Le foglie dei
platani fuori alla finestra proiettavano sagome in movimento sui muri della
cameretta. Erano ombre amichevoli, che piacevano a Matteo, come le silhouette
delle tapparelle ritagliate dai lampioni notturni. Certo, ci voleva fantasia
per figurarsi che quei trafori fossero la pellicola di un film, ma al ragazzo
l’immaginazione non mancava. Anche quando pensava che a tarda notte venisse a
vegliarlo un enorme lupo su due zampe, per controllare che dormisse dal lato giusto
del letto.
Il pomeriggio
illuminava di una tonalità dorata la collina di Posillipo. Un tramonto
particolarmente lungo stava indugiando dietro le facciate delle case, come se
si fosse impigliato nelle antenne che coprivano i tetti.
«Merenda!
Me-ren-da!» urlò Matteo steso tra i giocattoli sparsi sul tappeto.
Al terzo
imperativo, la mamma entrò nella stanza facendogli cenno con un dito di
abbassare la voce.
«Guarda, che
se continui a starnazzare così, porto via il televisore nuovo e dico al papà di
rimetterlo nella stanza da pranzo. Ricevuto?»
Il ragazzo si alzò in piedi e si fece strada
tra i soldatini e gli albi di Mandrake.
«Posso vedere
la tivù?»
«Hmm. E in
cambio?»
Patteggiarono
per una riordinata della stanza e una mezz’ora di studio dopo il telefilm.
Italiano e geografia. Matteo raccattò svogliatamente il suo esercito, qualche
45 giri dello Zecchino d’Oro e i due Stanlio e Ollio di gomma (orfani di
bombetta) per gettare il tutto nel baule di vimini dei giochi. Nascose poi
sotto al letto il mangiadischi insieme ai giornalini e i sacchetti di patatine
Pai. Infine tirò alla meglio il copriletto su un giacimento di calzini.
L’elenco dei
compiti a casa, occultato da parecchie cancellature fatte ad arte, stava ben
conservato in cartella tra le pagine del diario Vitt.
Gli esercizi
di grammatica potevano aspettare.
Alle cinque e
mezza aveva acceso il televisore e aspettava che il nuovissimo schermo si
riscaldasse riempiendosi di immagini in bianco e nero.
Quel
massiccio “S-M 2000”
lo entusiasmava, essendo il modello più avveniristico e invidiato del palazzo,
forse di tutto il quartiere. Era apparso ai genitori la mattina di qualche
giorno prima, inattesa vittoria di un concorso non bene precisato. Appena dopo
la consegna, aveva finito con lo spodestare il valvolare Philco relegandolo giù
in cantina.
Ora spiccava
in cameretta con quel suo incasso in legno chiaro e bakelite innervata di
rilevi cromati. Per gli adulti era giusto un bel mobile. Matteo invece ne aveva
un idea diversa. Per lui quello schermo rappresentava qualcosa in più che un
semplice nuovo elettrodomestico.
Era il futuro.
Mentre la
sorellina piccola dormiva, Matteo con una fetta di pane e burro tra le mani ed
il nuovo episodio de "La
Frontiera" che
stava per andare in onda, lasciava
che il mondo quotidiano iniziasse a retrocedere
Se la caveranno, sicuro.
Se la cavano sempre, no?
Perché non dovrebbero proprio ora…?
Quello che
più piaceva della Star-Wolf a tutti gli spettatori dai sei ai dodici anni era
che il suo equipaggio uscisse sempre illeso dalle situazioni più assurde.
Non questa
volta, però. Andava male, pensava Matteo. Molto male.
E non pareva
neanche l’unica novità dell’ultima puntata.
L’azione era
partita in quarta un attimo dopo la sigla del programma. Un vero pugno nello
stomaco.
Giusto il
tempo di fare scorrere i titoli di testa, che nello spazio profondo de "La Frontiera" era
schizzata un’astronave grigio scuro mai vista prima. Non era né Kluster, né
Ohigon e pareva avvolta da una rete di luce che crepitava, tallonata a uno sputo
di distanza dalla Star Wolf in pieno assetto di guerra.
Forte!
Chi potevano
essere quegli inseguiti, messi così male in arnese? Non di certo una delle
razze che si contendevano con la Lega Galattica il dominio della Frontiera. I
Kluster col loro cranio bitorzoluto avevano navi diverse, così pure gli Ohigon
e i loro stormi di bianche Libellule metalliche.
Il Commodoro
Stark, apparve sul ponte di comando mentre abbaiava una gran quantità di ordini
nell’interfono.
Intorno,
regnava un’agitazione insolita mentre il personale di bordo si dava da fare
intorno ai quadri di comando. C’erano pochi dialoghi, il pezzo forte della
produzione, molte di più invece le riprese esterne con spericolati movimenti di
camera.
Matteo non
aveva mai visto niente del genere. Si sentiva elettrizzato, aveva la pelle
d’oca. Il suo pane e burro gli era scivolato di mano per finire sul tappeto.
Dalla sala
macchine, l’ingegnere capo Ross sudava macchiando la tuta attillata con grosse
chiazze scure.
Insolito.
Per la prima
volta, si vedeva una panoramica dei suoi famosi “motori Pentatomici”, in genere
soltanto nominati. Era una distesa inquietante di centinaia di prismi e fasci
di cavi e grosse turbine schermate. Su tutto aleggiava una luminescenza
pulsante, simile a quella vista sulle paratie della nave sconosciuta.
Ross chiedeva
tempo al Commodoro per contenere le perdite di energia con una doppia griglia
di protezione. Questo avrebbe sottratto velocità alla Star-Wolf.
Un ghigno
aveva solcato il viso di Stark, solitamente una maschera inespressiva.
«Questo è
l’ultimo dei nostri problemi…» aveva detto. «Con Shademaster che sta per
interferire col nostro piano di realtà, siamo nella merda fino al collo…»
Matteo fece
un salto sulla sedia. La panoramica vertiginosa che scivolava dalla fiancata
dell’astronave fino allo spazio lo strabiliò, non era il solito modellino
ripreso in campo lunghissimo. Assai più sconvolgente fu sentire il Commodoro
parlare con quel linguaggio.
Nessuno si
era mai espresso così in televisione.
Dalla cucina,
la mamma stava tendendo l’orecchio con discrezione. Nessun fracasso, nessun
cozzare di macchinine. Bisognava dire che quel video aveva potere ipnotico. Un
vero e proprio silenziatore, come lo
chiamava suo marito. I bambini non dovevano restarci troppo attaccati, però.
«Matteo,
appena finito il tuo filmino, vai a fare i compiti! Mi raccomando…»
Ovviamente,
silenzio assoluto. Tutto normale.
La signora
Nina non poteva immaginare che il figlio stesse aggrappato al tappeto, perso
nel vortice delle inquadrature acrobatiche. Stava sudando freddo, in una
condizione incerta tra il panico e l’euforia.
Quel che
sembrava un inseguimento, era stato in realtà un salvataggio. Finito male, per
giunta. La Star-Wolf
non ce l’aveva fatta e dentro la plancia l’equipaggio, come impazzito, scorreva
dati sui monitor, digitava comandi. Urlava cose incomprensibili.
Il dottor
Wasp, l’uomo di Vesu 2, si strofinava la testa a punta bestemmiando tra i
denti.
Parolacce! Pensò Matteo, Wow!
«Ho qui un
rapporto del computer di bordo, Commodoro. La falla dimensionale si sta
allargando. E’ colpa di Shademaster .
Non lo conteniamo più.»
«Maledetto bastardo! I raggi beta-D?»
«Negativo,
signore, guardi lei stesso…»
I due
ufficiali, si avvicinarono ad uno schermo. Mostrava una complessa figura geometrica,
una sorta di reticolato, che sprofondava in sé stesso inghiottendosi.
Il
grigio-perla della rete aveva assunto un’impossibile tonalità verdastra.
Contemporaneamente,
le foglie dei platani in strada persero tutte di colore, ingrigendo di colpo.
Un primissimo
piano si strinse fino a mostrare il taglio degli occhi socchiusi di Stark,
mentre mormorava qualcosa di simile a una preghiera. Quando li riaprì
lentamente, il suo secondo ufficiale, insieme a Matteo, mandarono un gemito di
sorpresa.
Gli occhiali
della mamma s’infransero a terra scivolandole improvvisamente dalle mani. La
donna, colta da un capogiro, si puntellò contro un mobile e prese a strofinarsi
gli occhi.
Il cuore le
batteva fortissimo nel l’andare alla finestra a guardare il cielo.
Azzurri come
due zaffiri, gli occhi del Commodoro Stark spiccavano sullo schermo dai toni
cinerei. Guizzando nervosi, si fermarono sul viso alieno di Wasp.
«Il nemico è
troppo forte,» disse asciutto.
Nei meandri nascosti
del televisore brillò una targhetta di metallo fino a illuminare i complessi
circuiti interni.
Sulla
superficie della placca, l’iscrizione in rilievo “SHADEMASTER – modello S-M 2000” divenne di un
vittorioso rosso incandescente.
Dal video,
entrambi gli ufficiali osservarono gli ambienti della sala comando colorarsi
uno a uno.
«Abbiamo
perso, signore.»
«Già. La
nostra dimensione verrà alterata, Wasp, e noi non possiamo impedirlo…»
Sempre più
appiccicato al televisore rutilante di colori, Matteo tremava. Lo spettacolo
era straordinario. Non si rese conto intanto di essersi trasformato.
Intorno a sé,
il cielo, la terra, gli oggetti e le persone (compresa la mamma vacillante nel
corridoio), erano mutati in un mondo uguale a se stesso eppure molto diverso.
Tutto era
diventato bianco e nero.
Bel racconto questo di Fabio Lastrucci, cui diamo un cordiale benvenuto sulle pagine di Pagasus.
RispondiEliminaMolto bello, intenso, avvincente questo racconto di classica fantascienza.
RispondiEliminaG.S.