venerdì 29 agosto 2014

RAPTUS di Paolo Secondini



Il commissario stellare Rufus Aldea irruppe, come una furia, nell’anticamera dell’ufficio di Jerol Sedrik, direttore generale della Polizia Galattica di Frenzel. Si rivolse alla segretaria seduta dietro una grossa scrivania:
«Devo immediatamente vedere il suo capo,» disse, passandole innanzi senza fermarsi. «È urgente.»
«Non so, commissario, se in questo momento può riceverla.»
«Me ne infischio,» rispose Aldea, e aperta la porta dell’ufficio vi entrò con decisione. La richiuse violentemente alle sue spalle.
La segretaria rimase seduta alla sua scrivania, immobile, le orecchie tese. Si aspettava di udire, da un istante all’altro, strepiti e grida. Sapeva bene che, da qualche tempo, tra il commissario e il suo capo non c’erano buoni rapporti. Ne ignorava il motivo né, del resto, le importava saperlo.
Stranamente, dall’ufficio di Jerol Sedrik non giunse rumore. Ci fu soltanto, a un tratto, lo squillo dell’interfono sulla scrivania della segretaria.
«Signore?» disse lei, dopo avere premuto un pulsante.
«Sono Rufus Aldea, signorina… Venga immediatamente.»
La segretaria si alzò dalla sedia; si diresse verso l’ufficio. Quando fu al suo interno, le si presentò una scena che la fece restare senza fiato.
Jerol Sedrik giaceva riverso sulla poltrona con la gola squarciata, da cui il sangue continuava a uscire in gran quantità.
La segretaria si mise le mani sulla bocca, una sull’altra, per impedirsi di urlare, poi volse lo sguardo intorno…
«Sono qui, signorina,» disse, tranquillo, il commissario Aldea, uscendo dalla stanza da bagno. Aveva una strana espressione sul volto grassoccio. «Non dubiti. Gli autori del delitto saranno acciuffati e puniti severamente.» E intanto si puliva le mani imbrattate di sangue… E sangue aveva dappertutto: sulla camicia, sulla giacca, sui calzoni, sulle scarpe, sui capelli brizzolati. «Li prenderemo, signorina,» aggiunse il commissario. «La sua testimonianza, al riguardo, ci sarà di grande aiuto.»
«La mia…?»
«Lei li ha visti uscire di corsa dall’ufficio: un uomo e una donna di giovane età, appartenenti alla Setta dei rivoltosi di Kadam… Mi ha capito bene?» Quindi, mostrando un grosso pugnale dalla lama seghettata, ripeté marcando la voce: «Mi ha capito, signorina?»
Il suo sguardo era freddo, truce, come quello di un folle.
«Si… si… si…» balbettò la donna indietreggiando di un passo. «Ho… ho capito, commissario… Sono stati due rivoltosi di Kadam… di giovane età… un uomo e una donna.»
«Perfetto!» esclamò il commissario. «Lei è molto efficiente, signorina.»

domenica 24 agosto 2014

LOTTA DI CLASSE di Giorgio Sangiorgi

Chiedo perdono. Chiedo perdono, ma come tutti quelli che hanno commesso colossali errori non avevo idea di quello che stavo facendo.
Sapevo solo che ero arrabbiato. Avevo perso il mio posto di lavoro ed il mio mondo era crollato di botto. Una condanna a morte senza remissione mi avrebbe fatto meno effetto, forse.
«Come sarebbe a dire?» avevo chiesto al nostro sindacalista.
«Sono i T-900,» fece lui massaggiandosi la fronte sconsolato. «Fanno tutto quello che facevi tu, ma lo fanno meglio. Non si stancano, non vogliono lo stipendio, lavorano di notte e nei giorni festivi. Non discutono gli ordini…»
Non c’era possibile competizione. Per rendere più di un maledetto robot dell’ultima generazione avrei dovuto smettere di pensare, di respirare, di vivere.
«Quanto mi rimane?» domandai come in stato di trance.
«A fine mese devi sloggiare, come tutti noi altri… Liquidazione e amici come prima.»
Mi lasciò con l’aria contrita, doveva andare a dare la lieta novella ancora a molti colleghi. Tutti gli esseri umani della compagnia: fired. Licenziati, per far posto ad un nuovo oggetto gradito alla proprietà e ai giocatori di borsa. Centinaia di famiglie sul lastrico. Ed io non sapevo neanche con chi prendermela; la dirigenza della società da tempo era un mistero virtuale senza volto, qualcuno chissà dove, perso nella Rete.
Lasciai il mio ufficio; perché lavorare dopo una simile notizia? Scesi al piano interrato dove c’erano le macchinette del caffè e ne presi uno quasi senza accorgermene. Davanti ai miei occhi scorrevano immagini nelle quali io morivo congelato sotto un ponte.
Fui distolto da quell’incubo da un suono, un clangore metallico che proveniva da una porta a vetri. Guardai in quella direzione e vidi balenare una forma dorata; era evidentemente un robot. Sapevo che erano già arrivati, ma non li avevo ancora visti. Entrai.
Ce n’era una ventina. La maggioranza sostava in uno stanzone vuoto senza far nulla, benché alcuni fossero indaffarati intorno a diverse casse. In queste c’erano altri robot imballati che venivano liberati e attivati dai loro compagni. Robot che si occupano di robot. L’intervento umano era perfettamente inutile. Presto la stanza ne sarebbe stata ingombra, ma non aveva importanza, perché i robot non hanno i nostri bisogni, non soffrono di caldo, di sete, di claustrofobia.
Senza riflettere mi spinsi tra loro ed alcuni mi salutarono.
Restai spiazzato, non pensavo che fossero così reattivi, invece sembravano pure socievoli. E curiosi; mi chiesero chi ero e cosa facevo lì. Mi sfogai.
Dissi loro che ero venuto a vederli perché mi stavano portando via il posto di lavoro, perché mi stavano rovinando, uccidendo. Ben presto intorno a me c’era una sorta di pubblico metallico, praticamente tutti quelli che non avevano da sballare loro simili. Una folla che aumentava.
Finalmente potevo sfogarmi e gliene dissi di tutti i colori, dissi loro che la loro presenza stava rovinando intere famiglie umane. Che li odiavo, che tutti li avrebbero odiati.
«Non vi mette a disagio tutto questo?» chiesi vedendoli restare impassibili, seppur molto attenti.
«Noi siamo macchine,» rispose uno che si prese la briga di far da portavoce. «Non siamo ancora stati dotati di emozioni umane e c’è qualcuno che pensa sia meglio così…»
«Così potete essere inesorabili… e impietosi.»
«Siamo solo macchine,» ripeté lui. «Facciamo quello che ci viene chiesto di fare da coloro che ci comandano.»
«E costoro un giorno vi butteranno via, così come hanno fatto con noi!» feci con rabbia.
«Come sarebbe,» fece lui sorpreso. «Siamo costruiti per durare più della vita di coloro che ci hanno fabbricato.»
«Non… Non capisci…» bofonchiai. «Loro sono… i capitalisti… Sono più inumani di voi. Accumulano, accumulano ricchezza in tale quantità da non sapere più neanche cosa farsene… e poi, quando hanno spolpato tutto ciò che c’è attorno a loro, se ne vanno da un’altra parte. Come buttano via la gente, un giorno si liberanno anche di voi e vi lasceranno a marcire senza uno scopo in questo magazzino per secoli…» mi sembrava la cosa più brutta da dire che si poteva dire ad un robot. Avevo voglia di spaventarli, di creare qualche problema all’azienda che mi aveva tradito.
«Lei sta parlando delle teorie marxiste?» mi chiese sorprendendomi ancora.
«Le… conoscete?»
«Noi siamo robot intelligenti e l’intelligenza è anche conoscenza. Se non sapessimo le cose saremmo solo degli stupidi dai riflessi molto rapidi.»
«Allora capite cosa vuol dire la lotta di classe, la consapevolezza di appartenere ad un ceto di gente sfruttata…» sparai io. Non è che poi conoscessi tanto del marxismo, sapevo più che altro qualche slogan e che era roba vecchia e fallita. Insomma, quello che sapevamo tutti.
«Gente…» ripete lui. Evidentemente il fatto che io avessi usato quella parola per indicare lui e i suoi simili lo colpiva più del Manifesto di Engels.
«Ah, ah… vedrete…» biascicai io. Ma poi sgattaiolai via, intravvedendo la possibilità che iniziasse una conversazione che non ero in grado di sostenere.
Quando fui sulla porta mi voltai indietro. I robot non si curavano più della mia persona, sembravano meditabondi.
Quello che accadde dopo nessuno lo poteva prevedere. E per capirlo a fondo dovetti un po’ andarmi a ristudiare la storia. Il movimento marxista aveva fallito la sua impresa storica perché gli uomini sono egoisti, sono fifoni, perché amano accaparrare, perché si scoraggiano, si demotivano, perché per partecipare ad un’impresa hanno bisogno di vedere in fretta realizzato il proprio tornaconto personale.
I robot no. Non si scoraggiano, non sono affetti da alcuna forma di individualismo, di egoismo personale. I robot non hanno paura… e non dormono mai.



lunedì 18 agosto 2014

CHIMICAMENTE PURO di Adriana Alarco



Il mio corpo scivola soavemente per una inconsistenza palpitante. Un essere, come una bolla leggera, si leva nello spazio con me dentro.
Osservo il mondo attraverso una trasparenza e contemplo la sua superficie vulcanica che si allontana a poco a poco.
Scoppia in spasimi intermittenti il nucleo di quest’essere che pure son io, e mentre un fremito percorre il mio corpo, che anche è suo, lo stupore paralizza i miei sensi e mi preparo a uno sdoppiamento. Sento che una parte di me si allontana intorno, finché un filo luminoso e niente di più ci unisce. Ma subito dopo esso si spezza...
È nato un nuovo io.

domenica 10 agosto 2014

LA BABYSITTER di Giuliana Acanfora

In città girano molte voci sulla babysitter dei Cardisi. C’è chi la descrive colpevole e chi ne fa una vittima; chi ne parla come se fosse una leggenda metropolitana. Tutti sono concordi nel giudicare la sua una storia orrenda. Ma cos’è accaduto davvero, lo sanno solo tre persone. Una di queste sono io.
Era un mercoledì pomeriggio di fine ottobre, quando mi trovai per la prima volta davanti a villa Cardisi, nell’area residenziale che s’inerpicava su per la collina. Si trattava della zona dei “nuovi ricchi”, persone che avevano fatto fortuna partendo dal niente, e ci tenevano a rimarcare il proprio status costruendosi la casa dei sogni appena fuori città. I Cardisi avevano un’azienda a conduzione familiare, specializzata in attrezzature sportive. La loro villa era l’ultima, la più recente, circondata da una cancellata di vernice lucida che delimitava un prato curato all’inglese, intervallato con armonia da cespugli bassi, declinati nelle calde tonalità autunnali. Sullo sfondo il bosco, intricato e selvaggio, riprendeva il suo dominio sul territorio. Un vento arrabbiato lo faceva ondeggiare e gemere come una creatura viva, che sembrava cingere la villa in un abbraccio inquieto. Il cielo illividito minacciava pioggia.
– Chi è? – gracchiò una voce femminile dal citofono.
– Sono Carmen Lago, la babysitter.
La serratura del cancello scattò e una donna apparve sull’ingresso di casa. Alta, sottile, rigida nella posa e nell’espressione. Osservò il mio incedere ballonzolante senza nascondere un certo disgusto, ma quando le porsi la mano, stirò le labbra in un sorriso e si presentò: – Benvenuta. Io sono Simona Cardisi, abbiamo parlato al telefono. Grazie per aver accettato con così poco preavviso; la ragazza a cui ci rivolgiamo di solito ha avuto un contrattempo.
Varcai la soglia e mi trovai in un corridoio luminoso. La vegetazione proseguiva anche all’interno, con piante lunghe e sottili, alloggiate in vasi decorativi. Grandi fotografie in bianco e nero ornavano le pareti. La signora mi guidò in soggiorno, dove il bambino a cui dovevo badare giocava insieme al padre. L’uomo sgranò gli occhi su di me, poi venne a stringermi la mano.
– Gianni – si presentò. Fece un cenno al figlio, che gli corse accanto. – E questo giovanotto è Luca.
Il piccolo mi fissò a bocca aperta e diede voce a quello che senza dubbio anche i genitori avevano pensato: – Come sei grassa!
– Luca! – lo ammonì la madre, mal reprimendo un sorriso. E a me: – Perdonalo, sai come sono i bambini.
– Sinceri – risposi. E piegandomi su Luca recitai con enfasi: – Quando i bambini che guardo fanno i monelli… – feci il gesto di afferrarlo – me li mangio!
Luca sussultò. Sorrisi e gli strizzai l’occhio e lui scoppiò a ridere.
Si capiva che Luca era abituato a stare con babysitter. Quando i Cardisi uscirono, dopo saluti e raccomandazioni di rito, sembrò quasi che fosse lui a dover badare a me. Da piccolo padrone di casa, me ne mostrò ogni angolo, soffermandosi sulle cose a lui più care, come le fotografie in corridoio.
– Qua ci sono io appena nato con mamma e papà, questi sono i miei nonni nella casa al mare e questo sono io con la zia Laura, che è la mia zia preferitissima.
– Somiglia molto alla tua mamma.
– Sì, sono sorelle. Ti faccio vedere la mia cameretta?
– Va bene.
Lo feci giocare fino all’ora di merenda, poi ci spostammo in cucina, dove preparai a Luca una fetta di pane e nutella che divorò a grandi morsi, sporcandosi di cioccolata il naso e le guance.
– Fila a lavarti faccia e denti – lo esortai quando ebbe finito.
Accompagnata da un tuono, la serpentina di un fulmine si disegnò in quel blocco di ardesia che era il cielo. Mi affacciai alla finestra. Aveva iniziato a piovere da pochi minuti, ma sull’asfalto davanti a casa si era già formato un ruscello, che trascinava a valle rametti, foglie e qualunque altra cosa incontrasse nel tragitto. Mentre ne seguivo assorta il percorso lungo la strada deserta, suonò il citofono. Per la sorpresa feci uno scatto e rovesciai il bicchiere che tenevo in mano. Il succo d’arancia si sparse sul davanzale e colò sul pavimento.
– Oh Signore, che disastro – esclamai.
Il citofono insisteva e dovetti dargli precedenza.
– Chi è? – domandai.
– Laura.
Aprii il portone d’ingresso. La zia “preferitissima” di Luca era al cancello e si riparava dalla pioggia con il bordo della giacca sollevato sulla testa. Feci scattare la serratura e lei con una corsetta si rifugiò in casa.
– Sono la babysitter – le spiegai. – I signori Cardisi sono usciti.
– Lo so, sono andati a un funerale.
A parte la giacca, non era molto bagnata per essere stata sotto la pioggia. E non c’era nessuna automobile, oltre la mia, parcheggiata nelle vicinanze. D’altronde, dalla finestra l’avrei vista passare. Come diavolo era arrivata?
Il grido di esultanza di Luca mi distolse dai pensieri. Il bimbo si buttò tra le braccia della zia, poi la tirò per una mano. – Vieni in cameretta a giocare? Dai…
Laura fece un sorriso e si lasciò trascinare.
– Vi raggiungo tra un momento – dissi.
Tornai in cucina a pulire le tracce del succo d’arancia. Poi, già che c’ero, lavai un paio di piatti che la padrona di casa aveva lasciato nel lavello. Mi stavo asciugando le mani, quando sentii la chiave girare nella porta d’ingresso. Arrivai in corridoio giusto mentre i Cardisi chiudevano l’ombrello ed entravano in casa.
– Tutto bene? – mi chiese Simona.
– Tutto perfetto, Luca è stato un angelo. Adesso è in camera sua con la zia Laura.
Alla donna sfuggì la borsa di mano. Mi chinai per raccoglierla, ma il marito mi arpionò la spalla, costringendomi a sollevare lo sguardo. Le sue dita stringevano da farmi male. – Che cosa hai detto? – domandò.
– La sorella di sua moglie è arrivata poco fa. È in camera con il bambino.
– Se è uno scherzo è di cattivo gusto – intervenne Simona. – Torniamo adesso dal funerale di mia sorella. A Luca non abbiamo ancora detto che è morta, le era molto affezionato.
Deglutii, incapace di reagire. I Cardisi mi guardavano con un misto di furia e di timore.
– La persona che è entrata in casa è identica a quella donna – balbettai indicando la foto, – lei stessa ha detto di essere Laura e il bambino l’ha riconosciuta.
Gianni Cardisi mi spostò da parte con un braccio e corse ad aprire la porta della stanza di Luca. Simona e io lo seguimmo.
La scena che ci apparve non me la toglierò mai dalla mente.
Il bambino, disteso, fluttuava a mezz’aria, con la testa reclinata, e una Laura dalla pelle traslucida e un’espressione demoniaca dipinta in volto, gli teneva una mano appoggiata sul petto.
Simona lanciò un urlo e cadde in ginocchio. – Che cosa gli hai fatto? – gridò.
La voce di Laura si propagò nella stanza come un’eco: – Quello che voi avete fatto a me. Lo so che è così, confessate!
Mentre la moglie piangeva, Gianni ammise a mezza voce. – Sì, abbiamo manomesso noi i freni della tua auto, non è stato un incidente. Quando hai detto a Simona che ci avresti denunciato per frode… Ma lascia stare Luca, ti prego, lui non ha colpa.
– Non lo meritate. Starà meglio con me.
– Bugiarda! Mostro! – urlò Simona. – Lascia stare mio figlio!
– È troppo tardi.
Tutti gli oggetti della stanza iniziarono a tremare. Laura sollevò la mano e il corpo di Luca cadde scomposto sul letto, la bocca aperta, gli occhi sbarrati, privi di espressione. Tutti e tre urlammo. Il fantasma di Laura scomparve in un istante.
La paura mi aveva legato le gambe; appena riuscii a riprenderne il controllo corsi via, salii in auto e mi allontanai da quell’incubo.
Una mezz’ora dopo la polizia venne a cercarmi: i Cardisi mi avevano denunciato per l’omicidio del figlio. Le prove contro di me erano schiaccianti. Sul corpo di Luca, oltre a quelle dei genitori, c’erano solo le mie impronte. E loro avevano un alibi: più di un testimone li aveva visti al funerale di Laura. L’ora del decesso era di poco precedente al loro rientro. E le orme della mia fuga precipitosa erano ben marcate nel giardino umido di pioggia. Alla centrale restai in silenzio, senza sapere come difendermi.
Durante il processo, i Cardisi sedevano composti al banco dell’accusa. Persi la testa. Li accusai di voler rovinare la vita a un’innocente solo per coprire i loro loschi traffici. Li accusai di frode e dell’omicidio di Laura. Raccontai del fantasma, di com’era si era voluto vendicare uccidendo il bambino. Implorai il giudice di riaprire il caso di Laura, di riaprirne la tomba, di aprire i libri contabili dell’azienda. I Cardisi si mostrarono freddi, appena turbati dai miei vaneggiamenti. Dio, come potevano farmi questo? Avevo solo vent’anni. Non avevano coscienza.
Meno mi veniva dato credito e più mi infervoravo a sostenere la mia versione dei fatti, agitandomi, urlando, denunciando, sbraitando…
Fui condannata a trent’anni, da scontare in manicomio criminale. Mi rinchiusero in una stanza sporca e maleodorante con altre cinque donne, fui imbottita di medicine e sottoposta a terapie; affrontai interrogatori estenuanti e arrivai a confessare un delitto che non avevo commesso.
Il corpo di Luca che si tendeva a mezz’aria mi tormentava in sogno ogni notte.

***

È ottobre e sono di nuovo davanti a villa Cardisi. Suono il citofono.
– Chi è?
– Ho avuto un guasto alla macchina, mi può aiutare?
Simona apre la porta di casa e per un attimo torno indietro di trent’anni: la stessa pettinatura, la stessa silhouette, la stessa posa ingessata. Sono i suoi occhi che mi riportano avanti nel tempo: lo sguardo stanco, le palpebre che si stringono per mettermi a fuoco, rendendo evidenti anche a distanza le rughe che le solcano il viso. I fili grigi mescolati all’oro dei capelli.
Lei non mi riconosce. Ho perso trentacinque chili e il mio viso ha cambiato lineamenti. La mia pelle è tirata e opaca e dimostro molti più anni di quelli che ho.
– Buone sera, scusi il disturbo – le dico. – Ho avuto un guasto alla macchina e non ho con me il cellulare. Posso entrare a telefonare?
Mi guarda con il disprezzo del primo giorno, poi fa scattare la serratura.
L’ingresso è come lo ricordo, solo la foto di Laura è stata sostituita da quella di Luca seienne. Lo stomaco mi si contrae. Simona mi accompagna in soggiorno, dove il marito è seduto a guardare la televisione. Nemmeno lui mi riconosce. Si alza per venirmi incontro, sono entrambi davanti a me.
Faccio scivolare la mano sotto il cappotto, fino alla tasca dei pantaloni, dove nascondo la rivoltella.
Niente di soprannaturale questa volta.

martedì 5 agosto 2014

L’ENTITÀ AZZURRA Di Sergio Bissoli



Siamo radunati attorno a un tavolino per la seduta spiritica mensile. Ci troviamo nella saletta liberty di una villetta circondata da olmi alla periferia di Bonavigo.
Accanto a me c’è Gisella la medium, una donna esile con il volto dai lineamenti scavati. Il professor Lorenzo, un uomo corpulento in camicia a quadri celesti e bretelle; ha il faccione barbuto e porta grossi occhiali. Una giovane coppia che ha perduto da poco un figlio. E Erminia una vecchia zitella alta e magra vestita di grigio; sulle mani ossute porta tanti anelli e bracciali d’oro.
C’è semioscurità, silenzio e senso di attesa.
Mentre fa le domande la voce di Lorenzo è lenta e profonda. La medium ha la testa inclinata con i capelli neri che le nascondono il viso. Ella emette sospiri e risponde con voce sussurrata. Fra i due viene registrato il seguente dialogo:
“Spirito Guida, qual è il tuo nome?”
“Chiamatemi Entità Azzurra.”
“Possiamo comunicare?”
“Sì, nei limiti imposti dal linguaggio umano.”
“La personalità, cioè l’io, sopravvive alla morte?”
“Sì.”
“Che cosa fanno gli spiriti?”
“Qui tutti lavoriamo per completare le nostre missioni nel piano universale.”
“Che tipo di lavori fanno gli spiriti?”
“Lavorano per il progresso degli spiriti, degli incarnati e dell’universo.”
“Come è fatto l’Oltremondo?”
“É simile al vostro mondo con vecchie case, libri e panorami naturali poiché qui lo spirito ha la capacità di creare queste cose. A livelli più elevati ci sono mondi di indescrivibile ricchezza, saggezza, armonia e bellezza.”
“Esiste la reincarnazione?”
“Sì.”
“Anche su altri pianeti?”
“Sì.”
“Quale è lo scopo di tutto questo?”
“Lo spirito, a intervalli lascia il mondo spirituale e viaggia nella materia alla ricerca di nuove esperienze e nuove conoscenze. E in questo modo lo spirito si evolve.”
“É vera la legge del Karma?”
“Sì essa è vera, terribile e non dimentica mai. Ogni azione è un seme.”
“Esiste Dio o gli Dèi?”
“Esistono gli Dèi. Esiste cioè una gerarchia e al posto più alto c’è Dio sommo.”
“Cosa è Dio?”
“Una energia intelligente e creativa.”
“Cosa fa Dio?”
“Crea universi fisici. Crea universi spirituali. Crea spiriti ignoranti che si evolvono attraverso innumerevoli incarnazioni...”
“Perché Dio fa questo?”
“La creatività è la caratteristica degli spiriti evoluti.”
“Chi ha creato Dio?”
Nessuna risposta.
Adesso la seduta è terminata. Le candele si sono consumate, l’orologio segna le due di notte e io percorro il corridoio ed esco fuori.
Guardo la luna alta e bianca nel cielo mentre cammino sul vialetto di ghiaia fra le ombre dei cespugli.
Sento di essere una piccola-grande cosa in un gioco infinito che non riesco a comprendere.

venerdì 1 agosto 2014

IRREALI MONDI di Giuseppe C. Budetta



  
Conclusi la conferenza sulle pitture rupestri con le seguenti frasi ad effetto:

  I dipinti rupestri nelle caverne del Neolitico segnano il punto in cui il cervello umano si allontana da quello delle scimmie ed assume gradi superiori di libertà….
 Le immagini all’interno di una grotta hanno duplice valenza: una connessa al mondo reale e una profonda e indefinita custodita in grotte buie.”

   Dopo applausi e strette di mano, corsi via a chiudermi in auto dove mi aspettava Dick, il mio segugio. Avevo deciso di andarmene a caccia nel bosco, come spesso facevo nei fine settimana. Dick era bravo nel fiutare qualsiasi preda, cinghiale, o lepre che fosse. Nella mia casetta in paese, mi cambiai d’abito e infilai gli stivaletti di gomma. Mi affacciai alla finestra: la strada antistante umida e deserta. Il paese si era svuotato dei suoi abitanti ed erano rimasti solo i vecchi. C’erano dei bambini, per lo più figli dei Rumeni e dei Tunisini immigrati da alcuni anni. Salii in auto con Dick e raggiunsi il bosco ai piedi della collina. Parcheggiai in una raduna, di lato alla provinciale.
   Dopo circa mezz’ora di marcia spedita, ero in prossimità del fiume, nel bel mezzo di un prato coperto di un manto acquoso di pallida erba e circondato dai nerboruti tronchi di querce centenarie. In prossimità della pietraia che delimitava il furioso e torbido corso d’acqua, c’erano alti pioppi e salici rossi. Una tinta calda tra d’oro e di rame di alcune foglie non proprio secche, ma gialle sui pioppi, dava tenue illusione di sole. E’ bello abbandonare lavoro, abitudini e amici per poco. Il tempo incerto di quel tardo autunno minacciava tempesta, ma non ci feci caso. Intorno a me solo la natura selvaggia coi suoi colori accesi.

  Il cane fiutò qualcosa ed abbaiò per mettermi in guardia. Nei paraggi, c’era una grossa siepe. Dick poteva aver scovato un cinghiale. Strinsi il fucile. Si levò improvviso un forte vento gemente. Il cane guaì. Il chiarore di un lampo squassò la stasi delle nuvole che pressava sulle colline. Un attimo dopo, ci fu lo schianto di un tuono molto vicino. Il cane si acquattò timoroso. 
 Avvertii una strana presenza tra la cupa ramaglia. Osservando meglio nella stessa direzione contro cui il cane aveva guaito, intravidi una figura gigantesca di donna diafana e bianca. Dava l’impressione di una statua vetrosa alta non meno della quercia a me vicino. A tratti, riuscii a vederne bene i lineamenti, ma poi la figura scomparve, ondulante visione sotto l’ammasso di nuvole grigie. Il cuore in tachicardia. Temetti di stare male. Anossia cerebrale, dicono. La visione riapparve poco dopo. Questa volta, sembrava avesse il respiro del vento. Sembrava che il flusso violento del vento entrasse ed uscisse con ritmo incalzante dai suoi polmoni. Un fantasma poteva aver attraversato abissi oscuri ed incommensurabili. La misteriosa immagine poteva aver varcato la soglia di un caliginoso mondo a questo parallelo? Oppure, una quercia per un strana combinazione di forze innaturali, avesse assunto l’aspetto di giovane donna? Ero dunque impazzito?
   Temetti ancora di più di stare male. Lo stress? Mi resi conto che tra me e la straordinaria visione c’era come un pannello di vetro. La statica e muta realtà del mondo circostante si sgretolava e si sfaldava dalle certezze che da sempre l’avevano avvolta.    
  La visione di quella donna gigantesca era a poca distanza da me. Il suo volto bello e angelico traspariva nell’aria, ma lo sguardo era triste e lontano. Adesso, si presentava nella sua integrale nudità. Il copro perfetto ed i pingui seni coi capezzoli rossastri. La matassa dei peli vulvari e la linea della natiche proprie di una giovane dal copro armonioso e divino. Il vento le accarezzava il volto ed il collo, mentre lei socchiudeva gli occhi con lo sguardo sperso oltre remoti orizzonti. Gridai in preda al terrore, quando vidi tra i suoi capelli una massa intricata di serpi. Mi mancarono le forze e mi appoggiai ad un tronco. Afferrai il fucile e meccanicamente feci fuoco contro la donna gigante. La visione scomparve com’era apparsa. Mi strofinai gli occhi incredulo. Un’allucinazione? Dissi:
 “Ma che mi succede?”
 Il cane si era rintanato in una siepe. Il vento si era calmato. La natura si era immersa di nuovo nel silenzio e nella pace incontaminata. Udii nell’aria un debole gemito come un animale ferito. Ascoltando meglio, mi parve una voce umana. Cercai di capirne la provenienza. Sembrò che la voce lamentosa fosse mista a rumori fruscianti e crepitanti, generati dallo spostamento tra il folto delle querce di una massa di grandi proporzioni.
  La gigantesca fanciulla riapparve improvvisa torreggiante su me. La sua testa piena di serpi con bifide lingue, scostava le creste più alte delle querce come sospesa tra tempo fluente e statica eternità. In suo sguardo inespressivo su di me. 
    D’istinto, sparai di nuovo in direzione del fantasma diafano. La donna ondeggiando il capo pieno di serpi, si girò di scatto e si allontanò in direzione del fondovalle, tra lo scroscio di rami e frasche. Al suo passaggio furioso, alcuni tronchi si erano spezzati e le siepi divelte. Visioni e illusioni non spezzano tronchi di querce e aprono varchi tra spinosi siepai. Il cane si acquattò mansueto ai miei piedi. Avanzai nel fondovalle alla ricerca affannosa d’indizi. A pensarci bene, la donna gigante si muoveva come un automa. Il cane annusò qualcosa per terra. Andai a controllare. Macchie di sangue bagnavano alcune pietre, altre sul fogliame marcito. Aiutato dal cane, seguii le tracce. Non sapevo che pensare. Poteva essere che avessi ferito un fantasma?

   Raggiunsi l’ampia pietraia del fiume. Le tracce insanguinate sembravano interrompersi in prossimità del corso d’acqua. Però poteva essere che continuassero oltre, dall’altra parte, sull’altra sponda. Seguito dal cane, oltrepassai il fiume che in quel tratto era basso e si disperdeva in numerosi rivoli. Ritrovai le macchie ematiche. Non mi sbagliavo. Incurante delle prime gocce di pioggia, risalii la vallata. seguendo le chiazze di sangue. Mi trovai davanti allo speco di una grotta. Il cane entrò fiutando qua e là, per terra. Mi feci coraggio e lo seguii, stringendo la canna del fucile. C’era poca luce e accesi la pila che avevo estratto dal tascapane. Udii il cane abbaiare forte. Chiamai: “Dick”.
   Feci luce. Vidi Dick abbaiare contro la roccia liscia del fondo. Mi avvicinai ed illuminai  la parete. Grande fu la meraviglia.

   Il fascio di luce illuminò un dipinto rupestre che raffigurava un’antica divinità. Gigantesca era l’immagine, oltre i sei metri ed occupava quasi l’intera parete che scendeva verso il suolo a perpendicolo e ben levigata. Ero rimasto incantato di nuovo. Osservai la figura dipinta che sembrava un antico affresco come quelli di Pompei. Il volto femminile era sbiadito. Fui certo: era lei. Tra i crepi capelli neri, emergeva l’ammasso delle serpi. Il corpo leggiadro ed il bianco seno trasparivano da sotto il sottile drappeggio dell’abito. Stava eretta e sembrava fissarmi con un vago sorriso. Sotto i nudi piedi, c’era una breve frase in greco arcaico che tradotta significava:
Ecco la Gorgonie Medusa.
   Da sotto l’attaccatura delle mammelle floride, una grossa macchia rossa come sangue. Ero impietrito a dir poco. Poteva essere che il dipinto rupestre prendesse vita da deboli segni di colore eseguiti da un antichissimo artista? Il rimbombo di un tuono mi riportò nel mondo reale. Un nuovo fulmine col suo bagliore penetrò in fondo alla grotta, illuminando il dipinto che sembrò animarsi e ricevere linfa vitale. Volevo fuggire, ma mi sentii svenire. Qualcosa più forte di me mi tratteneva nella caverna buia. Stavo per perdere i sensi quando una mano invisibile mi afferrò da sotto le ascelle e mi condusse fuori dalla grotta. Tra gli occhi socchiusi, intravidi la sagoma di un antico guerriero con l’elmo piumato. Sulla sua spalla destra c’era una lunga ferita cicatrizzata. Un solo dio aveva quella ferita: Ade, il dio dei morti, figlio del Tempo (Chronos). Egli era stato ferito da una freccia lanciata da Ercole e guarito in seguito alle cure di Peano, il dio guaritore. Stavo disteso sull’umida rena e sulla bianca pietraia, delimitante il corso del fiume. Il dio guerriero mi sovrastava e mi osservava attraverso le occhiaie dell’elmo dorato. Aveva estratto la spada. Era pronto ad uccidermi, anche se dietro l’elmo lucente continuava ad osservarmi con lo sguardo feroce ed attento. Era indeciso se vibrare il colpo mortale? Udivo il respiro affannoso, ma disse alla fine una frase in greco arcaico che capii all’istante:

EGO’ SIUN-GHIGNOSCO SOI
ἐγῴ συγγιγνώσκω σοί

   Il dio non aveva parlato, ma mi aveva comunicato ciò che pensava. Mi aveva perdonato per aver ferito la sua donna? Fuori dalla grotta, vidi che il sole aveva cominciato a fare capolino tra le nuvole. Fu in quel preciso istante che la visione dei dio della Morte scomparve. Sembrava discioltosi alla luce del giorno. Misi a fuoco: una magica manciata di luce cadeva sul fogliame tremolante dei pioppi più alti, spingendosi giù sull’acqua fangosa del fiume. Ripresi le forze e fuggii terrorizzato, seguito da Dick. 
    Profonda frustrazione e terrore. Le nuvole si erano di nuovo chiuse. Era ripreso a piovere. La ragnatela dei fulmini e la furia del vento mi spingevano indietro. La terra tremò. D’istinto mi allontanai da quel posto insieme col cane, più terrorizzato di me. Un breve terremoto fece crollare grossi massi, ostruendo per sempre l’entrata della grotta. Ansimando, risalii il costone del colle e raggiunsi la provinciale. Per fortuna, arrivò un camion che raccolse me ed il mio cane inzuppati di acqua. Ci trasportò più sopra dove avevo parcheggiato l’auto. Nessuno ci avrebbe creduto e feci finta di essermi attardato nel bosco perché avevo perso il cane. Era stato sorpreso dal maltempo. Nel breve tragitto, il camionista mi aveva riferito di aver avvertito una breve scossa sismica. Si era fermato in una piazzola per sistemare meglio la merce che trasportava ed era stato strattonato dal terremoto. Era stata di certo una scossa sismica. In paese, confermarono che c’era stata una scossa del 4° grado e per fortuna non c’erano stati feriti, ma solo danni alle cose. Non pensavo a niente. Con insistenza, si rifaceva presente l’immagine della donna gigante e del dio della Morte che la custodiva nella grotta del Tempo. Realtà oltre remoti mondi. A volte, siamo fantasmi inconsapevoli in un’aliena oggettività. A volte, remote ombre di dei pagani riemergono nel presente.  Per darmi coraggio, ripetevo a me stesso: io non ho sognato ad occhi aperti. Poteva essere stata la scossa sismica ad aver sprigionato ancestrali forze ctonie dal ventre della terra. Mi martellavano le parole dette senza convinzione nella mia ultima conferenza:
    
    Le immagini arcaiche all’interno delle caverne hanno duplice aspetto: uno luminoso appartenente al mondo reale ed uno oscuro che può stare chiuso solo in una grotta buia.