mercoledì 19 ottobre 2016

SENZA TITOLO di Paolo Secondini

Si ritrovarono, all’improvviso, in un vasto spiazzo bianco e privo di rilievo.
Erano lì, ferme, come cadute dall’alto.
«Che senso abbiamo?» domandò, sbigottita, l’una all’altra.
«Non so… non riesco a capirlo… Forse siamo l’aborto di un raglio?»
«Una cosa è evidente: così vicine e per l’aspetto che abbiamo potrebbero scambiarci per due elle minuscole,» rispose la i maiuscola alla propria gemella.

sabato 8 ottobre 2016

OSSA DI ZUCCHERO di Frank Bernardi

 
Non veder, non sentir m’è gran ventura
Michelangelo

 
Gli abeti, non pochi, erano però assai spelacchiati, paurosi, come colpiti da qualche virus.
“Non li ricordavo – dissi a mia madre accanto a me in macchina – così brutti”.
“Cosa?”, chiese lei da sotto le spesse lenti affumicate. Non aveva capito a cosa mi riferissi.
“Gli abeti, mamma”, precisai, “gli abeti sono spelacchiati”.
“Davvero, Gianna? Non ci avevo mai fatto gran caso...”.
“Forse, mamma, sono sempre stati così”.
“Boh!”, concluse e la vidi addormentarsi in pochi attimi. Russava.
Sette chilometri ancora fino al passo, poi una bella discesa e saremmo giunte al paese.
E sinceramente continuavo a chiedermi per quale motivo mi fossi offerta di accompagnare mia madre Alda al paese. Erano ormai svariati anni che mi rifiutavo di partecipare a quella delirante cerimonia sulla quale nessuno pareva avere niente da ridire o commentare. Questa volta una molla del cervello era malauguratamente saltata: di mia sponte, quasi con inspiegabile entusiasmo – che aveva in qualche misura sorpreso anche una donna semianestetizzata come mia madre - avevo aderito alla paurosa iniziativa, del tutto inutile nonché demenziale comunque si rigirasse la cosa. Già vedevo la porta antica che s’avanzava, l’unico rudere decente del nostro paesello insieme alle vecchie mura. La vettura con figlia e madre la stava attraversando a velocità assai moderata. Facile figurarsi che quell’arco fosse soprattutto la porta di un inferno custodito con cura.
Vetrine e vetrinette, le stesse. Io, la stessa. Mia madre, la stessa. Tutto è lo stesso, malgrado il tempo, tutto è sottratto al tempo. Io, la donna più brutta del quartiere e forse anche della città intera, o perlomeno fra le più brutte. Si comincia dalla faccia, che ha l’indubbio monopolio su tutto il resto, viso malamente scolpito, non finito. O, più in dettaglio: viso da criceta, forse da topa di fogna o magari topa da esperimento. Con fila di denti superiori mai coperti dalle troppo sottili labbra, talvolta violacee talvolta verdi e quasi trasparenti. Dipende da come cade la luce, se è artificiale o solare. Dipende. Con mento che si salda mollemente al busto, escludendo la possibilità di collo. Corpo da scricciolo, sottosviluppato, facile da stritolare. Con esili braccia, che magari ogni tanto si mettono a tremare. Con mani minuscole. Con unghiette piccole e ben curate, almeno quello. Con capelli perennemente unti e calanti (ma perché?). Con gobba. Non così pronunziata, certo, ma comunque un dettaglio, di cui non c’era bisogno, che si somma ad un quadro generale già spaventoso di suo. Non si può inoltre tacere della voce, anzi vocina, piccola, minuscola, tutta frequenze alte, altissime, sgraziate, tanto da muovere al riso l’ascoltatore. Tutto sembra un cartone animato, ma in realtà sono io, la più sgraziata e disgraziata delle donne, dotata non di voce ma di disco che si ode dalle viscere di una bambola Furga.
Poi, come accennavo, ho le ossa di zucchero, graziosissime da frantumare. Forse faranno, ove maciullate, un rumore da scheletro di quaglia d’allevamento, pigolante e prigioniera nel pugno dello chef boia. Una stretta più forte e decisa: e io reclinerò il collo in avanti, docile e cadavere. Cosa che in realtà non mi è tanto facile realizzare da sola nel mondo degli uomini, un po’ per rabbia mia profonda, un po’ per costrizioni oggettive. In altri termini: non m’ammazzo perché spero di vendicarmi, di rifarmi, di avere giustizia. E perché c’è mia madre, l’odiata. “Non puoi darle anche questo dispiacere”. Tutti i giorni, domenica esclusa, salva la messa centrale, fuori casa con codesta per la passeggiata di rito, entro la quale si fa rientrare anche la cerimonia della spesa e dell’irrisione celata - nei miei confronti - da parte dei negozianti. Alcuni bottegai sono ormai morti: li ho conosciuti sin da quando ero bambina e già brutta come oggi, e mia madre, triste sempre, colpevole sempre, mi portava nei fondi bui e impregnati di spezie, incatramati, ove mi spettava una sottile fettina di mortadella da assaggio. Guai se la mortadella non ci fosse stata; trattavasi di una sorta di compensazione. All’inizio perché ero piccola, poi per il mio stato mostruoso. Dalla bottega fino ai neon di supermercati ove l’esposizione agli sguardi del pubblico è massima e ove occorre un robusto allenamento psicologico per non soccombere, sebbene ciò che la gente pensa sia sempre la stessa cosa: guarda che mostro, giriamoci dall’altra parte. “Guarda che orrore, poveraccia, ma certo sarà abituata ad essere osservata”. “Come, del resto, si può evitare di guardarla”. Come, del resto, si può evitare di guardarmi? Vorrebbe dire essere privi della vista. E poi c’è al solito mia madre, non bella ma neppure un mostro come me: tollerabile, in fondo. Coi suoi baffi da vecchia, ma questo è quasi nulla. Mia madre che cammina dietro di me, mai davanti. Una bella coppietta, dunque, anche se risulta poco chiaro se io sia la guardiana di mia madre oppure ella la mia tutrice, l’angelo badante, del resto responsabile della mia venuta al mondo. La quale genitrice, credo io, non si renda perfettamente conto del tipo di gravame che mi ha consegnato dandomi alla luce. O meglio: sente, come un animale, di aver fatto un grave sbaglio, percepisce la colpa su di sé, ma sa anche come ridurre la questione, nel suo intimo, ad un nulla. Il tutto le viene naturale e insieme le conviene.

(Fine prima parte di abbozzo di stesura, estate 2016, Roma)

  

lunedì 19 settembre 2016

LA PRIGIONE PERFETTA di Peppe Murro

Ho passato la Curvatura di Nohr.
Nelle mie innumerevoli vite ho visitato pianeti inenarrabili e traversato polveri stellari. Le dimensioni dello spazio-tempo mi sono ormai familiari, la mia ricerca mi ha portato oltre ogni confine immaginabile.
Finché sono giunto qui, ed ho visto.
Miliardi di unità organiche affannate da infinite emozioni si incontrano e si scontrano nei giri del pianeta, ma non è questa la cosa importante... anche in altri posti ho visto le emozioni generare crudeltà e illusioni, pure altrove ho visto indifferenza e violenza sposarsi con tranquillità.
La cosa che ho trovato meravigliosa e definitiva è altra: queste unità organiche hanno, come tante, uno sviluppo ed una fine, ma c'è una particolarità: quando sono piccoli si comportano come se ne avessero molti di più, mentre quando sono nel pieno vigore della loro età i comportamenti degradano verso atteggiamenti infantili. Questo, da quanto mi dice il computer neutronico, non è dovuto alla loro natura, ma tutto dipende da un aggeggio che portano in mano e con cui comunicano affannosamente ogni cosa con qualsiasi altra unità. Telefonino la chiamano.
E neppure questa è la cosa strabiliante, ma il fatto che tale comunicazione avviene attraverso un programma di condivisione globale. È questo che li rende felici, è questo che annulla crescita e pensiero.
Sono felici di comunicare qualunque cosa, il più delle volte con un tasso di razionalità prossimo al nulla; e tutti sono ogni momento connessi con gli altri, a dirsi nient'altro che suoni. Ripeto, sono felici in questa loro incomprensibile attività e sembra non abbiano altri desideri, mentre si complimentano a vicenda del solo fatto di comunicare.
È la condizione perfetta e finalmente l'ho trovata.
 Certo, come da protocollo, mi sono attivato subito per eliminare ogni possibile ostacolo alla sua esistenza (solo quattro o cinque unità che si affannavano a gridare "chiudiamo facebook"): le ho semplicemente cancellate inserendole nel rumore che quel programma generava, non daranno mai alcun fastidio.
D'altronde, non potevo mica mettere in pericolo la scoperta di questa perfetta prigione, dove tutti sono istupiditi e contenti ?! da piccoli chattano il niente, da grandi cancellano se stessi gridando di esistere con la stessa stupidità... già, quale più perfetta prigione potevo trovare?
Manderemo qui i nostri criminali e li faremo contagiare con questa malattia.
Consegnerò i risultati al mio costruttore, ora posso anche smettere di rinascere.

giovedì 1 settembre 2016

NERO COME LA NEVE di Piero Persiani




Non sarebbe stato facile, questa fu la prima cosa che pensarono quando furono almeno un po' e iniziarono a discutere sul da farsi. Poi, man mano che aumentarono di numero, la soluzione si presentò da sola. Deciso s'era deciso, ma tante cose, all'inizio, non le sapevano, o almeno non sapevano di poterle fare. Poi impararono, e iniziarono a muoversi. Erano circa una cinquantina là sotto, e da allora non erano aumentati più di numero. Ma erano abbastanza. Parlavano, e sempre della stessa cosa. Dapprima non si capivano, slavi sì, ma di paesi diversi. Senza contare gli italiani, pochi, che erano stati i primi, e qualche africano, la cui apparizione aveva dato colore al gruppo. Parlavano sempre della stessa cosa. La stessa cosa. Andare via.


 

***

Fuori dalla finestra la neve, bianca, scendeva copiosa, silenziosa e morbida. Era una condizione che capitava di frequente da quelle parti, e la sua villetta, isolatissima, era proprio in uno dei punti più alti della zona, sul passo del Cimino. Non una grande altitudine, ma abbastanza. Era solo, era il tramonto, che arrivava presto nelle serate d'inverno e col cielo grigio di nubi. La luce del lampione esterno illuminava la danza dei fiocchi che cadevano irriverenti sul dietro della casa e sul casotto per gli attrezzi. Viveva solo, per tutti, ma lui solo non era. Li aveva visti. Li aveva visti tornare da dove credeva di averli definitivamente chiusi, cancellati, sepolti. E invece li aveva visti. Erano tornati. Gli avevano detto che erano state le urla a farli tornare. E con le urla il ricordo. E con il ricordo la rabbia. Ed erano tornati. Era quasi impazzito, allora. Quasi? diciamo pure la verità, era impazzito. I capelli dal terrore erano divenuti improvvisamente bianchi, bianchi come la neve. Aveva smesso la professione, era un musicista di livello, affermato. Sua moglie lo aveva abbandonato. Era ricorso alle cure di uno specialista, uno psichiatra. E questi, naturalmente incredulo di fronte al racconto dei fatti, gli aveva imposto di affrontare i suoi incubi. I suoi incubi. Così aveva fatto, e quando erano tornati, una volta, ci aveva parlato e stretto un patto. Gli aveva proposto la rinuncia alle lezioni di violino, che impartiva regolarmente soprattutto a figli di immigrati e bisognosi, e loro, in cambio, sarebbero scomparsi. Sulle prime non accettarono, volevano vendicarsi a tutti i costi. Lui ribatté, e gli chiese di pensare a quanti dei loro cari avrebbero sofferto, lui morto e venuta a galla la verità. Non molti di loro avevano parenti o familiari ancora in vita, non molti, ma alcuni sì. Avrebbero sofferto ancora. E allora acconsentirono. A patto che lui non si fosse mai allontanato da lì per continuare altrove. Scomparvero. Lui restò solo, ma solo non si sentiva. Oramai era buio già da un po' e decise di andare a dormire. La neve scendeva copiosa, ma se una cosa aveva imparato, era che nulla di bianco può coprire una coscienza nera. Fu un assopirsi. Poi la sensazione. Erano anni che la temeva, erano anni che l'aspettava. Sapeva che prima o poi, in qualche modo, in qualche maniera, sarebbero tornati. Non avrebbero mai tenuto fede al patto. E ora erano lì. Tutt'intorno al suo letto. Lo guardavano, feroci, con il loro ghigno, la loro rabbia. Trasparenti, opachi, eterei. Alcuni con ancora indosso gli indumenti laceri con cui erano morti. Quelli del giorno in cui li aveva uccisi, dopo averli sottoposti ad ogni genere di abusi e sevizie. Gli dissero che il patto era rotto, infranto. Del resto con uno come lui non si fanno patti. Solo la forza, capisce, uno come lui, ed ora erano lì per ucciderlo. Poi, gli dissero ridendo, sarebbero finalmente andati via, lontano, finalmente a suonare, come lui quel giorno gli aveva promesso, che sarebbero andati via, lontano, a suonare. Che lui gli avrebbe insegnato. Invece li aveva seviziati, uccisi e bruciato i corpi. Ma prima doveva morire. Morire. La risata invase la stanza. Gli si fecero sotto, fin sui bordi del letto, e poi sempre più vicino. Erano gelidi, vitrei, grigi. Il freddo lo invase, il suo terrore gli bloccò il respiro, il cuore, se mai ne aveva avuto uno, si fermò. Restò una stanza buia, e un vecchio morto con gli occhi, spalancati, in cui si rifletteva il terrore di una terribile punizione.

 
***

Qualche centinaio di chilometri, ma ne valeva la pena. L'ultimo tratto di strada era stato difficile in particolar modo, ingombrato com'era dalla neve, ma ce l'aveva fatta nonostante il suo furgoncino fosse vecchio e malandato, ce l'aveva fatta. Aveva aspettato il calare della notte e stava per entrare. Era assai curioso. Quella telefonata, il giorno prima, incredibile. Il suo fratellino, che poi era il suo fratello maggiore, che però lui non poteva fare a meno di ricordare come un bambino, perché erano bambini l'ultima volta che si erano visti e parlati. Erano all'orfanotrofio di Timinsoara, ed erano uniti come solo due fratelli orfani potevano esserlo. Non si dividono due fratelli in orfanotrofio, ma l'occasione era veramente importante, e se tutto fosse andato bene si sarebbero ricongiunti, anni dopo, d'accordo, ma in un Paese straniero, liberi, e forse addirittura con una casa e un lavoro. Suo fratello più grande aveva la passione per la musica, era un portento con il violino, ed era arrivato l'invito ad andare a perfezionarsi in Italia, un famoso musicista offriva ai bambini orfani di talento un'opportunità. Così lo vide partire. E poi non si seppe più nulla. Lui, dal suo canto, non aveva nessuna qualità, o forse la più importante, sapeva sopravvivere. Ed era sopravvissuto, infrangendo regole, accettando compromessi, spesso umiliazioni, e a sua volta impartendole. Era arrivato anche lui in Italia, anni prima, ma non con una borsa di studio, nel vano merci di un camion. Ed ora viveva di furti, lavori di muratura, piccoli trasporti. Come avesse fatto il suo fratellino a trovare il suo numero di cellulare, oltretutto clonato, era un mistero. Eppure quella voce era la sua, seppur così lontana, profonda, quasi cavernosa. La sua, del suo fratellino. La stessa inflessione, le stesse espressioni che solo loro, nella loro solitudine di orfani, usavano l'uno con l'altro. Gli aveva comunicato il nome di una località sperduta tra i monti cimini. Gli aveva detto che era un buon colpo, un buon bottino. Avevano riso a quel punto, lui gli aveva detto che se gli proponeva una cosa del genere un musicista di certo non era diventato. Il fratellino, tra uno scherzo e l'altro, gli aveva risposto che no, musicista non era diventato, ma che voleva suonare, a tutti i costi, e che si sarebbero incontrati lì, e lui doveva portarlo via. Era prigioniero o qualcosa del genere. Avevano di comune accordo chiuso la comunicazione, non si parlava di certe cose per telefono. E poi c'era poco da dirsi, si sapeva come andava la vita per quelli come loro. Un padroncino infame gli aveva probabilmente sequestrato il passaporto e lo costringeva a lavorare per due soldi. Ma insieme gliel'avrebbero fatta vedere loro. Gli avrebbero tolto tutto e sarebbero andati a spassarsela, uniti, come ai vecchi tempi. Non certo senza aver prima impartito una severa lezione all'infame. Scacciò pensieri e idee e scavalcò il cancello, era buio, il posto isolatissimo, il silenzio era interrotto solo dal fragrante cedere della neve sotto i suoi passi. Una breve perlustrazione, costruzione a due piani, un casotto a dire il vero molto grande per gli attrezzi, giardino curato così così, del resto era tutto coperto da uno spesso velo bianco. Restò in attesa di qualche segno di vita, per un po', ma nulla, nessun rumore. Che il fratellino gli avesse tirato un bidone? Oramai era lì e non sarebbe certo tornato indietro a mani vuote, non aveva nemmeno i soldi per la benzina del furgone. Infranse il vetro di una finestra e fu dentro. Faceva più freddo che fuori. Girò gli interruttori della corrente elettrica e la luce mostrò una casa che andava in malora. Salì al piano di sopra, quello delle stanze da letto. Sembravano abbandonate da anni, tranne una. In un letto disfatto ammuffiva il cadavere di un vecchio, gli occhi spalancati, nero per effetto del freddo, i denti in mostra da una bocca distorta, un'espressione di terrore. Doveva essere morto da giorni, forse settimane, col freddo chi poteva dire. Di sicuro morto male. Tutt'intorno al letto delle foto crudeli, orrende, insane. Un uomo che abusava di creature piccole, minuscole. Le torturava, rideva in piedi davanti a piccoli corpi esanimi. Restò immobile, mentre il disgusto gli stritolava piano lo stomaco. Lui era un duro, lui era un duro, cominciò a ripetersi per reagire, rimettersi in moto.  La finestra della stanza si aprì piano, mossa da una brezza fuori contesto in quel panorama di orrore immobile. E andò a sbattere su una custodia, che cadde. Una custodia di violino. Solo allora si mosse, aprì la custodia e trovò uno strumento antico, che sembrava di valore, anzi, era certamente di valore. La rabbia gli diede energia, prese lo strumento e lo ridusse in mille pezzi, furioso. Il cadavere cadde dal letto, con un rumore soffocato dalle lenzuola, e si fermò in una posa sconcia, di dolore. Oramai in preda all'ira, cominciò a devastare la casa in cerca di bottino, bottino, bottino. Lui era un ladro, e a parte cadavere e foto, bisognava far presto in quelle situazioni. Il respiro si calmò e si concentrò sull'efficienza delle proprie azioni. Arraffò tutto quello che sembrava aver qualche valore e dopo pochi minuti era già nel furgone. Era andata, ma poco denaro, solo oggetti, argenteria, piccoli monili, due orologi, targhe di partecipazione a concerti che forse si potevano fondere. Il silenzio, il gelo e il buio lo circondavano. Era notte fonda. E lui era un duro. Si era fatto spaventare dal cadavere e dalle foto, ma ne aveva viste e vissute di storie così, in orfanotrofio era roba quotidiana. Sorrise e scese di nuovo dal furgone, finalmente calmo. Una casa isolata, pedofili o meno, nessuno gli avrebbe impedito di vuotarla per bene e a fondo. Pochi istanti dopo stava forzando la serratura di quello che sembrava il casotto ove riporre gli attrezzi da giardino, anche se un po’ troppo grande. Aperta la porta e girato l'interruttore della luce stavolta si illuminò la stanza del tesoro. Non era un casotto per gli attrezzi, era un piccolo museo. Ai muri, appesi, decine di violini con relativa custodia. Si fregò le mani. Un attimo. Poi invece iniziò a piangere. Accanto ad ogni strumento la foto del piccolo proprietario. Foto di bambini sorridenti, ben vestiti, spesso con un violino, in posa con un adulto, probabilmente il vecchio più giovane. No, non era un museo, era un cimitero, l’orrenda sala di trofei di un mostro. Una prigione, dove erano rinchiuse le anime di quei piccoli sventurati. Cercò, e nemmeno troppo a lungo. Suo fratello gli sorrideva, dalla foto, era contento che lo avesse trovato. Allora fu certo, solo allora, e seppe con esattezza cosa doveva fare. Ripose tutti i violini nelle custodie, con la relativa foto, tranne una, che dopo aver baciato infilò nel portafoglio. Poi trasportò tutto nel furgone. Li avrebbe venduti o regalati, non importava, e avrebbero suonato ancora. Chissà dove, ma lontano da lì. Anche quello che gli era più caro. Soprattutto quello.
 

lunedì 29 agosto 2016

INTERMEZZO di Paolo Durando

Sollecito
Accoliti Spa (accoliti@ea.rth  
a: Francesca Tura                          
15 gen      8:30
Gentile prof.ssa Tura,
dopo aver tentato inutilmente di contattarla ai numeri di telefono fisso e cellulare in possesso della Accoliti Spa, speriamo che risponda a questa mail.
Da un recente controllo dei dati, risulta che mancano ancora due sue firme nella pratica che la riguarda, nonché il timbro dell’Istituto scolastico in cui insegna, che ci risulta essere il liceo Abdul Khemal.
Immaginiamo che lei sappia che, se non rimedia a queste mancanze, potrebbe andare incontro a pesanti conseguenze. Queste, ovviamente, non riguarderebbero solo lei ma anche i suoi familiari.
La preghiamo pertanto di presentarsi al più presto ai nostri uffici, gli orari di apertura: 9-12  15-18.
Cordiali Saluti
Dott. O. Sarek
Re: Sollecito
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Accoliti Spa                                  15 gen  h 17.03
Signor Sarek, ho ricevuto la vostra mail, ma non capisco di cosa si tratta.
Io non conosco nessuna Accoliti Spa, non ho nessuna pratica in corso. Deve trattarsi di un equivoco. Quanto alle telefonate che dichiarate di avermi fatto, forse ricordo di averle ricevute. Non avevo risposto perché ho deciso di ignorare i numeri sconosciuti. Solo per sbaglio ho aperto questa mail, avendo confuso stupidamente l’oggetto per il mittente (Sollecito è il cognome di un mio caro collega). Mi riprometto in futuro di non aprire d’istinto le mail perché poi mi sento obbligata a rispondere, il che è seccante e mi porta anche via del tempo prezioso.
Francesca Tura
Re: Re: Sollecito (accoliti@ea.rth)
a: Francesca Tura                        
15 gen. 18:25    
Signora Tura,
forse è lei ad essere caduta in equivoco.
Noi sappiamo bene chi è lei, dove abita, conosciamo i suoi  progetti, che poi costituiscono il motivo per cui si è rivolta alla nostra organizzazione. Non pensiamo che abbia un problema di identità o di memoria, ma se lei continuasse a misconoscerci sarebbe quanto meno imbarazzante. Ci troveremmo costretti a presentarci al vostro domicilio e chiarire la questione in corso secondo modalità che potrebbero non essere piacevoli.
Confidiamo nel suo buon senso e aspettiamo di riceverla nella nostra sede, per discutere definitivamente la vostra posizione.
Dott. O. Sarek
Re: Re: Re: Sollecito
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Accoliti Spa                        
16 gen  h 12:17
Signor Sarek,
La informo che sono stata alla polizia postale per sporgere denuncia. Vi intimo di non disturbarmi oltre, in quanto non ho mai avuto contatti con lei e con la Accoliti Spa.
Francesca Tura
Help!
Francesca Tura   (francescatura@gmail.com)
a: Selma Grava                                 17 gen     21:08
Carissima Selma,
non rispondi al cell, c’è qualche problema?  
Ho ricevuto telefonate ed ora anche mail inquietanti da una sedicente Accoliti Spa, per quanto io non riesca ad avere informazioni su un’azienda con questo nome. Se cerco su Internet non risulta. Ho chiesto ai colleghi e anche loro non l’hanno mai sentita nominare. Ma sembrava che fingessero…
Ho presentato una denuncia alla Polizia Postale e mi hanno detto che non potranno fare molto e che probabilmente si tratta di uno scherzo.
Non mi è mai capitata una cosa del genere e ti confesso che mi è venuta un po’ paura. Non riesco più a stare tranquilla a casa da sola. Non è che per caso domani potresti venire da me e fermarti un paio di giorni? Tra single ci siamo sempre capite… Sarà un’occasione per parlare un po’. E’ tanto che non lo facciamo, non trovi?
Re: Help!
Selma Grava (selmagra@libero.it)
a: Francesca Tura                                17 gen   00:02
Francesca?
Non ho amiche con questo nome, temo che tu abbia sbagliato indirizzo.
Mi dispiace che tu sia in difficoltà. Parli di quell’organizzazione, la Accoliti. Se ti può servire, posso confermarti che anch’io non so di cosa si tratti. Mi chiamo Selma, è vero, ma non siamo amiche, anche se magari sarebbe stato bello esserlo, e forse lo sarà.
Spiacente e comunque saluti.
Selma Grava
 Rispondimi
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Alda Costantini                       17 gen   00:32
Cara mamma,
mi trovo in un incubo.  
Ero preoccupata per delle mail assurde ricevute da una certa Accoliti Spa, che dice di avere in corso una pratica molto importante che mi riguarda. Io non so niente e, per quanto rovisti nei ricordi degli ultimi mesi o anni, non mi torna alla mente nulla che possa riguardare questa misteriosa azienda.
Ho scritto a Selma, ma mi ha risposto un’omonima. Eppure ero convinta che l’indirizzo fosse giusto. Al telefono non risponde nessuno. E anche tu, mamma, perché non ti fai viva?
Ah se potessi venire subito da te, come se non fosse successo nulla. Come se tu non fossi ad andata ad abitare a R.  con quello stronzo! Ho provato decine di volte a chiamarti stamattina.
Sto impazzendo. Non oso provare a chiamare altri amici perché qualcosa mi dice… oh beh, insomma, forse sono un po’ fuori di testa. Rispondimi appena puoi.
!!!
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Alda Costantini                       18 gen   13:21
Niente da fare.
Ho chiamato Luca, Roberto, Silvia. Persino Katia, che non sento da almeno otto anni. Nessuno ha risposto, nessuno! Mamma, solo tu puoi mettere ordine in questo improvviso caos. Ti prego, rispondimi presto! Sono scesa in strada, sono stata nel panificio e mi guardavano tutti in modo strano. Ho cercato di camminare, di guardarmi intorno. La giornalaia, quello del bar, persino l’imam, tutti avevano quel sorrisetto… Non so cosa avessero per la testa, qualcosa di inquietante, di terribile.
Non erano loro. Lo so che ora pensi che io sia impazzita eppure ti dico questo, che non erano loro! Erano stati sostituiti da dei sosia perfetti!
Capisco che si potrebbe ridermi in faccia eppure ne ho la certezza. Sembrano loro, i soliti abitanti di questo quartiere del cazzo di questa città di merda.
Ma non lo sono. Punto. Non lo sono.
Richiesta
Francesca Tura (francescatura@gmail.com)
a: Nuova Mente                              18 gen  19:08
Ho letto del vostro soccorso psichiatrico, vi scrivo perché non sto per niente bene.
Ho dei sintomi inequivocabili di quella che pare si chiami sindrome di Capgras.
Su wikipedia  leggo che chi ne è colpito vive nella certezza che familiari e amici siano stati rimpiazzati da  impostori a loro identici. Nel mio caso anche i semplici conoscenti! Chiedo urgentemente un colloquio. Gradirei una risposta sollecita. Vi prego. Non so più cosa fare.
Re: Richiesta di aiuto
Nuova Mente (nuovamente@ea.rth)
a: Francesca Tura                                 19 gen  10:02
Gentile signora Tura,
indubbiamente i sintomi che descrive sono preoccupanti. La sindrome a cui lei si riferisce, tuttavia, è molto rara. Per invitarla ad una riflessione che abbia uno spessore, la invitiamo a conoscere più approfonditamente il modo in cui questa sintomatologia è stata trattata. Servirà quantomeno a farla sentire meno sola. Non è l’unica, in ogni caso,  che ha avuto o creduto di avere la sindrome di Capgras.  La invitiamo, nello specifico  a scaricarsi il racconto di fantascienza “L’invasione degli ultracorpi”, di Jack Finney, da cui Don Siegel ha ricavato un famoso film negli anni ’50 del secolo scorso. Potrebbe procurarsi il dvd. Ne sono stati fatti dei remake, ma nessuno è all’altezza della prima versione.
Dopo, se vorrà, potrà riscriverci per prendere un appuntamento.
Si rilassi o, almeno, provi a farlo. È importante.
Missione codice 15299874
Accoliti Spa (accoliti@ea.rth)
A: Comitato Centrale                                 22 gen    6:24
Missione compiuta.
Il caso anomalo di Francesca Tura è stato risolto con la consueta efficienza.
Ci siamo presentati a casa sua alle 14,30 di ieri, 21/01/2020. Abbiamo constatato come lei si fosse effettivamente procurata il dvd del film che le abbiamo suggerito e l’avesse visionato. Almeno ha avuto la risposta che cercava, poveretta.
Abbiamo proceduto subito alla sostituzione, essendo il baccello maturo da tempo.
Ora abbiamo le sue due firme che mancavano e il liceo ha provveduto a fornire la dichiarazione timbrata. Da oggi Francesca Tura è dei nostri. Ordinaria amministrazione.
Quante anomalie come la sua restano da affrontare? Poche, sempre meno. Ma comunque alcune migliaia da queste parti. Gli italiani sono sempre gli ultimi, in Europa. Più diffidenti e meno solerti nel presentarsi ai nostri uffici, accumulano ritardi che inficiano l’ organigramma, obbligandoci a numerosi interventi in loco. Dobbiamo solo avere pazienza.
Il metodo l’abbiamo e dobbiamo ringraziare, per questo, Jack Finney.
Una cosa del genere, a noi, non sarebbe mai venuta in mente.

martedì 16 agosto 2016

IL VETERANO di Fabio Calabrese

Questa mattina, dopo essermi alzato, ho guardato fuori dalla finestra del mio alloggio. È una giornata limpida, senza nuvole. Il cielo è di un bell'azzurro intenso, c'è un gradevole tepore e l'aria è pregna dei profumi dell'erba fresca, dei fiori, dei pollini. La stagione sta cambiando, e ormai siamo decisamente entrati nella primavera.
Così ho deciso, mi sono vestito e sono andato a fare una camminata al parco. Le aiuole sono ricoperte dal verde tenero dell'erba nuova, e gli alberi hanno rimesso a nuovo le loro chiome dopo la pausa invernale. L'aria è piena dei richiami degli uccelli e dei brusii degli insetti.
Come mi aspettavo, ci sono bambini che giocano sulle altalene e sulle giostre sotto lo sguardo vigile dei nonni, e madri che spingono le carrozzine. Dopo aver camminato un po', mi siedo su di una panchina e mi guardo intorno assaporando, quasi bevendo tanta serenità. Pare quasi una cosa impossibile dopo le esperienze atroci della guerra.
Dopo un poco, mi passa accanto un anziano che tiene per mano il nipotino. Vedo che il bambino lancia di sottecchi un'occhiata incuriosita alla decorazione che tengo come al solito appuntata sul petto del giubbotto.
Sento che chiede bisbigliando:
“Nonno, chi è quel signore?”
“E' uno degli eroi che hanno salvato il nostro mondo”, sento che risponde l'anziano.
Scusate la vanità, ma udendo quelle parole, non posso fare a meno di provare un piacevole brivido di fierezza. Però subito dopo, ecco la stura a una lunga serie di ricordi di cose che preferirei poter dimenticare.
Vedete, prima che tutto cominciasse, non ci tenevo proprio a essere un eroe, non ci pensavo nemmeno. Le mie aspirazioni erano quelle di tutti quanti: finire gli studi, trovare un lavoro che mi appagasse e mi desse tranquillità economica, mettere su famiglia con la ragazza che amavo. Sembra passata un'enormità di tempo da allora, letteralmente un altro mondo.
Poi, quando nessuno se l'aspettava, successe. Successe quello che per decenni ci avevano assicurato che fosse diventato impossibile: un improvviso squilibrio, una rottura nelle relazioni internazionali sfuggì di mano. All'improvviso scoppiò la guerra, tutto il nostro mondo cambiò bruscamente per sempre, nulla sarebbe mai stato più la stessa cosa.
Fui richiamato alle armi, mi fu data una divisa. Dopo un mese di addestramento idiota a stare in riga, allineati e coperti, attenti-riposo, io e il mio gruppo fummo mandati al fronte a impiegare quelle armi di cui ci avevano sommariamente spiegato il funzionamento.
Eravamo nella fanteria d'assalto che operava in appoggio ai corazzati. Toccava a noi proteggerli ai fianchi e alle spalle dai cecchini con le armi anticarro, seguirli nelle loro punte offensive allargando gli sfondamenti, distruggere i nidi di mitragliatrici. Era un compito duro, ce ne rendemmo presto conto, man mano che molti di noi erano impietosamente falcidiati nei combattimenti.
Io però fui relativamente fortunato fino a quando non ci mandarono all'assalto di quel maledetto bunker che i cannoni dei nostri carri avevano danneggiato assai meno di quel che sembrava. Eravamo scattati in avanti per liquidare le ultime resistenze nemiche, o almeno così credevamo, quando fui centrato in pieno dalla granata di un obice ben mimetizzato.
Fu un lampo, un istante, feci in tempo a comprendere che per me era finita, la cosa fu così rapida che non ebbi nemmeno il tempo di provare dolore.
Stranamente, mi risvegliai alla coscienza, ma le sensazioni che percepivo erano tutte distorte, come se provenissero da qualcosa che non era il mio corpo. Impiegai del tempo a capire cosa fosse successo. Quel proiettile aveva spappolato il mio corpo, ma il cervello era rimasto intatto. Tempestivamente recuperato, ero stato inserito in un programma sperimentale per trasformare i soldati nelle mie condizioni, mutilati o peggio, in driver di corazzati o sistemi d'arma
Come lo compresi, maledissi quei dannati: prima mi avevano tolto la mia vita per la loro sporca politica, poi la mia umanità trasformandomi in una macchina, senza nemmeno lasciarmi il diritto di morire in pace.
Li maledissi, li odiai, ma poi finii per provare anche una sensazione di amaro piacere, quello di avere un corpo indistruttibile che se la rideva delle mitragliatici, sentire il terreno sotto i cingoli come sotto i piedi, di notte accendere gli infrarossi e vederci come di giorno. Sparare, caricare il potente cannone di cui ero dotato e seminare la distruzione, era semplicemente come sputare. Voglio essere sincero, nei momenti degli assalti finivo per provare una specie di ebbrezza selvaggia.
Poi successe di nuovo qualcosa che nessuno aveva previsto: era intervenuta una nuova forza a spazzare via con un pugno d'acciaio i combattenti dell'una e dell'altra parte. Fui catturato e riconvertito. In pratica mi furono cambiate le insegne e mi rimisi all'opera, tanto, a quel punto, una parte valeva l'altra.
La guerra giunse al termine con una rapidità sorprendente. Riebbi un corpo sintetico ma umano, e fui congedato, congedato CON ONORE.
Mi alzo dalla panchina e mi dirigo verso il bar. Da un lato c'è la fila dei ragazzini che acquistano gelati e dolciumi, dall'altro ci sono i tavolini della caffetteria. Vedo che a un tavolino è seduto il guardiano del parco. Non avendo in realtà molto da fare, è venuto anche lui a consumare qualcosa.
Lo saluto con un gesto della mano, siamo vecchi amici. Essendo entrambi dei cyborg, abbiamo subito solidarizzato.
“Se non l'hai già preso, ti offro un caffè”, dico.
Lui annuisce e mi ringrazia mentre vado a sedermi vicino a lui.
È anche lui un cyborg, ma con una storia molto diversa dalla mia, è un terminator, e anche di loro ne sono rimasti pochi, quelli che come lui sono stati riconvertiti come guardiani o simili, la maggior parte sono stati smantellati. Non essendoci più esseri umani, tranne che in questa riserva-memoriale del mondo scomparso, non essendoci più nessuno da terminare, erano diventati inutili.
Porto la tazzina alle labbra e assaporo il caffè lentamente.
Questo mio corpo sintetico è meraviglioso; ho quasi le stesse sensazioni gustative del mio vecchio corpo umano.
Skynet è stato generoso.   

venerdì 5 agosto 2016

FUOCO FRANCESE di Frank Bernardi


Il "fuoco francese" è un'infiammazione del cavo orale che porta alla comparsa di dolorose placche che si inspessiscono; il fenomeno interessa soprattutto gli adolescenti. Si accompagna a stati d'ansia e visioni notturne. Nel tardo Medioevo alcuni medici "francesi" credettero di leggere in ogni placca una lettera dell'alfabeto. Ne seguì la vera e propria moda di trarre dalle placche un vaticinio.
Molti medici francesi vaganti per le campagne avevano la spaventosa abitudine di recare con sé un ragazzetto infetto (dopo averlo comprato per qualche moneta da una famiglia ben contenta di sbarazzarsi di una bocca per lo più divenuta del tutto inutile e maledetta) in maniera da potere arrotondare i miseri compensi derivanti dall’arte medica con gli incassi dovuti ai vaticini. I ragazzetti infetti morivano dopo un anno circa, mese più mese meno, semestre più semestre meno, col sangue irrimediabilmente avvelenato.
Tale pratica del fuoco francese (e naturalmente l'infezione cui si doveva il morbo stesso) si dice sia resistita per un secolo circa, per poi scomparire con gradualità. In realtà se ne trovano tracce e testimonianze anche in età illuminista.
Il “fuoco”, che oggi non si chiama più con tale appellativo e che si cura con pasticche di potassio, almeno in una prima fase dall'esito di solito fausto, regrediva all’apparenza. Per poi ripresentarsi con placche più robuste di prima, sulle quali i medici leggevano le lettere immaginarie. Ma la pacchia e lo sfruttamento non sarebbero durati ad libitum.
Col tempo le placche micidiali apparivano anche nelle zone riproduttive della disgraziata gioventù, finché il soggetto rendeva l’anima tra le febbri che lo divoravano. Particolarmente richiesti i vaticini in limine mortis, perché del maiale non si butta via nulla. Non si butta nulla oggi, in tempi di relativa abbondanza, figuriamoci secoli fa... Del resto, come si immagina, i vaticini in limine mortis erano considerati quelli più veritieri perché più vicini all’aldilà. Col perdurare di simili aberrazioni anche nel settecento, il castello illuminista con tutti i suoi addentellati di illusione e riscatto si sgretolava. Cosi' come il fondo di benignità originaria di uno stato di natura. Nella natura lasciata allo stato brado proliferava anche il necessario ingrediente della morte, di fronte al quale lo sguardo si abbassava, intimorito o sdegnato. Non restava che rimandare la salvezza della carne, cioe' il qui ed ora, ad un altro mondo, infinitamente distante. Un po' come avviene oggi, con la cosmesi infinita che inizia quando il corpo vive ancora - e spera segretamente o fa finta di niente - e prosegue nella bara esposta, irrisione ultima dopo un'esistenza trascorsa all'oscuro di tutto. Un po' come avveniva un tempo. Stato di natura o inganno grande?
Ecco piuttosto le piccole tristi carovane, o le avresti definite immonde comunità, condotte dai “medici” dalle palandrane lise con le decorazioni sudicie e strappate. Medici in babbucce bucate, le unghie dei piedi bluastre e ritorte, o con i piedi infilati in quelle che erano oramai parodie di scarpini dal tacco consunto. Medici con tanto di frustino ricavato da un ramo, utile per castigare e guidare la mandria. Carovane composte di fanciullini mocciosi e febbricitanti, le labbra riarse, gli occhi lucidi, le ininterrotte flussioni di muco grigio e rossastro.  Fanciullini che, curiosamente consapevoli della parte loro riservata, mugolavano nenie da internati e rivolgevano lo sguardo obliquo al cielo. Una preghiera al dio cattivo e un'implorazione per un avanzo qualsiasi.
Fanciullini che venivano invitati a spalancare la bocca per offrire lo spettacolo corrotto e insostenibile di quei cavi orali, di quelle mucose invase dalle placche di pus. Ogni placca una lettera. “Tornerà mio figlio dalla guerra?”, chiede l’illusa contadina. “Oui”, legge il medico in bocca al ragazzo ormai esperto. “I suoi occhi vedono quelli di Cristo crocifisso”, racconta alla contadina il medico capobranco. E intende sottolineare quanto il vaticino sia veritiero, totalmente degno di fede, poiché quel fanciullino lì che ha spalancato le fauci, tutta una piaga, tutto un bruciore, non ha che un mese di vita, due al massimo, e perciò l’anima sua è più di là che di qua, e dunque da quella bocca giovane e dilaniata dal fuoco francese non può che uscire la verità. “Ora pagatemi, donna, o il lieto annuncio può riversarsi nel suo esatto contrario. Avete capito?”. La contadina non ha compreso proprio tutto, parola per parola, ma il concetto centrale e la minaccia contenuta nel medesimo le sono più che chiari. Non ha monete, può offrire solo un paio di polli vivi. “E sia”, sbuffa il medico. “Ma non basta”, aggiunge. Così la donna dà fondo alla dispensa e tira fuori una caciotta. L’avido artiglio del medico prende il formaggio e lo fa scivolare in un sacco dove i polli si dibattono. “Tutto qui?”, sottolinea. Al che la misera si inginocchia a mani giunte e confessa d’aver finito ogni scorta. Il medico brontola, le dà le spalle e si allontana coi ragazzi, di cui tre tenuti al guinzaglio. “Andiamo!”, sibila con voce roca dando uno strattone alla corda da cui si dipartono tre cappi che circondano il collo degli sventurati schiavi ammalati. Ammalati e deboli, incapaci di scappare, ma bravi a fare scena. La truppa si allontana, mentre la contadina resta lì in ginocchio e prega, prega la vergine che le ridia il figlio maggiore partito a forza per qualche guerra.
 

mercoledì 27 luglio 2016

L’AMBASCIATORE di Fabio Calabrese

Dall'alto, il pianeta non appariva molto diverso da tutti quelli che ospitano la vita, persino bello, con l'azzurro degli oceani che contrastava con il verde delle zone ricche di vegetazione, e le striature di nuvole bianche che solcavano l'atmosfera, ma quando si scendeva di quota, le cose cambiavano aspetto: le foreste cominciavano a mostrare il loro volto intricato, cupo e minaccioso, le catene montuose si alzavano ripide e acuminate come denti famelici di bocche gigantesche, e si stentava a riconoscere le “città” delle creature native, giganteschi tumuli di fango essiccato, il cui interno doveva essere traforato da innumerevoli gallerie.
L'astronave Franz Kafka decelerò ulteriormente immettendosi in un'orbita bassa che si andava trasformando in un'ampia spirale che l'avrebbe portata ad atterrare sul suolo di quel mondo.
Il capitano, che era un uomo di una certa cultura, pensò per l'ennesima volta che chi aveva scelto il nome della nave doveva essere dotato di un senso dell'umorismo alquanto perverso.
La nave stava sorvolando un'immensa pianura erbosa che pareva sgombra da ostacoli naturali, il luogo scelto per l'atterraggio. Poco più avanti c'era una grande “città” degli alieni. Il capitano ordinò al navigatore di accendere i retrorazzi in maniera da rendere la decelerazione più rapida.
Con un lieve urto, il velivolo terrestre si posò sul suolo del mondo alieno: un atterraggio da manuale.
Una sezione laterale della nave si aprì. La paratia che si era aperta immetteva direttamente nel cubicolo di Gregor, l'ambasciatore. Gregor era una creatura che per le sue anomalie era stato giudicato il più adatto a fungere da ambasciatore dell'umanità per quel particolare tipo di alieni. Durante tutto il viaggio, era rimasto segregato in quel cubicolo sigillato, senza contatti fisici con il resto dell'equipaggio. Anche l'ingresso da cui era salito a bordo era separato da tutto il resto, era la stessa paratia che ora si era aperta per farlo uscire.
Per tutto il viaggio, gli unici contatti che Gregor aveva avuto con il resto della nave e dell'equipaggio, erano rappresentati dai supporti vitali tramite i quali gli arrivava il nutrimento ed erano asportate le deiezioni, e il collegamento audio. L'apparecchio che era stato impiantato al collo di Gregor era un piccolo gioiello di tecnologia, non era una semplice radio, ma trasformava in suoni udibili e in onde radio i movimenti mandibolari di Gregor che era sprovvisto di corde vocali.
L'ambasciatore scese zampettando e cominciò a inoltrarsi nella pianura di quel mondo alieno. La “città” degli esseri nativi non era molto distante.
“Gregor”, chiese il capitano chiamandolo dalla radio di bordo, “Tutto bene?”
“Si, capitano”, rispose Gregor, la “voce” dell'apparecchio aveva un timbro stranamente metallico, “Respiro regolarmente”.
“Bene...”.
Poco più avanti Gregor incontrò uno dei nativi, e rimase sorpreso nel constatare quanto gli somigliasse. La creatura aveva un paio di lunghe antenne con le quali toccò la testa di Gregor.
L'ambasciatore rimase più che sorpreso, stupefatto: quello era un modo di comunicare che non avrebbe mai immaginato, di colpo i pensieri della creatura gli furono chiari nella mente. L'essere si chiamava Kwwlkwx, e Wwwkkllmtp era invece il nome che dava al suo popolo; il pianeta nella loro lingua si chiamava Tmssklptm, tutti termini che Gregor disperava di riuscire a rendere in suoni umani, ma non era questo l'essenziale. L'alieno era sorpreso più di lui di aver incontrato una creatura proveniente da un mondo remoto negli spazi, ma il suo atteggiamento era amichevole, gli trasmise che la sua gente sarebbe stata lieta di conoscere gli stranieri provenienti da un mondo lontano.
Gregor comunicò all'astronave.
“Ho contattato un alieno. Per ora tutto bene, capitano. Sembrano amichevoli”.
Poi si mise a seguire Kwwlkwx diretto alla “città” dei Wwwkkllmtp.
Nelle ore seguenti ci fu un fitto scambio di messaggi.
Il capitano era molto interessato al modo di comunicare telepatico degli alieni.
“Non credo che possa funzionare con voi”, disse Gregor, ma a ogni modo io posso farvi da interprete”.
I terrestri si misero al lavoro, erigendo subito fuori dall'astronave una spaziosa tenda a cupola per l'incontro con gli alieni, mentre il popolo di  Wwwkkllmtp preparava una delegazione per incontrare i nuovi venuti provenienti da oltre lo spazio.
Un'oretta più tardi, Gregor era di ritorno portando con sé la delegazione degli alieni. La tenda a cupola fu aperta e furono fatti entrare alla presenza della delegazione terrestre.
I terrestri fecero appena in tempo a pensare quanto gli alieni fossero grossi, brutti e schifosi. La reazione dei  Wwwkkllmtp fu ancora più rapida e li prese del tutto alla sprovvista. Come un uomo che senza pensarci, schiaccia istintivamente un insetto, così i nativi si buttarono sui nuovi arrivati, dura chitina contro tenera carne, e li fecero rapidamente a pezzi, cominciando subito a divorarli.
Kwwlkwx mise di nuovo le sue antenne sul capo di Gregor.
“Perché non mi hai detto”, gli chiese, “Che il tuo pianeta è infestato da queste ripugnanti creature?”
Imbarazzato, Gregor Samsa non seppe cosa rispondere.
 

mercoledì 20 luglio 2016

DE INSULA REMOTA di Giuseppe C. Budetta

Antenato monaco materno, morto in monastero cistercense, lasciò in eredità al mio paterno nonno una vetusta pergamena col titolo in gotici caratteri:
DE • INSULA • REMOTA
Alla scadenza esatta del quindicesimo compleanno, il nonno mi regalò la preziosa pergamena su consiglio di mio padre, entrambi speranzosi d’invogliarmi nello studio sia pur tardivo, del latino. Di recente, mi sono ancora cimentato nella traduzione del vetusto testo, sia per curiosità, sia per rinverdire la classica cultura. Mi sono infine accorto che vi si narra di una inesplorata isola, visitata nei tempi andati da Goti fuggitivi. I fatti si riferiscono a poco dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente: sanguinosi accadimenti, consequenziali alla riconquista di Cartagine da parte dei Bizantini. Nel 533 dopo Cristo, le milizie di Belisario distrussero Cartagine e fecero strage degli occupanti Goti. Come ordinatogli da Giustiniano, il generale Belisario non solo distrusse la città, ma sterminò i barbari che vi si erano insediati, compreso le donne, i vecchi ed i bambini. I pochi superstiti riuscirono a prendere il mare aperto su una vecchia trireme. I fuggitivi si portarono via l’ingente tesoro sottratto a Roma da Alarico, nel 410 dopo Cristo. Come la pergamena dice, questo tesoro fu nascosto non secondo la tradizione sotto il corso del Basento, ma in mare nei pressi di una misteriosa isola, o insula remota che suppongo sia l’ultima delle odierne Azzorre. Nella traduzione, ho lasciato di proposito alcune brevi frasi in latino. Per pochi nomi comuni e propri come Gothi e monacho, ho rispettato la vecchia dicitura Alto-medioevale. Qua e là, ho inserito le congiunzioni latine et, o atque. Dove non capivo il senso della frase, ho usato il termine quoniam coi punti sospensivi. Ecco cosa il vetusto testo dice.
Alone lunare inargentava l’acquosa et piatta distesa. Mi ricordai di un vecchio detto latino:
Adspirant aurae in noctem nec candidua cursus luna negat.
La prua della grande nave tagliò le placide onde diretta ad occidente.
Mari undique et undique coelum. Lucis egens aer.
 Atterriti dalle stragi perpetrate dai legionari di Belisario in Cartagine arsa, oltrepassammo le Colonne d’Ercole e virammo col vento amico verso il grande Oceano. Scrutavamo atterriti se mai qualche nave romana c’inseguisse. Ci ritenevano usurpatori dei territori imperiali nel nord-Africa, ma eravamo pacifiche tribù provenienti da oltre il Danubio, scacciate dalla furia degli Unni.
Quoniam…Al mattino del quarto giorno di navigazione, s’intravide ad oriente ancora la costa piatta ed arsa della Mauritania e ad occidente, solo la nebbiosa linea dell’orizzonte. Un improvviso vento diresse la trireme nel grembo del grande Oceano, mai raggiunto dagli umani. Povero monacho dei Gothi prigioniero, costretto a seguirli nella rovinosa fuga da Cartagine, messa a ferro e fuoco, mi feci il signum crucis e cominciai a pregare. La divinità che tutto regge accolse le mie orationes magna cum desperatione plenae.          
Al crepuscolo dello stesso giorno, mentre la pesante e vecchia trireme era sballottata delle gigantesche onde senza direzione et meta, la vedetta gridò: “Le isole, le isole…”
Ringraziai la sant.ma immago dell’Immacolata et statim ricordai il monitum che l’Arcangelo Gabriele mi aveva detto in sogno et in aeterna ammonizione:
Chi ad altro tende che non sia solo Dio e la salute dell’anima, non avrà che tribolazione e dolore.
 Al crepuscolo serale, ci fu calma piatta. Il vento ed il mare avevano cessato le infernali, ma brevi sfuriate. Propinque alla costa, spiagge deserte con candida ed immacolata rena. Oltre le vaste radure sabbiose, palme di datteri e siepai intricati. In alto, volteggiavano ancora grossi e sconosciuti uccelli. Si vedevano tre scure isole non distanti tra loro, circondate da placida acqua, luccicante e trasparente. Colori fini et alieni et cum maximo pavore, sembravano appartenere più all’Arte che alla natura, più allo spirito che alla materia. Poteva essere che le silenziose ombre serali significassero che il sospirato approdo fosse più un fatto miracoloso atque eccelso che un evento del caso. I Gothi levarono un grido di gioia che trafisse la sera ed il silenzio angoscioso. Igor, il capo dei Gothi, decise di approdare sull’ultima delle tre isole, la più remota dalla Mauritania da cui cinque giorni prima ci eravamo allontanati. Siccome era quasi notte, si decise di aspettare il mattino seguente per il sicuro approdo. Nel frattempo, alcuni dei più validi guerrieri erano scesi in mare. Per non affogare, si erano aggrappati ad una specie di trave, calata apposta in acqua. Enim, i guerrieri avevano risalito la spiaggia sabbiosa e legato con una lunga fune la prua agli alberi di datteri più vicini. Enim, alcuni dei Gothi avevano dormito in spiaggia con una sentinella di turno, ma la maggior parte, compreso le donne ed i bambini avevano dormito sulla nave. A turno anche sulla prua della nave, una vedetta di guardia restò. Dulcis et clara et serena fu l’alba rosata et la verde, iridescente boscaglia dell’isola extrema ebbe la freschezza dell’anima pura, timorata dal Creatore. All’alba del giorno dopo, Igor fece calare sul bagnasciuga la passerella. Cominciarono a scendere gli uomini, alcuni dei quali feriti nell’ultimo et strenuo combattimento contro i Bizantini. Subito dopo, scesero le donne con in braccio i bambini. Infine, furono traslati in riva i bagagli e le armi di riserva. Quando l’intero popolo superstite ebbe lasciato la nave, contai quasi trecento persone fuggitive. Si cominciò a scaricare altri bagagli, i viveri, la scarsa acqua da bere et in extremis, il tesoro di Alarico. Igor ordinò a gruppetti di guerrieri di perlustrare l’isola e cercare sorgenti di acqua dolce. Orgoglioso di sé e forse riconoscente al mio Dio, Igor estrasse un coltello e mi liberò dei lacci che mi legavano i polsi. Non so perché non mi avessero ucciso. Superstiziosi com’erano, non mi avevano ucciso temendo un maleficio infernale. In silenzio, ringraziai il Signore:
Pater noster qui es in coelis, santificetur nomen tuum…
    Le sentinelle spedite in perlustrazione erano discese trionfanti, indicando che alla base di un’altura nell’interno, c’era una grossa fonte d’acqua ed un laghetto. Le donne ed alcuni ragazzi si affrettarono con recipienti di creta ed otri a risalire il corto colle per raccogliere il prezioso liquido. Il tesoro dei Gothi accumulato su un telo verso il sottobosco, luccicava sotto i primi raggi solari che divenivano roventi.
Lumina solis super arbores iridescentes vinxit absoluta in apio coelo.
   Il mare si era chetato e la nave, una vecchia trireme romana che forse aveva superato il secolo, sonnecchiava immobile davanti a noi. Udimmo altre grida più concitate. Alcuni dei guerrieri armati di asce e di coltelli, spediti da Igor in perlustrazione sulle costa occidentale, tornavano gridando al portento ed indicando un punto dall’altro lato della spiaggia. Dopo aver parlato con loro, Igor volle andare a vedere e disse verso di me:
“Vecchio, tu sei segnato dagli dei benigni. Vieni dunque con noi a vedere di che si tratta.”
   Mi tenevano in vita perché ero l’unico a conoscere la scrittura e capace di tramandare le loro vicissitudini? Con Igor e la maggior parte dei guerrieri mentre gli altri sostavano in spiaggia, risalimmo un basso costone roccioso e passammo oltre un tozzo promontorio. Vedemmo infine il portento. Una scultura marmorea, più grande e massiccia di qualsiasi tempio pagano, più alta delle piramidi d’Egitto, si levava sul placido Oceano, ad occidente. L’opera magna distava duecento e più braccia dalla riva. Rappresentava una gigantesca dea, emergente dalle acque marine. Non poteva che essere la scultura tentatrice di un essere demoniaco, nella integrale nudità. Opera di smisurata magnificenza, simile alla Sfinge d’Egitto. La gigantesca scultura in parte emergeva dall’Oceano ed in parte ne era sommersa. Di certo, un potente popolo, con migliaia di schiavi aveva eseguito l’opera eccelsa. Un misterioso popolo, forse nei secoli scomparso. Ardua, possente fatica toccò alle schiere di schiavi nello scalpellare, secondo esatti canoni estetici, il gigantesco et siliceo monumento. La statua raffigurava una dea pagana del tutto nuda, emergente senza verecondia dalle profondità oceanine, come Venere dallo Jonio. Enim, si trattava di un’opera erotica, elevata al cielo per aggraziarsi un ignoto dio barbarico. Sollevai le tre dita in segno di benedizione, onde allontanare gl’influssi del maligno. La gigantesca scultura era come una montagna, o un colle e superava i trecento piedi in altezza. Pensai che all’origine, un masso emergente dal mare fosse stato modellato ad arte da un popolo misteriosamente scomparso dall’isola extrema.   
Il volto inespressivo della scultorea opera era di una giovane dea compiacente, ma lo sguardo era vuoto a perdersi verso il misterioso orizzonte, là dove il mondo finisce ed incomincia la serie dei sette cieli. I piedi per intero fino agli stinchi, sprofondavano negli abissi, a perpendicolo, come le massicce colonne del tempio di Salomone. La dea pagana era immobile ed osservava come in estasi la linea remota che segna i limiti oceanici da nessuno superati.              
Fu allora che accadde il portento. Nel ricordo, persiste il dubito di ciò che vidi. Mirabilia et mirabilia. Fummo senza fiato. La grande scultura si animò, acquistò colorito umano e d’un tratto si girò verso di noi con sguardo umano. Non credemmo a ciò che vedevamo. Ci guardavamo l’un l’altro. Il cielo ebbe sia pur per poco, un cangiante aspetto. Apparve una sottile e lucente trama, come una vasta rete di pescatore: una rete non di spago, ma di luminescente filo. Ad alcuni, parve una ragnatela, o una nuvolaglia nel cielo aleggiante. La lucente trama setosa, diaframma tra questo e l’altro mondo, avvolse l’enorme e muta statua, vivificandola all’istante. L’opera magna ebbe davvero esistenza novella e come un colosso di ciclopica fattezza si mosse e parlò. Verso di noi, con roboante voce, dunque disse:
“Ave, sono Hypnos, sorella di Thanatos e figlia di Chronos, il Tempo infinito. Oltre i sette cieli io sono. Vi aspettavo et nunc vi dico: salverò l’umanità dal baratro prossimo venturo. Io ingrandirò il pianeta con l’aggiunta di un nuovo continente che voi umani solo nel 1492 scoprirete. L’umanità avrà a disposizione nuove terre per espandersi e proliferare. Io manovrerò la Storia affinché nulla della planetaria trasformazione si abbia sospetto. Nel nuovo continente, introdurrò antiche tribù che sembreranno autoctone. Non abbiate timore, ma fiducia.”
Così dicendo, la gigantesca statua tacque e riprese il colore, la staticità e la fissità della materia amorfa. Utqunque, il portento non era finito perché sopraggiunse un forte terremoto. Le onde dell’oceano, poc’anzi chete, presero ad agitarsi frenetiche con incessanti creste schiumose. La statuaria mole ondeggiò e cominciò ad inabissarsi, prima lentamente, poi con maggiore rapidità. Le ginocchia, i fianchi, il prospero seno, il collo, il dolce viso ed infine gli occhi, la fronte arcuata ed i capelli scomparvero sotto il ceruleo mare. Fu come se l’abissale gola dell’Oceano l’avesse ingoiata.
Subito dopo, olim coelum deinde il mare si chetò. Statim, Igor il grande capo dei superstiti Gothi, ordinò che il tesoro di Alarico fosse gettato in mare, là dove Hypnos era emersa e poi scomparsa.
Haec rebus in casu aut in quadam animi pernicone factis perabsurda videntur.
  PS. Ho fatto analizzare da più esperti la pergamena, ingiallita e con piccole chiazze di muffe lungo i bordi. Il responso è stato negativo. Si tratta di una copia, risalente alla metà del XVII secolo circa. Secondo gli esperti, è probabile che qualcuno abbia copiato il testo da una originaria pergamena dell’alto medioevo. Tuttavia, i fatti narrati sembrano inverosimili ed assurdi. Non è credibile che forze aliene abbiano impiantato sulla Terra un intero continente, le Americhe. Un’operazione di maquillage planetaria per salvare i destini dell’umanità.