lunedì 30 giugno 2014

RISVEGLIO di Fabio Calabrese



L'uomo aprì lentamente gli occhi. Si sentiva riposato, pieno di energia, dopo un lungo sonno ristoratore. Per un lungo momento continuò a rimanere immerso in uno stato di semi-coscienza e in una sensazione di benessere.
Poi si svegliò del tutto e fu assalito dai ricordi. Sarebbe  dovuto essere in ospedale per la rimozione di una cisti cerebrale, una sorta di tumore benigno che di quando in quando, premendo sulle aree cerebrali circostanti, gli provocava feroci mali di testa.
Naturalmente, era stato riluttante a farsi aprire la scatola cranica, ma gli era stato spiegato che l'operazione non era pericolosa, mentre invece era pericolosa la cisti che, lasciata a se stessa, sarebbe facilmente potuta degenerare in un tumore maligno.
Si portò le mani alla testa. Se era stato operato al cranio, avrebbe dovuto avere almeno la testa fasciata, invece niente; avrebbe dovuto avere la testa rasata, invece le sue dita incontrarono la chioma: i suoi capelli erano folti e più lunghi di quanto ricordasse.
Si accorse di non trovarsi in un letto: stava galleggiando in una vasca ripiena di un liquido tiepido. Era acqua o che cosa? Non aveva nessuna certezza nemmeno a questo riguardo.
Guardando bene, gli parve che non dovesse essere acqua, o perlomeno era mischiata con qualche altra cosa, perché aveva una leggera tonalità ambrata e poi era forse un po' troppo densa.
Provò ad alzarsi in piedi e ci riuscì: fortunatamente quella vasca non era troppo profonda. Nel compiere il movimento, si accorse di aver staccato dal suo corpo diversi tubicini che vi erano fissati con aghi simili a quelli delle flebo.
Fece leva con le braccia sul bordo della vasca e ne uscì.
Esaminò la stanza tutto intorno a sé: poteva essere oppure non essere una camera di ospedale con una vasca al posto di un letto, era un ambiente pulito, lindo, anonimo con le pareti smaltate di bianco. Contro una parete c'era un monitor con una serie di indicatori che non gli dissero assolutamente nulla.
La porta non era chiusa; l'aprì e uscì. Si trovò in un corridoio, un lungo corridoio anonimo circondato sui due lati da porte simili a quella della stanza da cui era uscito.
Arrivò alla fine del corridoio che girava di novanta gradi e svoltò. Andò a sbattere addosso a una ragazza che proveniva dalla parte opposta.
La giovane donna – piuttosto carina, notò – indossava qualcosa di simile a una divisa da infermiera e aveva retto fra le mani un vassoio metallico che era rovinosamente caduto a terra sparpagliando in giro dei medicinali, della garza, una siringa, una sacca da flebo.
L'espressione della ragazza era di imbarazzo e stupore, un imbarazzo e uno stupore che gli sembrò non dipendessero soltanto dal fatto che lui era nudo.
“Lei, Lei... cosa ci fa qui?” balbettò mentre si chinava a raccogliere il vassoio e i medicinali caduti.
“Non lo so” rispose lui chinandosi a sua volta ad aiutarla. “È quello che mi stavo chiedendo anch'io”.
La giovane sembrò essersi ripresa dalla sorpresa iniziale, indicò all'uomo una porta.
“La prego, aspetti qui”, disse. “Vado a chiamare il dottor Knight”.
Lui entrò: era una piccola sala d'aspetto con quattro poltroncine ricoperte di velluto azzurro e un basso tavolino dal ripiano di vetro.
Dopo poco, la ragazza tornò porgendogli una specie di accappatoio che lui indossò, poi si allontanò a passi rapidi.
L'accappatoio era di un bianco che appariva ragionevolmente pulito. C'era una stampigliatura in lettere azzurre sul bordo. L'uomo si aspettava di trovarvi il nome dell'ospedale, invece lesse: “UCLA, University of California Los Angeles, facoltà di Scienze naturali, dipartimento di biochimica”.
“Almeno”, pensò, “è consolante sapere che mi trovo ancora a Los Angeles e non sono vittima di una abduction su di un altro pianeta”.
Sulla parete opposta all'ingresso c'era uno specchio. Si avvicinò e si guardò.
Era lui, non c'era dubbio, riconobbe la propria immagine, tranne per la curiosa impressione che i suoi capelli fossero non solo più lunghi ma più folti di come li ricordava. Si guardò la punta delle dita. Era, o era stato perché adesso non ne sentiva minimamente la voglia, un accanito fumatore, e sulle punte delle dita erano sempre facilmente riconoscibili i segni gialli della nicotina; adesso invece non ce n'era la minima traccia. Questo poteva significare solo che non fumava da parecchi mesi, ma era stato parecchi mesi in coma o che cosa?
Guardò meglio la propria immagine allo specchio: da anni aveva un incisivo spezzato che con suo grande cruccio gli rovinava il sorriso: ora il dente era intatto, e la sua dentatura, per quel che poteva vedere, perfetta.
Cominciò a ripetere come un mantra, come per assicurarsi della propria identità:
“Mi chiamo Herbert Bramwell, ho 38 anni, sono alto 1 metro e 76 cm. Sono nato a San Francisco, California nel 2014, mi sono laureato in filosofia all'UCLA, Los Angeles nel 2036. Mi sono sposato nel 2040, ho un figlio, ho divorziato nel 2044. Ho svolto vari lavori. Attualmente sono, o meglio prima del ricovero ero direttore del personale in un'azienda informatica”.
Forse di per sé era un mantra abbastanza inutile, non aveva vuoti di memoria, la sua storia, la sua vita gli erano ragionevolmente chiare, ma in quel momento sentiva il bisogno di rassicurarsi della propria identità.
L'uomo in camice bianco che entrò nella saletta era giovane, alto, asciutto, dai capelli chiari precocemente stempiati e gli occhi azzurri, con una lieve traccia di efelidi sul viso.
“Signor Bramwell, buon giorno”, disse, “Sono il dottor Knight. Come si sente?”
“Bene, grazie”, rispose Hubert Bramwell. “Più in forma di quello che ricordavo di essere da un sacco di tempo, solo che ho una gran fame, mi sembra di non aver messo nulla in bocca da secoli”.
“Un po' di pazienza”, disse il dottor Knight, “e provvederemo, non si preoccupi”.
Poco più tardi arrivò l'infermiera che Bramwell aveva già conosciuto.
“Le ho portato da vestire”; disse, “maglietta e calzoncini. Per le scarpe non ero sicura della misura, e così le ho portato un paio di sandali infradito, se si accontenta”.
“Ok”, rispose lui, “andranno benissimo”.
“Vorrei sapere una cosa”, disse Bramwell rivolto al dottor Knight, “il dottor Johnson, il mio medico, che dovrebbe avermi operato, dove è adesso?”
Il giovane dottore parve in imbarazzo.
“Mi spiace”, rispose, “ma il dottor Johnson al momento non può essere qui. Posso dirle però che a quanto mi risulta è lui che l'ha operata e la sua operazione è riuscita perfettamente”.
Mentre i due lo lasciavano solo per permettergli di cambiarsi, Hubert Bramwell rimuginava su quanto gli era stato detto. Il dottor Johnson era il suo medico di fiducia e un amico, la sua assenza lo preoccupava.
Il dottor Knight aprì la porta e chiese:
“E' pronto per il nostro piccolo giro turistico?”
Hubert Bramwell annuì.
“Venga”, disse il medico, “strada facendo le spiegherò ogni cosa”.
Il luogo, constatò Bramwell, era molto moderno, molto pulito, molto grande; era come aveva potuto constatare dalla scritta sull'accappatoio, un ospedale ma all'interno del quale si trovava un centro di ricerche universitario. Il dottor Knight gli fece vedere di sfuggita le corsie dove si trovavano altri ricoverati, ma non si avvicinarono troppo. Non era il caso – disse il dottore – di disturbarli.
Le spiegazioni del dottor Knight avevano confuso Bramwell più che dargli chiarimenti.
Lui era, a quanto pareva, uno dei pazienti “speciali” del centro di ricerche, il termine “cavie” era un po' troppo brutto e probabilmente non rispondeva alla realtà. Bramwell però non riusciva a capacitarsi del perché: l'intervento a cui era stato sottoposto era delicato, comportando l'apertura della scatola cranica, ma non era particolarmente complesso e non richiedeva una tecnologia d'avanguardia, e soprattutto Hubert Bramwell non riusciva a capacitarsi di come mai non avesse nessun segno di un'operazione al cranio.
“Oh, ma sono imperdonabile”; disse il dottor Knight, “mi dimenticavo che lei è affamato. Venga che le offro una robusta colazione”.
A Bramwell sembrò che il dottor Knight avesse preso a trattarlo piuttosto come un ospite che come un paziente, a cominciare dal fatto che gli erano stati fatti indossare maglietta e calzoncini invece di un pigiama. La cosa gli andava bene, non si sentiva malato, tutt'altro!
Il dottore gli fece strada fino a quella che doveva essere la mensa del personale, una grande sala situata nella parte alta dell'edificio. Su un lato c'era una grande finestra panoramica. Era tipo self service, e in quel momento non c'era nessuno tranne loro due.
Bramwell si servì con generosità di latte, caffè, pane tostato, burro.
Si sedette a un tavolo e iniziò a mangiare. Gli sembrava di non aver mai assaggiato niente di più gustoso, di non aver mai avuto tanta fame in tutta la sua vita.
Il dottor Knight non aveva preso nulla.
“Penso che mi possa ascoltare mentre mangia”, disse.
Bramwell annuì.
“Io so che lei era”, proseguì. “Scusi, voglio dire è una persona colta, anche se non un ricercatore, uno scienziato. Penso che non avrà grosse difficoltà a comprendermi. Lei cosa sa della clonazione?”
“So che se n'è parlato molto diversi anni fa”, rispose Bramwell, “Ma poi le ricerche sono state abbandonate”.
“Io credo che si possa dire”, proseguì il dottor Knight, “che nessun altro campo della ricerca scientifica tra la fine del XX secolo e gli inizi del XXI sia stato oggetto di tante speranze e di tante delusioni. Per un certo periodo si è pensato che essa potesse essere il mezzo per realizzare il più grande sogno dell'uomo, l'immortalità fisica, ma si è presto capito che l'esistenza di un clone, di qualcuno che è il gemello di qualcun altro dal punto di vista genetico, non ha nulla a che fare con la continuazione o meno della vita della persona.
Si tratta in realtà di un procedimento relativamente semplice in teoria: si prende il nucleo di una qualsiasi cellula somatica di un essere vivente e lo si inserisce in una cellula-uovo privata del suo nucleo originale. Si fa sviluppare l'embrione in un utero, in un utero artificiale, in un uovo a seconda della specie, su di una cultura di agar-agar se si tratta di una pianta, e l'embrione che si formerà, la creatura che verrà alla luce sarà la copia dal punto di vista genetico, del donatore della cellula somatica che ne è di fatto l'unico genitore.
Ma c'è un grosso ma che ha portato per lungo tempo quasi all'abbandono di questo tipo di ricerche. Diciamo che in natura la clonazione è un fenomeno tutt'altro che raro. A parte il caso dei gemelli, lei sa che se una stella marina perde un braccio, non solo è in grado di rigenerarlo, ma dal braccio rotto può formarsi una nuova stella che è a tutti gli effetti un clone della precedente. Piante come le viti e i gerani si riproducono per talea: un tralcio o un rametto può diventare una pianta a sé stante che è un clone di quella da cui ha avuto origine. Ma quando parliamo di animali superiori come i mammiferi, le cose cambiano completamente. Immagino che lei abbia sentito parlare di Dolly, la pecora Dolly, il primo mammifero clonato, che venne alla luce in Gran Bretagna verso la fine del XX secolo. Questo povero animale cominciò a mostrare una serie sorprendente di acciacchi e morì precocemente. In pratica, Dolly era “nata vecchia” con l'età biologica dell'animale donatore della sua cellula somatica cioè del suo patrimonio genetico. La stessa cosa si è verificata, è sempre accaduta con gli altri mammiferi clonati. In sostanza, viene a mancare quel processo di rigenerazione che avviene con il normale concepimento e permette a ogni generazione di ripartire da zero. Questo fatto limita gravemente l'utilità della clonazione in zootecnia, anche se può comunque essere uno strumento prezioso nella lotta per preservare dall'estinzione specie a rischio, e la rende inapplicabile agli esseri umani, perché un uomo “nato adulto” senza aver potuto beneficiare della lunga infanzia, del lungo periodo di apprendimento caratteristico della nostra specie, sarebbe a tutti gli effetti un handicappato. Questo, naturalmente, a meno di non trovare la possibilità – mi permetta di usare questo termine – di clonare anche i ricordi della persona. In questo caso le possibilità potrebbero essere pressoché infinite, potremmo, per così dire assicurare particolari talenti scientifici, letterari, artistici da una sparizione precoce. L'idea di clonare persone dotate di particolari talenti artistici o scientifici è stata carezzata spesso. Provi a immaginare la possibilità di porre rimedio al fatto che il destino ci ha privati precocemente del talento di Raffaello o di Mozart. Solo che le cose non funzionano, non possono funzionare in questo modo. Se anche clonassimo un genio dell'arte o della scienza vivente oggi – non Mozart o Raffaello il cui talento è andato irrimediabilmente perduto – il suo clone ne erediterebbe soltanto la struttura genetica, non le esperienze della vita che hanno portato la sua personalità a evolversi in un certo modo ... a meno che ...”.
“A meno che?”, fece eco con aria interrogativa Bramwell che nel frattempo aveva smesso di mangiare.
“Provi a pensarci”, proseguì il dottor Knight, “dove è depositata fisicamente la memoria di una persona? Nelle sottili modificazioni che avvengono nel DNA delle cellule cerebrali”.
“Si”, obiettò Bramwell, “Ma per quanto ne so le cellule cerebrali, i neuroni non si possono riprodurre, è per questo che gli effetti di una lesione cerebrale, a differenza di altre ferite, sono irreversibili”.
“E' vero”, rispose il dottor Knight, “ma quella che si deve riprodurre non sono i neuroni, ma una cellula uovo contenente il DNA estratto dai neuroni, e le assicuro che lo può fare”.
L'espressione del dottor Knight cambiò, pareva quasi volersi scusare.
“Cosa avrebbe fatto lei al nostro posto?”, chiese. “Prima di iniziare ad aprire il cranio dei vari premi nobel per estrarne il DNA cerebrale, non avrebbe fatto un esperimento pilota? Noi avevamo sottomano un campione di tessuto cerebrale estratto a un paziente nel corso di un'operazione al cervello effettuata nel 2062”.
Fece alzare Bramwell e lo condusse davanti alla finestra panoramica.
Gli indicò il panorama urbano sotto di loro.
“Questa è sempre Los Angeles”, disse, “è sempre la città più estesa del mondo anche se non è la più popolata, la battono come popolazione Città del Messico, il Cairo e Tokyo, però oggi supera New York per numero di abitanti. E' ancora più estesa che ai suoi tempi, perché tutto attorno al centro urbano, come attorno alle aree di Hollywood, Glendale, Pasadena, Santa Monica, ci sono le favelas degli immigrati ispanici. Oggi è ancora più che ai suoi tempi caotica, tentacolare, pericolosa”.
Gli strinse la mano sulla spalla.
“Adesso capisce”, proseguì abbassando il tono della voce fin quasi a un bisbiglio, “perché il dottor Johnson, il suo medico di fiducia, non è qui? E' morto da quasi un secolo”.




sabato 28 giugno 2014

IL PERFETTIBILE DIO di Peppe Murro



La stella era lì, di fronte a lui, brillante nella sua minacciosa indifferenza.
Si voltò un attimo a guardare quel contenitore blu, sorrise ad un pensiero strano; sospirò appena e si sedette ai comandi. Spinse i motori al massimo e chiuse gli occhi.
Non gli riuscì di non aver pensieri.
I giganti erano tutti morti.
Poi vennero loro, figli del fuoco, lividi e invidiosi, corrotti e corruttori, insegnarono agli uomini tutte le loro discutibili virtù, promuovendo la feccia di ogni moto dell’animo. 
 Loro, i nani, anima flaccida e cuore spietato… e la gente imparava allegra da loro la più facile delle lezioni…io io io , la mia libertà… di fare, di non avere responsabilità e pudore, il diritto urlato ad ogni avventura purché luccicante e spensierata.
Loro, i maestri della filosofia dell’assenza, i predicatori del no al dolore, alla responsabilità, all’infelicità… loro, i nani travestiti da uomini, i maestri del vuoto, che avevano insegnato ad umani instupiditi da frivolezze e vanità cos’era il cinismo e la disperazione permanente di non apparire giovani e belli; loro, i maestri sciatti ed arroganti del non pensiero come valore, padroni di ogni vita, invitavano ogni momento alla festa permanente, come fosse quella la ricerca della felicità.
Stordirsi e divertirsi era diventata la sola attività degli umani.
All’inizio offrirono caschi neurosensoriali per poter sognare anche l’impossibile, per ogni loro capriccio, poi capirono che non ne avevano più bisogno, bastava dare sfogo ai desideri più superficiali degli umani, i più vitali, i più forti, quelli per cui ci si affatica e ci si vende per nutrire la scimmia vanitosa che ci abita dentro.
Gli uomini…! darsi alle occasioni, e le loro esistenze diventavano luminose, senza sapere che così consumavano se stessi e la loro vita; darsi senza tenacia e facilmente era la loro voluttà, come pure usare le persone: a questo li spingevano i nuovi signori.
Con ogni pubblicità, con ogni propaganda.
Vite svendute, centrate sempre sull’autocelebrazione, consumate alla ricerca spasmodica e affannosa della leggerezza e della felicità, senza accorgersi che tutto questo era già programmato e comandato, quasi un obbligo risarcitorio della loro libertà perduta e della loro dignità negata.
Umanità ballerina, pronta a saltare su ogni carro del vincitore, rapace nel prendere, oscena nel concedere.
Di quella umanità ormai non gli importava molto, perché sapeva che qualcuno lo avrebbe pianto, qualche altro lo avrebbe bestemmiato, ma ai più la cosa avrebbe interessato poco o niente.
Eppure al momento della genesi aveva pianificato per loro quello che gli era sembrato il dono più grande, la libertà, la capacità di scegliere…ed ora vivevano così, storditi e immobili, imbellettati dalla frenesia del niente …
Avrebbe potuto atterrirli a morte con appena uno dei suoi incubi di dio, ma perché avrebbe dovuto?, anche quello sarebbe stato troppo poco, bastava soltanto che li mettesse di fronte alla loro realtà, ben peggiore di qualunque suo incubo di viaggiatore dell’eternità.
O avrebbe potuto togliere loro la capacità di capire l’abisso in cui erano sprofondati e lasciarli al destino che avevano scelto.
Era stanco, voleva chiudere gli occhi su quel progetto errato ed insensato di libertà, sapeva però di essere il Guardiano, e il suo destino era assistere da fuori a quella storia.
Chiuse gli occhi, guardò per l’ultima volta ciò che gli era stato consegnato perché ne fosse l’osservatore…che orrenda cattiveria, pensò, affidargli in custodia quel mondo ! un altro, più indifferente o feroce, avrebbe fatto di meglio.
Già, avrebbe potuto distruggere il mondo intero, cancellare ogni bruttura, decise di cancellare solo se stesso.

Strinse forte i comandi.
La stella era lì, rovente.

martedì 24 giugno 2014

FANTASCIENZA di Adriana Alarco



Quando penso che stavo per sposare uno scrittore di fantascienza... mi vengono i brividi.
Probabilmente ora sarei su Ganimede, uno dei satelliti di Giove. Avrei trascorso la mia luna di miele attraversando la terrificante macchia solare su una cometa, sotto una pioggia di meteoriti. Sarei vissuta atterrita dai venti solari, sbigottita mentre cavalcavo i centauri per visitare altre stelle della galassia.
Meno male che oggi sono felicemente sposata, con una vita tranquilla e serena.
Sono la moglie rispettata di un uomo politico, che presto sarà il sindaco della città Futuris, su Marte, e avrà il compito di proibire ai terrestri di circolare nelle vie cittadine, essendo esseri molto aggressivi e litigiosi.
I miei quattro figli, tutti giovani in gamba, portano avanti l'azienda di famiglia, che si occupa di astronavi che compiono viaggi da Terra alle lune di Marte e viceversa.
Grazie ai consigli di Zeus, io sono una marziana molto felice.

sabato 21 giugno 2014

H-DAY di Danilo Concas



L'aria di Novembre è fredda, molto fredda.
Ho portato questi fiori a Stephenson, mio grande amico. Mi inginocchio sulla sua tomba e la mia mano bionica sfiora il suo ologramma dal sorriso perenne. Il mio corpo rimodellato e ringiovanito dall'ingegneria genetica viene scosso da un fremito profondo. E quando le lacrime cominciano a scorrere, sgorgano con esse i ricordi terribili della Guerra Madre sugli avamposti di Charon 9, il gigantesco pianeta sede dell'Inferno.
Quel giorno venne chiamato lo Human-Day, l'ultimo disperato attacco degli Umani agli ipertecnologici Charonii, una sorta di enormi orchi distruttori di razze aliene.
Appena vennero in contatto con noi e provarono a conquistarci, seppero subito che non eravamo come gli altri. Per la prima volta nella loro storia ebbero paura. La guerra durò cinque lunghi anni, con massicce carneficine da ambo le parti, e per poco non presero il sopravvento. Fu allora che venne pianificato l'H-Day: un miliardo e mezzo di Umani su cinquantamila navi da combattimento e sbarco dirette verso Charon 9. O vincevamo noi o vincevano loro, nessuna terza possibilità.
Ricordo la voce metallica del comandante di vascello quando il possente pianeta comparve sugli schermi, l'urlo ritmico delle sirene d'allarme e gli ordini perentori e rabbiosi dei capitani alle loro squadre. La disperazione e la paura scorrevano nelle nostre vene come psicofarmaci, generando la consapevolezza che da quello scontro sarebbe scaturito il destino della nostra razza.
Vidi Stephenson baciare furtivamente la foto della sua ragazza sul comunicatore da polso, e mi si strinse il cuore pensando se avessi mai rivisto la mia. Secondo i piani le prime corazzate avrebbero dovuto tenere impegnate le loro pericolosissime navi in orbita, aprendo la strada alle truppe di terra; ed era evidente che stavano avendo un certo successo perché all'improvviso la nave vibrò: eravamo entrati nell'atmosfera di Charon 9. L'ordine urlato di indossare i respiratori e caricare i disintegratori venne da un arcigno sergente orbo.
Quando la loro contraerea cominciò a colpirci era come essere sbattuti contro un muro da una mano gigantesca. All'interno della nave ci fu un forte scoppio e le fiamme divamparono voraci proprio mentre toccammo il suolo. I grandi portelli cominciarono ad aprirsi e il gas venefico di quel pianeta si riversò all'interno insieme ai primi nuclei laser. Quando furono quasi completamente aperti ci riversammo dritti  in quell'inferno. La testa di Kovalski, il mio vicino polacco, venne cancellata da un nucleo incandescente, mentre altri vennero brutalmente smembrati da quelle palle bianche di energia. Era una corsa in un labirinto di fuoco e cercammo riparo dietro alcune rocce provvidenziali, un attimo di pausa per guardare il cielo nebuloso squarciato dai lampi della battaglia orbitale e popolato dalle altre navi in fase di atterraggio, prima di rispondere al fuoco con i nostri disintegratori. Lanciai una granata Nectron verso la postazione più probabile, giacché era quasi impossibile sporgersi. Approfittando della momentanea copertura avanzammo di un altro po', proprio quando vidi Stephenson esplodere in una nuvola rossa colpito da un obice protonico. Urlai di rabbia e, col viso rigato dalle lacrime, uscii allo scoperto sparando a ventaglio e avanzando. Il gruppo di cecchini che teneva sotto tiro il mio gruppo si volatilizzò al contatto del mio raggio, e subito dopo lanciai un'altra granata. Stavamo ancora avanzando quando si profilarono i loro velivoli rossi che subito dopo cominciarono a cannoneggiare ferocemente. Era un massacro.
Dall'orbita lontana arrivarono una serie di impulsi precisi ad annientare quei diavoli meccanici volanti, e ci consentirono di percorrere un altro bel pezzo di terreno. Ricordo che scivolai malamente su una massa informe, una volta un essere umano, e che ciò mi salvò sicuramente la vita visto che un nucleo mi passò fischiando a pochi centimetri dal viso. Quel pianeta veniva definito l'inferno, ma non era proprio esatto, visto che in quel momento anche i diavoli avrebbero preferito starne ben lontani. Era un continuo assordante di esplosioni, schianti, urla e lamenti. Avevo voglia di togliermi la maschera respiratoria per togliermi il sudore dagli occhi, ma se l'avessi fatto sarei diventato una pozzanghera di tessuti sciolti.
Passarono oltre tre ore terrestri prima di uscire da quell'incubo e raggiungere il Falk da combattimento che ci apriva la strada verso postazioni già conquistate, e fu un immenso sollievo vedere le loro navi orbitali rientrare in fiamme nell'atmosfera e schiantarsi al suolo in gigantesche esplosioni nucleari. Anche molte delle nostre navi, purtroppo, non avrebbero mai più fatto ritorno, ma l'orbita era finalmente nostra. Da quel punto in poi avevamo l'ordine di massacro totale.
Quando feci ritorno sulla Terra, due anni dopo, non avevo più il braccio destro e una parte della mia faccia era un grumo sanguinolento. Il danno peggiore, però, ce l'avevo dentro, nell'anima. È una ben magra consolazione considerare la razza Charonii estinta.
Ogni anno, l'undici di Novembre, mi reco a trovare Stephenson, nell'irrazionale convinzione che possa essere in qualche modo ancora lì con me. E ogni anno gli faccio la stessa identica domanda:
Avevamo altra scelta?


giovedì 19 giugno 2014

QUARANTENA di Fabio Calabrese



Con l'eleganza e la precisione di un balletto cosmico, i sette dischi si inserirono in una traiettoria tangente al campo gravitazionale del pianeta.
Sull'astronave XQB 3821, il Comandante XQB 3821 ordinò di inserire la protezione. Subito, i sette dischi volanti scomparvero dallo schermo di qualche migliaio di radar, mentre altrettanti tecnici elettronici di varie marine, aviazioni, servizi meteorologici del mondo sorridevano pensando che qualche dilettante avrebbe preso quel banale (sconosciuto, ma certamente banale) fenomeno elettromagnetico per uno sbarco di UFO.
La protezione era molto utile nell'esplorazione di pianeti nuovi e sconosciuti, potenzialmente ostili; essa rendeva del tutto trasparenti allo spettro elettromagnetico in tutta la sua lunghezza d'onda; non si poteva essere uditi, né il calore corporeo poteva essere rilevato, e nessun ricevitore posto sul pianeta poteva intercettare le loro comunicazioni radio.
C'era uno svantaggio, le astronavi non potevano comunicare fra loro, ma soltanto inviare messaggi radio al satellite orbitante che li rifletteva su Callisto approfittando di una distorsione spazio - temporale, ma questo non era un inconveniente grave, ogni astronauta sapeva perfettamente quello che doveva fare.
La formazione si divise e le astronavi scesero nell'atmosfera terrestre, raggiungendo ognuna le zone di esplorazione assegnate. XQB 3821 fece una lunga planata al di sopra delle acque del Pacifico.
L'acqua correva a velocità folle incontro al disco. Per miglia e miglia intorno non c'era assolutamente nulla al di fuori di quella enorme distesa di acqua verdastra, da cui non sporgeva nulla ad eccezione di qualche microscopico ed inabitabile scoglio corallino.
XQB 3821 imprecò. Questo, ai suoi capi, quei maledetti figli di madre partenogenetica, non sarebbe piaciuto affatto. Costruire isole artificiali costava moltissimo, e non lo si faceva che quando era assolutamente necessario colonizzare un pianeta acquatico.
XQB 3822 sorvolò New York. Gli indigeni del pianeta abitavano quelle enormi strutture cristalline, dei lunghi parallelepipedi grigiastri fatti di qualche strano minerale. Erano manufatti? Per un istante lo pensò, e subito capi che era un'idea assurda. La monotonia delle loro forme e di quell'orrendo colore grigiastro e, in contrasto con ciò, l'evidente irrazionalità delle loro strutture per essere abitazioni...
C'erano milioni di individui in quell'assurdo agglomerato. L'idea di milioni di esseri ammonticchiati insieme l'uno sull'altro come parassiti su di una pianta era semplicemente disgustosa.
Ebbe immense difficoltà a trovare un posto dove parcheggiare il disco; alla fine lo ancorò con un cavo, anch'esso invisibile, nella baia di Manhattan, a un'enorme statua dalla fronte cornuta raffigurante un indigeno forse di sesso femminile.
Si imbatté ad Harlem in un corteo di indigeni dalla pelle stranamente più scura del solito, che gridavano e portavano cartelli; c'erano altri indigeni vestiti di blu che cercavano di trattenerli, era una marcia per i diritti civili.
Un conflitto tra due varietà mutanti, concluse XQB 3822, e pensò con disgusto che quegli indigeni erano cosi primitivi che non avevano ancora realizzato il controllo genetico.
XQB 3823 era disperato, era atterrato in pieno Sahara. Quel pianeta era uno schifo; sabbia, sassi, rocce dalle strane forme modellate dal vento, non c'era acqua né traccia di esseri viventi.
XQB 3824 si era diretto al polo nord del pianeta ed era in difficoltà, era affondato per metà in un suolo malagevole in cui era impossibile camminare, una sostanza biancastra che pareva composta principalmente di H20 allo stato semisolido. Oltre tutto, faceva un freddo dannato, ma quel che era peggio, era che gli strumenti di rilevamento magnetico erano letteralmente impazziti, l'ago della bussola girava vorticosamente a vuoto.
XQB 3825 aveva fatto una fatica tremenda a trovare un pezzo di terreno sgombro su cui atterrare. Quel maledetto pianeta era fatto tutto di guglie, picchi e montagne altissime. Atterrò su di un pendio non troppo ripido, sperando che il disco non andasse a schiantarsi nel fondovalle. Era freddo e l'aria era troppo rarefatta: dovette prendere la maschera ad ossigeno prima di uscire.
C'era un indigeno, era un animale antropoide completamente al di fuori dell'habitat tipico degli antropoidi, camminava eretto e aveva la fronte alta; la conclusione era facile, era un essere della specie intelligente del pianeta, anche se primitivo. Stimò che dovesse pesare da un quintale e mezzo a due quintali, era alto circa due metri e venti e grosso in proporzione, aveva tutto il corpo coperto da un folto pelame rossiccio.
Mentre XQB 3825 annotava questi particolari per la relazione, lo yeti lo lasciava fare tranquillamente, anche perché non lo vedeva affatto.
XQB 3826 si era diretto verso il bacino mediterraneo. Atterrò sulla penisola italiana, in una zona non lontana da Pozzuoli, nota come i Campi Flegrei. Non c'erano indigeni, né animali in vista, ebbe però la possibilità di notare che la vegetazione era composta quasi esclusivamente da radi cespugli di ginestra e che il suolo rivelava un vulcanesimo estremamente attivo; solfare, vulcanelli, piccoli laghi di fango bollente, il maleodorante sentore dello zolfo che impestava l'aria, un vero inferno dantesco, anche se XQB 3826 non aveva mai letto la Divina Commedia. Ma la cosa che lo aveva colpito di più (e ne parlò diffusamente nella relazione), era che la superficie del mare di fronte a quelle coste era costituita praticamente da un’unica, riconoscibilissima macchia d’idrocarburi.
XQB 3827 era atterrato in Amazzonia e stilò una relazione terrificante di un pianeta dominato da una vita vegetale mostruosamente rigogliosa, di alberi cosi fitti da impedire di vedere il cielo, di serpenti lunghi parecchi metri, di insetti enormi e aggressivi.
* * *
Nella Sala del Consiglio, AXW 1011, Primo Segretario del Ministero della Colonizzazione Galattica e KTC 3463, Programmatore Capo del Computer Governativo, stavano sfogliando per l'ennesima volta le relazioni della spedizione esplorativa inviata sul pianeta Terra, terzo della stella Sol.
«È completamente inutile», disse KTC 3463, «Immetterle nel computer; nessuna di esse presenta il minimo punto di contatto con nessun'altra.»
«Già, basta confrontare la descrizione del pianeta data da XQB 3821 con quella data da XQB 3823, o gli indigeni descritti da XQB 3822 con l'esemplare esaminato da XQB 3826.»
«Tra l'altro», aggiunse KTC 3463, «XQB 3822 non è stato molto preciso; sembra che sia rimasto molto colpito dal fatto che i terrestri sono bianchi e neri, ma non ha neanche precisato come è diffuso il colore, a chiazze, a strisce, reticolato.»
«C'è una sola cosa da fare», disse AXW 1011, e schiacciò il pulsante di un dittafono.
«KLM 2141?»
«Si, signore?»
«Ordini per la spedizione XQB 382 in missione di esplorazione sul pianeta Terra della stella Sol; trasmissione immediata con priorità A: «Rientrare immediatamente e dirigersi al Centro Medico di Callisto IV, considerarsi in quarantena»; Precedenza Assoluta. TKC 3463, prendi nota e prepara una scheda da inserire nel computer.»
Cominciò a dettare:
«DA AXW 1011, Segretario Ministero della Colonizzazione Galattica.
DESTINAZIONE: Archivio Computer.
OGGETTO: Spedizione di esplorazione sul pianeta Terra, terzo della stella Sol.
CODICE: XQB 382.
La predetta spedizione è annullata, causa la presenza di fattore tossico sfuggito alle analisi nell'atmosfera del pianeta Terra.
Detto fattore risulta causare gravi forme di allucinazione agli equipaggi.
Il pianeta viene dichiarato infetto, posto sotto quarantena e permanentemente interdetto alla colonizzazione.»

martedì 17 giugno 2014

LA STORIA DI LI-PO di Peppe Murro

Non c’era altra voce che il vento presso di loro, il sole disegnava smeraldi sinuosi tra le foglie.
Li-Po guardò Kris con un accenno di sorriso, disegnò un cerchio con la mano sull’erba, chiuse gli occhi, mentre con voce piana iniziò a raccontare.

Nella terra del Cuore c’erano due re inesorabili e crudeli che da anni si facevano guerra: dovunque era dolore e devastazione, morte e carestia. Ma nessuno dei due riusciva a prevalere sull’altro e così un giorno decisero che si sarebbero scontrati solo i campioni dei due eserciti. Il vincitore avrebbe assegnato la vittoria al suo re.
I prescelti furono il prode Ki-Yuan e la fiera Chu-Lai, campioni di spada e d’arco, di lancia e di pugnale.
Perché la lotta fosse più feroce, i re portarono i due guerrieri in un deserto lontano, oltre i fiumi del Vento ed i monti della Luce: “Camminerete insieme fino al bosco dove vi aspettiamo, e lì combatterete per noi.” Questo fu l’ordine dei re.
E andarono via, lasciandoli soli.

Ki-Yuan lisciava ogni giorno la spada, Chu-Lai pettinava i suoi capelli e lisciava i pugnali.
Camminarono molti giorni sotto il sole terribile, senza guardarsi, senza dire parole.
Eppure pian piano Ki-Yuan si sorprese ad osservare sotto la luna come il petto di Chu-Lai si muovesse piano, e Chu- Lai si sorprese della sua sorpresa a guardare le mani di Ki-Yuan e il suo viso…
Impiegarono mesi per uscire dal deserto e mesi per passare le montagne.
Era fiero e sicuro il loro sguardo, ma da tempo Ki-Yuan non lisciava più la spada, né Chu-Lai i suoi pugnali: si guardavano di nascosto, quasi con vergogna, talvolta si scambiarono dell’acqua.
Chu-Lai imparò ad abbassare lo sguardo, arrossendo; Ki-Yuan s’accorse di sognare. E di desiderare.
Camminarono affianco per il resto del viaggio e talora le loro ombre si sfiorarono.
O forse furono i loro pensieri.
Ma finirono i monti, e i fiumi, e le distese desolate: in lontananza si stagliava la linea verde cupo del bosco. Per la prima volta si guardarono negli occhi, ricordarono le parole dei re, tornarono al loro destino.
Al limite del bosco, al centro della terra del Cuore, i loro re li aspettavano,gli eserciti aspettavano: era il tempo !

Ki-Yuan fu vestito di bianco, gli cantarono la nenia dei nemici uccisi, lo salutarono con grida feroci di guerra.
Chu-Lai fu vestita di bianco, gli cantarono la nenia delle sue vittorie, la salutarono con grida e lance alzate.
Di fronte l’uno all’altra, fermi, armati, pronti a darsi la morte: chi può dire il freddo dei loro pensieri?
Si lanciarono urlando l’uno contro l’altra, le lame mandavano scintille e le vesti si attorcigliavano in una danza frenetica e misteriosa, e il ferro baciava le vesti senza lacerarle, la carne non aveva bocche di sangue..

Più Ki-Yuan la guardava combattere e più l’ammirava, più combatteva e più capiva di esserne innamorato; le sue mani impugnavano la spada ma avrebbero voluto carezzarla.
E Chu-Lai non capiva,continuava la danza dei colpi, ma non voleva ferire… le sue mani portavano la morte, avrebbero voluto portare dei sogni.
Combatterono a lungo, il tramonto già incendiava il cielo e incupiva il bosco: si guardarono, fermi, ansanti. Poi Chu-Lai si scagliò verso di lui urlando, la spada tesa in avanti.
Ki-Yuan la guardò, le sue mani si aprirono facendo cadere la spada. Sussultò un poco mentre la lama lo traversava. Lentamente cadde per terra, mentre una rosa rossa si dipingeva sul bianco del sua abito.
Chu-Lai si fermò, si inginocchiò tremando verso di lui: “Perché? Perché non hai schivato il colpo?” Ki-Yuan alzò il viso verso di lei, triste, dolce, : “Perché tu potessi avermi !”

Questa la storia che Li-Po raccontò a Kris, al suo cuore deluso, mentre Solaris cupamente brillava dietro l’oblò, bello nel cielo nero, inestricabile dentro i suoi pensieri.




venerdì 13 giugno 2014

COLT & WINCHESTER



Da qualche giorno, il nuovo blog di racconti western, COLT & WINCHESTER, ha iniziato le proprie pubblicazioni. Invitiamo tutti i lettori, appassionati di questo genere letterario, a visitare il blog, e gli scrittori a collaborarvi con i loro racconti.
http://raccontiwestern.blogspot.it/

mercoledì 11 giugno 2014

COLOSSO FISSO di Giuseppe C. Budetta





  Presso i Greci del periodo arcaico, sotterrato nella tomba vuota, il Colosso (kolossos) vi figura come il cadavere assente, tiene il posto del defunto. Esso non incarna l’immagine del morto, ma la sua vita nell’aldilà. Quella vita che s’oppone a quella dei vivi, come il morto stesso è il doppio del vivo.
                                                                                                                Jean-Pierre Vernant, 2011.  

Nei tempi immemorabili da extraterrestri edificata, la grande statua raggiunse in altezza i duecento metri. I piedoni poggianti su due piatti promontori, su una striscia di mare, slargata al tergo del colosso in circolare baia. Per realizzarla, gli extraterrestri sette giorni avevano impiegato. L’avevano allestita a loro immagine e somiglianza. Aspetto che sarebbe pure il medesimo di Homo sapiens sapiens  cioè il nostro, secondo gli standard ammessi dalle universali leggi evolutive. Con fisso sguardo, ammirava ad occidente il lineare limite dell’orizzonte marino. Essendo fisso il collo, ma non i globi oculari, si sforzava di osservare quanto più poteva ruotando gli occhi in su, in giù, verso destra ed a sinistra. Il resto doveva immaginarlo, oppure arguire di cosa si trattasse dai rumori circostanti. L’anomala situazione avrebbe ricordato il mito della caverna di Platone, dove i prigionieri incatenati dall’infanzia, dai piedi al collo, costretti in una caverna buia potevano fissare solo il muro davanti a loro. I malcapitati vedevano sulla parete le proiezioni di strane ombre che ritenevano reali. Così, il colosso fisso immaginava le cose che del mondo circostante non poteva osservare. Deduceva indizi solo con l’immaginazione eterea, coniugando i dati con le immagini visive davanti a sé.
Un quarto di secolo dopo, gli extraterrestri se ne andarono sconsolati, in perenne tristezza sia per indole, sia per indefessa ricerca di un migliore mondo da colonizzare. Avevano abbandonato in loco la statuaria mole, simile al Colosso di Rodi con coscioni divaricati tra i quali potevano transitare nella sottostante lingua di mare, navi in fila indiana.Nel renderla cosciente, gli extraterrestri avevano applicato la migliore tecnologia, calcoli allometrici alla mano e strambe formule. Avevano assemblato complesse reti cerebrali e congegni, collegati da fibre ottiche, rendendo il gigante statuario quanto più vicino possibile agli esseri viventi, con mente sapiente. Miliardi di nanotubi collegati a microchip ne resero la memoria illimitata, o quasi così come il resto della mente. Circuiti sottili avvolsero l’immenso corpo, coperti da silicea superficie dermica. Circuiti a mo’ di nervi periferici che a nulla servivano tranne che a conferirgli esterocettiva sensibilità e percezione circa il grado di umidità, di caldo e freddo,  riferite all’aria circostante. Nel meato uditivo interno c’era l’apparecchio acustico, ma non quello dell’equilibrio statico che non serviva per una statua priva di movimento. Input ed output provenienti dalla superficie corporea raggiungevano i suoi centri cerebrali, elaborati all’istante. Immagini visive si formavano a partire dal vasto tappeto retinico degli occhi e passate tramite i nervi ottici alle preposte aree visive per la ricomposizione delle immagini del mondo reale che gli si espandeva sul davanti.  
Non aveva sensibilità dagl’interni organi e di conseguenza, non soffriva il mal di pancia e quello di stomaco. Di certo, il siliceo corpo non aveva apparato digerente come il nostro con fegato e pancreas.
Ebbe degli umani la vista perfetta. Ebbe sensori auricolari paragonabili a quelli che in noi collegano il timpano al nervo acustico, agli acquedotti vestibolari e cocleari. Ebbe un perfetto organo del Corti in entrambi i meati uditivi interni e la fessura delle trombe di Eustachio nella parte profonda delle fauci.  
Con l’orecchio sensibile, percepiva suoni e rumori di vario tipo: alti sonanti, acuti, bassi, o gravi. Ebbe l’olfatto e sulla lingua le papille gustative che gli servivano solo per gustare la saliva il cui sapore variava a seconda del chimismo interno. La grande opera di pietra chiara con le narici respirava, sia pure piano ed in modo superficiale.    
Dal terreno, il colosso trasse minerali, acqua e sostentamenti azotati, come fanno le piante d’alto fusto che utilizzano i fenomeni fisici della capillarità. Non si cibava oralmente avendo le mandibole inamovibili. Sostentamenti riceveva dai piedi, aspiranti nutrimenti come profonde radici. Come le piante, però non ebbe amido, tramite la fotosintesi fogliacea, avendo umana pelle. Come talune leguminose, fissava azoto e traeva zuccheri da batteri simbionti, proliferanti sotto le palme dei piedi. Questi artefatti avevano progettato gli extraterresti nel dargli vita ed intelligenza con un corpo perfetto, ma immobile. I cataboliti del corpo statico riversati erano all’esterno attraverso due condotti: l’uretrale e l’anale. Se il gigante di pietra uomo-simile avvertiva bisogno di urinare o di defecare, emetteva di tanto in tanto un liquido giallino scrosciante nel sottostante mare e defecava polverina bianca, simile a sabbia tra le chiappe fuoriuscente, in mare ricadente se non dispersa dai venti.
Fu rigido, statico ed immobile come un masso inanimato. La testa fissa davanti a sé scrutava l’orizzonte marino ad occidente. Le mani tenute parallele al corpo. Come detto, poteva roteare i grandi globi oculari, scrutando la vastità dell’orizzonte davanti a sé. Abbassando la vista, osservava la lingua di bagnasciuga ai suoi fianchi e la striscia di mare che gli entrava da sotto, in mezzo ai divaricati coscioni. Con rancore, si chiedeva perché i suoi artefici lo avessero costruito come statua silicea gigantesca, ma cosciente. Al mattino, aspirava zeffiro salato dalle superficie marine spirante ed osservava la vastità dell’azzurrina cupola, addiveniente a volte cupo e nuvoloso. Cosciente fu di essere su un’isola perché nel suo cervello gli artefici gli avevano inculcato certezze inamovibili. Però, spesso si chiedeva quanto grande fosse l’isola disabitata. Ammirava la vastità dell’oceano innanzi a sé fluttuante che si congiungeva in lontananza col celeste zenit, azzurro e luminoso. Impossibile vedere tutto ciò che aveva attorno. A volte, udiva il vento furioso ululare nel bosco informe alle sue spalle e gli scrosci della pioggia in improvvisi brevi temporali: rigagnoli d’acqua lungo il fisso corpo. Durante le brevi tempeste, il maroso cinereo sollevava grandi onde, alcune delle quali ruinando sulla spiaggia, gli accarezzavano i piedi fino agli stinchi.
Se il cielo era terso, la notte mille stelle osservava roteando in alto il più possibile le oculari sfere, come due cannocchiali astronomici. Sapeva a memoria le costellazioni, avendo insite certezze. Osservava la luna piena e le fasi dell’argenteo astro, spesso dal mare sorgente proprio avanti a sé. A volte, con beata faccia luccicante, la luna piena sembrava animarsi come un vero volto e l’osservava, di lui affascinata. Tutto era movimento e cangiante forma. La notte succedeva al giorno che si disfaceva in notturne ombre. Rossi tramonti ed albe dalle rosee tinte, frapposte incessanti all’andare dei giorni e delle cupe notti. Nel grande bosco, c’erano notturni e diurni animali. Lo deduceva dai rumorii e canti emessi: grugniti, latrati, ululati, guaiti, striduli ragli, nitriti, canti melodiosi e melliflui di usignoli, schiocchi, gorgheggi, cinguettii ed acuti squittii, anteposti alle rosee tinte dell’alba.
Nella ricca sinfonia notturna, cori d’insetti e di rane riempivano l’aria pregna d’umido, accompagnati dal ritmo della condensa sgocciolante dalle foglie. In qualunque ora del giorno o della notte, distingueva rumori e canti d’animali arboricoli, aviari, anfibi, notturni, diurni, carnivori, erbivori, od onnivori. Pause di silenzio interrompevano selvagge strida nella strenua lotta di sopravvivenza. Nel mutismo della natura muta, avvertiva sensazioni che dalla stasi corporea invadevano tenebrose fissità.
Tagliata da burroni, di circa seimila metri quadri, l’isola offriva i paesaggi tra i più caratteristici del mondo. Ai piedi delle rocce a strapiombo, piccole spiagge solitarie, adatte alla nidificazione di gabbiani ed albatri. Ampie distese boscose ed anfrattuosità petrose, popolate da leoni, leopardi, ghepardi, iene, bufali, lupi, sciacalli; poi oranghi, gatti selvatici, linci, giraffe, zebre; poi piccoli animali come donnole, scoiattoli, istrici, ricci, marmotte, lepri. Numerose le razze di scimmie, non mancando i cinghiali e le antilopi. Tra i volatili, lo struzzo nella pianura più occidentale. Nelle restanti zone, pensava, ci saranno pure avvoltoi, falchi, ottarde, cicogne, faraone, francolini, pernici, gabbiani; molte specie di pappagalli, gazze, piccioni, tortore; poi ancora corvi, pellicani, ibis, passeri, rondini ed infine una grande varietà di bengalini e di colibrì di piccole dimensioni e di meravigliosi colori. Il sospetto era fondato perché vedeva alcuni di quegli uccelli svolazzargli attorno, o ne sentiva il canto nel fresco, statico albeggiare. Alcuni volatili gli si posavano sul capo e sulle spalle. Alcuni grossi predatori cominciarono a nidificare nel cavo sotto mentoniero.   
Questa certezza il colosso ebbe insite nella memoria a lungo termine: l’isola è deserta d’individui umani. Altre certezze riguardavano gli animali domestici che l’attorniavano qua e là nell’entroterra: il cavallo, il muletto, l’asino, la pecora, la capra, il cane, il gatto e galline in quantità. Tutti animali trasportati ad hoc dagli extraterrestri, prima della dipartita. Si chiedeva sconsolato: Se potessi camminare, almeno per un poco, pochi passi per di là e per di qua, potrei osservare la variopinta flora e le specie faunistiche… L’isola, avrà di certo una varia e vivida vegetazione arborea. Nella parte ondulata orientale ed in vasti tratti della zona rocciosa del sud, la costa sarà pure ricoperta da distese di arbusti spinosi e di acacie tra le quali le gommifere. Abbonderà la palma Dum e diffusa sarà anche la palma dattifera. Nella zona centrale, sarà presente l’ebano, l’albero della mirra, dell’incenso ed una rara specie di mogano.
Questi interrogativi gli ponevano le complesse reti nervose, elaboranti computazioni quantistiche come base alla coscienza, inserita in quella testa inespressiva ed incantata.
   In anticipo sulla procella, albatros e gabbiani volteggiavano posandosi sulle gigantesche spalle, prima di riprendere il volo sul maroso. Di notte, udiva dal bosco le improvvise acute strida dei predatori ed i fruscii violenti tra le frasche di ch’insegue e di chi cerca la rapida fuga, saltando e dileguandosi in folta frasca. Non c’erano umani che dopotutto conosceva non perché visti, ma perché anche in questo caso gli extraterrestri suoi artefici, gli avevano inculcato queste certezze. Per trascendenza sapeva che questi ominidi mai visti facevano parte della stirpe degli Homo sapiens sapiens.
Molto tempo dopo la extra terrestre dipartita, un popolo in fuga approdò sull’isola remota. Dieci navi entrarono in baia, transitando tra le divaricate cosce del siliceo gigante. Posti gli accampamenti in costa e procacciata acqua e viveri, i piumati sacerdoti per prima cosa osservarono con attenzione il colosso di pietra. Videro che aveva aspetto umano, ma inusitato. Qualcosa d’indefinito lo allontanava dalla materia. Qualcosa di portentoso era insito, ma strettamente connaturato nella scultura. Il colosso urinò nella sottostante lingua acquosa, congiungente la baia al mare aperto. Il fragoroso breve scroscio fece sobbalzare tutti, non solo i sacerdoti, ammantati e piumati. Poco dopo, ebbe la pulsione a defecare e tutti videro fuoriuscirgli dalle chiappe la bianca polvere come arena, prodotto del suo catabolismo limitato. Non emise escrezioni intestinali come le nostre putrescenti feci.
Per questo e per altri motivi oscuri, il colosso fu ritenuto un dio. I nuovi arrivati approntarono sacrifici umani ed augurale sangue rubino, commisto a quello di animali sgozzati ad hoc sul posto,  prese a scorrere sulla rena di lato ai giganteschi piedi. Alcuni gli videro roteare i globi oculari ed altri notarono i flebili movimenti ritmici del costato, come a respirare. I sacerdoti furono d’accordo:

                                                    Nella statua spirito divino c’è.

Il gigante avvertì che una città cresceva, circondando l’intera baia. Navi gli transitavano di sotto, tra le lunghe, non genuflesse cosce. Prima provò angoscia, ma poi fu lieto della nuova compagnia. Navi veleggianti nella vastità dell’oceano ondeggiante. Alle sue spalle, la città crebbe in numero e in potenza. A giudicare dai sacrifici che ai suoi piedi riceveva, il popolo gli era grato, attribuendogli meriti divini che non possedeva. Sbirciò con la coda dell’occhio i potenti muraglioni che si estendevano fin quasi sulla riva, anche se la baia ed il porto dovevano essere prive di mura, aperte all’attracco delle navi. L’eventuale nemico poteva attaccare la città solo attraversando con una flotta la lingua di mare sotto di sé. Fece ruotare allo stremo i globi oculari ed intravide una torre merlata sui declivi a destra. Pensò che si trattava di un popolo guerriero, pronto a difendersi dai nemici.
Torri rettangolari cominciarono a sporgere dalla muraglia ad intervalli di trenta metri ed in certi punti c’era un ulteriore muro di difesa, a corona, ad una distanza di circa dieci metri, rafforzato da bastioni poderosi. Nel lato nord, in direzione della parte interna dell’isola, gl’ingressi erano fiancheggiati da grandi torri, alle quali si univano l’estremità della muraglia: di quella principale e della secondaria. Alte cancellate erette tra le torri. Rampe parallele alle mura immettevano nella numerose porte di accesso secondarie. L’entrata principale della città era ampia e priva di rampe. Da lì, partiva la mulattiera diretta a nord, fendente in due l’isola.
A meridione, il porto a semiluna. Davanti alla baia, poggiante sulle basi erette su una minuta gola, si ergeva il colosso siliceo, ai lati del quale su rispettive terrazze, erano stati edificati due granitici templi: uno in onore del Sole ed uno dedicato al dio del Tempo, Chronos. Per questo, il colosso nomato fu dio del Sole e del Tempo. Se avesse potuto, avrebbe gridato ai quattro venti:

IMMOBILE ED ETERNO SONO, NON SONO IL TEMPO FLUENTE O IL SOLE CANGIANTE

Avendo assoggettato altri popoli, desideroso di formare un grande impero, un acerrimo nemico prese la decisione di attaccare l’isola e la città. Il colosso vide la formidabile flotta nemica avvicinarsi al porto ed urinò per avvertire la gente dell’ imminente pericolo. Per fortuna, le sentinelle sulle turrite torri diedero leste l’allarme, avendo scorto anch’esse la numerosa, inimica flotta. Coi vessilli rubicondi della guerra, le navi degl’isolani fuoriuscirono leste dalla baia tra le cosce statiche del colosso. Scontro navale cruento ci fu. Spinte a tutta forza dai remi, dalla corrente e da furioso vento, galee nemiche piombarono sugl’isolani con impeto irresistibile. L’antistante specchio di oceano coperto fu di rottami e di cadaveri. Frecce infiammate e lanci di catapulte sfiorarono l’immobile statua, senza scalfirla. Il nemico irruppe in baia. Invano, gl’indigeni impetrarono l’intervento del colosso. Invano, gli si genuflessero.
 Avvenne lo sbarco ed il colosso udì feroci grida disperate. Scintillio di daghe, spade, asce, scudi ed elmi. Furore ed urla strozzate. Odore acre di carne arsa, di architravi legnosi e l’assordante fragore di case crollate. Con la coda dell’occhio, il colosso allarmato vide le appendici della città in fiamme. Il fumo fu tanto denso da offuscargli la vista, come nebbioso manto.

MENS ANIMI, TANTIS FLUCTUAT IPSA MALIS

   Poi, fu silenzio e morte. Navi nemiche trionfanti gli transitarono sotto le pudende, entrando in baia. Capì che i valorosi difensori erano stati uccisi, che il nemico s’era impadronito dell’isola, la città distrutta e gli abitanti trucidati.
I vincitori cogitarono come trasportare nella capitale il colosso, ma fuggirono via con le rimanenti navi da improvvisa pestilenza falcidiati, certi che la statua fosse a loro ostile.
Terremoto propiziatorio seguito da un grande maremoto allontanò per sempre le ultime orde di sciacalli, avventatisi con furia feroce ai piedi del colosso al fine di sradicarlo e spezzarlo. Gli sciacalli cercavano di vedere se dentro di lui ci fosse oro. Altri movimenti sismici avvennero nel tempo et in saeculis saecularum la statua sia pur altissima, lentamente s’inabissò. Ci fu un lento bradisismo negativo dalla parte del colosso e positivo nella zona opposta dell’isola.
Per decenni, gli occhi ciclopici furono quasi tangenti alla linea del maroso, scrutando l’elevarsi delle onde luccicanti. Poté respirare con le narici, affioranti di poco sulle azzurre creste del mare. Se l’oceano era adirato con sollevamento di montagne liquide, riusciva nonostante tutto a respirare, trattenendo di volta in volta il fiato. Temette che la terra sprofondasse, che s’immergesse per intero in acqua, che morisse divenendo in tutto e per tutto inanimata statua.
Arrivò un gruppo d’elicotteri e qualcuno lo notò. Arrivarono in tempo dei sommozzatori. Equipe televisive lo ripresero da tutti i lati. Molti scrissero sui giornali e molti libri diffusero notizie sul gigante torreggiante e dalle remote, oscure origini. Si disse della vera ottava meraviglia, mirabolante opora d’ignoti artefici. Alcuni mistici furono certi della sua natura divina. S’indagò su oscuri popoli Amerindi non proprio Americani, non proprio Indiani né Indo-europei. Altri affermarono di Neandethaliani, autori veri del colosso indistruttibile. Altri di arte neolitica. Vattela pesca la verità. Sull’Osservatorio Romano fu scritto a grandi lettere:

TUTTO CIO CHE FU FATTO, IN LUI FU VITA.

L’isola era situata in un punto della Terra che ricadeva nel protettorato USA. Il rigido gigante sia pur cosciente, sarebbe stato posto sul piedistallo in sostituzione dell’obsoleta statua della Libertà, semi danneggiata da vandalici atti. Qualche scienziato aveva sospettato che il gigante non fosse stato una vera statua, almeno nei tempi andati. Qualcuno aveva intuito l’esistenza delle sottoli reti di capillari che dalle palme degl’impressionanti piedi assorbivano liquidi e sostanze organiche. Tuttavia nessuno aveva dimostrato ciò che sospettava. Qualcuno aveva anche intuito che in un certo modo la gigantesca opera poteva trarre un qualche nutrimento per simbiosi coi batteri del sottosuolo. Se ciò fosse stato vero, la statua sia pur di pietra silicea, era vivente. Erano ipotesi troppo azzardate e nessuno volle rischiare a pubblicarle, temendo la derisione.
Situata sulla Liberty Island nel porto di New York, il gigante fisso avrebbe visto il variabile paesaggio coi ruotanti occhi. Avrebbe visto le navi mercantili e passeggeri transitargli tra le cosce ed aerei supersonici sfiorarlo roboanti. Avrebbe pregustato l’aria fumosa di una grossa metropoli, udendo nella notte il continuo rumorio delle auto sul ponte di Manhattan spegnersi per riprendere fragoroso la mattina. Si sarebbe percepito come una entità importante, simbolo della Libertà USA e forse dell’intero pianeta. Di certo, in cuor suo, avrebbe riso del nuovo stato. Egli immobile, simbolo di basilari libertà.
Studiosi e politologi affermarono che la grande statua era uno dei punti di frattura tra le civiltà. Da un lato la tecnologia e dall’altro la barbarie.
Nessuno fu capace di evidenziare ciò che si andava sospettando, tanto meno scienziati bio-fisici, biologi molecolari ed esperti di micro-sistemi ambientali. Nessuno capì davvero che il gigante traesse nutrimento e vita oltre che dall’aria circostante anche da sotto i nudi piedi, tramite micro pori al sottosuolo connessi. Sebbene su due piedistalli di cemento, le invisibili e possenti, capillari forze, coadiuvate da enzimi silicio e calcio litici, aprirono microscopici canalicoli nel cemento armato su cui poggiava adesso. In poco, trasse dall’acqua salmastra nuova linfa a dire il vero non tanto pura come quand’era stato nella sperduta isola, davanti ad una deserta baia. Alcuni notarono che la silice ricoprente lo statico corpo era mutata, diventando un poco verdognola, in particolare a livello delle guance e cosce. Il mastodontico corpo si andava adattando ai tossici locali. Ecco la spiegazione. Resistente fu alle variazioni climatiche, alimentari ed ambientali.
Imperterrito svettante contro le ondate della Storia, presagi traeva dall’orizzonte. Immutabile e cosciente, avvertiva oscuri eventi. Spesso ripeteva in mente:

TROPPI STRONZI. QUESTO PIANETA NON SOPRAVIVERA’ A LUNGO.
 

lunedì 9 giugno 2014

ROBOT di Paolo Secondini



«Questa sì che è bella!» disse Peter Golman, scienziato di prima classe della United Rydel Corporation, al collega Olgo Karel, che era al suo fianco.
«A che cosa ti riferisci?»
«Ma come, non l’hai capito?»
«No, se non ti spieghi.»
Golman si aggiustò gli occhiali sul naso, poi indicò il robot disteso su uno dei tavoli del laboratorio.
«Ne abbiamo finora costruiti a centinaia,» disse. «Automi eccezionali, dotati di varie capacità, come quella di ascoltare, parlare, ubbidire, correre, lottare… ma non ci siamo preoccupati di definirli dal punto di vista sessuale. Praticamente sono amorfi: né maschi, né femmine.»
«È vero!» convenne Karel. «Ci accingiamo a fornirli perfino di pensiero, e non li abbiamo ancora…»
«…dotati di sesso,» lo prevenne Golman.
«Sono certo che riusciremo, in seguito, a far sì che provino anche dei sentimenti, come quello di gioia, amicizia, amore… In tal caso penso che completarli sessualmente, con appositi attributi, sia davvero indispensabile.»
«Potranno innamorarsi tra loro, provare quel che proviamo noi, che provano tutti: gli stessi desideri, le stesse emozioni, gli stessi piaceri...»
«Perché no?»
«…tutti gli aspetti e le conseguenze che l’amore comporta.»
«Certamente!»
A un tratto, Peter Golman divenne pensieroso. Il mento nella mano, restò in silenzio per vari secondi, che a Karel parvero interminabili. Poi, scrollando la testa, emise un sospiro.
«No! Meglio di no!» disse alla fine. «Mi è difficile già sopportare tradimenti e litigi tra esseri umani, figurarsi tra robot. Farebbero scintille!… Per carità, niente sesso!»
Olgo Karel non rispose; si limitò ad annuire.