma delicata, indice di decisione ed equilibrio.
Chiamami Paolo, e tu sei…
Giuseppe Magnusson. Beppe, può bastare.
Entra, Beppe!
Senza sforzo apparente sollevò le valige ed entrò.
Allora Paolo… disse guardandosi attorno è meglio che mi metta subito al lavoro. Se c’è una cosa che mi ha insegnato questo lavoro, è che le cose possono andare storte in qualunque momento. sorrise. ­ Prima che inizi, però, c’è una cosa che devo spiegarti.
Sediamoci dissi indicando il divano non è necessario star scomodi per parlare.
Ci sedemmo e iniziò a spiegare:
Immagino che non sappia come funziona precisamente il mio lavoro… sorrise di nuovo; era noto a tutti che i correttori di bozze non pubblicizzavano i loro metodi; solo i risultati grazie ai visori ultra-dimensionali, posso vedere con un certo anticipo quando un’azione porterà a risultati scorretti, appena mi accorgo che l’azione avrà esiti negativi…
Quando sarà appena abbozzata…
Esattamente. E allora, prima che tale situazione si ancori saldamente al Tessuto, la cancellerò col deprobabilizzatore, poi la reindirizzerò sul miglior svolgimento possibile col materializzatore probabilistico.
Questo lo sapevo già.
Gli feci notare.
Quello che non sai, invece, è che non tutti reagiscono allo stesso modo; alcuni, dopo la correzione si sentono spaesati, altri non si accorgono neppure del cambiamento, altri ancora riescono a ricordare la probabilità precedente. Nei casi peggiori subentra uno stordimento quasi catatonico. Te lo dico per prepararti. In ogni caso si tratterà di una sensazione piuttosto strana, cerca di non lasciarti prendere dal panico. Se dovessi reagire troppo negativamente, considererò nullo il contratto, mi leverò dai piedi, e tu non dovrai pagare nulla; è tutto.
Bene. Molto chiaro.
Beppe aprì una delle due valige, prese l’unità energetica e se la caricò sulle spalle. Aprì l’altra valigia, prese il Deprob e il Mater fissandoli alla cintura, poi prese i visori e…
Posso provarli?
Rispose ancora con un sorriso.
Come saprai, l’uso di quest’attrezzatura è un esclusiva dell’albo dei correttori. Se qualcuno venisse a sapere che ho prestato i visori, quelli della ditta mi caccerebbero e mi troverei in mezzo a una strada. E qualcuno se ne accorgerebbe di certo, perché una volta messi, ti fiuteresti di rendermeli; è così per tutti. Ho dovuto seguire un corso di quattro anni per riuscire a toglierli senza patemi.
Immaginavo…
Indossò i visori.
Dovrò essere la tua ombra, ma cercherò di essere discreto; so che a nessuno piace sentirsi continuamente sorvegliato.

*   *   *
Paolo Malastorta parcheggiò la sua aero-limousine davanti alla sede della Malastorta SPA. Scese, varcò la soglia, e intravvide subito la sagoma di Kristoff che faceva avanti e indietro nella hall; sapeva che avrebbe abboccato. Attraversò impazientemente la stanza. Quando passò davanti alla reception, Chiara cercò di richiamare la sua attenzione. Lui le fece un gesto brusco con la mano per metterla a tacere. Senza notare l’espressione delusa della ragazza, si diresse, come uno squalo, dritto sul cliente.
Il correttore di bozze sollevò il Deprob e spazzò la scena. Con un movimento fulmineo, prima che potesse rimaterializzarsi spontaneamente, la inondò col Matter.


Paolo Malastorta parcheggiò la sua aero-limousine davanti alla sede della Malastorta SPA. Scese, varcò la soglia, e intravvide subito la sagoma di Kristoff che faceva avanti e indietro nella hall; sapeva che avrebbe abboccato. Attraversò impazientemente la stanza. Quando passò davanti alla reception, Chiara cercò di richiamare la sua attenzione, Paolo la notò, si accostò alla scrivania circolare in cui era ingabbiata la ragazza.
Signor Malastorta, ha chiamato…
Ciao Chiara. – la interruppe Oggi è il tuo compleanno, vero?
Sì, ma…
Passami il microfono.
La ragazza, esitante, gli passò il microfono.
Dovresti anche accenderlo…
Le fece notare gentilmente. Poi accostò il microfono alle labbra. La sua voce irruppe improvvisamente in ogni angolo dell’edificio.
Signori dipendenti, signore dipendenti. Qui parla il capo; vorrei annunciare che oggi, in onore del ventisettesimo compleanno della signorina Chiara Scorza, della reception, l’orario di lavoro sarà ridotto per consentire adeguati festeggiamenti. La serata è libera per tutti.
Dopodiché andò a raggiungere Kristoff.
Chiara avvampò come una torcia, anche se in fondo ai suoi occhi, si vedeva chiaramente una scintilla di soddisfazione.
Beppe si affiancò a Paolo.
Com’è stata la prima volta? Sembri ok…
Perfetto, ho perfino un vago ricordo… come se l’impazienza di parlare con Kristoff  mi avesse indotto a un comportamento antipatico… ma in questa realtà non è mai accaduto, giusto?
Giusto. Perfetto.
Confermò Beppe.

*   *   *
Paolo Malastorta rientrava a casa dall’ufficio. Era seduto sul sedile posteriore di un aero-taxi; la sua aero-limousine aveva dato qualche segnale preoccupante, e lui, per non rischiare danni maggiori, aveva chiamato un aero-meccanico a prelevarla sul posto di lavoro. Beppe, discreto come sempre, stava seduto di fianco a lui ma era come se non ci fosse. A un incrocio, vide l’insegna di una pasticceria; La Pesca e il Cannolo. Era da una vita che non passava di lì; aveva quasi dimenticato che esistesse. Gli sovvennero ricordi dell’università, quando tra una pesca, un cannolo e qualche birra, ci si passava la mattinata. Fece al tassista di fermarsi.
Il correttore di bozze si mise in azione.


Paolo Malastorta rientrava a casa dall’ufficio. Era seduto sul sedile posteriore di un aero-taxi; la sua aero-limousine aveva dato qualche segnale preoccupante, e lui, per non rischiare danni maggiori, aveva chiamato un aero-meccanico a prelevarla sul posto di lavoro. Beppe, discreto come sempre, stava sedudo di fianco a lui ma era come se non ci fosse. A un incrocio, vide l’insegna di una pasticceria; La Pesca e il Cannolo. Era da una vita che non passava di lì; aveva quasi dimenticato che esistesse. Gli sovvennero ricordi dell’università, quando tra una pesca, un cannolo e qualche birra, ci si passava la mattinata. Guardò l’insegna che si allontanava. Non era più uno studente, e i dolci lo facevano ingrassare. Con un certo stupore, si rivolse al correttore di bozze.
Questa non l’ho davvero capita!
Se fosse così semplice capire, la gente non commetterebbe più errori. E io non avrei bisogno di questi visori per fare il mio lavoro.
Paolo continuò a fissarlo interrogativamente.
Non dovrei, ma per una volta posso fare un eccezione; stavi per incontrare un vecchio amico, ti saresti fermato a scambiare due battute, avresti ripreso a frequentarlo. Ti posso assicurare che sarebbe andata a finire male.
Paolo alzò le spalle e non ci pensò più; dopotutto lo pagava per quello.

*   *   *
Paolo Malastorta era nel suo ufficio, concentrato nella lettura di un contratto. Si trattava di un’importante fornitura di xeno-diamanti di Betelgèuse VIII; i migliori. Carla entrò portando un fascio di scartoffie da firmare. Negli ultimi giorni la ragazza aveva sempre il muso lungo e un atteggiamento scostante; un vero peccato. Accentuato dal fatto che quel giorno il suo abbigliamento fosse ancor più succinto del solito. Indossava dei fuseaux con le estremità viola opaco, che si faceva trasparente via via che lo sguardo risaliva fino alle natiche sferiche e sode. Il seno non poteva che essere artificiale, ma era comunque un belvedere, sostenuto da un corpetto che non arrivava a coprirne i capezzoli, truccati all’ultima moda.
Carla, si può sapere che ti prende? Hai qualche problema?
Preferisco non parlarne, mi scusi.
Rispose brusca.
Ma io preferisco non avere attorno dipendenti stressati, preferisco licenziarti a questo punto.
Se la mette così… fece con la voce che si addolciva sarò franca; lei ha fatto tutta quella manfrina per il compleanno di quella troietta della reception. Non lo aveva mai fatto per nessun altro. Ecco, l’ho detto; sono gelosa.
Terminò accostando pericolosamente i seni enormi alla faccia di Paolo.
Capisco…
Rispose Paolo. Anche se pensava che, se mai c’era una troietta alle sue dipendenze, non era certo Chiara.
Beppe entrò in azione.


Paolo Malastorta era nel suo ufficio, concentrato nella lettura di un contratto. Si trattava di un’importante fornitura di xeno-diamanti di Betelgèuse VIII; i migliori. Carla entrò portando un fascio di scartoffie da firmare. Negli ultimi giorni la ragazza aveva sempre il muso lungo e un atteggiamento scostante; un vero peccato. Accentuato dal fatto che quel giorno il suo abbigliamento fosse ancor più succinto del solito. Indossava dei fuseaux con le estremità viola opaco, che si faceva trasparente via via che lo sguardo risaliva fino alle natiche sferiche e sode. Il seno non poteva che essere artificiale, ma era comunque un belvedere, sostenuto da un corpetto che non arrivava a coprirne i capezzoli, truccati all’ultima moda.
Dopo che ebbe poggiato le carte sulla scrivania, Paolo la guardò uscire scuotendo la testa. Poi ebbe una specie di sussulto. Bruscamente si guardò attorno e fissò Beppe con odio:
Si può sapere che cazzo ti è venuto in mente? Stavo per portarmela a letto!
Beppe alzò le spalle.
È meglio così, credimi.
Paolo scattò in piedi, tremante, con le vene del collo che pulsavano, in competizione con quelle della fronte.
Sei licenziato! Fuori di qui! Dannazione a te a tutti i truffatori figli di…
Beppe brandì il Deprob.
Dopo che ebbe poggiato le carte sulla scrivania, Paolo la guardò uscire scuotendo la testa. Poi ebbe una specie di sussulto. Bruscamente, si guardò attorno e fissò Beppe con odio:
Si può sapere che cazzo ti è venuto in mente? Stavo per portarmela a letto!
Beppe alzò le spalle.
È meglio così, credimi.
Paolo fece per alzarsi, poi si lasciò ricadere di peso sulla poltrona.
Non so proprio cosa darei, per provare uno di quei dannati visori…

*   *   *
Sul pianeta Ty-Hokko, davvero molto lontano dalla Terra, il Geniale Ho-Kimì, l’inventore, e unico titolare, del Sistema Correzione Bozze, allungò il pensiero destro fino a raggiungere il bottone e spense il comunicatore.
Il rapporto che gli aveva fatto il rappresentante umano dell’Albo dei Correttori era totalmente favorevole, come tutti gli altri che gli giungevano da ogni parte dell’universo; ora la maggior parte dei posti di potere erano in mano ai suoi.
Distese il pensiero sinistro per accendere il grande elaboratore, dopo averci immesso gli ultimi dati, attese. Il quadro resogli dall’elaboratore lo fece espandere per la soddisfazione; ancora pochi miliardi di vibrazioni e la prima fase si sarebbe conclusa. Stava per iniziare, finalmente, l’espansione terminale. L’intero universo sarebbe stato corretto.

domenica 25 maggio 2014

ROBOCÁTIBO di Adriana Alarco de Zadra



Ho trattenuto il respiro vedendo la pelle dell'uomo aprirsi con fuoriuscita di un liquido terreo, viscoso. Quel mio compagno è stato l'unico che mi ha tenuto in vita in questo inferno. Ora, che non è piú, non so cosa fare. Nuovi batteri mortali si diffondono attraverso i condotti che portano ossigeno.
Sono sicuro che quella è stata una manovra perversa del Robocátibo, la dannata macchina che è ormai fuori controllo. Noi non dovevamo rimuoverla dal suo imballaggio per montarla. Funziona perfettamente, ma è maligna, cattiva. 
Ha analizzato la sostanza sconosciuta e invece di isolarla, l’ha immessa nei condotti ossigenanti del complesso di alloggi. Cosí, ora, ci sono decine di persone malate che si dolgono, strillano miseramente, sanguinano dal torace e hanno gli occhi sporgenti. Esse sono quelle che restano dell'ultima colonia umana, e il mio cuore batte all’impazzata, mentre sono in preda al terrore.
Non sono ancora infettato ma non si sa mai... o è lui che mi tiene in vita?
Robocátibo mi ordina di liberarmi dei corpi inermi dei miei compagni che accumulo uno sull’altro a formare dei mucchi. Obbedisco. Li copro con pietre e rocce. I moribondi tirano fuori le braccia freneticamente, cercando di scavare verso l’alto per respirare, aggrappandosi alla vita. Finisco di coprirli. Piango dentro di me per non lasciare trasparire le mie emozioni. Il robot è vigile. Infine, l'ultimo è stato sepolto sotto un mucchio di rocce metalliche che brillano alla luce delle cinque lune. Egli respirava ancora. Adesso si trova sotto una montagna di morte. Un monumento alla distruzione. Non ho alcuna speranza di trovare altri esseri umani come me che non siano stati infettati dalla morte grigia. Io sono l'ultimo rimasto della razza umana.  Diventerò il suo schiavo? Il suo robot giocattolo? Ma no. Non può essere! Lo farò a pezzi con queste mie mani. Intanto, sono io  l'unico sopravvissuto della colonia Symca che respira ossigeno.
Ed ora qui siamo rimasti soli: io e lui.

venerdì 23 maggio 2014

LA CITTÀ di Pierre Jean Brouillaud

La Città si blocca su al bordo del lago, sotto il sole rosso. La sua ombra immensa si distende su magri bouquet d’acacia e sulla pietraia che le zappe della tribù avevano appena aggredito.
Nascosto dietro il ghiaione, spalancavo gli occhi.
Questa città che sognavo dall’età di dodici anni non l’avevo mai dimenticata. È ad essa che devo la mia vocazione a girovagare tra le stelle. Ed essa assilla ancora le mie notti. Sto cercando di ricostruire quell’iniziale visione, nel mezzo di tutte le biforcazioni, le metamorfosi, le svolte, i trucchi del sogno.
Era dunque questo, la Città. Un enorme animale dagli occhi brillanti. Un insetto gigantesco dagli occhi di brace, col luccicante carapace tra due file di grandi zampe articolate. La Città si colorava di rosa e di blu. Poi spiegava due ali immense dai riflessi color malva.
L’avevo vista arrivare. Sollevava le sue zampe una dopo l’altra per transitare sopra le rocce, dondolando un po’ e poi ristabilendo il proprio equilibrio. Le sue zampe erano formate da segmenti che si incastravano gli uni negli altri facendo così variare la propria lunghezza, in modo tale, che, malgrado i sobbalzi, il corpo della Città rimaneva pressappoco orizzontale.
I vecchi della tribù narravano storie di macchine che nei tempi antichi camminavano sulle loro zampe in quel modo.
Sì, la mia famiglia apparteneva a una tribù ancorata a quest’arida terra. Rimaneva sul limitare del villaggio, una capanna di argilla e di sabbia.


Con lo sguardo, misuravo la Città. Si estendeva molto più lontano del nostro povero villaggio.
A sinistra, delle silhouette si innalzavano su una collina. Tre Anziani vestiti di cuoio fulvo restavano girati verso la città e attendevano.
Era dunque venuto il giorno. Il giorno dell’incontro. Per la prima volta, stavo per assistere. Ogni cinque anni, prima dell’inizio della stagione secca, la Città si fermava ai bordi del lago. E dunque…
Nel carapace si apriva un pannello. Ne usciva una curiosa machina che si dirigeva a destra verso la collina. Si distingueva il conduttore nella cabina a vetri.
I tre Anziani non si erano mossi.
Il veicolo si fermava ai piedi della collina. Il conducente discendeva. Indossava una sorta di tuta dai riflessi metallici. Fece qualche passo verso gli Anziani. Il suo passo era lento, i suoi gesti erano un po’rigidi.
Davanti a lui ecco gli Anziani. Si salutarono con un cenno del capo.
Il conducente torna alla sua macchina, aziona qualcosa, eietta una scatola che porge agli Anziani. A ognuno di questi passaggi, la Città forniva agli Anziani, secondo il patto concluso tra loro, armi per la caccia e utensili per l’agricoltura.
L’incontro era terminato. Il veicolo ritornava alla Città. Gli Anziani scomparivano tra le rocce.
Nuovamente, restavo assorto nella contemplazione della Città ove danzavano ombre violacee. Il sole passava dietro al carapace.
Dal ventre della Città pendeva un tubo che si tuffava nella falda acquifera. A ognuno dei suoi scali, la Città riempiva i suoi serbatoi. Era previsto dal patto. La tribù forniva l’acqua in cambio di armi e strumenti. Molti anziani vedevano di malanimo questo baratto. Denunciavano il mercimonio. In cambio di oggetti che la tribù avrebbe comunque potuto fabbricare o fare a meno, essa sacrificava una risorsa preziosa che il progredire del deserto rendeva vitale. Col passare degli anni, il livello del lago si era abbassato. Gli Anziani mostravano il ritiro delle acque sull’argine, tra i ciuffi di artemisia dove si formava una crosta dai riflessi biancastri. Quando avevo la tua età, diceva mio padre, si vedeva appena l’altra riva, quella che le dune oggi invadono. Era la sola distesa d’acqua di questa importanza nel paese. Risalendo verso nord, le carovane impiegavano giorni e giorni per raggiungere un simile bacino. Quando questa si vuoterà, la tribù sarà condannata a morte. Quando era terminata la stagione delle piogge ed il livello del lago era risalito, la Città veniva a pompare ciò che le era dovuto. Le donne anziane cantavano la canzone dell’acqua, la canzone della vita, e poi si lamentavano. E quando avevano bevuto i vino di palma, discutevano con gli uomini della tribù: i vostri bambini morranno di sete. Che su di voi cada la vergogna!
Ma gli uomini della Città erano troppo potenti. Si gli si fosse rifiutata l’acqua, l’avrebbero presa con la forza. Dicevano i più anziani tra gli Anziani.
Quanto tempo dureranno le operazioni di pompaggio?
Già, a poco a poco diminuiva la luce, virava al bruno, al grigio. Sapevo che al cadere della notte i miei mi avrebbero cercato, però rimanevo lì, come stregato.
Di colpo, la Città accese i suoi fuochi. Si sarebbero dette tante stelle, o, piuttosto, gli occhi innumerevoli della bestia che sfavillavano attraverso il crepuscolo. Poi essa ripiegò le sue ali.


La notte era caduta. Sotto un crescendo lunare, la Città si bagnava nel suo bagliore rosastro.
Lasciai il mio nascondiglio, feci qualche passo allo scoperto, in direzione della Città.
Mi fermai, avendo l’impressione che le luci si ravvivassero. Una messa in guardia o un invito?
Sì, si sarebbe detto che i fuochi ammiccassero.
Ho ripreso la mi avanzata. Ora, ascoltavo la Città. Ronzava.
Così rischiarato, il carapace lasciava intravedere l’interno che sembrava diviso in compartimenti sovrapposto in dodici piani separati da dei corridoi.
Più mi avvicinavo, più si amplificava il rumore. Infatti, la Città ronzava, grande animale sdraiato nell’allineamento triangolare delle sue zampe.
Mi accostai molto vicino al carapace, fino a toccarlo. Percepivo confusamente delle forme che si muovevano all’interno. E delle luci di intensità variabile. Eccetto che nei corridoi che rimanevano di un grigio traslucido.
Ben presto, costeggiavo il carapace. Ogni cento passi, c’era una porta. Mi fermai davanti a una di esse. Si aprì.
Senza esitare, penetrai nella Città attraverso uno dei passaggi semitrasparenti. Non si vedeva la fine del corridoio. Forse esso andava da una parte all’altra della Città.
Un soffio mi fece rizzare i capelli, si infilò nelle maniche della mia blusa, gonfiando i miei vestiti. Fui avvolto da un odore acidulo. Starnutii, tossii. L’odore divenne piacevole. Il soffio si acquietò.
Non c’era nessuno. Le Città non meritano questo nome, dicevano certi Anziani, se esse non sono abitate da macchine che si spostano sulle loro gambe e che si riproducono autonomamente. Secondo loro, il conducente dell’ordigno che veniva all’incontro non era un vero uomo ma una sorta di apparato. Essendo un ragazzo non avevo capito bene cosa intendessero. Era vero che il conducente non somigliava affatto agli uomini della tribù, ma non aveva certo l’aria di una macchina, in ogni caso di quelle che fino allora avevo visto. D’altronde, mio padre non condivideva il parere di quegli Anziani. Credeva che degli uomini, differenti da quelli della tribù, sicuramente, abitassero la Città ma che non li si vedeva perché non ne usciva che uno solo, per gli incontri. Tutti gli altri nascevano, lavoravano e morivano all’interno della Città senza mai conoscere il vero colore del cielo.
Che fossero mercanti? Non lo si sapeva. Forse era meglio restare lontani in caso si fosse incontrato un abitante diverso dal conducente. Ma nella tribù nessuno be aveva mai incontrati.
Forse gli uomini della tribù non avevano neanche tentato. Forse la porta non si era mai aperta davanti a coloro che ci avevano provato. Forse non si apriva che per i bambini.


Il corridoio era un budello senza alcuna apertura. Passavo la mano sulla parete. Secondo gli Anziani, era così che si aprivano le porte nelle case delle città. Non succedeva niente.
Ma più lontano, e senza che io dovessi fare il minimo gesto, un quadro si disegno sulla parete che si dischiuse. Nel vano così prodottosi, mi inoltrai.
Mi trovai all’interno di uno scomparto. Sul fondo scintillava un’immagine. Quella della Città vista dall’esterno.
«Sii il benvenuto,» disse una voce molto dolce, una voce femminile che somigliava a quella di mia madre.
Su una tavoletta erano disposti del cibo e una bevanda. Alimenti mai visti da un piccolo selvaggio. Improvvisamente risvegliato, il mio stomaco denunciò la sua fame. La mano si tese, poi si ritrasse. Mi pareva di sentire la voce di mio padre: non si tocca il cibo sconosciuto!
Fiutai quello che sembrava una gelatina. Sprigionava un odore dolciastro, totalmente estraneo ma parecchio intrigante.
Assaggiai. Era allo stesso tempo insipido e profumato.
Avevo appena buttato giù la prima sorsata di bevanda fresca e zuccherata che, sulla parete, l’immagine si mise a muoversi mentre la voce riprendeva:
«Sto per raccontarti la storia della Città. Molto tempo fa gli uomini abitavano delle case che somigliavano alle caverne del deserto e che non si muovevano. L’uomo era ancorato al suo luogo di lavoro. Era lui che si muoveva all’interno e all’esterno delle città per trovare sostentamento e per vivere la propria vita.»
La parete mostrava delle città antiche costruite ai piedi delle montagne, in riva ai fiumi e di quelle immense distese d’acqua in movimento che gli Anziani chiamavano mare.
Di tutto questo avevo sentito parlare. Avevo visto delle immagini nei libri che erano appartenuti agli antenati della tribù e che essa conservava in un baule di legno dagli sportelli decorati con segni misteriosi. Quei libri che solo gli Anziani sapevano leggere. E che avrei imparato a leggere se fossi divenuto Anziano a mia volta.
«Un giorno,» disse la voce, «gli abitanti delle città non trovarono più sostentamento sul posto. E per trovarlo, andarono di città in città o ne costruirono di nuove in altri luoghi. Ma il deserto avanzava. Risorse e lavoro si facevano sempre più rari. Quindi gli uomini decisero di partire con la loro città alla ricerca di sostentamento. Gli uomini non cambiarono più città. Era la loro città che si muoveva.»
Io non comprendevo tutto ciò che la voce diceva. Però gli antichi raccontavano cose simili.
A destra si materializzò un pannello sul quale si disegnò una figura, quella di un uomo simile al conducente. Indossava la stessa tenuta metallizzata. Il suo viso era pallido sotto a delle sopracciglia nere. I suoi occhi avevano gli stessi riflessi argentei del suo vestito.
«Mi chiamo Chram,» dice l’uomo. «E tu?»
«Maen.»
Sì, me ne ricordo. Nel mio sogno, mi chiamavo Maen. Un nome che avevo forse letto in uno di quei romanzi di fantascienza di cui mi nutrivo.
Ho chiesto:
«Sei tu che incontri gli uomini della mia tribù?»
«Sì. Io sono il collegamento con i tuoi simili. Quindi mi occuperò di te. Sei coraggioso, Maen. Non hai avuto paura quando la macchina ti ha soffiato addosso?»
«Cosa voleva?»
«Maen, il mondo dove vivi conosce malattie alle quali il nostro organismo non può resistere. Bisogna dunque ripulire ogni essere e ogni oggetto che viene dall’esterno per uccidere i germi mortali di cui sarebbe portatore. Questo si chiama decontaminare. È il lavoro del soffiatore.»
Chram ebbe una sorta di sorriso:
«Bene, volevi vedere la Città. La vedrai. Ma prima devo condurti presso i consiglieri.»
«Cosa sono?»
«Un po’ come gli anziani della tribù.»


Situata, sembrerebbe, al centro della Città, la sala dai muri traslucidi formava una rotonda. In mezzo, una tavola a semicerchio dietro la quale avevano preso posto tre personaggi che indossavano la stessa tenuta di Chram.
«Fratelli,» disse Chram, «questo bambino, uno dei figli della tribù, si chiama Maen. Ha avuto il coraggio di superare la porta e desidera vedere la Città.»
«È stato decontaminato?»
«Sì, fratello.»
«Ha udito la Voce?»
«Sì,» dissi con decisione. «Essa mi ha raccontato la storia della Città.»
«E vuoi saperne di più?»
«Sì.»
«Non hai avuto paura di questo mondo sconosciuto?»
Ho scosso la testa.
«All’esterno si dicono molte cose sulla Città. Per esempio, si ipotizza che la Città sia un mondo chiuso, dall’entrata proibita. Hai visto che è inesatto. Sei libero di spostarti. Chram sarà la tua guida. Abbi fiducia in lui. Ti mostrerà quello che desideri vedere.»
E con un gesto ampio, molto lento, i personaggio fece capire che il colloquio era terminato.


«Come si sposta la Città?» ho domandato allora.
«Sto per mostrarti l’Unità rossa,» rispose Chram.
Ci addentrammo in una sala bassa occupata da rettangoli molto luminosi dove si erano appena disegnate curiose figure, che si muovevano, si trasformavano, si fondevano le une nelle altre.
In seguito credetti di riconoscere, davanti alle scatole scintillanti, delle macchine dalle braccia articolate e con una sorta di ingranaggi.
«Sì, Maen, sono proprio delle macchine. Non sono più grandi della tua mano. Guarda, questa trasforma i raggi solari l’irraggiamento solare captati dalle due vele sopra di noi.
«Le ali?»
«Sì, se vuoi. In un certo senso, esse ci servono soprattutto per muoverci. Hai notato che le dispieghiamo soprattutto durante il giorno. Per molto tempo, gli uomini non sono stati in grado di immagazzinare grandi quantità di energia. Noi siamo stati i primi a poter disporre di una sorgente inesauribile.»
Chram puntò un lungo indice verso destra:
«Guarda quest’altra istallazione. Lo sai che tutto ciò che esiste è formato da elementi così piccoli che, per distinguerli, occorre impiegare strumenti molto potenti? Ha sentito parlare degli atomi?
«Sì, dagli Anziani.»
«Questi atomi, noi possiamo spostarli e ricomporli in modo da creare nuovi corpi. Gli diamo forma e dimensione che vogliamo. Così, sintetizziamo dei nuovi materiali. Hai osservato il guscio della Città?»
«Sì. Cambiava continuamente colore.»
«Per effetto della luce. È fatto di un materiale ottenuto mescolando vetro e metallo… Ma andiamo all’Unità verde.»
In questo luogo, un compagno di Chram – che gli somigliava come un fratello – occupava uno stretto locale e sembrava sorvegliare un quadro su cui lampeggiavano delle luci multicolori.
Chram mi presentò al controllore che mi salutò con un cenno del capo.
Più lontano, tubi e recipienti si aggrovigliavano sotto gli stessi rettangoli scintillanti.
«In questo luogo,» riprese Chram, «produciamo a volontà alimenti simili a quelli che ti sono stati offerti quando sei entrato nella Città. Ma noi non li consumiamo.»
«E di cosa vi nutrite?»
«Lo vedrai molto presto.»
«Per chi producete del cibo che voi non mangiate?»
«Per i nostri visitatori, dato che ne abbiamo. Tu ne sei la prova.»
«E ne avete così tanti da dover produrre tutto questo cibo?»
«No. Noi ne scambiamo la maggior parte in cambio dell’acqua di cui abbiamo bisogno.»
Riflettevo sugli sforzi che metteva in atto la mia tribù per ricavare un magro raccolto da un suolo ingrato:
«In cambio dell’acqua che prendete da noi, potreste fornire alla mia tribù gli alimenti che non vi servono.»
«La tua tribù è troppo numerosa. Noi facciamo scambi con comunità più piccole della vostra e più povere, quelle il cui suolo è sterile e l’acqua, salmastra al punto che dobbiamo dissalarla.
Arrivammo in una terza sala, chiamata Unità bianca.
«Qui, non facciamo produrre dei minuscoli organismi. Come l’uomo antico aveva addomesticato il cane, il cavallo, il bue, noi abbiamo addomesticato l’infinitamente piccolo. Questi organismi viventi trasformano i Sali minerali, i metalli. Formano, essi stessi, dei nuovi corpi a partire da diversi elementi. In questo modo, li obblighiamo a produrre delle sostanze che nutrono gli uomini della Città, che li curano e che li guariscono.»
In seguito, Chram mi fece visitare una vasta sala dove, in un leggero ticchettio, si attivavano forme più voluminose. Chram richiamava robot. Essi fabbricavano diversi strumenti.
Vidi assemblare le zappe che gli uomini e le donne della tribù utilizzavano per raschiare un suolo infertile. Gli arnesi per i quali sacrificavano la propria acqua.
Quando sarò divenuto un Anziano, pensavo, cambierò tutto questo. Troverò un altro modo per procurarci gli attrezzi. Non lasceremo che l’acqua del lago si esaurisca. La utilizzeremo meglio per produrre il nostro nutrimento.


«Non ci sono bambini nella vostra Città?» domandai.
«Ma certo. Ora li conoscerai.»
Mi condusse in uno spazio di cui non distinguevo bene i contorni. Le pareti sembravano indefinite, trasparenti, senza che si potesse vedere ciò che c’era dietro. E, soprattutto, davano anch’esse l’impressione di cambiare senza posa di volume, di forma e di colore.
In questo spazio facevano evoluzioni una ventina di bambini vestiti con tutine bianche.
«Sono quasi della mia altezza,» dissi. «Quanti anni hanno?»
«Se tu consideri il loro sviluppo fisico e mentale, in effetti hanno evidentemente la tua età: da dodici a quattordici anni. Ma noi non li calcoliamo in questo modo.»
I gesti dei bambini erano lenti, misurati. All’inizio, non prestarono attenzione ai due personaggi che erano appena entrati.
Poi Chram li radunò :
«Ecco Maen.»
Essi guardarono attentamente lo straniero, senza che il loro viso, di un bianco olivastro, esprimesse la minima curiosità.
«Viene dall’esterno,» aggiunse Chram.
Questa notazione parve suscitare un aumento di interesse.
«Sono figlio della Tribù,» lanciai io, come per sfida.
Apparentemente, questo non disse loro gran che.
Ma, presto, diedero il benvenuto al nuovo arrivato, con un tono così serio da lasciarmi sorpreso.
«Nel tuo paese, dai la caccia all’uomo?» mi chiesero.
«No,» risposi con una punta di irritazione. «Noi cacciamo il cane delle steppe e il dromedario selvaggio.
Credevo che stessero per ridere. Invece no. Si dispersero per riprendere le loro attività.
«Come vedi,» spiegò Chram, «la caccia all’uomo è il loro gioco preferito. Questo spazio dove si divertono non esiste. È solo un’immagine ottenuta con un gioco di luci. Rappresenta un pianeta sconosciuto e, al momento, deserto. Ma sta per popolarsi. Le apparecchiature proiettano immagini di creature differenti tra loro e da ogni essere conosciuto.»
«Ma non si vede niente! I giocatori hanno gli occhi fissi sul… vuoto.»
«Per distinguere le immagini prodotte dai fasci di luce, bisogna essere equipaggiati del dispositivo che essi recano tra gli occhi, sotto pelle, e che si chiama impianto.»
«Questo gioco, a cosa serve?»
«Consiste nel individuare, tra tutte le creature immaginarie, quella che sarà l’uomo di domani. Un essere superiore che, sicuramente, sarà di carne e sangue ma che avrà tutte le possibilità di sopravvivere a l’uomo di oggi. Si vede, te ne rendi conto, sfilare un bel po’ di mostri.»
«E quando i giocatori sanno di aver trovato ciò che cercano?»
«Non l’hanno ancora trovato. Ma si stanno avvicinando. E un giorno ci arriveranno. L’uomo nuovo s’imporrà, come un’evidenza. E questo vuol dire, Maen, che presto lo si riconoscerà.»
«Perché affidate questa ricerca ai vostri bambini? Non sembrano neanche sapere quel che succede fuori della Città.»
«Senza dubbio, ma sono come te. Hanno uno spirito aperto, una ricca immaginazione, quasi senza limite. Non sono, come me, prigionieri delle limitazioni tecniche.»
«Potrei entrare nel gioco se avessi un…»
«Impianto? Non subito. Ci vuole un lungo tirocinio prima che la vista e gli altri sensi possano percepire ciò che non esiste. Ma ti piacerebbe?»
«Oh! A che serve cacciare ciò che non esiste? È più divertente correre dietro i cani selvaggi. E gli uomini della mia tribù sono ben in vita. A questo proposito, mi hai promesso di mostrarmi come nascono quelli della Città.»


Vidi assemblare dei corpi. Una testa dallo sguardo fisso venne a posarsi su un collo, Due occhi senza espressione. Sembravano quelli degli animali impagliati, di specie scomparse, che la tribù conservava nella casa della Memoria. Solamente, questi occhi erano umidi e brillanti.
Si misero a vivere. Girarono dolcemente nelle loro orbite.
«Molto presto, ci vedranno,» disse Chram.
Ecco ciò che erano gli uomini macchina. Degli aneroidi. Adesso, mi ricordavo della parole che veniva usata dagli Anziani.
Così era nato Chram.
«Ora,» mi disse lui, «conosci il segreto della Città.»
«Voi siete delle… macchine?»
«No, noi non siamo ciò che voi chiamate così, lo sai bene. Noi in questo momento siamo ciò la più nobile creazione dell’uomo, gli Eredi.
(Eredi, non sono più certo che questa sia la parola che lui aveva usato, ma è certo ciò che voleva dire.)
«Noi siamo i soli capaci di trattare con lui da pari a pari,» ha proseguito. «e senza dubbio i soli capaci di assicurare la sua sopravvivenza.»
«Come i suoi eredi?»
«Noi abbiamo come compito quello di aiutarlo a mutare, a divenire un altro.»
Dopo aver assemblato le differenti parti del corpo, il robot sollevò il nuovo an droide che cominciò ad azionare le sue membra.
E il nuovo nato parlò. O piuttosto emise una serie di suoni che variavano da grave ad acuto. Metteva alla prova la sua voce. Infine, pronunciò qualche parola monocorde:
«Mi chiamo Ulex.»
E ripeté come per meglio imprimerselo nella memoria:
«Ulex.»
«I nomi sono scelti da una combinazione di lettere dell’alfabeto,» bisbigliò Chram.
«Sono nato il dodicesimo giorno del sesto mese dell’anno 47 dopo la fondazione della Città,» riprese l’androide. «Io sono un erede. La mia missione è di servire al Città e di perpetuare la specie.»
«Ti saluto, Ulex,» disse Chram che gli domandò a quale unità era destinato.
«Unità 15.»
Chram si avvicinò a Ulex e si presentò. Si abbracciarono, non senza impaccio. Poi Chram mi indicò:
«Questo bambino è il nostro ospite.» E quello ripeté:
«Nostro ospite.»
Dopo pochi secondi, una luce attraversò lo sguardo di Ulex. Aveva capito il discorso di Chram.
«Allora, nascono adulti?» affermai.
«Sì, pronti a servire la Città.»
«Ma allora, quei bambini che giocavano? Nascono già pronti, con la loro grandezza e il loro cervello di dodici anni?»
«Li creiamo così. Non diventano mai grandi. Non essendo specializzati, mantengono una propensione al gioco e all’invenzione.
«Restano eternamente bambini?»
«Li manteniamo fino a quando l’immaginazione si indebolisce, fino a quando i loro circuiti si sclerosano. Quindi, li ricicliamo.»
Credetti di capire ciò che aveva voluto dire. Poi gli feci notare.
«I bambini, i consiglieri, un controllore e tu, Chram, non ho visto nessun altro, a parte il nuovo nato.»
«Siamo abbastanza numerosi per fare funzionare la Città. Ma uno dei consiglieri è in età avanzata. Presto dovrà lasciare il posto, come succede di tanto in tanto. È per questo che creiamo dei sostituti.»
«Che succede ai consiglieri troppo vecchi? Muoiono?»
«Nella Città, non si muore. I consulenti troppo vecchi vengono riciclati, come i bambini.»
«Il nuovo, anche lui, è stato prodotto in questo modo?»
«Sì, Maen.»
«La Città è sempre stata popolata di quelli che tu chiami Eredi?»
«No. Ricorda quello che hai sentito al tuo arrivo. Sono gli uomini che hanno inventato la Città. A lungo, essa gli è servita per spostarsi attraverso il mondo. Poi si sono stancati di vivere in così ristetti limiti. Non siamo noi che succederemo all’uomo. Semplicemente, prepariamo colui che verrà.»
«Vuoi dire che tutti gli uomini, anche quelli della mia tribù, scompariranno?»
«Sì, i loro giorni sono contati. Anche noi, scompariremo perché siamo una specie transitoria creata per preparare visione del nuovo uomo.»
«Altri bambini stranieri sono venuti prima di me? Non sono il primo a cui la voce si indirizza, il primo essere, come dite? decontaminato.»
«Sì, ne sono venuti altri. Undici. Altri sono stati tentati. Non ce l’hanno fatta. Ma nessuno aveva la tua volontà e la tua vivezza di spirito.»
«Allora sono diverso?»
«Forse sarai la nostra fortuna. La consulta ritiene che il numero dodici soddisferà tutte le condizioni. Se i loro calcoli sono giusti, tu diverrai l’uomo nuovo. Quello atteso dai giocatori.
Scossi la testa:
«Non sembravano essersene accorti.»
«Nulla è stabilito. C’è solo un mezzo di sapere se tu sei colui che noi attendiamo, è che tu resti fra noi. Qui, troverai il tuo posto. E percorrerai il mondo. La tua tribù ha più bambini di quelli che è in grado di nutrire. Non si è preoccupata per la tua scomparsa. Resta. Diremo ai tuoi genitori che hai scelto la Città. Comprenderanno.»
«Mi insegnerai a condurre il mezzo ?»
«Sì. E molte altre cose ancora.»
«Imparerò a cacciare l’uomo?»
«Certo, se già non sei colui che stiamo cercando. Ma tu lo sarai. Divenuto un uomo della Città, vedrai luoghi ben differenti da un paese seppellito sotto le sabbie, un lago il cui livello si abbassa inesorabilmente. Il deserto avanza. La Città, sola, gli può sfuggire, andare alla ricerca dell’acqua, la dove essa sussiste. E forse un giorno gli abitanti della Città, compagni dell’uomo nuovo, lasceranno questo mondo che muore per andare a cercare tra le stelle un’altra terra più accogliente. Alla tua età, ai la speranza di partecipare al viaggio. Vieni, ti morsero il segretissimo laboratorio dove mettiamo a punto un motore di potenza ineguagliata. Questo motore ci lancerà sulle tracce di coloro che, molto prima di noi, si staccarono dalla Terra, ci condurrà più lontano del sole, ci lancerà tra le stelle dove l’uomo nuovo recherà la sua impronta e si stabilirà per i secoli a venire… Hai visto le nostre ali. Ma lo sai che, già ora, la Città può volare? Non lo facciamo molto spesso, per risparmiare energia. Ma un giorno molto vicino, noi decolleremo.


Sul morbido letto che sostituiva la mia povera stuoia di giunchi, non trovavo requie. Mi veniva in mente ciò che diceva l’Anziano: Diffidate della Città. Vi si entra uomo, e vi si muore macchina.
Dovevo accettare l’offerta di Chram, diventare il solo uomo tra gli aneroidi? Diventare l’uomo nuovo? Che voleva dire, di preciso? Sarei divenuto sapiente. Avrei conosciuto i segreti degli Eredi tanto quanto quelli degli uomini. Avrei insegnato ai miei fratelli a produrre, con le tecniche della Città, gli alimenti, gli strumenti, tutti gli oggetti di cui avrebbero avuto bisogno per vivere come gli uomini dell’antichità, degli uomini veri. Forse potevo anche aiutare i miei fratelli della tribù, aprir loro la via per una vita migliore. E, soprattutto, salvare il lago dalla morte. Cos’, essi avrebbero sostituito gli androidi. I quali, ua volta divenuti inutili, sarebbero scomparsi. Ma era una buona cosa diventare un nuovo uomo?
Mi appisolai, mi svegliai da un incubo. La testa di Ulex mi guardava con i suoi occhi brillanti ma vuoti. Tutt’intorno danzavano i piccoli aneroidi, con i loro impianti che rilucevano nella penombra. I bambini cantavano: Abbiamo trovato l’uomo nuovo.
E sentivo che sul mio viso colava la maschera di Ulex.
Nel mezzo della notte, infine caddi in un sonno profondo.
Appena svegliato, mi sollevai fino al finestrino.
Sul deserto di pietraia, si levava il giorno, in un altro tono di rosso.
Delle ombre passarono sulle rocce molo velocemente. Gli uccelli!
Si inseguivano, girando velocissimi, risalivano dritti nel cielo che facevano echeggiare delle loro grida. Ma, dietro il carapace, non li si sentiva. Nella Città, no c’erano uccelli.
Il sole faceva sfavillare i ciottoli che, al di là del ghiaione, si estendevano a perdita d’occhio. A quell’ora, gli uomini della tribù tornavano dalla caccia. Con un po’ di fortuna, avrebbero recato il loro bottino, qualche cane della steppa. Una carne immangiabile, dicevano le femmine. Ma di cui utilizzavamo le pelli. E c’erano anche delle antilopi.
Col viso stampato sul vetro, percepivo una figura eretta contro i cielo. Quella di mio padre che mi aspettava ma che rifiutava di entrare.
Volli fargli un segno. Ma, ovviamente, mio padre non poteva vedermi.
Risalii il passaggio. Quando arrivai davanti alla porta, si aprì.
Mio padre vide suo figlio uscire dalla Città, ma non si mosse.
Lo raggiunsi e, senza scambiare una parola, ci siamo allontanati tra le rocce.
La Città aveva aperto le sue ali al levare del giorno.
Chram aveva ragione. La Città stava per decollare. Stava per volar via.
Ma ecco che ripiegò le sue ali.
Spense le sue luci, ad eccezione dei suoi fuochi anteriori e posteriori.. Quelli che proiettavano dei fasci rossi e verdi i cui riflessi correvano sulla ceramica.
La Città illividì. Poi, sulle sue lunghe zampe, si avviò.
E mi sono svegliato.

(Traduzione dal francese di Giorgio Sangiorgi)