martedì 29 dicembre 2015

BERCI SATANICI di Antonio Bellomi

Manlio Locatelli non amava affatto quel posto. Intanto, non amava affatto il caldo. Le sue vacanze le aveva sempre passate in amene località, ricche di pini e di scroscianti torrenti, e solo una volta, attratto al seguito di una bionda incendiaria, aveva osato calcare le spiagge di Tropea. Ma poi la bionda si era rivelata una delusione e il caldo micidiale del sud pure.
Così adesso il posto in cui si trovava non gli piaceva affatto. Dopo tutto, l'Inferno è già brutto di suo, ma il girone delle fiamme, per uno che ama le pinete, non è decisamente la quintessenza della felicità.
Ora, tutto ingrugnito, Manlio Locatelli stava meditando su quella dann... (ops, questa è una parola pericolosa da queste parti, pensò) sbandata che gli aveva fatto volare lo spider giù per uno strapiombo, con conseguente trasloco immediato negli Inferi, quando davanti gli si parò la torva sagoma del Padrone in persona.
- Satana! - esclamò Manlio Locatelli, mentre una fiamma gli lambiva il tallone destro e una goccia di sudore gli scivolava giù per il naso.
- Ah, ah, ecco qui il mio nuovo arrivato, - sogghignò beffardo il grande Satana brandendo il tridente. Il pizzetto di barba caprina appariva ben curato e Manlio si chiese quanto fosse vanesio il suo proprietario.
- Gradisci l'ospitalità? - gli chiese con premurosa cordialità il demonio. - O hai qualche lamentela da fare sulla gestione?
Manlio Locatelli saltellò sui piedi per sfuggire alle fiamme che cercavano di aggredirlo anche in quel punto meno esposto di altri che era finalmente riuscito a trovare.
- Secondo me, non funziona bene la climatizzazione, - sbottò col suo solito tono di bulletto strafottente che neanche l'Inferno era ancora riuscito a mitigare e senza riflettere sulle possibili conseguenze della sua lamentela. - Fa sempre troppo caldo!
La coda del demonio volteggiò nell'aria e gli frustò con violenza le gambe nude, lasciandogli una bella vescica rossa. - Spiritoso! - ruggì Satana. - Mi sei proprio simpatico. Potrei anche contraccambiarti se mi fai un favore. Dopo tutto oggi mi sento buono. Siamo sotto Natale, ormai.
- Sotto Natale? - fece eco Manlio Locatelli. - Ho perso il senso del tempo quaggiù. Si distribuiscono regali anche da queste parti a Natale?
- In un certo senso, - disse il demonio senza sbilanciarsi.
- Tornando a noi, mi stavi dicendo di un favore..
- Ah,sì. Avrei bisogno di un lavoretto da te e in cambio ti potrei fare un bel regalo per Natale. Un regalone.
Manlio Locatelli non esitò. - Spara, allora.
- Tu sulla terra eri un maghetto dei computer, vero?
Manlio fu preso alla sprovvista da quella domanda. - Infatti.
- Quindi te ne intendi abbastanza di software da individuare eventuali buchi nei programmi, giusto?
- In un certo senso, - rispose Manlio Locatelli senza sbilanciarsi.
Satana si appoggiò al suo tridente.  - Bene. Ti propongo un affare. Io ho un problema col software che gestisce l'impianto generale di condizionamento. Credo che l'ingegnere che ha computerizzato questo Centro abbia collocato una "cimice" in qualche parte del programma. In parola povere ha cercato di fare il furbo, ma non lo è stato abbastanza... - concluse con una smorfia.
Locatelli rabbrividì e non osò chiedere dove fosse stato mandato l'ingegnere. Era sicuro che la risposta non gli sarebbe piaciuta.
- Perciò, - continuò il demonio, - la prima regola è di non imbrogliare le carte con me. Niente trucchi né idee strane. Chiaro?
- Oh, certo! - rispose Manlio Locatelli.
- Il problema è il sistema idraulico del girone del ghiaccio che non funziona troppo bene. L'acqua si disperde e non arriva ben ghiacciata così i dannati, invece di gelare, si fanno la doccetta corroborante. Tu mettimi a posto l'impianto e io ti farò un bel regalo di Natale: qualche giorno di frescura.
- Qualche giorno è troppo poco, - ribatté sostenuto Manlio Locatelli, attento a non far trasparire un sussulto di gioia a quell'offerta. Tutto, tutto pur di stare qualche giorno lontano dalle fiamme. Ah, che bello anche il gelo.
- Qui non si regala niente, - ribatté il demonio. - Non posso semplicemente farlo. Posso solo ricompensarti a fronte di un lavoro. E posso pagarti solo il giusto prezzo. E poi che cosa pretendi? Il clima delle Dolomiti, forse? Accontentati di qualche giorno. Ricordati che questo dopo tutto è l'inferno!
Satana appariva davvero seccato e per un attimo Manlio Locatelli temette che se ne andasse, portandosi via anche l'offerta.
- Me ne ricordo, sta tranquillo, - disse Manlio. - Ma non dirmi che anche qui non ci sono i raccomandati. Sai, magari un angolino più fresco di questo potresti anche trovarmelo. In fin dei conti ti faccio un lavoretto che è vitale per una buona gestione dell'azienda.
- Argh! - Satana emise un bercio satanico e fece roteare il tridente come per trafiggere l'impudente.
Manlio Locatelli fece un balzo all'indietro. - Ehi, adagio con quell'arnese o dovrai cercarti un altro esperto di computer! - Le punte del tridente gli sfiorarono la gola, poi di colpo Satana emise una gran risata.
- E va bene! Te l'ho detto che mi sei simpatico! Cinque gradi ti vanno bene?
- Perchè non dieci... - avanzò timidamente Manlio, ma Satana emise un altro versaccio e il tridente tornò a volteggiare pericolosamente vicino alla testa del fu softwarista.
- Cinque! Prendere o lasciare! - ruggì il demonio.
- Accetto...accetto... - fece precipitosamente marcia indietro Manlio Locatelli. Dopo tutto cinque gradi gli andavano benissimo. - Che dia... (mine!) - Per poco non si era lasciato di nuovo sfuggire un'espressione poco consigliabile.
 ***
Per cinque giorno Manlio Locatelli si immerse nel mondo elettronico dei disk drive, dei software, degli imput e degli output, sottoponendo senza un attimo di sosta il sistema a tutta una serie di verifiche. Il girone del ghiaccio era molto grande e l'impianto molto vecchio. Logico quindi che ci fosse tanto da fare. Ma, a mano a mano che proseguiva, la temperatura si faceva meno gradevole. Se all'inizio, dopo il caldo delle fiamme, il fresco di un girone del ghiaccio, dove non c'era quasi più ghiaccio a causa del malfunzionamento dell'impianto, era stato piacevole, ora che il ghiaccio era tornato l'ambiente si era fatto inospitale e Manlio scoprì che se il caldo-caldo è una brutta cosa anche il freddo-freddo non è di meno. Così si affrettò a sbrigare il lavoro e il sesto giorno si presentò da Satana.
- Okay, capo, - gli disse col suo fare guappesco. - La mia parte l'ho fatta. Adesso a te la tua!
- Proprio un bel lavoro, - ammise Satana con un sorrisetto furbo. - Sapevo che come tecnico ci sapevi fare.
- Modestamente... - fece Manlio. - Ma adesso...
- Adesso... eccoti la ricompensa! - disse Satana facendo schioccare la coda e Manlio Locatelli si sentì afferrare da un turbine di aria gelida che lo scaraventò su un lastrone di ghiaccio in una pozza senza fine.
- Ehi! - gridò Manlio Locatelli, indignato. - Le promesse vanno mantenute! - Mi avevi garantito i cinque gradi e qui ce ne sono almeno venti di meno! Io protesto!
Dall'alto del pozzo senza fine si sentì la risata del demonio. - Protesta respinta, mio caro. Satana ti aveva promesso cinque gradi e cinque gradi hai avuto. Satana mantiene sempre le sue promesse. Non ti avevo detto che mi sentivo buono col Natale vicino? Ebbene, oggi è Natale e tu hai avuto il tuo regalo.
- Qui non ci sono cinque gradi, te lo garantisco! - gridò Manlio Locatelli con quanto fiato aveva in gola. - Se ti senti davvero buono come dici...
Dall'alto si udì ancora una volta la risata satanica: - Oh,sì, invece, mio caro. Certo che mi sento buono in questo periodo... ma buono solo quanto si può esserlo all'inferno. Questo è il mio regalo di Natale per te. Tu hai avuto i cinque gradi esatti che volevi... cinque gradi FAHRENHEIT... che fanno esattamente... MENO QUINDICI GRADI CENTIGRADI!... Ciao, merlo!

sabato 26 dicembre 2015

MACHU PICCHU di Peppe Murro


Qui è venuto un poeta ed ha cantato l'ira e il terrore dei suoi padri, la terra profanata, le acque avvelenate dall'odio e dal sangue... qui dove niente e nessuno poté sconfiggere il cielo e le nubi che scivolano lente sui declivi delle cime.Qui Neruda ha cantato il suo verso opulento e disperato, qui ha pianto una storia decapitata dal ringhio velenoso dei vincitori, qui il silenzio spadroneggia su una foresta abbarbicata alle rocce che il sole non riesce a penetrare, qui la sorpresa e la meraviglia di chi per la prima volta, a secoli di distanza, ha scorto uscire il sole da rocce squadrate di verde.Qui Pablo, folle d'orgoglio e di pena, davanti al vuoto immane di pietre mute che sommessamente celano ricordi di uomini...folle d'orgoglio e di domande davanti al volto immane di tempo e pietre chiede al mistero verde la risposta...Qui il dolore, muto, di uomini e pietre. Non andrò mai a Machu Picchu.

domenica 20 dicembre 2015

LA DANNAZIONE DI LEROY JAMES di Marco Viggi

Ecco là il villaggio dei nativi.
La terra spaccata dal sole è come due secoli fa, le case di lamiera e fango molto peggio dei teepee. Di acqua ed erba verde nemmeno l’ombra, dei bisonti solo ricordo amaro.
Una manciata di case sparse attorno al pozzo, nessuno in vista. Con questo sole, stare fuori significa sciogliersi come burro sui pancake. Mi avvicino.
Il mio mustang nitrisce, ha capito: “Sì, caro, siamo arrivati.” So cosa vuole dire e gli rispondo: “Eh già, questo posto nemmeno Dio sa che esiste. O magari preferisce far finta di niente.”
Ecco una costruzione appena più grande, di mattoni.
“Invece il nostro amico anonimo sa bene che c’è. Continua a mandare lettere per spedirmi nei posti più strani, senza nemmeno firmarsi. Anche se sono su carta intestata dell’FBI.”
Mi fermo davanti al locale, scendo da cavallo. L’insegna ricavata da un disco di tronco d’albero recita “Shop”. Non può non avere quel che cerco.
Mi asciugo il sudore dai baffi, lego il mustang e sussurro: “Tanto io sono così stupido da andare sempre a vedere.”
La porta sta su con solo un cardine, il legno è scrostato.
Entro. Dentro non è meglio. Un bancone in fondo, file di scaffali pieni di tutto, da utensili a bigiotteria.
Dietro il banco un nativo basso, naso largo, coi capelli brizzolati lunghi alle spalle. Mi guarda, non sembra sorpreso: “Salve straniero.”
Mi avvicino, lascio scivolare il cappello sulla schiena: “Salve a voi.”
“Cosa le serve?”
Guardo in giro. Sul banco ha delle teche con piccoli oggetti, chincaglierie di ogni genere. Ma sulla sinistra noto qualcosa di diverso: “Ehi, bella quella.”
Guarda, sospira: “Quella? Io direi più che altro velenosa.”
Faccio un passo. Sono davanti a una Colt, che ha visto, direi, più anni di me. Ha il calcio laccato di bianco, con una incisione a forma di J. Qui dentro spicca come una pepita nel setaccio.
“Ho idea che questa ragazza abbia una storia da raccontare.”
“Puoi dirlo straniero.”
“E tu la conosci?”
“In parte, sì.”
“Me la potresti raccontare?”
“Certo,” e mi fissa.
Lo guardo. Caccio la mano in tasca e tiro fuori un biglietto verde: “E potrei anche vederla?”
Lui prende la banconota, la infila nel taschino poi apre la teca: “Puoi vederla, ma non toccarla.”
Stringo gli occhi: “Sciogli la lingua, allora.”
“Questa pistola è appartenuta a Leroy James, era un ranger, cento e più anni fa.”
“Non ne ho mai sentito parlare.”
“Già, il suo ricordo è sbiadito, tutti hanno preferito dimenticarlo dopo la morte.”
Allungo la mano verso l’arma, ma lui mi blocca con la sua: “Non scherzo, tu vuoi giocare col fuoco.”
Gli occhi sono due perle d’ossidiana.
“Perché?”
“Questa pistola porta la sua maledizione. L’aveva quando è stato ammazzato a tradimento, quest’arma è intrisa della malvagità di quel momento.”
Ritraggo la mano: “E tu come l’hai avuta?”
“Me l’ha portata una ragazza, in lacrime. Suo padre, un collezionista, l’aveva trovata tra le cose di un rigattiere e l’aveva portata a casa. Si era chiuso nel suo studio, con la borsa in cui aveva messo l’arma. Poco dopo, l’hanno trovato morto. Steso per terra, con questa in pugno. Nessuna ferita, la pistola era scarica; nessuno era entrato, nessun indizio se non i due occhi spalancati, iniettati di terrore. La ragazza non l’ha più voluta toccare, l’ha avvolta in un panno e così me l’ha portata. Non ha voluto soldi, solo non vederla più. E io, straniero, con quel panno qui l’ho messa, e non l’ho più fatta toccare a nessuno.”
Lo guardo con gli occhi sottili: “Bel tentativo, amico. Il prossimo passo immagino sarà che, se proprio insisto, te ne puoi liberare, ad un prezzo maggiorato causa favoletta.”
Mi fissa, con il volto di marmo.
Se mister FBI mi ha mandato qui deve essere per questa. Prendo un respiro.
Allungo la mano di scatto, afferro il calcio.
Tutto intorno diventa buio. Notte. Un vicolo. Silenzio. Anzi no: “Ehi Leroy! Sono qua! Mi vedi?”
Guardo in giro. Quella voce… “Ehi, Leroy, giochiamo a nascondino?” La conosco! Il bastardo! Lui ha ucciso la mia Jenny. Lo devo avere, sono anni che lo inseguo, questa volta non mi può scappare!
Non si vede niente, ma avanzo, chino. Eppure, la voce viene da… “Leroy!”
In fondo, là, dietro l’angolo. Eccolo! Punto la pistola, lui alza la sua.
Lascio cadere l’arma. Sento uno sparo, ma fugge lontano mentre tutto torna come prima, nel negozio.
Sdang! Il rumore della pistola che ricade nella teca, poi il nativo che mi guarda: “Ehi, straniero! Che fai, pazzo! Vattene, vai via!” Gli occhi, adesso, sconvolti.
Ansimo, ho il respiro corto. Un passo indietro, un altro. E fuori, fuggo. Ora la so, io, la storia di Leroy.

 

lunedì 14 dicembre 2015

UN INCONTRO CON I MIEI IO di Aldo Flores Escobar



La volta che soffrii di una crisi esistenziale, andavo desolato per le strade dove una volta vedevo la luce e, in tempi lontani, usavo camminare con belle ragazze che mi prendevano per il braccio. Ah, come mi mancano quei vecchi tempi! Ora senza una meta fissa nel mio viaggio tormentato, mi ritrovai con l’altro me, che soffriva di una crisi d’amore; così abbiamo bevuto e pianto insieme senza tener conto dei giorni e delle notti che siamo stati impegnati nella nostra estesa conversazione; poi, già avanti nel tempo e nelle coppe, l’altro io del mio alter ego, è apparso come un essere rattristato da irrimediabili dolori. Senza rendermi conto, o forse fu in un batter d'occhio, migliaia di io sono apparsi e non sapevo a quale di quei corpi appartenesse la mia anima; così ci ha trovato l’alba di chissà quale mese che aspettavamo per ricevere la consolazione scesa dal cielo, ma non abbiamo ricevuto il sollievo che volevamo. E, senza porre rimedio ai nostri mali, riempimmo la città con i nostri lamenti fino a consumare tutta la gioia che c’era nell'universo.

(Traduzione di Adriana Alarco)

giovedì 10 dicembre 2015

SOGNI di Peppe Murro


Con sollievo, con umiliazione, con terrore, comprese che era anche lui una parvenza, che un altro lo stava sognando.
 
Le lettere gli ballavano davanti agli occhi, si tolse stancamente gli occhiali e si massaggiò le tempie: forse era ora di dormire. Eppure non se la sentiva di consumare nel sonno il tempo che gli restava.
 Già, quanto tempo gli restava prima che lo scoprissero? il mondo era diventato un bolgia pazzesca... Europa e Russia si erano frantumate in una miriade di staterelli a base pseudo-etnica o appena dialettale, la Cina aveva letteralmente comprato gli Usa, e dovunque proliferavano feroci dittature militari o labili e plebiscitarie democrazie televisive: chi poteva si era costruito un bunker, altri erano fuggiti verso luoghi inospitali e selvaggi; lui era semplicemente rimasto nella sua stanza, tanto, pensava, che può accadermi di peggiore della vecchiaia? e aveva ripreso la sua vecchia abitudine di leggere.
Pochi libri gli erano rimasti, celati alla polizia, sfuggiti con cura alla Grande Distruzione (the Big Bonfire, lo avevano chiamato i nuovi sanfedisti) in un estremo ed unico suo atto di ribellione, tanto per dirsi che era vivo e libero di decidere.
Con una punta di meraviglia si era accorto di una sua lieve, quotidiana mania: leggeva e rileggeva sempre lo stesso racconto.
Ricordava vagamente che anche Descartes e Spinoza forse avevano avuto pensieri simili, ma gli autori che consumava di più erano Lope de Vega e Borges: l'idea che lo affascinava era, in quel tempo miserabile e faticoso, molto consolante, cioè che niente esistesse realmente, che tutto fosse un sogno.
Sì, lo spagnolo aveva detto che la vita è sogno, e l'argentino cieco gli aveva risposto che era il sogno di un dio.
Gli piaceva l'idea di essere quel sogno, andare lungo il fiume degli anni senza memorie e senza dolore, anche se qualcosa lo inquietava, perché le poche volte che ricordava i suoi sogni, sentiva con asprezza la pena e l'orrore di scoprire che quel sollievo era solo un sogno: fortunatamente, però, poi, ogni mattina, il rito del caffè d'orzo e il dolore alla schiena gli davano la piacevole certezza di essere vivo e reale. Comunque, in cuor suo, gli sembrava bello e importante sentirsi finalmente qualcuno, essere il sogno di un dio....
Stupidate di vecchio, pensò, che tenta di resistere agli anni con una testardaggine quasi infantile. Guardò la muffa che si era formata agli angoli della stanza, spense la candela e spostò il cartone che sostituiva i vetri della finestra.
Volse gli occhi sulla strada e verso l'orizzonte: lì, dove una fila di case basse permetteva lo sguardo, si levava ogni tanto un bagliore, ma la città era nera, nera di desolazione e di odio, non solo per la mancanza di luci. Sorrise fra sé pensando al mondo roboante di vetrine e di gente scintillante che aveva conosciuto in gioventù: alles gestorben, sentenziò sommessamente, tutto morto. Finito.
Rimise con cura il cartone e strascicando le pantofole si avvicinò lentamente al tavolo. Tastò un po', aprì un piccolo involucro e tirò fuori qualcosa che una volta doveva essere commestibile.
Si sedette, accese di nuovo la candela: i suoi libri stavano lì, come a guardarlo, come a dirgli che provavano pena per l'umanità che gli era rimasta.
Inforcò gli occhiali ed aprì quelle pagine che sapeva a memoria...il dio del fuoco faceva un dono, ma voleva essere pagato. Forse ogni dio, pensò, vuole essere pagato per i suoi doni, quando ve ne sono.
Beveva le parole come un respiro fresco, si sentiva a mano a mano in un benessere ovattato, soddisfatto in ogni sua fibra. Pensò di essere in un posto pieno di luce, pensò che era meraviglioso quel posto ed aprì gli occhi: di fronte a lui non c'era nulla, né luce né buio, né oggetti né le sue mani. Il suo corpo non c'era né altro, solo la sua disperazione...così ci si sente, rifletté, quando il risveglio ci scopre coi suoi artigli di verità. Eppure avrebbe davvero voluto sognare come il viaggiatore dell'argentino, non avere ricordi né pene. Sognare un suo mondo, quasi una nuova creazione...sognare come sogna dio, magari anche sognando in quel mondo di essere il sogno di dio.
Poi, quasi all'improvviso, capì Borges e ne scoprì l'orrore...l'orrore e il dolore di non esistere se non come un sogno. Si tolse gli occhiali, poggiò la fronte sulle mani strette a pugno.
 
Sentì dei rumori sul pianerottolo, grida confuse ed aspre, lo schiocco rauco di uno sparo: non si voltò neppure. Con ironia, con rassegnata amarezza si disse che lui, e il mondo, e tutto erano solo il pensiero distratto di un dio infingardo e cialtrone. O forse il suo incubo peggiore.
Un colpo alla sua porta che cedette di schianto, il suo ultimo singulto di sopravvivenza: sogno o realtà, i lupi che ci divorano sono sempre affamati; stanno urlando, tornano, anche se le prede sono tutte morte. Tornano, hanno sempre fame.

lunedì 7 dicembre 2015

STELLA, STELLINA di Fabio Calabrese


«Stella, stellina, la notte s’avvicina, la mucca e il vitello, la pecora e l’agnello...»
Agata interruppe la filastrocca che stava canterellando e, non riuscendo più a trattenere i singhiozzi, diede sfogo ad un pianto sommesso, piano piano, perché aveva paura che “lui” potesse tornare a picchiarla.
Lo scantinato dove l’avevano rinchiusa era un luogo stretto e buio, minaccioso e tetro, eppure Agata lo sapeva che, curiosamente, quelle ombre misteriose e minacciose che si staccavano appena dal sottofondo buio, se lo spioncino lassù in alto, fuori della sua portata, fosse stato aperto e la luce fosse potuta entrare a fiotti, quelle ombre si sarebbero trasformate in oggetti comuni e innocui: vecchie cassette di frutta e bottiglie impolverate, due bombole di gas vuote, un copertone d’automobile, ma questo non le impediva di avere paura, paura, paura...
Agata sapeva anche, ed era la cosa che le faceva più male, che se fosse stato vivo il suo papà, quello vero, le cose sarebbero state molto diverse.
Facendo uno sforzo su se stessa, cercò di asciugarsi gli occhi con il dorso della mano; sapeva che piangere sarebbe servito solo a farla sentire peggio. Cercò di riprendere la canzoncina.
«Stella, stellina...»
Anche quello non serviva a molto, il sommesso filo di voce che le usciva dalla gola era rauco al punto che stentò a riconoscerlo per il proprio.
«Oh perché, papà?», tornò a chiedersi per l’ennesima volta.
Ma conosceva la risposta anche a quello: la gente non muore perché lo vuole, capita e basta, e quando una persona non c’è più, non ci si può fare niente.
Se ne ricordò all’improvviso, eppure ce l’aveva lì nella tasca dei jeans, che le faceva un piccolo groppo, ancora avvolto in un pezzo di carta chiuso da una striscetta di scotch, il suo tesoro più prezioso, il suo talismano che le aveva regalato la signorina Martini. Lo prese, disfece il pacchetto ed appallottolò la carta rimettendosela in tasca. Anche se là dentro era buio, Agata sapeva bene di che si trattava; dopo che la signorina Martini gliel’aveva dato, aveva rifatto il pacchettino mettendoselo in tasca, ma un’occhiata era bastata, ed era strano, vedendolo si era sentita allargare il cuore come non le succedeva da molto tempo: era un ciondolo, una catenina di finto argento con una sferetta di un bel colore azzurro luminoso.
Lo teneva nella mano stretta a pugno, e si accorse di poter scorgere una tenue luminosità grigio-azzurra che filtrava negli interstizi fra le dita. Aprì il palmo della mano e, oh davvero, al buio la sferetta del ciondolo emanava una tenue luminosità azzurra. Ebbe un tuffo al cuore, ora aveva la luce, poca, ma quanto bastava per fugare i brividi più angosciosi, un’arma contro le ombre minacciose che strisciavano intorno a lei.
Improvvisamente, ora che la paura non c’era più, o almeno si era ritirata in qualche angolo buio ai margini della sua coscienza, si accorse di quanto fosse stanca e intorpidita. Sapeva che lo scantinato era pieno di polvere, e se si fosse sporcata gli abiti, “papà” avrebbe potuto farle una scenata e punirla di nuovo; era successo altre volte, e mamma come al solito non avrebbe detto niente, perché
mamma aveva paura di lui.
C’era una veccia coperta accuratamente ripiegata, sotto un mucchio di giornali vecchi, proprio in cima alla pila delle cassette di frutta. Andò a prenderla tenendo il ciondolo sollevato davanti a sé come una lanterna. In realtà, la luminosità del ciondolo le permetteva appena di scorgere un vago profilo degli oggetti quando si trovavano a non più di un palmo, e se non avesse conosciuto bene lo scantinato, non avrebbe potuto muoversi con quel vago baluginio, ma l’importante non era questo, l’importante era che il ciondolo teneva lontana la paura.
Prese la coperta e la srotolò distendendola per terra; vi si adagiò sopra e chiuse gli occhi: ad occhi chiusi era più facile immaginare che quella fioca luminosità fosse una grande luce azzurra che riempiva ogni cosa intorno a lei, rivelando un paesaggio incantato color turchese.
«Stella, stellina
La notte s’avvicina.
La fiamma traballa.
La mucca è nella stalla.
La mucca e il vitello.
La pecora e l’agnello.»
Aveva ripreso a canticchiare, a dipanare la filastrocca, questa volta senza emettere suoni, solo nella sua mente.
«Stella, stellina.»
Provò ad immaginare che un’altra voce si mescolasse alla sua, quella di papà, come facevano quando era vivo. Quante filastrocche avevano cantato assieme! Quante favole le aveva raccontato, povero papà.
«Stella, stellina.
La notte s’avvicina.»
Funzionava, funzionava davvero!
«Coraggio, piccola», immaginò che le dicesse, «Sono tornato, sono tornato per sempre, non ti lascerò più.»
«Ora dormi, bambina», continuava la voce di suo padre, «Hai avuto una giornata tremenda e sei stanca, “lui” non verrà ancora ad aprirti prima di un’altra mezz’ora.»
Si appisolò.
«Agata, Agata!»
«Si, papà, che c’è?», chiese con voce insonnolita, mentre stirava meccanicamente le braccia.
«Agata, svegliati, “Lui” sta per venire ad aprirti. Devi mettere via la coperta, lo sai che ti punirà di nuovo se scopre che hai messo in disordine.
Agata aveva l’impressione confusa che papà avesse ragione, aveva detto mezz’ora, e doveva essere passata mezz’ora, ma lei aveva la sensazione di essersi appisolata solo per pochi minuti.
«Ricorda ancora una cosa, bambina, lui non deve mai, mai vedere il ciondolo, e per ora è meglio che non ne parli nemmeno con mamma.»
Aveva appena finito di rimettere a posto la coperta e ficcato il ciondolo in tasca, quando la porta si aprì, lasciando scorgere nel vano illuminato la sagoma massiccia del suo patrigno.

* * *

Firenze, considerata nel suo complesso, non era molto diversa da qualsiasi altra città d’Italia o dell’occidente industriale, con i consueti problemi delle vie intasate dal traffico, il rumore, l’inquinamento, la gente che, come per ogni dove, se ne andava in giro per i fatti suoi frettolosa e vagamente irritata, come se la vita l’avesse ingiustamente privata di qualcosa, e in realtà doveva essere proprio così, anche se ad Elda Martini qualsiasi luogo sarebbe andato bene in quel momento, pur di essere lontana per un po’ da Torino, dalla sua vita di tutti i giorni e dai suoi guai. Ma il centro storico della città era una specie di isola in cui poteva quasi sembrare che fosse ancora viva un’eco di altre epoche: piazza del Duomo, il duomo stesso, il battistero, il campanile di Giotto, la loggia dei Lanzi, Palazzo Vecchio, più lontano il Ponte Vecchio, sotto cui scorreva un Arno che di anno in anno sembrava farsi più esiguo, con i sassi del greto sempre più costellati di erbe.
Lo conosceva bene il centro storico, non era la prima volta che veniva lì, ma lei e Francesca dovevano in qualche modo rifarsi con una bella camminata, di aver trovato gli Uffizi chiusi.
«Questa è una cosa che non capirò mai», aveva commentato, «A cosa serve che in Italia abbiamo il più ricco patrimonio artistico del mondo, specialmente in una città come Firenze, se tutte le volte che vuoi andare a vedere un museo, lo trovi chiuso.»
«Cos’ha detto Mario», chiese Francesca, «Quando gli hai detto che venivi a Firenze da sola?»
Elda strinse con la mano la spalla della cugina, in un gesto che era una ricerca di femminile complicità.
«Ha sbuffato, naturalmente», rispose, «Ma io l’ho mandato al diavolo. Se non è disposto a concedermi certe piccole libertà, può anche scordarsi di pensare a sposarmi. E poi, come dice il proverbio, pasqua con chi vuoi.»
La zona dei lungarni antistante Ponte Vecchio era gremita di gente, e si camminava a fatica. C’erano le bancarelle e, sempre più numerosi, i banchetti degli ambulanti extracomunitari. Francesca le aveva spiegato che almeno la metà di loro era senza licenza, e spesso neppure in regola con il permesso di soggiorno: venivano in Italia con il passaporto turistico, o da clandestini, e ci restavano, per voltare le spalle alla miseria dei loro paesi.
Gli occhi di Elda incontrarono quelli di un giovane africano: le due cornee spiccavano tra il nero delle iridi e quello della pelle, aveva una strana bellezza remota, come un idolo imperturbabile e ieratico. Si chinò ad osservare la sua mercanzia appoggiata su di un paio di quei cartoni rivestiti di velluto nero del tipo usato nelle vetrine dei gioiellieri, solo consunti e impolverati: una piccola maschera africana, statuine di avorio, catenine, pendagli, anellini che montavano piccole pietre dure.
«Non dirmi che t’interessa questa chincaglieria», disse Francesca, «non dimenticare che se costa due soldi, non ne vale più di uno e mezzo.»
«Non per me», disse Elda Martini, «voglio fare un regalino ad una mia alunna.»
Aveva preso una catenina di fattura alquanto semplice, con un ciondolo che era una sferetta di un azzurro brillante, intenso, quasi luminoso.
«Che cos’è?», chiese al venditore.
Il giovane dalla pelle d’ebano fece un gesto con la mano, ad indicare di non aver capito.
«Cos’è? What Matter?»
«Oh...pietra-di-cielo.»
Elda acquistò il ciondolo, e mentre il giovane immigrato l’incartava per consegnarglielo, notò che avrebbe dovuto rifare il pacchetto per renderlo appena presentabile.
«Pensavo che volessi scordarti della scuola in questi giorni», disse Francesca.
«Si», rispose Elda, «ma questo è un caso diverso: è per Agata.»
«Quella bambina meridionale?»
«Già, povera figlia, è di una famiglia siciliana, se si può chiamare famiglia quella che si ritrova...Il padre è morto qualche anno fa, e la madre si è risposata. Il patrigno le tratta tutte e due in modo brutale; spesso la bambina viene a scuola con dei lividi.»
«Ma perché lei non lo lascia?», domandò Francesca.
«Beh, credo che dipenda da lui economicamente. Sai com’è con queste donne meridionali: in genere non hanno né un livello d’istruzione, né sono preparate psicologicamente ad avere un lavoro, le famiglie le scaricano direttamente al futuro marito preparate a null’altro che a fare le casalinghe. E’ per questo che sotto Roma ci sono pochi divorzi...altro che senso della famiglia, puah!»
«Hai pensato di segnalare la cosa ad un’assistente sociale?»
«Si, ci ho pensato spesso, ma non servirebbe a niente, dalle nostre parti ne hanno a pacchi di casi del genere. Figurati poi se un siciliano permette a qualcuno d’interferire nelle faccende di casa sua, e poi se viene a sapere che Agata parla a scuola di quel che succede a casa, è capace di essere ancora più violento con la bambina. La cosa migliore è quella di stare vicina alla piccola, e di farle sentire che c’è almeno qualcuno che le vuole bene.»
«Dimmi», chiese la cugina, «lì da voi a Torino c’è sempre tanta ostilità tra nativi e immigrati meridionali?»
«Beh, in superficie è tutto calmo, ma se gratti un po’ sotto, senti correre la tensione elettrica.»
«Beati voi», disse Francesca, «Firenze, lo vedi, si sta trasformando in un suk.»
Più tardi, a casa di Francesca, le due donne esaminarono il ciondolo.
«Il venditore l’ha chiamata pietra di cielo», disse Elda. «In effetti, ha un bel colore azzurro-cielo. Sono convinta che ad Agata piacerà, anche se probabilmente è una cosa di nessun valore.»
La cugina prese a sua volta in mano la sferetta.
«Solo», disse, «che non mi sembra per niente una pietra, piuttosto vetro o qualche specie di plastica trasparente con dentro del liquido azzurro.»
La ruotò fra le dita.
«Se ci fosse una bolla d’aria o qualche impurità qua dentro, lo si potrebbe capire.»
«Ehi», disse Elda, «hai pensato che “pietra di cielo” potrebbe anche voler dire un meteorite, che magari questa cosa è saltata fuori da un aerolito?»
«Forse hai ragione, non ne ho mai viste di pietre come questa.»

* * *

«Papà!»
«Si, Agata, cosa c’è?»
«Ti prego, aiutami, non ce la faccio.»
Agata aveva compreso che quella voce misteriosa, tanto simile a quella di suo padre, non era in realtà il suo spirito tornato per aiutarla, era qualcosa d’altro, ma era pur sempre una presenza buona e gentile che la faceva sentire meno sola, ed aveva continuato a chiamarlo papà per forza d’abitudine.
«E’ troppo complicato per me, non ce la faccio.»
«C’è qualcuno che ti sta guardando?»
«No.»
«Allora sbottona il collo della camicetta, così posso vedere il foglio...brava...che strano, numeri in base dieci, non sono molto pratici: è molto più comoda la base dodici, bei quozienti interi per tre quattro e sei, 1,5 per otto e quattro terzi per nove.»
«Scusa papà, ma non ci capisco niente.»
«Lascia perdere, piccola. Prendo io il comando.»
«Cosa devo fare, papà?»
«Soltanto stare tranquilla, chiudere gli occhi e rilassarti un attimo...ah, prima riabbottonati la camicetta.»
Agata ubbidì e si lasciò andare. Di colpo, non si trovava più a scuola, rannicchiata nel suo banco, davanti alle formule per lei esoteriche e scarsamente decifrabili di un compito di matematica, no, le pareva di sognare, anche se si sentiva perfettamente cosciente e lucida: le pareva di nuotare dentro uno strano universo azzurro cobalto, punteggiato qua e là da brillii bianchi. Si sentiva senza peso, e si accorse che poteva muoversi senza sforzo in ogni direzione: avanti, indietro, a destra, a sinistra, sopra, sotto. Non vedeva il proprio corpo né le proprie mani. Cercò di guardarsi le mani portandole all’altezza degli occhi. Buffo, non le vedeva, erano invisibili; no, proprio non c’erano, e non c’era nemmeno il resto del suo corpo, e neanche gli occhi: era soltanto un punto, una coscienza disincarnata che fluttuava in un indefinito spazio azzurro. Pensò che forse avrebbe dovuto avere paura, ma non riusciva ad averne, avvertiva soltanto un senso profondo di serenità e di pace.
Se qualcuno avesse osservato Agata in quel momento, avrebbe visto che i suoi occhi erano diventati azzurri, ed emanavano un singolare bagliore luminoso. Chi avesse potuto osservare il ciondolo sotto la camicetta, si sarebbe anche potuto accorgere che in quel momento la sferetta era divenuta di uno spento colore grigio cinereo, ma Agata teneva lo sguardo chino sul banco e gli occhi fissi sul foglio del compito.
La testa, le spalle e il busto non si muovevano, se non nel riflesso automatico della respirazione; solo la mano, il polso, il braccio destro si muovevano come dotati di vita e di volontà autonoma, la penna vergava il foglio del compito di righe e righe di formule in modo insolitamente metodico, senza soste dovute all’incertezza e neppure all’intorpidimento delle dita.
Se un perito calligrafo avesse esaminato quel foglio, avrebbe potuto appurare che la scrittura era proprio quella di Agata, o forse imitata osservando direttamente i ritmi dei suoi centri cerebrali, ma innaturalmente regolare, senza le piccole variazioni nella forma e nelle dimensioni dei segni; solo che nessuno avrebbe mai pensato di sottoporre quel compito ad un esame grafologico.

* * *

Mariarosa era preoccupata. Da alcuni giorni in casa tutto sembrava filare liscio. Da quattro giorni Carmelo non aveva alzato le mani, anzi neppure la voce, nemmeno un sopracciglio con la piccola Agata, e Mariarosa sapeva ormai per esperienza che, quando succedeva questo, la calma apparente era inevitabilmente l’avvisaglia di un temporale grosso.
La donna cacciò un sospiro: se avesse dato un figlio a suo marito, forse non sarebbe stato tanto geloso della figlia di primo letto.
Riprese a sparecchiare, non senza aver sbirciato di sottecchi Agata che, quieta e silenziosa, s’era messa a studiare all’altra estremità della tavola, liberata dalla tovaglia.
Sua figlia era stata sempre timida e riservata, non le piaceva parlare, e soprattutto non le piaceva parlare dei fatti suoi, soltanto con il padre si apriva spontaneamente al dialogo, nemmeno a lei dava molta confidenza, specialmente dopo che si era risposata, ma negli ultimi tempi era avvenuto un cambiamento: la bambina, più silenziosa che mai, come se non fosse soddisfatta delle cose che doveva imparare per la scuola, si portava a casa mucchi di libri presi in prestito alla biblioteca pubblica ed a quella scolastica, e si trincerava dietro di essi leggendo, leggendo, leggendo. Se la interrompevi, ti guardava con una freddezza che ti metteva paura, e, per quel poco che Mariarosa riusciva a capire, erano tutte cose di cui Agata non s’era mai occupata, e di cui non era sicura che una ragazza facesse bene ad occuparsi: libri di scienze, di matematica, di fisica, dove non riuscivi a capire due parole in fila. Agata, pensava, avrebbe dovuto occuparsi di giocattoli e di vestiti, leggere cose come Grand Hotel o Gente, o se proprio dovevano essere libri, Liala o Bluemoon, che non sciupavano la femminilità delle ragazze, le aiutavano a sognare ed a prepararsi per quando avrebbero incontrato l’uomo della loro vita.
Mariarosa aveva sempre temuto, sotto sotto, che Agata potesse incontrare una di quelle insegnanti femministe che rovinavano le fanciulle mettendo loro in testa idee assurde, e sembrava che fosse successo proprio questo, ma non era ancora tutto: come se non bastasse, Agata aveva da un po’ di giorni quell’aria assente, come se non gliene importasse niente di tutto quello che avveniva intorno a lei, e rispondeva a monosillabi, senza mai mettere più di due parole in fila. Istintivamente, infossò la testa nelle spalle, incurvandosi come un albero che si prepara a ricevere le raffiche di vento della tempesta, intrise di scrosci di pioggia gelata. Quando Carmelo s’arrabbiava, andava su tutte le furie, ed erano troppi giorni che era troppo calmo, troppo tranquillo.
Si riscosse come da un sogno stuporoso, non poteva permettersi di starsene lì a fantasticare, c’erano troppe cose da fare in casa.
S’affacciò alla finestra della cucina per scuotere le briciole di pane dalla tovaglia sparecchiata. La finestra dava su di un cortile interno, piccolo e piuttosto squallido: un rettangolo lastricato di pietra, che solo i piccioni degnavano di qualche interesse, e costellavano dei loro rifiuti. E l’unica nota verde era rappresentata dalle macchie di muschio che crescevano sui vecchi muri e tra le connessure del lastricato. Contro il muro laterale, non lontano da lei, ad una distanza tale da poterlo agevolmente toccare con il manico d’una scopa, c’era un grosso mucchio informe di pietrame muscoso e di cemento sgretolato, forse un avanzo di qualche vecchia costruzione che, chissà perché, era stato lasciato lì.
Non seppe spiegarsi perché il suo sguardo era stato attratto in quella direzione, lì non c’era niente che non ci fosse da anni, neppure un gatto tignoso od un piccione. Per un momento, quel cumulo le diede l’impressione del corpo aggobbito d’un animale. Era strano, però, quando era bambina, le piaceva passare delle ore guardando la forma delle nuvole, o quella di strane rocce, oppure i tortuosi sentieri tracciati nel cielo dai rami degli alberi, divertendosi a cogliervi le forme di uomini a cavallo, di dame dai vestiti vaporosi, di animali comuni od araldici, come i draghi rampanti o gli unicorni sugli scudi dei principi delle favole. Ma erano anni che non si perdeva più in quelle assurde fantasticherie, anni ed anni.
«Ma cosa mi sta succedendo?», si chiese.
Sentì un brivido passarle nelle ossa. Istintivamente, sapeva che la tempesta era vicina.

* * *

«Papà, ma perché vuoi sapere tutte queste cose?»
Agata sapeva che la presenza nella pietra non era in realtà suo padre, ma chiamarlo così le dava conforto. “Lui”, quell’altro, il marito di mamma, non l’avrebbe chiamato papà nemmeno se l’avesse spellata viva.
«Perché è il mio lavoro, piccola. Io sono un esploratore, devo capire il vostro mondo e poi riferire: i parametri fisici, la chimica, la vostra biologia, l’ecologia, il modo in cui sono organizzate le vostre società, la politica, la storia...dimmi se sto parlando in maniera troppo difficile per te.»
«Papà.»
«Si?»
«E poi, cosa farete?...Voglio dire, se volete sapere tante cose, avrete delle intenzioni, cosa ci farete? Cosa farete di noi?...nel posto da dove vieni, dovete essere molto in gamba.»
«Non lo so, piccola, non spetta a me decidere; io devo osservare, riferire e basta. Ora fammi vedere i libri.»
Agata tolse dalla cartella quegli strani, pesanti volumi, e scorse i titoli mentre li metteva sul tavolo: Il tramonto dell’occidente di Oswald Spengler, La teoria dello sviluppo capitalistico di Paul M. Sweezy, Eros e civiltà di Herbert Marcuse, Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud.
«Il bibliotecario ha fatto una faccia, quando li ho presi in prestito!»
«Dai, piccola, fammi leggere!»
Mentre chinava il capo sui libri, gli occhi di Agata divennero improvvisamente di un azzurro intenso.

* * *

Era una giornata di scirocco, umida e nuvolosa: il cielo era imbrattato di sporche nubi grigie, ed una nebbiolina fredda saliva dalle acque del Po, su, fino ad entrarti nelle ossa; nelle pozzanghere per terra, ed addosso, si sentiva tutta l’umidità del giorno prima, che aveva piovuto furiosamente per tutta la giornata. Si era a maggio, e la solita primavera piemontese, fatta di nebbia e di pioggia, non cedeva ancora il posto ai tepori della bella stagione. Quel pallido e spento fantasma che a tratti faceva capolino fra le nubi, non sembrava proprio essere lo stesso sole dei cieli meridionali, ma ad Agata non dispiaceva che il maltempo si prolungasse: la bella stagione le ricordava che poi presto veniva l’estate, le vacanze, tre mesi con tutta la giornata da trascorrere con la mamma e con “lui”.
«Agata!» Una voce la riscosse bruscamente dai suoi pensieri. Era Francesca, una compagna di classe, teneva in mano una palla.
«Agata, ti va di giocare un po’?»
«Si, perché no?»
Francesca lanciò la palla, ed Agata la prese al volo.
Mariarosa si affacciò alla finestra. Agata tardava per il pranzo. Irrazionalmente, però, seguendo un impulso che da giorni cercava di contrastare, s'era affacciata alla finestra della cucina, quella che dava sul cortile interno, invece che ad una di quelle che davano sulla strada.
L’animale di pietra era sempre lì, aggobbito contro il muro, non s’era mosso, né, di certo, poteva farlo, eppure sembrava sottilmente cambiato, come se fosse diventato più nitido, non era più una figura confusa i cui tratti si potevano riconoscere a stento nella roccia muscosa, era là, c’era. Mariarosa poteva intuire le zampe rannicchiate sotto il grosso corpo, e la testa innaturalmente lunga e pesante, piegata in avanti, si potevano scorgere anche due macchie scure di muffa o di sporcizia là dove avrebbero dovuto esserci gli occhi, come due orbite scure e profondamente infossate.
Istintivamente, la donna si fece il segno della croce.
«’Rosa, che fai, che guardi?», chiese Carmelo.
«Agata è in ritardo», aggiunse, «Quando arriva, mi sente.»
Mariarosa lo guardò incredula. Lui aveva parlato con un tono troppo blando, troppo calmo. Di solito, a quell’ora, lui passeggiava nervosamente avanti e indietro per la cucina, strillando improperi contro Agata, e contro di lei che non l’aveva saputa educare. Eppure, avvertiva oscuramente la donna, la sua rabbia di sempre era tutta lì, nel bagliore corrucciato degli occhi, nella piega delle labbra, in quel suo aggrottare le sopracciglia, come lava pronta ad eruttare ed a devastare tutto quanto trovava sul suo cammino, ma, proprio come la lava dell’Etna, era come se qualcosa la bloccasse, le impedisse di esplodere, la tenesse premuta sotto metri e metri di solida roccia. Inspiegabilmente, Mariarosa sentì le gambe che le tremavano.
La bambina era entrata in casa sbattendo la porta.
«Agata», disse Carmelo, «sei di nuovo in ritardo, ed hai di nuovo sporcato il cappotto e le scarpe. Per punizione, andrai giù in cantina fino a stasera.»
Mariarosa ascoltava incredula per il tono blando e quasi bonario di Carmelo, e perché, contrariamente al solito, Agata aveva risposto con un «Va bene» vagamente annoiato. Fino a pochi giorni prima, solo il pensiero di passare ore ed ore nella cantina buia e sporca, era sufficiente a riempire la bambina di terrore.
Contrariamente al solito, Carmelo permise alla bambina di pranzare, prima di andare giù.

* * *

«Stella, stellina
La notte s’avvicina,
La fiamma traballa.
La mucca è nella stalla.»
Questa volta, la filastrocca era soltanto un modo per passare il tempo, non un disperato tentativo di esorcizzare il terrore del buio.
«Agata, ti annoi?», chiese “papà”.
«Beh, si.»
«Ti andrebbe di fare un giretto nell’azzurro?»
«Volentieri.»
«Bene, allora prendo io il timone.»
Un’ennesima volta, la cantina buia e polverosa scomparve, ed Agata si trovò a galleggiare libera nell’immenso azzurro, pervasa da una grande sensazione di serenità e di pace. Minuti, ore, o forse interi giorni? Agata non avrebbe saputo dire quanto durò tutto ciò, seppe solo che finì in maniera inaspettata e brusca.
Si ritrovò di colpo nella cantina, con la luce abbagliante di una torcia elettrica che le batteva sulla faccia.
Carmelo era in piedi davanti a lei, ed aveva negli occhi un’espressione omicida.
«Cos’è questa cosa, piccola puttanella?», gridò, e solo allora Agata vide che teneva in mano il suo ciondolo con la catenina spezzata.
«Avanti, rispondi!», gridò ancora alla bambina impietrita, e le mollò sulla faccia un manrovescio violento che la fece sussultare fino alle caviglie.
S’interruppe di colpo a metà del gesto di un secondo schiaffone, come un robot cui fosse stata tolta la corrente. I suoi occhi erano diventati di colpo d’un azzurro intenso.
L’esploratore era nel cervello di Carmelo; osservò i suoi ricordi e le sue esperienze con calma e distacco, come se consultasse uno scaffale di dossier. Vide una mente angusta e violenta, l’arroganza del maschio mediterraneo, la passione per Mariarosa e l’odio per il padre di Agata che gliel’aveva soffiata, odio che, dopo la morte di questi, si era trasferito sulla bambina, che Carmelo incolpava inconsciamente per non avere figli suoi, la derisione di cui, per questo motivo era vittima degli amici al bar, anche con pesanti allusioni alla sua virilità.
Decise: lì non c’era nulla che valesse la pena di essere conservato. Gli occhi del patrigno di Agata perdettero la lucentezza azzurra, ma non tornarono al loro colore naturale, rimasero spenti e cinerei come due globi di vetro riempiti di fumo di sigaretta.
Lentamente, con passo rigido e legnoso, l’uomo si mosse in direzione della scala, lasciando cadere il ciondolo che Agata raccolse prontamente.
Udì la voce di “papà”.
«Non temere, piccola», diceva, «non potrà mai più farti del male.»
Mariarosa vide Carmelo che usciva dalla porta della cantina, camminando con il passo rigido e legnoso di uno zombi. Dietro a lui, c’era Agata che teneva in mano qualcosa che brillava di un intenso colore azzurro. La bambina aveva un vistoso livido sulla guancia sinistra, l’impronta nitidissima delle cinque grosse dita dell’uomo, ma non piangeva; anzi, assurdamente, sembrò a Mariarosa che quasi sorridesse.
Il volto dell’uomo era di un pallore terreo, gli occhi erano spenti, inespressivi, l’assenza d’espressione dei suoi lineamenti ricordò alla moglie la compostezza innaturale dei cadaveri esposti nelle camere ardenti.
Si sedette pesantemente su di una sedia e rimase immobile, completamente immobile, come una macchina spenta.
Mariarosa si avvicinò. Lui non respirava. Vincendo un improvviso disgusto, gli toccò il polso: non c’era nessun battito, ma ciò che soprattutto fece rabbrividire la donna, fu il contatto con quella carne divenuta improvvisamente fredda, morta.
«E’ morto», disse alla figlia con voce atona, «lo hai ucciso.»
Di colpo, tutto il timore e il rancore che Mariarosa aveva sempre provato nei confronti di quell’uomo tirannico e violento che non avrebbe mai dovuto sposare, svanirono, lasciando il posto all’avversione per quella figlia strana che non era mai riuscita a capire, che faceva cose che non riusciva a capire, e ad una totale, selvaggia, paura.
«Lo hai ucciso», gridò con voce stridula. «Sei stata tu!»
In un impeto disperato, strappò il ciondolo di mano alla figlia.
«No, mamma, no!», gridò Agata, «Non farlo!»
«L’hai ucciso con questo, vero?», replicò la madre, «Ho sempre saputo che sei una strega.»
Tentò di schiacciare il monile con il tacco della scarpa, ma era troppo duro, allora corse a prendere il ferro da stiro, e lo scagliò due, tre volte, con tutta la forza che aveva, sulla strana pietra.
Beh, in realtà non era una pietra, non era nulla di più di una specie di vetro trasparente con dentro una sorta di liquido molto denso, di intenso colore azzurro, che però correva da tutte le parti come mercurio.
Un rumore, non proprio, la sensazione di un rumore quasi sentito, fece voltare Mariarosa verso la finestra che dava sul cortile. L’animale di pietra aveva cambiato posizione, e protendeva ora la testa spropositata verso la finestra, verso di lei.
Vide che ora gli occhi, infossati nel fondo delle orbite buie, erano aperti, e la fissavano gialli, con la freddezza mortale dello sguardo di un cobra.
Il mostro spalancò le fauci, rivelando una doppia fila di denti lunghi ed acuminati come stalattiti, ma stranamente lisci, lucidi, come di metallo.
Il brillio di quei denti, in cui si rifletteva la luce che proveniva dagli occhi di Agata, divenuti improvvisamente d’un azzurro intenso, fu l’ultima cosa che la donna vide.

 

 

 

 

venerdì 4 dicembre 2015

UNA NUOVA GIORNATA di Giuseppe Novellino


   
 
- Giova, non hai dello sciampo?
La voce veniva dal bagno. Suonava identica alla sua, quando la udiva registrata.
- È sulla mensola, sopra la lavatrice – rispose Giovanni.
Dopo mezzo minuto:
- Ma è solo un residuo. Come pensi che possa lavarmi tutta questa…
Non l’aveva ancora visto con i suoi occhi. Si chiese se doveva considerare ovvio e naturale quell’essere lì.
Se l’era trovato in casa (cioè si era accorto che esisteva) dopo che era suonata la sveglia. Lo aveva sentito trafficare in cucina, producendo un meraviglioso aroma di caffè. Era corso di là per vederlo, ma quello non c’era più. Subito dopo aveva sentito la sua presenza in salotto, mentre lui sorseggiava pensieroso il suo caffè con un biscotto. Poi gli sembrò che fosse in camera a rovistare nei cassetti. Ed ora era là, chiuso in bagno, a farsi una doccia.
Giovanni Dabbene, scapolo trentacinquenne, viveva solo (lui diceva da single) in un appartamento al terzo piano e faceva il contabile. Si considerava una persona normale, un tipo comune insomma, né bello né brutto, né buono né cattivo.
Ma in quel momento si sentiva buono, anzi buonissimo, come non lo era mai stato, in pace con tutti e con tutto. Quella sensazione prevaleva dentro di lui e gli consentiva di vedere le cose in modo estremamente positivo. Non c’era nulla di strano, dunque, che il tizio invisibile si trovasse, quella mattina, in casa sua. Non riusciva a reperire un motivo plausibile, ma le cose stavano così ed era tutto perfettamente a posto. Sorrise.
Suonò il telefono. A quest’ora? Erano appena le sette e quaranta. Fra poco avrebbe dovuto raggiungere il suo posto di lavoro.
- Pronto – disse, dopo avere premuto il tasto del cordless.
- Sono Giacomo. – La voce era fioca e un po’ rauca.
- Giacomo, cugino carissimo! – esclamò Giovanni.
- Scusami… l’orario – fece l’altro, esitante.
- Ma figurati! So perché mi hai chiamato.
Solo dopo un bel momento l’altro disse:
- Sono disperato, Giovanni. Se non trovo i soldi entro questa sera, quelli mi ammazzano. Sul serio.
- Non devi essere così catastrofico – lo rimproverò Giovanni affabilmente. – A tutto c’è rimedio. – Sì, pensò, anche allo sventurato debito che Giacomo aveva con quella specie di boss, di cui gli aveva parlato il giorno prima. Giacomo era la pecora nera del parentado, disprezzato e abbandonato da tutti, anche da una moglie che gli aveva sbattuto la porta in faccia da quattro mesi.
Silenzio.
- Sì… hai ragione – disse il cugino, - ma a cosa mi servono le tue parole di incoraggiamento. Lo so che l’ora è sbagliata e che già ieri pomeriggio mi hai detto che non potevi aiutarmi. Ma, vedi, sono sicuro che solo tu puoi darmi una mano. La tua condizione di single e la tua sicurezza economica…
- Ma certo! – lo interruppe Giovanni. – Quanto ti serve?
Una specie di gorgoglio venne dall’altro capo del filo. – Davvero mi puoi aiutare?
- Spara la cifra.
- Beh, diciamo… cinque, seimila. Giusto per tenerlo buono, poi si vedrà. – Ebbe un attimo di esitazione e si affrettò ad aggiungere: - Vedrai, me ne tiro fuori. Ho deciso di prendere il toro per le corna. Cambierò del tutto vita e naturalmente ti restituirò tutto, fino all’ultimo centesimo.
Giovanni sentì provenire dal bagno il rumore dell’asciugacapelli.
- Facciamo diecimila? Non c’è bisogno che tu me li restituisca. Prendili come un contributo, un regalo che ti faccio per stimolarti al cambiamento. Giacomo, tu devi uscire da questa condizione, devi salvarti l’anima, insomma, redimerti. Allora ti si apriranno nuovi orizzonti.
- Grazie.
- Ci vediamo tra un’ora, in banca. D’accordo?
- Oh! – Evidentemente Giacomo non si aspettava un intervento così rapido e positivo. – Sai che un po’ mi stupisci. Ieri ti sei limitato a farmi un predicozzo e poi mi hai quasi mandato al diavolo. Sembravi così categorico. Hai cambiato idea, dunque. Adesso provi compassione per un poveraccio come me.
- Dobbiamo aiutarci a vicenda, carissimo. – Aveva un vago ricordo di quel suo rifiuto e il pensiero gli provocava un certo malessere.
- Dici sul serio?
- Certo, non posso lasciarti nei guai.
- Eppure, ieri…
- Beh, non stiamo a rivangare il passato. Mi sembra giusto e doveroso darti una mano. Anzi, puoi contare su di me anche nel prossimo futuro, se hai bisogno di un mio appoggio per quel cambiamento di vita.
Il rumore dell’asciugacapelli era diventato più forte, segno che il suo ospite misterioso l’aveva messo sulla velocità massima.
- Allora ci vediamo – disse Giacomo con voce chioccia.
- Contaci. A dopo, ciao.
Va bene, pensò Giovanni, adesso è il momento di vedere in faccia il nostro uomo.
Raggiunse la porta del bagno e mise una mano sulla maniglia. In quell’istante il rumore dell’asciugacapelli si spense.
- Ehi… hai finito?
Ma la voce di risposta venne dalla camera. – Che ne dici se mi metto una delle tue camicie, Giova?
Giovanni raggiunse con uno scatto la porta della camera. Niente, il locale era vuoto.
Ancora la voce, questa volta dalla cucina
- Bene io sono pronto per uscire. E tu?
In punta di piedi andò verso la cucina. Nemmeno lì si trovava.
Poi il tizio chiamò dal piccolo disimpegno, alle sue spalle. – Giova, dai, apri questa cazzo di porta.
Giovanni si rese conto che quella frase era stata pronunciata con la stessa voce e con la stessa intonazione di quando frequentava la Bocconi, facoltà di Economia e Commercio, qualche annetto addietro. Si girò lentamente.
E lo vide.
Non si spaventò, anche se ne avrebbe avuto tutto il diritto. Provò, invece, una specie di calda compassione, come se il tizio che gli stava di fronte fosse il più povero dei poveracci, destinato a fare una brutta fine.
Certo, qualcun altro avrebbe cacciato un urlo. Giovanni no. Era in casa sua ed era inspiegabilmente pronto a trovarselo davanti. Sopra un pelo arruffato, che copriva per intero il corpo ricurvo dell’individuo (sembrava quello di un gorilla), mal si adattava una delle sue camicie: proprio quella azzurra con il colletto bianco, all’ultima moda, che gli aveva regalato sua sorella il giorno del compleanno.
- Fammi uscire, su. Eviterei di sfondare la porta o passarle attraverso. Lo sai che devo avere atteggiamenti e comportamenti esteriori come quelli di un uomo normale, altrimenti non riuscirò ad avvicinarmi alla gente. – Fece un ghigno. – E sai anche che, per entrare in comunione con gli altri (qui protese una mano artigliata), il mio aspetto non mi aiuta. – Spalancò le fauci, mostrando una dentatura spaventosa. Un filo di bava verdastra colò sul pavimento.
Giovanni non poteva fare altro che aprire la porta, anche se una strana sensazione di malessere gli stava salendo dal profondo. Tutto ciò era tristemente inevitabile. Ma lui avrebbe fatto da contrappeso a quello sgorbio. Se lo ripromise ardentemente.
Quell’altro sembrava un cane preso dalle fregole davanti alla prospettiva di fare una passeggiata con il suo padrone. Adesso grattava con gli artigli un battente ed emetteva un orribile mugolio.
Anche Giovanni bramava di uscire. Sentiva il profondo desiderio di vedere Giacomo, di incontrare gente, di abbracciarla, di aiutare chi fosse nel bisogno, di accogliere, di amare. Gli si presentava davanti una giornata piena d’amore.
- Non vedo l’ora di avvicinarmi a qualcuno – disse il mostro. – Questa città deve essere piena di quelle deliziose creature.
Giovanni aprì la porta. Vide quell’essere sgattaiolare fuori come un monello, guardarsi di qua e di là con diabolica bramosia e scendere le scale a rotta di collo, emettendo un gridolino raschiante.
Lui, invece, chiuse la porta alle sue spalle e si avviò con passo leggero.


   

martedì 1 dicembre 2015

OLTRE LA SBARRA di Giuseppe C. Budetta


Una voce mi avvisava con autorità, come un annuncio dall’altoparlante nelle stazioni dei treni:
“Questo è quasi un sogno.”
Un improvviso fragore si diffuse ovunque. Non molto distante da sopra la mia testa disperata per altro, un elicottero da guerra statunitense (lo si capiva dalle insegne) scese in picchiata, sollevando terriccio e sassolini che schizzarono dovunque. Mi riparai la bidimensionale faccia col braccio.
Dall’elicottero, partirono dei colpi di mitra qua e là, senza colpirmi. Già, se uno dei proiettili mi avesse trapassato che sarebbe accaduto?
Ero una semplice figura onirica, trasparente alquanto. Che poteva accadermi di più? L’elicottero – si trattava di un Cobra da combattimento, di quelli usati dagli USA nel conflitto iracheno degli anni Novanta del Novecento – virò verso una livida striscia di orizzonte, al di sopra di tozzi e brulli cocuzzoli, scomparendo alla fine. Il fragore andò via via attenuandosi, fino a che prevalse l’eterno silenzio di prima. C’era un prima ed un poi? Un uomo sul metro e novanta, un vero marine compreso la divisa con elmetto da battaglia, armato di tutto punto, mi avvertiva in inglese (lingua che da sveglio conosco) di fare attenzione perché a pochi chilometri c’era un posto di blocco e se non mi trovavano tutto in regola non l’avrei passata liscia.
Feci cenno di sì e il soldato coi gradi di caporal maggiore, si ecclissò dentro una delle tante forre che segnavano dall’alto in basso le desolate alture. Tra me e me dissi: “Che significa tutto questo?”       
Quasi intuendo ciò che mi chiedevo, un omino ben vestito, con giacca e cravatta, la barba rasata e i capelli a posto anche se radi, spuntò dall’interno di una delle tante grotte e spiegò:
"Qui, c’è l’eco della terra e dei suoi eterni conflitti. Dicono che truppe congiunte arabe stiano invadendo la parte sud della Sicilia, intenzionate a conquistare Roma.”
Di rimando:
“E gli USA? E gli altri Paesi europei?”
“Se ne fottono.”
“Mi fa piacere… prima o poi, toccherà anche a loro.” 
“Il soldato che poco prima ti ha parlato è del terzo battaglione di fanteria USA e combatte la guerriglia contro gl’iracheni, fedeli al vecchio regime, alleatosi, in queste lande desolate con l’ISIS. Attenzione, che se uno dell’ISIS ti vede, ti annulla all’istante.”
“In che senso, scusa?”
“Ti fa a pezzi con la sua arma, ultimo modello.”
“Quale arma?”
“Si tratta di strani congegni che generano onde elettro-magnetiche. Pistole speciali che formano intensi campi elettromagnetici e che assorbono per breve raggio, il campo bidimensionale in cui ciascuno di noi si muove e vive questa residuale esistenza. Caro mio, non lo sapevi? Siamo come i pesci in una brocca di vetro. Ci muoviamo all’interno di uno speciale campo bidimensionale. Chiamalo sogno, chiamalo aldilà, il risultato è lo stesso. Se la brocca si rompe, chi ci sta dentro, scompare per sempre.”
“Che bella cosa.”  
Ridendo per il mio sconforto, l’omino che poteva essere stato di mezza età al momento del trapasso in quella specie di aldilà, mi aveva consegnato un fogliettino colorato. Mi aveva detto:
“È un invito. Stasera, alle venti del nostro orario ultraterreno, c’è in piazza una conferenza sulla sanità in Toscana. Parlerà l’assessore regionale alla sanità.”   Mi venne spontanea la domanda, anche se depresso al massimo:
“E io che c’entro? Anzi, che c’entriamo noi con la sanità toscana?”
“Tanto per distrarsi un poco. Tanto, le cose vanno per loro conto. Come sempre.”
“E’ come quando seguivamo queste cose della politica per tivù da vivi, sulla terra.”
“Vedo che hai capito. L’assessore parla, riferisce cose che più non ci riguardano e noi facciamo finta di ascoltarlo con interesse. Comunque, qualcuno ancora in vita sulla terra che c’interessa, per esempio un figlio, la moglie rimasta vedova…più o meno tutti ce l’abbiamo e quindi, un certo interesse ce l’abbiamo. Poi, siamo stati di carne ed ossa e quindi, non del tutto estranei agli eventi terreni. Uno si distrae, ricordandosi del vero mondo, quello tridimensionale.”
Avevo riposto nella bidimensionale tasca il bigliettino dell’invito. Gli avevo detto grazie e lui di conseguenza si era ecclissato nella rispettiva grotta, come un mollusco sotto il rispettivo scoglio. Gli gridai, sperando che riemergesse dall’antro e mi fornisse altre spiegazioni. Dovevo capire. Le sorprese anche nell’aldilà problematico non mancavano:
“Il Giudizio Finale di Giotto che sulla Terra ho da poco ammirato dov’è finito?”
Nessuno rispose. Gridai più forte:
“Se uno è stato buono o stronzo, è la stessa cosa? Nessuno è qui preposto per il giudizio estremo, quello che una volta emesso è intangibile?”
Rispose la voce di un grande saggio, tipo Socrate o Platone, o Aristotele, o tutti e tre fusi insieme. Da dietro una rupe, dunque disse:
“Ascolta, sono un saggio e ti dico che l’eternità va ripetuta, le generazioni cambiano, gl’individui sono transeunti e nulla si ferma, persino l’eternità. Non c’è un Giudizio Finale definitivo: qui tutto è opinabile e passeggero, anche se nell’apparenza nulla si muove e muta.”
Da un grottino propinquo, una nuova vocina emerse con un’unica, ma assai efficace parola, non so se diretta a me o al saggio:
“Non rompete.” 
Subito dopo la mia meraviglia, risposi con fermezza, come a sparare nel buio:
“Calma.” 
Una nuova voce tossicchiando gridò:
“Le cose che tu dici in questo posto non contano più.”  
Venne avanti un altro omino, alquanto depresso in faccia, sbucato da una delle tante forre in semibuio permanente. Vestiva con pantaloni di lana grigio-chiaro, giacca a due bottoni, aperta sulla pancia debordante e a quanto vidi, scarpe nere e ben lucidate a mano. Mi disse, ragguagliandomi alquanto:
“Vedi? non andare da quella parte.”
Col dito m’indicò delle basse alture verso est. Disse:
“Lì c’è lo sbarramento.”
“Che sbarramento. Anche qui ci sono i confini.”
L’omino fece un fischio e con la mano pendula come un orologio a muro fece intendere di sì, e come! Disse:
"Da quelle parti, c’è la sbarra. Può oltrepassarla chi in terra ebbe un reddito medio di un milione di euro all’anno.”
“E gli altri?”
“Vanno girovagando come te, o s’infilano in una forra e lì rimangono come me.”
“Che c’è oltre lo sbarramento?”
L’omino disse chiaro e tondo:
“Il paradiso.”
Nel sogno mi sembrò di non aver udito bene:
“Che?”
“Oltre lo sbarramento, c’è il paradiso, ma solo per chi superava un dato reddito da vivo. Oltre la sbarra, ci sono belle donne, divertimenti, spiagge deserte, bungalow, yacht, casinò.”
Mi misi a ridere:
“Donne? E che ci fanno con le donne?”
Risposta pronta:
“Ci convivono.”
“Come?”
“Lì, ma solo nel paradiso, c’è la tridimensionalità. Qui no.”
“Incredibile.”
“OK?”
“Suppongo che questo è l’inferno.”
“Logico.”
“E il purgatorio?”
“Non c’è una netta linea di demarcazione purgatorio – inferno.”
L’omino si scocciava, disse ciao e sparì nella sua forra più sconsolato di prima.   Ci fu il silenzio assoluto, come quando non si muove una foglia. Nessuno più si udiva, né su quella specie di suolo grigiastro, né nel livido cielo. L’elicottero da guerra volato via, oltre la catena quasi regolare di calve colline, appena schiarite da un lucore verdognolo e statico.   La voce di prima mi avvertiva:
“Ora svegliati.”
Sbadigliando, aprii gli occhi. Mi ricordavo dello strano sogno che a dire il vero, sembrava più una visione, un breve trapasso in una angosciosa nuova dimensione.