venerdì 28 novembre 2014

UN DRAMMATICO RISVEGLIO di Paolo Secondini



(Molto liberamente ispirato a La metamorfosi di Franz Kafka)

«Oh, povero me! Me infelice, me misero, me sfortunato!» si lamentò, una mattina, il giovane Gregor Samsa, il quale, svegliatosi convulsamente da un sonno inquieto, si vide mutato in uno scarafaggio. «Cosa ho fatto per meritare questa disgrazia? Che sarà di me, della mia vita, dei miei sogni?... Condannato a essere un disgustoso, orrendo coleottero!»
«Ehi, dico, non cominciamo a offendere!»
«Chi… chi ha parlato?» balbettò l’infelice giovane.
«Io… tu… cioè noi…» si impappinò lo scarafaggio.
Samsa si guardò un momento l’addome, essendo disteso sul dorso.
«Non sono te, io, sia ben chiaro,» protestò risentito.
«Tu non sei me?!» esclamò, stupito, il coleottero. «E io chi sono, secondo te?»
«So soltanto che io sono io e tu sei tu. Null’altro!»
«Ma se io sono fuori di te, nel senso che ti ricopro interamente col mio corpo, e tu sei in me…»
«Sono in te, non c’è dubbio,» lo interruppe Gregor, «ma ci vuole una bella faccia tosta a dire che sono te.»
«Come, come?» disse lo scarafaggio muovendo freneticamente le zampette. «Affermi, dunque, che sei in me ma non sei me?»
«Proprio così!» esclamò il giovane con decisione. «Non sono te, anche se, lo ammetto, sono in te. E tu, mio caro, non puoi sentirti me, dal momento che tu e io siamo profondamente diversi. Noi, dunque, siamo io e te: con l’esattezza io in te, tu fuori di me, o meglio, tu il mio corpo (non posso negarlo, purtroppo!), io ciò che lo anima; insomma, tu e io… io e te… tu… io… noi…» Rimase di colpo in silenzio, poi, con voce straziante: «Kafka, Kafka, sbroglia questa matassa, maledizione!»

mercoledì 26 novembre 2014

LUIS di Peppe Murro



Sapeva che doveva morire. E non era, come capita a molti, perché il suo corpo sfamava il tumore che lo divorava, né per il gesto cieco e incomprensibile di un dio distratto. Nè per un cuore stanco dei suoi giorni: chi lo avrebbe ucciso lo stava in quel momento guardando, dritto davanti a lui, dietro una cicca di sigaretta quasi incollata ad un bocchino d'osso nero, gli occhiali scuri semicoperti da una visiera militare. È il mio boia, pensò, dopo essere  stato il mio infaticabile torturatore.
Lo guardava e i suoi pensieri  tumefatti quasi si rifiutavano di ricordare le torture e quella faccia sfigurata e soddisfatta nel dargli dolore, quelle labbra serrate come lame: botte, manganello, scosse elettriche... neppure ricordava le sue urla, le mille volte che aveva chiesto a quel dio impietoso di farlo morire senza altro dolore. Ora era finita, lo vedeva dal suo sguardo, lo sentiva dalle spinte di chi col calcio del fucile gli imponeva di sbrigarsi.
 Forse fece un grosso respiro, forse fu solo un desiderio: fuori, respirare, libero...fra poco sarebbe stato finalmente libero, sarebbe sfuggito per sempre ai suoi aguzzini, non avrebbe più sentito né dolore né paura. Anche se a questa aveva rinunciato da tempo, da quando chiese perché? e nessuno gli diede risposte; anzi, la sola risposta fu un calcio di fucile in faccia. Capì allora di essere solo una preda, un animale che per qualche ragione andava al macello. Ma lentamente, come usavano promettere i suoi carcerieri.
Non c'erano più voci, nessuno più si lamentava. Quel buio di muri era popolato di morti che respiravano, in attesa di essere cancellati anche come morti.
 Lo traversò di colpo il ricordo dei suoi banchi di scuola, di come bisbigliavano nel piacere del proibito, quando quella maestra, consumata dietro gli occhiali  e lo stesso vestito di ogni giorno, si voltava dall'altra parte; si ricordò di come gli battevano le tempie, mentre fuggiva tra i giardini dell'università e grida rozze e rauche  lo inseguivano; ricordò il sapore del terriccio in bocca e il peso degli stivali sul collo fino a togliergli il respiro.
 Si ricordò che stava morendo, con altri agnelli pasquali offerti in sacrificio alla belva...viva la libertà, io sono libero , si disse come per sfida o per consolazione, ma moriremo tutti, senza vendetta, senza giustizia.


L'ultima cosa che vide, prima che i farmaci lo stordissero, impedendogli persino l'ultimo grido, fu un aereo in disparte e una fila di vittime disperate che venivano spinte dentro un container. Ci seppellirano lì , pensò, perché non abbiamo più storia. Avremo nomi muti, nomi d'acqua e di vento, ma io sono Luis...


Stava per morire, i pensieri si offuscavano. Chinò la testa.
 Si disse piano, lentamente, con tutta la forza che poteva: io sono Luis, io sono Luis, io sono...
Il container affondò subito nel buio.

Sotto, l'Atlantico  ululava di burrasca alle creature marine, ai mostri umani.


lunedì 24 novembre 2014

UN NUOVO MONDO di Adriana Alarco



Era giunto il momento di tornare. La nave non accendeva i motori e Cristoforo pensò che sarebbe stato più facile con le vele alzate e un vento buono, come in altri tempi.
Dall'altra parte del mondo conosciuto, aveva scoperto le terre vergini, se terra si può chiamare un suolo ricoperto d'oro e argento. Quello sarebbe potuto essere un verziere, ad aver gli occhi buoni per trovare terreni arabili, mani per piantare e schiene forti per caricare.
Cristoforo fece ritorno a casa e parlò della sua scoperta. Poco più tardi, arrivarono su Marte i robot a ridurre in schiavitù qualsiasi tipo di vita che avesse mani, occhi o schiena.
Così, il nuovo mondo si trasformò in un campo di battaglia e i morti concimarono la terra.

sabato 22 novembre 2014

PER UN MIRACOLO di Giuseppe Novellino



   
  Gli spari cessarono.
     Henry Booth si sedette sul pavimento, la schiena appoggiata alla parete e lo sguardo rivolto all’interno del locale. Teneva fra le mani il suo Winchester ancora caldo. Aveva gli occhi arrossati, pieni di rabbia e di pianto.
     Dalla piccola stanza adiacente veniva il lamento di Diana. La moglie stava prestando le sue cure alla piccola April, ma le parole si erano trasformate in singulti e gemiti. Alla finestrella dello stesso locale era appostato Keith, il dodicenne primogenito. Maneggiava con abilità una vecchia doppietta, dando filo da torcere agli assalitori.
     Un gruppo di apaches della banda di Chokon aveva circondato la piccola fattoria. Non erano più di una decina. Due erano caduti già sotto il fuoco dei difensori, ma gli altri erano vivi e vegeti, pronti a dare l’ultimo assalto.
     Henry considerò la situazione e pensò che doveva vendere cara la pelle e quella dei suoi famigliari. Per la piccola April c’erano ormai poche speranze. Lo aveva capito subito quando, due ore prima, l’aveva portata in casa fra le braccia. La bimba, che stava dando da mangiare alle oche, era stata colpita da una delle prime pallottole indiane.
     Gli uomini di Chokon erano sbucati dal rado boschetto lungo il torrente, dove avevano lasciato i cavalli. Forse erano ubriachi. I Booth erano riusciti a chiudersi in casa e avevano cominciato a difendersi.
     Ora gli apaches erano diventati più prudenti.
     - No, mio Dio, noo! – gridò Diana.
     Henry rivolse un’occhiata furtiva alla finestra dai vetri infranti e poi raggiunse la moglie.
     - È morta, è morta! - gridava la donna.
     Keith scoppiò a piangere.
     April era distesa sul lettino. La sua lunga treccia color del miele le scendeva sul vestitino verde, qua e là sporco di terriccio.

     Erano sulla sommità della collina, quando il giovane sottotenente Branch alzò il braccio destro e ordinò di fermarsi.
     Da quell’altura si vedeva l’ondulata pianura verso Santa Fè, la città alla quale era diretta la pattuglia di quindici cavalleggeri, proveniente da Fort Stanley.
     Ritti sui loro cavalli, i soldati osservarono il panorama. Due falchi si inseguivano in un cielo azzurro e limpido. L’aria, in quel punto, era gradevolmente ventilata; la calura della giornata estiva era più sopportabile.
     - Caporale – disse Branch al militare che gli stava accanto, - facciamo qui una breve sosta. Voglio arrivare in città prima di sera.
     - Signorsì, signore – rispose il graduato, togliendosi il berretto per asciugarsi il sudore dalla fronte.
     Cavalcava con loro un certo Samuel Scott, sensale nel settore bestiame. Approfittava della scorta di quel drappello per viaggiare sicuro fino a Santa Fè. Con la banda di Chokon in circolazione bisognava essere prudenti.
     - Sapete meglio di me, tenente – aveva detto a Branch prima di aggregarsi a loro, - che quei maledetti Apaches stanno facendo colpi di mano sempre più vicino alla città. Da quando è iniziato questo benedetto 1879, ne hanno già combinate di tutti i colori.
     Smontarono da cavallo, mentre un serpente a sonagli scivolava silenzioso dietro un grosso cactus.

     Henry Booth aprì il fuoco. Fece scattare la molla di ricarica altre due volte e lasciò partire i colpi a breve intervallo. Ma l’indiano preso di mira si gettò a terra, dietro la staccionata. E ora sparava a sua volta con la vecchia carabina.
     Anche Keith sparava dalla finestrella sul retro, nella stanzetta dove la madre piangeva, abbandonata sul corpo della piccola April.
     - Ne ho beccato uno! – gridò a un tratto il ragazzo.
     - Coraggio, figliolo – lo incoraggiò il padre. – Ma tieniti bene a riparo.
     Henry non si faceva troppe illusioni. Gli indiani prima o poi avrebbero avuto il sopravvento, sarebbero riusciti a entrare in casa. E le pallottole cominciavano a scarseggiare.
     Solo un miracolo avrebbe potuto salvarli.
     Improvvisamente gli Apaches cessarono ancora una volta di combattere e rimasero nascosti nelle loro postazioni. Era la loro strategia: logorare i nervi degli assediati.
     Passò una buona mezzora di silenzio surreale. Il sole era alto nel cielo.
     Poi ripresero gli spari.
     Due indiani si avvicinarono con grandi scatti felini e si gettarono dietro la vasca dell’acqua.
     - Papà, ho finito le cartucce.
     Lui non gli rispose. Prese la mira e fece fuoco, colpendo un indiano che non se ne stava troppo al coperto dietro il carro.
     Ne rimanevano almeno sei, che non avrebbero mollato la loro preda.
     Altra pausa. Solo dopo un bel momento cominciò quello che sembrava l’assalto definitivo.
     In quel momento avvenne il miracolo.
     Si udì un ripetuto squillo di tromba. Sul debole crinale al di là del torrente apparve un gruppo di uomini a cavallo, in giacca blu.
     - I soldati – gridò Keith che li aveva visti per primo.

* * *

      Samuel Scott rimase molto impressionato da quella vicenda. Ne parlò per molti anni.
      Anche lui aveva visto la bimba con il vestitino verde, là sulla collina rinfrescata dalla brezza. Era come spuntata dal nulla. Piangeva. Diceva, con una vocina esile che sembrava sentirsi dappertutto:
     - Venite ad aiutare la mia famiglia! Gli indiani sparano alla mia casa, laggiù lungo il torrente. – E indicava con la manina la direzione.
     Poi si era messa a correre lungo il pendio.
     - Ehi, bambina! – l’aveva richiamata il caporale.
     Il tenente aveva fatto due o tre passi nel tentativo di ricorrerla.
     Ma lei era scomparsa fra i cespugli.
     - In sella! – aveva ordinato l’ufficiale.
     Nel cercare di ritrovare la piccola, avevano cavalcato per circa mezzora, finché avevano udito gli spari.
     Avevano ucciso quei sei indiani, prima che se la fossero data a gambe.
     E così l’avevano rivista, la bambina, cadavere nel suo lettino.
     Henry Booth aveva stentato a credere al resoconto dei soldati. La moglie, invece, aveva detto tra i singhiozzi:
     - La mia bambina è diventata un angelo… e ha vegliato su di noi.
     Il marito l’aveva abbracciata.
     Scott, il sensale, aveva guardato con aria interrogativa il giovane Keith e gli aveva chiesto, alludendo alla vecchia doppietta:
    - Hai sparato con quella?
    - Sì, ne ho beccati due.
    - Una bella fortuna hai avuto, ragazzo. Un vero miracolo.
    

mercoledì 19 novembre 2014

LA PIRAMIDE di Fabio Calabrese




Ci eravamo fatti strada nella giungla a colpi di machete fino a scorgere al disopra della vegetazione la vetta della piramide. Non lo sapevamo, ma eravamo stati fortunati ad arrivare fin lì in pieno giorno. Se fossimo arrivati lì di notte, o verso sera e avessimo deciso di accamparci, avremmo avuto buone probabilità di fare la stessa fine della spedizione Alvarez, con cui si erano persi i contatti e che eravamo stati mandati a soccorrere.
Trovammo le tende, gli zaini e altro materiale abbandonato, che doveva essere quello della spedizione Alvarez, poi ci dirigemmo verso la piramide e il suo ingresso, un'apertura fra i grandi gradoni che si apriva come una bocca buia e spalancata.
Trovammo la spedizione Alvarez o ciò che ne rimaneva. I corpi erano sparsi in giro, apparivano incartapecoriti, come disseccati. Li contammo, ne mancava uno, quello di Garcia. Lo trovammo un quarto d'ora più tardi accucciato contro una parete: era vivo e non presentava ferite o lesioni evidenti, ma non fu in grado di dirci quel che era successo, era in stato di shock e delirava. Lo abbiamo riportato indietro, è l'unico membro della spedizione che abbiamo potuto salvare, ma i medici non sono in grado di dirci se e quando potrà recuperare la normalità.
Non abbiamo recuperato i cadaveri, li abbiamo sepolti appena fuori dalla piramide facendo quanto occorreva, quanto sapevamo dovesse essere fatto perché la minaccia che gravava sui villaggi degli indios della zona circostante non si ripresentasse in forma più grave. Prima di seppellirli, abbiamo scattato le foto dei corpi che trovate allegate al nostro rapporto.
Poi ci siamo messi a cercare lui, l'essere responsabile dello scempio che avevamo visto e a cui volevamo porre termine per sempre. Sapevamo che cosa dovevamo fare.
Per fortuna, l'abbiamo trovato che giaceva su di una lastra di pietra nella cella più interna della piramide, e mancavano ancora diverse ore al tramonto.
Abbiamo fatto quel che andava fatto, e adesso quell'essere non sarà più un pericolo per nessuno.
Devo essere sincero: per un lungo momento abbiamo esitato. Quella creatura distesa sulla lastra di marmo di un antico altare non aveva lineamenti da indio, sembrava piuttosto uno spagnolo. Le labbra e il mento erano ornati da lunghi baffi e da un pizzetto sottile. Gli stracci che indossava erano laceri e impolverati, ma facevano ancora pensare alla foggia degli abiti dei tempi dei conquistadores. Non ci stupimmo del fatto che quell'antica maledizione fosse arrivata fin lì dall'Europa.
Quello che ci bloccò per un momento fu questo: potevamo distruggere un testimone unico dell'epoca della conquista, qualcuno che aveva visto con i suoi occhi quel mondo precolombiano di cui sappiamo così poco? Ma poi saremmo riusciti a ottenere informazioni da quella creatura? E in ogni caso, lasciarlo in vita era troppo pericoloso.
Ci era chiaro anche perché Garcia è stato risparmiato o forse semplicemente lasciato per ultimo. Garcia è di madre brasiliana, praticamente è un mulatto. Da un mezzo sangue il vampiro non avrebbe potuto ricavare molto. 

lunedì 17 novembre 2014

IL LIBRO E LA NOCE di Peppe Murro



Aveva da poco concluso l'ennesimo incontro galante, breve e scialbo come i precedenti, ma che, per sua soddisfazione e sia pure per poco, si era concluso con una rivoluzione di lenzuola.  Scese al bar, ordinò un caffé, accese una sigaretta aspirando con voluttà, pienamente.
Arrivò una vecchia chiedendo l'elemosina, fece finta di nulla; la vecchia si allontanò, ma tornò prima che finisse la sigaretta: perché tu rifletta, disse, ponendo sul tavolo un vecchio libro spiegazzato ed una noce. E andò via in silenzio, con un passo sciancato e lento.
Con una punta di sopresa e di ironico divertimento disse: grazie, molto gentile, anche se provava fastidio per quell'intrusione non richiesta. chi era la vecchia? e che voleva?
Si avviò verso il parcheggio, pensando che ce n'è di gente strana per le strade.
Si sedette in auto, buttò sul sedile quel libro consunto (si era riproposto di scaraventarlo dal finestrino alla prima occasione), gettandogli appena un'occhiata distratta. Lesse il titolo, Il ritratto di Dorian Gray - ah,sì, quel libro per bambini di quell'autore americano, o inglese, forse, che parlava di una specie di Dracula, o magari era un disegno... che banalità, speriamo solo che non sporchi il sedile prima di gettarlo.
Fece per mettere in moto, ma stranamente si rese conto di avere ancora la noce in mano. e ancora più stranamente si accorse che le due parti si aprivano facilmente: in una metà era fissato in qualche modo un piccolo specchio.
Con una punta di sarcasmo divertito verso quella vecchia incomprensibile, disse fra sé: ora mi specchio ed accese la luce dell'abitacolo per vedersi meglio. Fu allora che con sorpresa scoprì che lo specchio non era uno specchio, non si vedeva nulla.
Guardò meglio. No, il sedile, la spalliera del sedile si vedevano e girandolo un po' si poteva vedere tutto l'interno dell'auto. Lo centrò su di sé, con cura, ma prima, come ultima prova, guardò le luci del bar riflesse fuori del finestrino. Tutto normale.
 Distrazione, pensò, e lo rivolse su di sé. Il suo volto non c'era. Guardò meglio, aguzzando gli occhi: non si vedeva nulla. Riguardò ancora: nulla
Con una punta di orrore e di incontenibile paura lasciò cadere la noce che rotolò sulla copertina del libro... il ritratto di Dorian Gray , storia di un'anima, eclissi di un destino.
 Ma chi era Dorian Gray?  e chi era lui?
La verità lo folgorò come la risata sarcastica di quella vecchia che sentiva echeggiare nei suoi pensieri... il suo volto non c'era, lui non c'era, lui non esisteva.
Come impazzito corse verso il bar, si infilò tra facce assonnate e sorprese, appoggiò le mani al bancone. Sì che c'era, era lì, riflesso tra file di marche di liquori e bicchieri, era lì. Cercò ancora attorno dove specchiarsi ed ogni parete appena lucida ed illuminata gli rimandava la sua figura, il suo volto.  
Si impose la calma, respirò lentamente, ardì persino di aggiustarsi il nodo della cravatta. Forse aveva bevuto troppo. Forse lo stress della giornata, sfinita fra ricerche ed incontri consumati al prezzo di una solitudine comune, celebrata in una stanza ad ore, dove due solitudini non riuscivano a farsi compagnia neppure condividendo letto e gemiti.
Restò un po' appoggiato coi gomiti al banco, la testa verso l'uscita. Quasi a darsi incomprensibilmente coraggio si disse che era ora di andare, prima che la stanchezza gli facesse brutti scherzi.
Guardò in giro come per salutare, ma non aprì bocca.
Il buio era fresco come sa esserlo un'estate tardiva d'ottobre, entrò in auto.
Tirò fuori un lungo sospiro, provò ad allungare le gambe, aggiustandosi la cravatta… Mio Dio!
Non c’era una cravatta. Chinò la testa per guardare e vide un seno di donna, vide una gonna e le gambe fasciate di nylon…!
Forse urlò, di sicuro qualcosa gli sfuggì da dentro senza freni, come un dolore, come una liberazione, come un tormento infuocato a lungo trattenuto…”Noooooo!” e non seppe neppure se quell’urlo era reale, ma lo viveva, lo sentiva dal profondo scuotergli le visceri, gli si attorcigliava nei pensieri senza requie, nudo, livido, senza altra dimensione che la gola serrata…
Si accorse che annaspava freneticamente, sbattendo le mani contro i vetri.
Basta !
Doveva calmarsi, doveva svegliarsi da quell’incubo assurdo !
Ansimando si toccò il viso: era il suo, la barba non fatta, il suo naso a patata, la cravatta…!
Sì, la cravatta!... si stava svegliando, era stato solo un brutto sogno ! Troppo stanco, troppo bere….
Guardò verso il bar, pensò alla  cassiera gentile che gli aveva sorriso porgendogli lo scontrino, ricordò con precisone e fastidio anche i pelouches ed i biscotti stipati in una vetrina. 
Che gli stava succedendo? davvero gli stava sfuggendo chi era? ma lui, o lei, veramente chi era? chi aveva finto l'amore in una stanza d'affitto, e bevuto un caffé, e fumato, e urlato, o quel niente della noce?
Si diede una risposta altrettanto chiara: era davvero  chi aveva visitato la stanza, bevuto il caffé e fumato, era reale. Era chi era...se lo disse con un'orgogliosa spavalderia, come chi è sempre sicuro o chi nasconde la paura.
Guardò un po’ in giro, si sorprese ad alzare lo sguardo: niente stelle, solo una luce d’ovatta colorata e pesante; un cane che abbaiava, da qualche parte. Entrò nell'auto.
In fretta buttò via il libro e la noce, accese il quadro senza guardarsi ,poi, di colpo, con calma si aggiustò la gonna sulle ginocchia, uno sguardo al trucco dal retrovisore e mise in moto… sì, stava davvero bene…!

Partì lentamente dal parcheggio, senza accorgersi che sull’asfalto si disegnava la scia umida della sua anima in disuso.


sabato 15 novembre 2014

RIMPIANTO di Paolo Secondini



L’interfono squillò sulla scrivania di Mary Jacobson.
«Signore?» disse la segretaria, dopo avere premuto un pulsante dell’apparecchio.
«Venga un istante, la prego!» rispose una tremula voce senile.
«Senz’altro, signore!»
Mary Jacobson, giovane e graziosa, percorse a passi veloci un lungo corridoio. Bussò ed entrò nell’ufficio del direttore generale.
Non vide nessuno.
«Signor Boronsky?... Signor Boronsky?...» chiamò.
Non ottenuta risposta, stava per lasciare la stanza quando una voce la fermò.
«Sono qui, signorina!»
La segretaria si volse e, con grande stupore, scorse Arthur Boronsky seduto al solito posto: nella poltrona dietro la scrivania.
«Oh! La prego di scusarmi, signore!» rispose arrossendo. «Non mi spiego come ho potuto non vederla.»
«La capisco, signorina,» disse il direttore generale. «Con l’età mi sono rimpicciolito al punto di essere quasi invisibile. Ho più di cent’anni, sa?»
«Oh!» esclamò di nuovo la segretaria. «A me pare, signore, che lei non dimostri…»
«…l’età che ho?» la prevenne Boronsky. «È molto gentile, ma non menta. Sono vecchio, anzi vecchissimo. Mi muovo e parlo con molta fatica… Si sieda, la prego,» e indicò la poltrona davanti alla scrivania. Poi afferrò, con mano tremante, il collo di una bottiglia e riempì due bicchieri. «Ne prenda uno,» disse. «Voglio brindare alla sua efficienza. Non immagina quanto mi siano indispensabili i suoi servigi… Alla sua salute, signorina!»
 Mary Jacobson bevve, a piccoli sorsi, un liquore denso, giallastro.
«Come le sembra?» volle sapere Boronsky, guardandola negli occhi.
«Forse un po’ dolce per i miei gusti, ma tutto sommato gradevo…»
Non finì di parlare.
Reclinò la testa sul petto e rimase immobile, come si fosse addormentata. Dopo qualche secondo l’alzò di nuovo e fissò lo sguardo sul viso attraente di un uomo seduto dietro la scrivania. Poteva avere all’incirca trent’anni.  Era robusto, atletico, dai lunghi capelli biondi, dagli occhi verdi, dal sorriso cordiale.
«Signor Boronsky… è lei?» chiese, timidamente, la segretaria.
«Non mi riconosce?»
«Ma certo! Che stupida! Non so proprio che cosa mi accade quest’oggi!»
Arthur Boronsky non rispose. Si alzò con fatica dalla poltrona e, vacillando sulle gambe, si avvicinò a Mary Jacobson. Le prese il viso tra le mani gracili, rattrappite, ma che agli occhi di lei apparivano sane e vigorose.
«C’è una cosa che desidero fare da tempo,» disse l’anziano direttore, la cui voce, agli orecchi della segretaria, aveva un timbro decisamente giovanile. «Vorrei tanto baciarla, signorina. Spero che lei lo permetta.»
«Ecco, signore… io… non so…»
Ma prima che potesse aggiungere altro, Arthur Boronsky si chinò lentamente e, con labbra fredde, livide, grinzose, la baciò sulla bocca.
Poi tornò a sedersi nella poltrona e attese che la segretaria si riavesse dall’effetto dell’OSSUN C-138
Niente ricorderà di quel che è successo, si disse mentalmente, mentre io conserverò fino alla fine dei miei giorni – pochi, purtroppo! –, la dolcezza infinita delle sue labbra morbide e vellutate…. Oh! Avessi realmente trent’anni, cara signorina!


giovedì 13 novembre 2014

IMPOTENZA di Eduardo Poggi




«Stai tremando?» ella cercò la sua mano per accarezzarla.
Nello spazio di tempo tra la domanda di sua moglie e la risposta, nella mente di lui si susseguirono alcune scene. Ne fu, insieme, attore e spettatore: si vedeva tremare dal freddo sulla slitta – mentre i suoi fratelli godevano nel costruire un pupazzo di neve – e non poteva cantare al sole con l'ottimismo e la gioia di una cicala. Non vedeva un sorriso riconoscente nei suoi genitori, né un dolce bacio sulle labbra di sua moglie, né un abbraccio alla partenza dei suoi figli, né una carezza sulla testa dei suoi nipoti.
«Sì,» rispose, «sto tremando.»
E immediatamente la mano pietosa di sua moglie gli toccò la pelle aderente alle ossa.
Sperò che quella carezza potesse risolvere ogni cosa.
Sera. Troppo tardi.
Lui si coprì il viso, rannicchiandosi sotto le fresche lenzuola.

(Traduzione dallo spagnolo di Paolo Secondini)

martedì 11 novembre 2014

AL AZIF di Claudio Foti



Dovevo dirlo a Marco.
Quel libro era davvero insolito.
Composto da parole latine, simboli greci e rune, come se chi lo avesse scritto conoscesse bene tutte queste lingue. Alcuni stralci erano riscritti con un inchiostro diverso. Ai lati disegni e marginalia, calligrafia diversa, quasi illeggibile.

17 agosto
L’ho fatto vedere a Marco e lui ha trascorso la notte cercando di decifrarlo.

18 agosto
Nulla di nuovo. Il manoscritto rimane un mistero. Marco mi ha chiesto alcune cose, di astronomia più che altro. Ormai completamente assorbito da questa ricerca. Mi chiede se conosco un tale Olaus Wormius.

19 agosto
Marco ritiene che il manoscritto, di tale Alhazred, spieghi come aprire un passaggio per il mondo dei morti. Non ho tentato di disilluderlo. Voglio che sperimenti personalmente l'assurdità della sua ipotesi.
Mi ha spiegato che, secondo il libro, occorre trovare un sentiero, con determinate caratteristiche, orientato nella giusta direzione.

20 agosto
Marco ha passato tutto il giorno alla ricerca di un posto adatto. Stanotte ci sarà luna crescente, indispensabile pare. Vuole che vada con lui. Il sentiero che ritiene adatto è semplicemente una strada che porta a un gruppo di case in cima a una collina.

21 agosto
Il mio scetticismo è stato scosso la notte scorsa.
Arrivati sul posto abbiamo notato che gli alberi che costeggiano il sentiero impediscono alla luna di illuminarlo bene, ma Marco aveva una torcia elettrica.
Quasi subito ha attirato la mia attenzione sul vento, o meglio, sulla sua mancanza. L'atmosfera era spettrale. Il buio così fitto che anche la luce della torcia era insufficiente. Eravamo quasi arrivati a metà del sentiero, quando Marco disse di aver visto qualcosa proprio dietro a noi.
Il suo terrore suggestionò anche me. Mi parve che una serie di ombre, quasi indistinguibili dall'oscurità circostante, ci passassero accanto, impalpabili e lievi, dirette verso il paesino in cima alla collina, e che poi, dopo un tempo indefinito, tornassero sui loro passi, ridiventando tutt'uno con il buio.
E' successa anche un’altra cosa strana. Il mio orologio è indietro di mezz'ora, ovvero più o meno il tempo dell’escursione.

23 agosto
Oggi è accaduto l’inspiegabile. Ieri nessuno degli abitanti delle case in cima alla collina è sceso in paese e così la signora Adele, che ha una sorella lassù, mi ha chiesto se, per cortesia, potevo sincerarmi delle sue condizioni.
Appena arrivato ho notato quel silenzio. Ho bussato alla porta ma invano.
Era aperta così sono entrato. Sulla tavola c'erano ancora i resti di quella che era stata la cena. Sono uscito, ho chiamato ancora, ho bussato a tutte le porte, inutilmente.  Nessuno riesce a capire perché gli abitanti della collina abbiano lasciato improvvisamente le loro case, e senza prendere nulla.

24 agosto
Marco sembra impazzito. Continua a ripetere Iak-Sakkak, Iak-Sakkak. Quando gli ho chiesto spiegazioni mi ha detto “è colpa mia, ho aperto le porte dell’inferno”. Tutte sciocchezze!
E' inutile cercare di farlo ragionare. Gli ho ripetuto più volte che ero stanco dei suoi scherzi e che aver percorso un sentiero di notte non può aver scatenato alcuna forza malefica.
Marco ha insistito, mi ha fatto leggere il passaggio del libro che ha interpretato nel seguente modo:
"Il passaggio lungo un sentiero orientato in direzione nord-est di anime battezzate quando la luna crescente, mostra la via del ritorno alle anime di coloro che non camminano più su questa terra."

25 agosto
La follia si è impadronita di tutti.
Stamattina siamo stati aggrediti. L'unico motivo per cui siamo ancora vivi è perché siamo riusciti a raggiungere la chiesa ed il parroco è riuscito a calmare la folla.
E' assurdo. Mi sembra di essere tornato ai tempi oscuri della caccia alle streghe.
Ho deciso di partire domani stesso.

26 agosto
Marco non vuole partire. Crede di aver aperto un passaggio con l'aldilà e vuole chiuderlo. Ho deciso di assecondarlo. Stanotte torneremo laggiù e finalmente potrò dimostrargli che è stata tutta un'allucinazione, e che ha visto solo quello che si aspettava di vedere.
.....
Solo ora ho ritrovato il coraggio di riprendere questo diario.
Voglio affidare a queste pagine il ricordo di ciò che è accaduto perché chi le leggerà non commetta gli stessi nostri errori.
Marco mi guardò a metà del sentiero. “Ho letto il libro,” mi sussurrò,  “ho sfogliato ogni pagina, cercato il significato di ogni simbolo e ho capito. Solo se qualcuno oltrepasserà di sua volontà il varco tra i due mondi questo verrà sigillato di nuovo. Ma  chi lo farà sarà condannato a vivere in eterno nell’altro mondo. Devo farlo io. Io ho dato inizio a questa follia. Che Iddio abbia pietà delle nostre anime.”
Queste furono le sue ultime parole. Lo guardai incredulo avvicinarsi ai margini del sentiero, passare nell'arco buio delimitato dai rami di due alberi e sparire.
All'inizio infuriato lo chiamai ad alta voce, come poteva avere ancora voglia di prendermi in giro? Mi girai per andarmene, sicuro che fosse si fosse nascosto per ridere alla mie spalle, e fu allora che la vidi.... Nostra madre, uguale a come la ricordavo il giorno in cui morì, mi chiamava...
Persi completamente il controllo e scappai senza osare guardarmi indietro.
Ho fatto mettere una lapide lungo il sentiero, nel punto in cui vidi Marco per l'ultima volta.
Sul marmo ho fatto incidere solo la sua data di nascita; non sono certo che sia morto...

domenica 9 novembre 2014

L’ANELLO di Adriana Alarco de Zadra



– Sto cercando l'anello mancante tra l’uomo e l’animale.
– Sono io, cara dottoressa… un pitecantropo originale.
– Ma se hai la pelle di leopardo, le zanne di elefante e la coda di volpe! Non ci servi... Per favore, fai passare il prossimo.
– Insisto, dottoressa. Sono io il candidato per l'anello mancante. Provengo da uno dei satelliti di Giove.
– Non ci servi, non ci servi. Come devo dirlo?
– Ma cara dottoressa, se cerca un anello mancante… un cerchio oppure un anello di fidanzamento, io sono quello che fa per lei. Posso infilare nel dito di quella sua mano graziosa qualunque cerchietto lei cerchi, con tutto il mio affetto e desiderio di collaborazione.
– Stupido! Non sono pronta a impegnarmi, tanto meno con un pitecantropo con anello. Non mi servi, capito? Adesso fuori dai piedi… Avanti il prossimo!

(Traduzione dallo spagnolo di Paolo Secondini)

venerdì 7 novembre 2014

TRA CANE E LUPO di Pierre Jean Brouillaud



Crepuscolare       
Mi scuso con Nikolaj Vasilyevich per aver preso in prestito uno dei suoi personaggi. Costui è, a dire il vero, così famoso da appartenere al patrimonio comune dell'umanità. È che una scusa?
 Da ore mi abbandonavo a una delle mie passioni, esplorare instancabilmente una delle più belle città del mondo. Dalla punta della Strelka, nei pressi dell'antico porto, ai piedi della colonna rostrata, mi ero attardato ad ammirare la vista sulla fortezza di Pietro e Paolo, da un lato, e sull’'Ermitage, dall’altro.
Avevo dimenticato di guardare l'orologio, e, in quell'ora crepuscolare, non si vedeva più molto bene.
Arrivando al ponte del palazzo che mi preparavo ad attraversare per lasciare l'Isola Vasilevsky e raggiungere l'altro lato del fiume dove si trovava il mio hotel, ho avuto la spiacevole sorpresa di scoprire che la campata era sollevata per far passare i battelli e perciò impraticabile. Eccomi condannato ad attendere che fosse abbassata per consentire il traffico pedonale. Fino a che ora? Non riuscivo più a ricordare gli orari.
Fu allora che un uomo uscì dalla penombra. L'apparizione era di piccola taglia e, per quanto fosse possibile distinguere nell’alone della lampada, piuttosto miseramente vestita. Il cranio era nudo. Ma ciò che mi ha maggiormente colpito, era il volto bianco come neve. Poco rassicurato, l’ho visto avvicinarsi. Mi guardò a lungo prima di dire, con voce rauca:
- Si è lasciato sorprendere. Non è una cosa molto scaltra. Ma è vero che lei non è di qui.
- Come lo sa?
- Oh! Moi dorogoi¹. Fece con un sorriso un po' triste, noi sappiamo molte cose.
- A che ora rendono il ponte al traffico pedonale?
- Alle 02:55, poi lo sollevano di nuovo. In seguito, dovrebbe aspettare le 04:50... Si chiederà cosa fare per tutto questo tempo. Nella sua situazione, ha ancora delle possibilità. Siamo alla fine di maggio. Le notti sono già brevi. Presto, avranno luogo le famose notti bianche di San Pietroburgo. In quanto a vedere ciò che andrà a fare, lei è scrittore, no? È abituato ad ammazzare il tempo.
Io tentai di consolarmi:
- È vero che la città è bella di notte quanto di giorno...
- Più bella ancora. A causa del mistero...
- Sì. Ma pojalouisto², abbia almeno la gentilezza di tenermi compagnia per qualche istante.
Nella frescura facemmo su e giù per la banchina. Lui si fermò e sembrò osservare per un momento le acque nere della Neva. Sotto il lampione, distinguevo meglio i suoi vestiti; una sorta di uniforme obsoleta, rattoppata con pezze che sembravano di colori diversi.
- Akaki Akakievich! Ho esclamato.
- Sì, l’uomo col cappotto.
- Io pensavo...
- Che andasse come nella storia, che una volta morto dal dispiacere per il furto del mio cappotto nuovo, che mi era costato tanto e di cui andavo così fiero, mi sarei vendicato aggredendo e spogliando i passanti. In quel caso, potrei permettermi, invece di questi stracci, una bella redingote, un abito di velluto col collo di castoro, una pelliccia d’orso, o che altro posso dire.
- È vero che a crederci...
- Andiamo! Lei è nelle migliori condizioni per saperlo. Gli scrittori sono, a modo loro, grandi bugiardi. Non ho mai derubato né spogliato chicchessia. Ma senza il famoso cappotto, le chiedo, chi si ricorderebbe di Akaki Akakievich? Questo cencio è la mia vergogna quanto la mia identità, la mia ragione d’essere. Mi si attacca alla pelle. Toglietemelo, e io non esisto più. Tanto per dire d’altronde, perché, per gli altri, io sono morto da oltre due secoli. Ciò, d'altra parte, non è privo di vantaggi. Prima, avevo paura di tutto. Morto, non hai più niente, più nessuno da temere. Non più bisogno di tremare e umiliarti di fronte a un assessore di terza classe³. È la vita che fa di noi dei codardi.
- Lì ha tutto sommato ragione, Akaki. Ma allora...
- La verità, se ce n'è una, è che Nikolaj Vasilyevich, che lei ammira sotto il nome di Gogol, ha voluto rafforzare la fine della sua storia. Ha perciò inventato quel fantasma, quest’altro me che, derubando i passanti, si prende la rivincita per l'eternità.
- Akaki, le voglio porre una domanda indiscreta. Sono certo che lei non molesta i passanti in alcun modo. Piuttosto il contrario. Ma vi capita spesso di apparire loro e farci una chiacchierata? O devo ritenere che in due dei nostri secoli ha riservato questo privilegio a me e a me solo?
- Devo soddisfare la sua vanità d’autore?
Ho riso.
- Bene, ha ripreso lui. Lei può immaginarlo: non abbiamo la stessa percezione del tempo, lei ed io. Due secoli, che cosa rappresentano per un morto che ha l'eternità davanti a sé? Ma, lo riconosco, quello che, per me, è stato duro da passare, è il settantennio del regime bolscevico. Quello, l’ho trovato lungo. È che non io non rientravo nel modello del realismo socialista. Quando cercavo di apparire loro, le persone avevano paura. Facevano finta di non vedermi o mi voltavano direttamente le spalle. Uno di loro mi ha perfino denunciato alla milizia – vale a dire alla polizia -. Questo ha raddoppiato le ronde per sei mesi. Per tutto quel tempo, mi sono astenuto dal manifestarmi. Nel loro regime, moi dorogoi, un consigliere impiegato in qualunque ministero - il mio caso – benché fosse un funzionario di terza classe e non avesse che uno stipendio di quattrocento rubli, non aveva alcuna possibilità di passare per un proletario. Le mie mani erano macchiate, ma solo dall'inchiostro...
Ho avuto il cattivo gusto di scherzare:
- Akaki, non ha mai pensato di emigrare?
- Emigrare, io che sono legato a questa dannata città con tutte le mie fibre! Se almeno avessi una tomba sulla quale la gente venisse a deporre qualche fiore, come al cimitero della Lavra Alexander Nevsky, – da buon turista – avrà senz’altro visitato il museo di arte funeraria. Ci sono molte tombe di musicisti, scrittori, attori, perché non le tombe dei personaggi? Con il loro nome inciso in lettere d'oro patinate. Sulla lapide non sarà incisa quella parentesi con otto cifre su cui voi vi soffermate, ma solo una data, quella della nostra nascita. Non c'è bisogno d’immagini che ci fossilizzino in un’epoca o in un’altra. La nostra immagine è molteplice, infinita, numerosa come i nostri lettori e gli artisti che hanno cercato di incastrarci... Mi dica, ha mai visto le marionette di un burattinaio? Quei piccoli corpi di stoffa, di filo e di legno?
- Sì, e allora?
- Chi ci dice che, durante il sonno, non sognino, che non conducano una seconda vita? E non è forse lo stesso per i suoi personaggi? Cosa fanno nei momenti in cui li lascia inattivi, in cui non li manipola? Lei sa bene che, quando crede di comandarli, spesso le sfuggono. Lei ha dato loro una forma di vita. Che cosa gli impedisce di avere i loro sogni o un'altra vita LORO? Sogni più folli dei suoi. Se riuscisse a capirli, lei scriverebbe soltanto (ridacchia) capolavori.
- Una tomba? Lei non ne ha bisogno, Akaki Akakievich. Tutta questa città, teatro della sua avventura, è un monumento alla sua memoria. Morto, lei è più vivo di me, e lo sarà per l’eternità.
- Sa - in definitiva, non proprio - ma può immaginarlo - l'eternità, a volte, è un po' monotona. Di tanto in tanto torniamo a fare un giro tra coloro che si credono vivi, quelli che noi chiamiamo “beneficiari di moratoria”. Noi abbiamo i nostri indirizzi. Si scivola dolcemente, nel cuore delle vostre notti, quando la bolgia è chiusa per i vivi. Si coglie l’occasione. È pazzesco che i morti abbiano sete. Ancor più che i vivi. Una sete inestinguibile, a misura d'eternità. La vodka è di contrabbando, da bucarsi lo stomaco, ma, le chiedo, cosa rischiamo? Si dice che i russi abbiano una pellaccia...
- Sì. Soldati di Napoleone sostenevano che dovevano ucciderli più volte.
- Uhm. Un modo per giustificare il loro fiasco. Naturalmente, una volta ci basta. Per la maggior parte, è anche troppo. Questo, lo capirà, non è il mio parere. Ma, dall’altra parte, ci si da alla pazza gioia. Dopotutto, non si danneggia nessuno. Ciascuno a casa propria. Nessun vivente può sentirci. È un peccato, in un senso. Il coro dei morti è abbastanza impressionante. Soprattutto i bassi, sa. Non cantiamo solo canzoni da bevute. Ma anche dei buoni vecchi ritornelli delle nostre parti. Otchie Tchernye? per esempio. (Cominciò a canticchiare). E anche importanti arie d’opera. Si festeggia. Finito, la zuppa di crauti che era stato mio rancio, finché ero quel che chiamate vivo. E poi, che vuole, ci s’incanaglisce un po’.

Improvvisamente ci siamo trovati in una sorta di taverna che non saprei dire dove si trovasse. In una stanza bassa, mal illuminata, che io, al primo impatto, ho creduto fumosa tanto le forme che la occupavano apparivano offuscate. Più che fumo si trattava di una nebbia che sfocava le siluette degli occupanti. Una nebbia tale che non riuscivo nemmeno a leggere l’ora sul mio orologio. Delle siluette, come dire? Trasparenti. Sì, ci si vedeva attraverso. Un antro abitato da spettri la cui bisboccia si sviluppava in un silenzio totale. Voglio dire, nessun suono mi perveniva da quest’altro mondo in cui ero entrato, ma con il quale, nonostante l’intermediazione di Akaki, non potevo comunicare se non attraverso quelle immagini sfocate. Come se osservassi illegittimamente, dal buco della serratura, un'azione con cui non potevo interagire. Come se fossi entrato con un’effrazione in un sogno che non era il mio. E di cui non potevo avere che uno scorcio. Un sogno, sì.
Credetti di riconoscere la sagoma di un mercante ebreo vestito dell’ombra di un caffettano. Quattro fantasmi giocavano a carte intorno a un tavolo su cui un ubriacone sembrava dormire. Altri stavano attaccando un pranzo da cui si sprigionava una vaga fumata. In un angolino una coppia apparentemente mezza nuda faceva l’amore. O, almeno, i gesti dell’amore. Come saperlo?
I gesti... ho pensato alle marionette avevano menzionato Akaki. Fantasmi di marionette.
Un Pince-nez, un monocolo, un colletto bianco di celluloide, un gioiello appeso a un riflesso venuto dal nulla. No, non sentivo nulla, ma curiosamente, mi arrivavano, a ventate sfuggenti, sentori di pelliccia, di pelle di montone, d’alcool, di tabacco, di aringhe, di cetrioli crudi, di barbabietole e di aneto, il loro condimento preferito.
Avrei giurato che i giocatori intonassero una canzone. A giudicare dalla loro mimica: teste riverse, bocche apparentemente aperte, i piedi che battevano il tempo.
Senza sosta, queste immagini impallidivano ancora, finivano di sbiadire, si cancellavano, o, piuttosto si trasformavano lasciandone apparire altre, come per un effetto di dissolvenza concatenata.
Corpi ed epoche si miscelavano. Con l'eccezione dell’epoca sovietica di cui non intravvedevo alcun rappresentante. Nemmeno l’accenno di un piccolo funzionario dell’era stalinista che avrebbe allentato la cravatta pur di divertirsi un po’. Per non parlare di un burocrate.
Nessuno mi prestava attenzione.
Ma ben presto ebbi l’impressione che le siluette divenissero un po’ più nette. Io mi adattavo, in qualche modo. I volti erano più bianchi, più netti.
E quei giocatori di carte sembrano - sì - girati nella mia direzione. Si poteva credere che avessero subodorato, se non percepito, la presenza di un intruso.
Che cosa facevano in questi casi? Come fanno i morti a sbarazzarsi di un vivo? Al rovescio mi sembrava relativamente facile. Non è sufficiente per i vivi dimenticare i morti? A meno che... Ah! Le questioni strampalate che possono sorgere in questo genere di situazione!
Mi è parso che uno dei giocatori a momenti mi guardasse, si tolse il pince-nez e si stropicciò gli occhi, accarezzò i baffi spioventi, e poi si rivolse a uno dei suoi compagni, indicava me. L'altro scosse la testa. Imbarazzato, gli indirizzai un cenno con la mano che non suscitò, tra questi “personaggi” altra reazione che qualche sobbalzo apparentemente causato dalle risate.
Una donna in un vestito vaporoso, stile frufrù 1900 si stava dirigendo verso di me. Probabilmente voleva andare verso l'altro lato della stanza e raggiungere qualcuno. Chi? Dall'altra parte non vedevo nessuno. Nient’altro che l'ombra del muro. Mi sono detto: all'ultimo momento si scosterà, si scuserà. Lei mi ha attraversato. Fui io che, meccanicamente, mi scusai. Lasciava dietro di sé una traccia di profumo a buon mercato. Poi è tornata sui suoi passi. Ho appena avuto il tempo di scansarmi. Lei mi ha sfiorato. Che voleva di preciso?
Tutti cominciavano a gesticolare.
Adesso, li sentivo! Sentivo le conversazioni animate. Non stavano forse protestando contro questo “beneficiario di moratoria” che imponeva loro la sua presenza inopportuna? Cosa dicevano esattamente? Il livello della mia percezione era flebile, troppo flebile per consentirmi di capire discorsi pronunciati in una lingua che non padroneggiavo alla perfezione.
Allora ho avuto una strana reazione. Mi sono detto: se inizi a vederli meglio, a sentirli, significa che sei passato dalla loro parte. Dall’altra parte...
Morte improvvisa! Attacco di cuore.
Io indubbiamente non mi ero accorto di nulla mentre percorrevo la banchina. Ma mi sovveniva di aver avuto, negli ultimi tempi qualche malessere, segni premonitori.
Così, Akaki, che passava per morto, era vivo, ed io, che passavo per vivo, ero morto. Questo ristabiliva una specie di equilibrio.
L’uomo col cappotto mi aveva mostrato con che facilità si saltava da uno stato a un altro, in questo caso, dalla banchina alla taverna, senza transizione.
Tutto ciò spiegava il mio incontro con lo spirito. Ora appartenevamo allo stesso mondo... Ma allora perché Akaki aveva mi aveva recitato la commedia collocandomi tra i “beneficiari di moratoria”? Ah! Sì! Per preparare questo nuovo defunto, aveva finto che fossi ancora vivo. Mi aveva dato il tempo di abituarmi alla mia nuova condizione.
Non ero un intruso. Ero uno nuovo. E ora sapevo cosa aspettavano da me gli occupanti della sala. Che mi presentassi secondo delle usanze che, disgraziatamente, ignoravo. E che, per celebrare l'occasione, offrissi un giro, accompagnato da un discorso di circostanza e dall’inevitabile brindisi. Che dire loro? Bah! Io ero uno scrittore, no?
Ma è allora che sono spuntate quelle immagini in cui si vede l'anima del defunto uscire dal suo petto sotto forma un altro corpo, un corpo in miniatura. Potrebbe essere che alla morte il corpo raddoppi? In quel caso... il mio doppio avrebbe seguito Akaki, mentre il mio cadavere sarebbe crollato sulla banchina, rischiando, nella penombra, di far inciampare i passanti. Oppure sarebbe precipitato nella Neva divenuta la sua tomba. In questo caso, sarebbe questa mia “anima” a ritrovarsi nella bolgia?
Ciò continuava... Avevo letto troppo Dostoevskij, i suoi tormenti dell'anima e le sue angosce metafisiche?
Non mi andava comunque di cercare di adeguarmi, presentandomi come uno di loro!
No! No!
Tuttavia, se mi rifiutavo, a torto o a ragione, mi occorreva almeno giustificarmi, farmi perdonare la mia presenza indiscreta. Se sono qui, tra voi, dove non ho un posto, è per una concatenazione di circostanze (come si dice “fortuito” in russo?)...
Oh! Ecco che non riconoscevo più la mia voce. Arrivava loro? Risuonava solo nella mia testa? Niente indicava che la sentissero, che avesse su di loro il minimo effetto.
A ogni modo, l'atmosfera cominciava a trasformarsi in un pandemonio di cui io ero la causa o il pretesto.
Come potevo tirarmene fuori senza coinvolgere Akaki?
E poi, dove diavolo era finito?
Mi ero appena fatto questa domanda che mi sono ritrovato sulla banchina, ai piedi del ponte.
Accanto al fantasma che mi aveva preceduto o raggiunto.
- Akaki, la cercavo... Dov’era?
Lui emise una risata che suonava cavernosa:
- Ci sono molte stanze della casa dei morti... e, lei lo vedere, il nostro mondo ha, esso stesso, le sue leggi. A patto di essere introdotto da una guida, eccezionalmente si può dare un’occhiata, ma “i beneficiari di moratoria” non hanno il permesso di soggiorno... Bene, come vede, sono qui. In tempo per salutarla e prendere congedo. Sono le due e cinquantaquattro, secondo il vostro orologio.
- Spassibo. Vî otchen liubiezsni?, Akaki. Sono ben conscio della fortuna che ho avuto e del privilegio che mi ha concesso. E mi permetterò di rivolgerle ancora la stessa domanda: questo privilegio era riservato a me?
- Dipende dagli incontri e dalle circostanze. Non ho tanto spesso l’occasione di cadere, al momento giusto, su un autore. La maggior parte dei “beneficiari di moratoria” che posso incrociare, non percepisce nulla. Spesso addirittura, mi passano attraverso senza vedermi.
- Esattamente quello che mi è successo con quella donna, nella taverna.
Non so se Akaki abbia ascoltato e commentato la mia annotazione.
In quel preciso momento, un cigolio risuonò dietro di me. Mi sono voltato. Cominciavano ad abbassare la campata. Erano le due e cinquantacinque.
Ho guardato Akaki Akakievich.
L’ho visto posare sulla mia spalla una mano senza peso.
- Brat?, ha fatto con la stessa voce roca, potresti prestarmi mille rubli?
(Traduzione dal francese di Sauro Nieddu)
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1) mio caro
2) ve ne prego
3) funzionario di grado inferiore dei tempi degli Zar
4) Gli Occhi Neri, di
Hrebinka
5) grazie, sei molto gentile
6) fratello, o familiarmente “vecchio mio”
Ringraziamenti: L'autore tiene a esprimere la sua gratitudine a Yves e Serena Gentilhomme che lo hanno guidato attraverso le trappole della lingua russa.