domenica 21 giugno 2015

PROSSIMA ANTOLOGIA HORROR


                                                               (Probabile copertina)
Pegasus, come i nostri lettori e autori sanno perfettamente, è un blog di letteratura fantastica: fantascienza, fantasy, fiaba, mitologia, horror ecc.
L’horror, in particolare, manca, da un po’ di tempo, nelle pubblicazioni di Pegasus, e sarebbe il caso di dedicare a esso una serie di racconti.
Si è pensato, pertanto, a una raccolta antologica veramente orrifica, sensazionale: in sostanza un’Antologia voluminosa per numero di racconti, valida per la bontà e originalità degli stessi.
Racconti assolutamente inediti, lunghi non più di 16.000 battute, spazi inclusi (due racconti per ogni autore, sia italiano che straniero: il racconto o racconti dell’autore straniero saranno pubblicati in lingua originale, senza traduzione italiana).
L’antologia, come al solito, sarà affidata ai tipi di Lulu.com. Non è prevista copia omaggio per gli autori, in quanto Pegasus non è una casa editrice, né il sottoscritto un editore, ma un semplice lettore e autore che dovrà acquistare la propria copia dell’Antologia.
Dunque: due (2) racconti per ogni autore; racconti assolutamente horror, ispirati a vampiri, licantropi, zombi, streghe, fantasmi o semplicemente a fatti spaventosi reali, irreali o soprannaturali.
I racconti devono essere inviati per mail a  paolosecondini@gmail.com  entro il 20 agosto 2015. In calce al racconto la seguente dichiarazione:

Io sottoscritto (nome e cognome) invio gratuitamente e autorizzo la pubblicazione del mio racconto (titolo), inedito e originale, di cui godo e conserverò ogni diritto, nell’antologia cartacea AA. VV. - FELICEMENTE HORROR.


mercoledì 17 giugno 2015

SUI FATTI DI ROSETTA E DEL FORESTIERO di Stefano Valente



Si pettinava i lunghi capelli biondi con pigrizia, fra il ronzio delle mosche e l’aria fermentata per la frutta caduta in terra, marcita al sole. Il pomeriggio era un istante di languore morbido, un braccio di bambina di traverso sotto a un cuscino; oppure una lacrima spontanea, indifferente, che rigava un viso vecchio di ricordi, e poi si asciugava alla brezza impercettibile delle tre.
Lo specchio rifletteva uno sguardo interrogativo, distante nell’incertezza degli occhi trasognati. Aveva ragione lo zingaro? Sarebbe venuto dal nord? L’avrebbe vista e, il giorno stesso, chiesta in sposa alla nonna?
Le domande mute della ragazza volarono nell’aria leggera come farfalle, o come frammenti di lettere d’amore che qualcuno andava stracciando vicino alla casa in cui riposano tutti i venti del mondo. Le frasi sfiorarono delicatamente, ma più e più volte, la ragnatela del volto dell’anziana addormentata davanti alla soglia. Finché la destarono. Con passo lento, insicura, s’affrettò in cucina, verso la tazza ancora appoggiata sulla dispensa. I fondi polverosi del caffè scossero ancora una volta quella punta di coltello che la donna aveva cominciato a sentire, da qualche giorno, nel suo stanco addome rigonfio: la tazzina con l’impronta delle labbra della sua piccola disegnava il forestiero alto e caparbio, la sua impazienza virile. E la solitudine imminente, la fine della vita nella rassegnazione della vecchiaia davanti alla crudeltà ignara della giovinezza, nel profumo di fiori della sposa dai capelli dorati.
C’era stata la sarabanda della fiera, il movimento delle anime in subbuglio dietro ai carrozzoni, alle bancarelle, alla musica sconnessa delle trombe del paese. Comunque, prima o poi, qualcuno avrebbe notato la sua Rosetta; presto o tardi si sarebbero accorti della sua fronte di madonna, dei suoi occhi da vitellina da latte, delle sue dita da incanti e magarìe.
 Fu Cosic il Guercio a leggerle la mano. Gliela strappò da sotto il vestito della festa e, prim’ancora che Rosetta aprisse bocca, impose i suoi pronostici. Ché poi pronostici non erano, ma verità sacrosante, come giurava Palmira, la più giovane e bella delle mogli dello zingaro, sputando simbolicamente nell’aria, quasi lo facesse sul serio, sulla testa dei suoi sette figlioletti.
Palmira traduceva la lingua incomprensibile del Guercio, e sorrideva alla timidezza di Rosetta; erano cose belle quelle scritte nelle linee della sua mano, e le avrebbe volute saper leggere lei stessa, ma Cosic-« Un occhio » era uno di quegli zingari che non permetteva alle sue donne di recitare il futuro. Eccezione — rarità forse — fra quelli della sua gente, stirpe girovaga di uomini che lasciavano di buon grado a femmine e bambini la fatica e l’ansia della povertà. Tuttavia il Guercio faceva da solo le sue leggi, e quello di guardare nel domani era affar suo, del monocolo e del suo unico occhio, giallo come quello d’un gatto.

* * *

« È molto tempo che vive qui, professore? », domanda il brigadiere con un’espressione indecifrabile, come di chi si diverta e, allo stesso tempo, s’annoi mortalmente del suo lavoro di routine.
« Da troppo, magari. Forse ci sono anche nato », risponde il vecchio nel cappotto scuro con i gomiti lisi e opachi.
« Vede, Licorsi », riprende il professore, « lei viene dalla capitale, da Roma, che per noi — per la gente di qua, voglio dire — è un nord imprecisato, di leggenda, quasi come quello del “forestiero”...
« Lei, brigadiere », continua dopo una breve pausa, prevenendo il militare che è sul punto di parlare, « immagina che appartenere ad un posto permetta, di conseguenza, di vedere nel suo buio come i gatti, di capire, tutto e subito. Anzi, proprio di sapere, che — me lo conceda — è di gran lunga diverso dal capire, è tutt’altra cosa. »
La mano quadrata e rugosa del vecchio mescola lentamente lo zucchero, facendo attenzione, con meticolosità, a che il cucchiaino non tintinni troppo sulle pareti della tazzina. Il sottufficiale lo imita, e beve un sorso del suo caffè. Poi, sporgendosi dalla scrivania, dice:
« Ma qui non si tratta di sapere. I fatti li conosciamo, per filo e per segno, con tanto di confessioni, prove, arma usata per il delitto... »
« Sì sì. Certo, Licorsi. D’altra parte non le capiterà per molto — forse non le capiterà mai più — un fattaccio del genere finché se ne starà ad appassire quaggiù.
« Se fu per amore, o per egoismo. È questo che vuole sapere, non è così? Ma lei è giovane, brigadiere, e si potrebbe accontentare dei fatti, puri e semplici, invece di rovistare in mezzo al dolore per il suo “movente”, come lo chiama. E poi lo cerca da uno come me! Che ne so, io, d’amore e d’egoismo. Ché non sono la stessa cosa, in fondo? E magari è diversa solo l’intensità, da uomo a donna; a venti, a trenta, a ottant’anni. »

* * *

Quando arrivò il forestiero il palazzo era allagato, la pioggia battente e la grandine della notte prima avevano divaricato le crepe vecchie, aperto nuove falle nel tetto, infradiciato muri già curvi. Rosetta, a mollo fino alle caviglie, riempiva secchi e bacinelle con leggerezza. Perché la sua mente era persa nel volto e nelle mani dell’uomo che sarebbe venuto, e l’avrebbe portata via. Tutto era ancora da indovinare e, forse proprio per questo, bellissimo. Allora Rosetta, accanto ai ritratti dei defunti, non vedeva più la tristezza delle madonne e dei bambinelli, delle Santa Rita e dei San Rocco che ricoprivano, da sempre, il vaiolo opaco della vernice delle pareti.
La nonna pregava dal suo letto, rivolta all’immagine d’una Vergine sotto una campana di vetro. Era come un triste Mosè a galla sulle acque, afflitta dall’avvenire ineluttabile che l’attendeva. Per un attimo le sembrò perfino che quella Maria del comò, d’azzurro e di bianco, le avesse voltato le spalle, che si fosse girata di schiena. Non ne vedeva più il capo, leggermente reclinato verso il basso, là dove il piede schiacciava il serpe originale. Ma era la penombra della stanza, e il velo delle lacrime.
Per la prima volta il fischio del treno riecheggiò fino alla casa di Rosetta. Si fece strada fra i canneti pencolanti e spezzati, nell’erba alta, attraverso le viti inselvatichite dall’abbandono. Merito dell’alluvione, probabilmente, che aveva lavato ogni cosa, e anche l’aria, e adesso il vento asciugava la terra con soffi freddi e decisi, neanche fosse — questo mondo — un panno steso, o una bandiera di guerre combattute e scordate, tirata fuori da un baule, per il capriccio d’un minuto, da un bambino con la voglia di giocare ai soldati.
Vi fu qualcuno — anzi, c’è ancora — che sostenne che il forestiero non scese da quel treno, addirittura che non vi fosse mai salito. E che non si perse nella campagna in cerca della strada, finendo, fra le pozzanghere, per bussare all’uscio del palazzo in rovina di donna Tresa, la vedova di don Raffaele. Vi fu chi lo vide armeggiare fra gli zingari e i saltimbanchi, già due sere prima, già prim’ancora della fiera. I suoi occhi luccicavano dei riflessi sfrangiati e guizzanti dell’oro, quello degli anelli alle dita nere ed unghiute del Guercio.

* * *

« Oddio, le voci volano. E tanto è più piccolo il paese tanto sono più veloci. Fanno due giri nel tempo di uno, insomma. »
Licorsi lo ascolta in silenzio, gli indici congiunti sulle labbra chiuse. Il professore cambia posizione sulla sedia — sta scomodo —, e continua:
« Io non credo nel futuro. Negli oroscopi e compagnia bella. Mica perché sono stato insegnante di matematica, no. È come se fossi rimasto contadino, come mio padre e mio nonno. Se c’è il secco basta dire “pioverà”, brigadiere, e farsi sentire bene. Se poi piove, la profezia avrà tutti gli onori, altrimenti... Nel frattempo i poveri di spirito, le donnette, non faranno altro che pensare alla predizione. Capisce cosa intendo? »
« Sinceramente non la seguo, professore. »
« Voglio dire che, secondo me — e anche secondo il “forestiero” —, l’oracolo, la chiaroveggenza, in qualche modo finiscono per condizionare l’avvenire, gli eventi. Perché siamo noi stessi ad interpretare o a causare ciò che succede in base a quello che ci è stato profetizzato... »
« In conclusione, lei crede che l’uomo abbia davvero pagato il Cosic in modo che raccontasse quella serie di fandonie alla ragazza, sullo sposo che sarebbe venuto a portarla via, e tutte le altre storie: quello che si dice in giro, quindi... »
« Le confesso, brigadiere: la tesi della suggestione mi piace », dice il vecchio. « Ma quello che so per certo è un’altra cosa. E glielo dirò lo stesso, Licorsi, alla faccia dell’omertà di noi meridionali, perché mi è simpatico. Anche se non capisco perché si ostini così, ad indagine ormai conclusa. »
« Perché, già », sorride affascinato e lontano l’uomo in divisa. « Lo faccia per la mia curiosità, professore, la prego. Solo per questo. Io… vorrei sapere anche perché sono nato, io. »

* * *

Così il forestiero venne dal nord, con la sua valigia a motivi scozzesi da commesso viaggiatore, accompagnato dal latrato dei cani distanti. Picchiò le nocche tre volte sul legno tarlato del portone. Tre tuffi al cuore per Rosetta. E tre nuovi affondi nel ventre dell’anziana senza più marito, né figli, senza nessuno al mondo se non la piccola Rosetta.
Ora la casa era quasi del tutto asciutta. Rosetta socchiuse l’uscio mostrandosi appena, vergognosa per natura e perché si sentiva brutta, brutta come non mai, non solo per la notte passata a strizzare stracci e vuotare catini d’acqua sporca.
Non è importante come avvenne l’incontro, in realtà. Quali furono le parole — le prime — che l’uomo rivolse a Rosetta. Possiamo immaginare. Un lungo viaggio, solo per lei. Rosetta, la ragazza conosciuta dai sussurri di chissà chi, chissà dove, nel corso dei suoi infiniti andirivieni d’affari. Un’idea, e poi un sogno, che viveva dentro di lui, che era lui. Rosetta restò in silenzio, come al solito. Per non interrompere quell’incantesimo profetizzato con l’ignoranza del suo dialetto, così diverso, e sgraziato, dalla bella parlata del giovane.
E poi l’uomo alto aprì la sua valigia, e c’erano trentatré rose rosse — dicono, quasi in un gioco di parole —, ché quello era il numero dei suoi anni, trascorsi nel deserto senza amore: senza Rosetta. Quel povero Cristo! Le si gettò ai piedi, in lacrime per la gioia. Le baciava il grembiule come una reliquia di santa, chiedendola in moglie. Era come un angelo. Era un’annunciazione nuova ed attesa. Anche Rosetta si inginocchiò, e pianse.
Forse piangeva anche la nonna. O forse no. Ora non avvertiva più la puntura all’addome, ora che, sotto lo scialle nero, accarezzava la lama del lungo, affilato coltello col quale un tempo don Raffaele scannava i maiali.

* * *

« Di certo, so che donna Tresa è una vedova bigotta — una delle tante, quaggiù —, troppo presa a sgranare rosari e a rispettare i precetti. Che non lesse mai il futuro nei fondi del caffè, perché non ha mai saputo, né voluto, farlo. La sua “magia” — chiamiamola così — può arrivare al massimo fino a cento preghiere ad un qualche San Vincenzo, ché conservi il suo tetto dissestato dai fulmini del temporale.
« Il “forestiero” — e questa è una mia convinzione, badi bene — era solo uno di quegli uomini che amano vivere alle spalle delle donne. Un tempo c’erano i cacciatori di dote, ma non vale per i nostri fatti. Forse, quando lo identificherà, scoprirà che aveva già due o tre mogli, che era sul serio un commesso viaggiatore o qualcosa del genere, e che non veniva neanche dal nord, ma che era di un paese della provincia. »
Un tuono fa vibrare il vetro della finestra. Il professore guarda un attimo fuori, poi prosegue in tono calmo:
« Ha visto? La pioggia ha portato il “forestiero”, e adesso se lo riporta via... Magari lui Rosetta l’amava davvero. O se ne innamorò quando le fu davanti, e le vide le occhiaie di bambina, lo sguardo grande e perduto in quel futuro annunciato — vero o falso che fosse — che l’avrebbe soffiata via lontano dall’isolamento, dall’ignoranza, dalla vecchiaia imposta di altri.
« Se vuole sapere come la penso, brigadiere, Rosetta sarebbe diventata la serva del “forestiero”; ché non è strano da queste parti — e nemmeno altrove — incontrare ragazzotti per le campagne in cerca d’una brava domestica, buona per la casa e per il letto, che faccia loro da schiava per la vita. E più ignoranti e disgraziate sono, queste ragazze, meglio è, perché è più facile strapparle alle loro radici.
« Che discorsi, brigadiere? Illazioni da scapolo? Non lo so. Non so se l’abbia fatto per amore o per egoismo. Per la propria felicità o per negare l’infelicità a sua nipote. O per semplice demenza senile, quella che presto o tardi ci tradisce tutti, se non siamo fortunati a morire prima di dimenticarci del nome, della strada di casa, del nostro stesso viso...
« Ma poi sa che le dico, Licorsi? Che in fondo donna Tresa ha fatto bene, e si vede che quella dozzina di coltellate, in un modo o nell’altro, il “forestiero” le avrebbe beccate comunque, da qualcun altro. Da uno zingaro magari, o nel buio dello scompartimento di un treno preso all’ultimo momento, su cui non sarebbe dovuto salire.
« Per me la vecchia l’ha fatto per la sua Rosetta, sì. E così l’ha liberata: liberata due volte. E poi non mi meraviglierei — mi creda — se quell’uomo, quel furbo corruttore di oracoli e indovini, tenesse già tutto scritto, dalla nascita, nel palmo della sua mano. Tutt’e dodici le coltellate della povera Tresa, analfabeta, di anni ottantacinque, che non aveva mai fatto male a una mosca. »

sabato 13 giugno 2015

L’ACQUA TROPPO FREDDA -petit feuilleton- di Peppe Murro



Si chiedeva perché l’avesse chiamato, dopo tanto silenzio. Si meravigliava, anzi, che lei avesse potuto rintracciarlo… eppure aveva cambiato varie volte città, girovagando senza alcuna ragione.
Si guardò le mani, magre, macchiate di vecchiaia, ripiegate con forza da nodi di artrosi. Prese lentamente il bicchiere, sorseggiò dell’acqua fresca.
“Troppo fredda” pensò
Chissà cosa le avrebbe detto, chissà cosa lei gli voleva dire…!
Alzò lo sguardo… Quella striscia di terra tra la foce del fiume e il mare oggi gli appariva troppo stretta, provava un senso di fastidio, quasi di oppressione. E poi c’era troppo vento, troppo…
15 anni! erano passati 15 anni da quando si erano visti per l’ultima volta. Lei allora aveva un corpo fiero, lo guardava con un sguardo tenace e freddo mentre gli diceva: “È finita.”
Scacciò quel pensiero con fastidio, con un gesto della mano sul viso come ad allontanare mosche impertinenti: era proprio rimbambito a gesticolare così, pensò. Chissà per quale motivo lo aveva cercato ! Al telefono era stata molto parca di parole, la voce gentile ma distaccata: “Ti devo vedere” aveva detto “Va bene domani al solito posto?” Lui era stato così pieno di meraviglia che era riuscito appena a dire “Va bene, alle 5 del pomeriggio”.
Ora era lì, davanti ad un bicchiere d’acqua troppo fredda per un giorno d’aprile. Si meravigliò pure che il bar fosse aperto in quel periodo, ma già, la voglia di fare soldi…!
Si tolse gli occhiali, si asciugò gli occhi troppo umidi. “Macché occhi di vecchio” si disse “è il vento che mi dà fastidio” quasi volendosi compiacere d’una baldanza d’età che in fondo non gli apparteneva…
Accavallò le gambe, guardò l’orologio: le 5 e 10. “Sempre la solita, sempre in ritardo”, si disse con un sorriso malcelato nei pensieri. Chissà come era diventata ! magari era sempre bella come allora ! e in quel momento gli prese un brivido di sconforto, pensando che lui, lui sì era invecchiato, rinsecchito con la testa ficcata nelle spalle ! Si scosse come a darsi un contegno, allungò la schiena come a dover fare bella figura…
Qualche rumore lontano, dei cani che correvano sulla sabbia e lì, lontano, l’arco delle nubi sfrangiate che si arrossava del primo tramonto. “E se non viene ? se non può più ?...Ma che vado pensando, mi ha chiamato apposta..”.
Non se n’era accorto, ma qualcosa, proprio alle sue spalle, come il peso di uno sguardo…
Prima che riuscisse a voltarsi per la curiosità, sentì una mano che si posava sulla sua spalla. “Alberto”, si sentì chiamare. Non si girò, non poté.
Aveva dimenticato quanto a fondo penetrava quella voce, aveva cercato di dimenticare, gli sembrava di averlo fatto… “Alberto”, maledetta memoria ! E quel chiodo bruciante nel petto, fatto di mille pensieri che tumultuavano improvvisi e non cercati, pensieri di ieri o di oggi, come lampi improvvisi e dolcemente dolorosi.
S’accorse che il cuore gli batteva più forte mente si alzava girandosi.
Si impose un contegno, quasi senza accorgersi del sorriso stordito e banale che gli si stampava sul viso. “Ciao”,disse e le tese la mano. Lei lo guardò indecisa, poi rispose alla stretta di mano. Con vigore. Con grazia.
Mentre si dava del cretino per essere agitato come un ragazzino, le offrì la sedia, ordinò qualcosa.
Lei posò con calma la borsa, guardandolo negli occhi “Alberto, come stai?”
Si scoprì a scrutarla, il fisico sempre asciutto, il foulard che le copriva il collo quasi a celare un’offesa del tempo, le guance un po’ più scavate, gli occhi…gli occhi sempre uguali, colmi di uno sguardo calmo e avvolgente, pieni di luce e di una vivacità non ancora spenta dagli anni. Appena un filo di ruga le cingeva il bordo degli occhi e sembrava parlare di tempo, di un tempo passato senza pesare. O forse no, era una sua impressione, forse quel fondo di smarrimento triste che le velava a tratti lo sguardo magari diceva che anche lei, come tutti, aveva vissuto, e che il tempo era andato.
Lo scosse la mano di lei sul ginocchio…”Alberto!” “Scusa…dimmi…sì,  sto bene, e tu ?”
Lei sorride..”E’ ancora più bello qui…non hanno ancora rovinato nulla… Sai mi piacerebbe passeggiare un po’, ti va ?” “Andiamo verso il fiume ?”.
S’accorse di un tremito strano, di un trambusto di pensieri che si accavallano sulla sua bocca, si fece forza per non parlare. “Non è passato un solo giorno, è bella, ancora bella” si sorprese a pensare.
Si alzò con un che di pesante, si buttò sulle spalle quell’impermeabile che lo aveva accompagnato da troppo tempo, vergognandosi un po’ di fronte alla sua eleganza di donna.
Lei gli camminava accanto, con lo sguardo un po’ basso…talvolta i loro sguardi si incrociavano in un silenzio imbarazzato. “Ti stai chiedendo perché”, fece lei, “e forse non lo so neppure io. Voglio dire, a questa età e dopo tanto tempo una dovrebbe sapere i motivi…” e tacque.
Lui la guardò in silenzio,quasi avrebbe voluto dirle che non gli importavano più le ragioni, che… “E’ tutta colpa tua”, gli disse di colpo.
Lui la guardò, in silenzio. “Si tratta di mio figlio…”
Suo figlio…quel rumore doloroso nella sua memoria, il figlio che lui le chiedeva e che lei voleva ad ogni costo per completare la sua sorte di donna, quel figlio da lei sempre negato perché la loro relazione abusiva non gli avrebbe dato un padre…quel figlio patito nei loro litigi e nelle loro passioni. Strano che lei ne parlasse, perché gli aveva sempre negato ogni notizia “Non è né tuo né suo” e lui aveva sempre temuto di chiedere, anche se quel silenzio lo torturava, gli rodeva lo stomaco come un trapano di fuoco. Per quel figlio lei era andata via…”Appartiene solo alla mia vita, anche se non sarà mai del tutto mio”. Non aveva capito, forse non voleva; sentiva soltanto che man mano che cresceva, diventava un punto di non ritorno, un muro che si ergeva tra loro due. Eppure non l’amava di meno, ma era lei che si allontanava ogni giorno di più. No, non aveva capito il suo percorso di donna, men che mai accettava questa sua svolta di madre. E l’aveva pagato, dopo anni di litigi e riprese, l’aveva pagato subendo quel suo addio distaccato, senza capirne le ragioni, senza accettarne la crudeltà. Almeno così gli sembrava, mentre con un velo di niente aveva cercato con forza di coprire senso e motivi di quella storia finita…
E’ stato lasciato dalla sua ragazza questo autunno, senza una spiegazione”…
Forse masticò qualcosa come un “Mi dispiace” mentre si chiedeva che c’entrasse ora l’averlo cercato, il volergli parlare…forse aveva bisogno di sfogarsi…ma ora ? dopo 15 anni d’assenza ? e poi, cosa avrebbe potuto fare un vecchio estraneo sbilenco in tutta quella storia ?!...Continuò a tacere….
L’ho visto buttato per giorni sul divano, con gli occhi nel vuoto; l’ho spiato mentre girava per casa o nel giardino con le mani sprofondate in tasca e il viso basso…credimi, ho pure cercato di entrare nei suoi silenzi facendomi respingere con rabbia. Mi sentivo morire allo spettacolo di quella pena, mi son sentita svuotata e inutile…lo vedevo così e non potevo nulla”.
Lui la guardava, vedeva la sua bocca assumere una piega amara, la fronte aggrottarsi in solchi marcati…”Ma..”, voleva dire la solita banalità,” Son cose che capitano, si sta male ma passa…”  E’ stato allora che ho pensato a te”, fece lei, guardandolo in viso.
Anche lui la guardò, con una domanda improvvisa negli occhi. “Ho pensato a come ti sei sentito”.. accennò ad un sorriso nervoso mentre abbassava la testa “Che stupida vero?, dopo tanto tempo…” Alzò il bavero dell’impermeabile, “Tira troppo vento da quelle parti, si sente freddo dappertutto”; si scosse, batté le scarpe per togliere la sabbia: “Sì”-pensò- “C’è troppo vento…!”
Ho pensato a come ti sei sentito”, ripeté lei.
Come si era sentito? Strano, gli pareva di non ricordarlo più, ora invece era come se si riaprissero le pagine di un libro troppe volte letto…ricordava a memoria ogni parola, ogni virgola.
E probabilmente non avrebbe voluto. Non più, almeno… non così, non ora…
Pensò con una fitta "sei stata la mia illusione più amara... ho creduto anche alle tue bugie", ma tacque ancora. Si voltò verso quella linea sottile che segnava mare e cielo, strinse forte gli occhi.
Sentì qualcosa che gli sfiorava la mano, avvertì come una titubanza leggera…poi d’improvviso sentì le sue mani che si stringevano al suo braccio.
Si girò…stavolta sì, ebbe il coraggio di guardarla a fondo negli occhi, ma lei si era appoggiata col viso al suo braccio, lo stringeva e mentre lui stava decidendo se doveva essere sorpreso o felice, avvertì i suoi singhiozzi leggeri, calmi, quasi il pianto avesse timore di farsi vedere.
Una volta si sarebbe sentito ferito dal suo dolore, avrebbe cercato di capirlo e consolarla…altre volte lo avrebbe voluto, ma perché ora non ne era felice, perché ora non si godeva quel dolore che lei per anni gli aveva regalato, perché non sapeva ringraziare la vita di questo massacrante risarcimento ? perché ?… perché anche adesso si sentiva smuovere il cuore e bruciare gli occhi ?
Si sorprese a carezzarle con goffaggine i capelli, mentre pensava che da vecchi ogni dolore avrebbe dovuto essere risolto, ogni pianto proibito.
Si fermò, la prese per le spalle “Guardami”, e le sollevò il viso, “Non fare così…”
Buffo mestiere quello del consolatore, che lui peraltro non aveva mai saputo fare. “Sta’ calma, dimmi…e poi non è bello piangere alla nostra età” – le disse volendo atteggiarsi ad una spiritosaggine che non gli è mai riuscita bene. Come ora, perché lei intanto si abbandonava al pianto, appoggiandosi con una struggente spossatezza al suo petto. E lui girava a vuoto le mani, temeva quasi di toccarla.. le fece volare sulle sue spalle, quasi con paura di stringerla…
E poi sentì che qualcosa lo stava toccando dentro, qualcosa di rovente che da anni era silenzioso…sentì come un vecchio fiume che d’improvviso, senza avvertire, rompe gli argini spandendosi nel suo petto.
La strinse, desiderava stringerla, mentre un nodo dolce e da tempo rifiutato gli si serrava alla gola…”Zolletta…” si sorprese a dirle, “Zolletta…” con un filo roco di voce. E si dava del cretino mentre l’amaro gli gonfiava la gola, si sentì ridicolo a rispolverare quel nomignolo d’amore dopo tutti gli anni passati. Ma non gli importava; mentre passava le sue carezze di vecchio sulle spalle di lei, sentì che non gli importa granché di come si stava giudicando.
E poi vento, forza di vento a buttargli i suoi capelli sul viso, a fargli inumidire gli occhi, mentre sentiva sul petto i colpi dei singhiozzi di quella donna tornata dal nulla, che ora con tanta violenza rimescolava i suoi pensieri…
Passava le mani sulle sue spalle, piano, con tenerezza e trepidazione, muto. Cosa dire d’altronde davanti al dolore esibito così, senza vergogna, in maniera così indifesa ?
Poi lei si ricompose, “Scusa” –disse, e cercò nella borsa un fazzoletto.
Che buffa, ora con gli occhi arrossati e macchie di rimmel che asciugavano a caso sul suo viso. E quella piega, amara, che le solcava il bordo delle labbra. Quanto le aveva amate, cercate, desiderate, col loro volume carnoso che risentiva ancora sulla pelle, con quella tumida freschezza che si sorprendeva a risentire ancora come la stesse vivendo lì, in quel momento…”E’ che sono una stupida a farmi prendere così dalla commozione…”, lo guardò in viso, “O dal rimorso..”, disse quasi parlando a se stessa. Abbassò il viso e si mosse.
Lui le andava accanto, quasi si sorprese nel non sentire più rumori: il cielo era di un rosso violento, traversato da strisce basse di indaco e violetto, e le prime luci, lontane, lungo la costa. Una coppia di ragazzini veniva verso di loro tenendosi per mano, senza vederli, forse senza vedere nient’altro che il loro calore umorale che traspariva –lui lo capiva- da ogni dondolio delle braccia, da ogni risata sommessa.
 Alberto..”, lo scosse la sua voce, “Forse ho sbagliato a volerti rivedere…”
Lui la guardò, con una domanda inespressa sugli occhi…”Volevo solo dirti che mi dispiace… “-la lasciò continuare- “Se quello che ho visto in mio figlio è stato il tuo dolore, beh, mi dispiace non averlo capito, non averlo voluto considerare…”
 “E allora? –pensò quasi con fastidio- “tutto qui ? fare la fatica di cercarmi, venire da chissà dove per dirmi che le dispiace un addio di 15 anni fa..?! Una sofferenza che mi ha inflitto forse in un’altra vita…”
Non sapeva cosa pensare, se tutto gli sembrasse più ridicolo o più infantile. Qualcosa ballava nel suo petto senza volersi fermare.
La guardò…”E’ passato” –riuscì scioccamente a dire- “è tutto passato, non dartene pena” e si sentì proprio stupido a voler sembrare così lontano e superiore, come se niente fosse tornato a galla a scorticarlo per un’altra volta, con quella forza brutale che solo i vecchi si sanno regalare per punirsi, o per sembrare ancora vivi.
Le prese la mano, la guardò “Sei proprio buffa col trucco sfatto” –le disse e sorrisero insieme come ragazzini. “Torniamo ?”- le propose.
Lei lo seguì, docile, in silenzio, col viso basso come a guardarsi le scarpe. Un sorriso leggero le sostava lungamente sul viso.
Non si dissero più nulla, il vento s’era calmato. Sulla battuta di legno si scossero le scarpe con un’insolita allegria.
Lui fece per sedersi..”Devo andare” –gli disse- “una macchina mi aspetta” La guardò sorpreso, forse avrebbe voluto chiederle di dare senso a questo incontro, ma non gli venne suono sulle labbra, capì che non era tempo di fare domande, non più.
Traversarono il bar, le aprì la porta.
Sullo spiazzo si accesero i fari di un’auto, lei si girò verso di lui, gli tese la mano “Forse ti dovevo dire di mio figlio, forse avrei dovuto parlarti di noi”.
La guardò con l’espressione di chi non capisce, ma rispose alla stretta di mano. Sentì che stringeva con forza, si guardarono. Lei si voltò di scatto, andò verso l’auto che ronfava col motore acceso: quando aprì la porta, nella luce dell’abitacolo si accorse, quasi senza nessuna sorpresa, che al posto di guida c’era il marito.
Non fece in tempo neppure a formulare tra sé un gesto o un pensiero che l’auto era scomparsa veloce. Restò lì, a guardare il piazzale illuminato…alzò lo sguardo.. altre luci occhieggiavano lontano, fredde.
Si scosse, rimettendosi a posto il bavero dell’impermeabile. “Un caffè e un bicchier d’acqua”, disse traversando il bar per tornare sulla veranda. Sapeva che il caffè non era un toccasana per il suo cuore malandato, ma, pensò, “Neanche questo pomeriggio ci è andato leggero…”
Quasi sorrise a questa sua  sarcastica noncuranza per la salute, eppure dopo l’infarto si è in genere più prudenti. Ma stasera non gli andava di essere prudente, troppe cose erano accadute e su troppe doveva fare chiarezza.
Gli sembrava pressoché assurdo che dopo tanti anni un vecchio amore tornasse a manifestargli dispiacere, gli girava come una trottola indecifrabile nella mente la sua ultima frase sul figlio, gli sembrava feroce che lei avesse risvegliato un dolore dall’ombra in cui gli anni lo avevano relegato: non la perdonava per questo, non poteva perdonarla di averlo costretto a tornare a vivere e provare di nuovo dolore.
 Con quale diritto era tornata a sconvolgere la sua quiete, che cosa pensava le avesse concesso il diritto di usarlo di nuovo come un cestino, tutto questo non riusciva a sopportarlo. Si era sfogata, tranquilla, e di nuovo via.
O magari no, gli voleva dire qualcosa che non era riuscita a tirar fuori, che cosa la macerava dentro ? e che c’entrava il figlio ? figlio di chi ?.
No, non si sarebbe fatto irretire da tutte quelle domande, non poteva, non voleva…il tempo passato e il suo cuore non lo permettevano.
Il caffè era tiepido, ed anche amaro: lo bevve di colpo per non sentire sapore.
Si guardò intorno. Buio, qualche rumore strano, e lontano le luci della costa.
Strano e crudele quel giorno, indecifrabile. Ma gli aveva di nuovo portato il suo amore, lei aveva detto di nuovo il suo nome, aveva pianto e sorriso con lui. Forse era vero, non si erano mai lasciati, non si erano mai fatti del male.
Prese con calma il bicchiere d’acqua, l’appoggiò alle labbra…
”Troppo fredda" –pensò- "quest’acqua è troppo fredda per un giorno d’aprile”… e sorrise tra sé a dolcezze che nessuno poteva scoprire.     

giovedì 11 giugno 2015

PIÙ CONOSCO GLI UOMINI, PIÙ AMO GLI ANIMALI di Pietro Pancamo



Il Signore Dio «scacciò
l’uomo e pose ad oriente
del giardino di Eden
i cherubini e la fiamma
della spada folgorante,
per custodire la via
all’albero della
vita» (Genesi 3,24).


I
I cherubini lavoravano intorno alla spada incandescente: vi gettavano dentro legna e carbone perché non si smorzasse il suo splendore; con le molle sistemavano i pezzi di legno per far attecchire meglio il fuoco.
Si trattava comunque di un lavoro che, molto presto, avrebbe perso ogni utilità: ormai da secoli il mondo era in pace e vi regnava il bene, tanto che gli uomini avevan riconquistato il diritto all’Eden. Quindi, non c’era più bisogno di sbarramenti o di ostacoli divini. Pure, quella spada fiammeggiante non smetteva di ardere.
Sulla Terra tutti i mali erano scomparsi: niente guerre, nessuna prepotenza, droga esaurita, estinte per sempre le grida di dolore (ormai restavano soltanto quelle “commerciali” e insistenti dei fruttaroli al mercato). Dunque, perché il sacro Dio non ordinava ancora di rimuovere la spada e di spegnerla in eterno?
Questo si domandavano i cherubini indaffarati con la legna, mentre una perplessità mista di noia e desolazione angustiava i loro pensieri.

II

Miagolava il superno gattino, coccolato a perdigiorno dalle buone mani del Salvatore.
Il sacro Dio non era mai stanco di vezzeggiare: nemmeno i malori gli impedivano di gingillare il suo gattino. E quel giorno le sue eran moine gravate dal mal di testa: perché il suo cervello aveva mandato di traverso nocivi rimasugli di sonno insufficiente e sofferto.
Il sacro Dio continuava sì, anche quel giorno (un umido lunedì celeste) a molcire il bel gattino (“Picci picci, pucci pucci”, gli sussurrava) però si sentiva triste e frastornato.
Intanto guardava la Terra con gli occhi cisposi. E una vertigine di nausea gli percorreva lo stomaco.

Da epoche lontane e persino indistinte nel passato, gli uomini eran diventati saggi e virtuosi. Ma il sacro Dio non riusciva ad essere felice.
Abbandonando i peccati e riavvicinandosi alla fede, gli uomini si erano gagliardamente redenti e trasformati: generosi col prossimo, eran rispettosi del padre e della madre. Inoltre non rubavano mai, s’impegnavano febbrilmente a non dire falsa testimonianza, non erano affatto invidiosi della roba altrui, non desideravano assolutamente la donna d’altri e facevano del tempo un pretesto di vita e preghiera.
Il sacro Dio vedeva e sapeva tutto ciò. E pur approvando fiero i progressi degli uomini, non gioiva, non celebrava; anzi un pensiero lo tormentava acidamente. Un pensiero ossessivo e maniacale che, millennio dopo millennio, aveva riempito d’incubi le sue notti e la sua anima, scatenandogli nel cuore un crescendo ininterrotto d’esasperazione. Già, il suo dolore aumentava, s’irrobustiva!

…E arrivò al culmine proprio quel lunedì.
“Uomo!”, sbottò infatti il sacro Dio, tenendo in braccio il superno gattino. “Uomo!” – ripeté, con un tono di voce allucinato, oscillante fra il magico e l’assorto – “Tu sei migliorato. Sei adesso la mia creatura più grande: la mia opera perfetta. Uomo, tu sei pio nobile puro… solo una cosa ti manca. Oh, perché… perché… ” – il sacro Dio cambiò espressione, mutando la voce in un pianto furibondo – “Perché non miagoli? Perché??”.
Gridando di rabbia e delusione, il sacro Dio scagliò contro la sua opera non il martello di Michelangelo, ma il secondo diluvio universale.
Orrende piogge tropicali caddero ovunque: anche a San Gemini in provincia di Terni.

III

I conti tornavano, ora: due guerre mondiali, due diluvi universali.
Un cherubino se n’accorse, smise di buttare legna nella spada fiammeggiante e contemplando gli uomini che affogavano sulla Terra, disse: “Beh, quelli che sopravvivono li possiamo finire nella vasca da bagno, no?”.

lunedì 8 giugno 2015

PEGASUS INTERNATIONAL N° 3 (Francese)



(Illustrazione di Giorgio Sangiorgi)

Serena Gentilhomme
Total Relax
Bonjour, Docteur,
Par le présent message, je tiens à vous informer que vous ne me verrez plus, pour deux excellentes raisons :
Désormais, je suis guéri : certes, j’ai encore quelques petites crises d’angoisse et de panique au boulot, mais je sais comment les juguler par des rituels secrets dont vos cocktails de neuroleptiques et d’excitants sont le complément idéal
Je viens de  prendre la bonne décision, celle de…
Vous apprendrez ça plus tard, comme tout le monde.
Pour l’heure, j’ai envie de vous révéler ma stratégie de total relax :
1. Ignorer toute stimulation extérieure
2. Respirer à fond, très, très calmement
3. Visualiser le parcours imposé : dans mon métier, trop facile
4. Écouter ma musique préférée en boucle
Comme vous ne pouvez pas le savoir – car j’ai toujours évité le grand déballage chez les professionnels de votre espèce – mon morceau fétiche se situe à la fin du troisième acte des Walkyries, où Wotan, faisant ses adieux à Brünnhilde, évoque Loge, le dieu du feu, pour qu’il entoure sa belle rebelle incestueuse endormie d’un cercle de feu que seul pourra franchir le héros qui ne connaît pas la peur et dont je porte, malheureusement le prénom…
Moi le froussard, le trouillard, la honte vivante de ma mère.
Tant que je vivrai – allons, bon – je reverrai le mépris peint sur sa figure, lors de nos interminables randonnées en montagne. Agile, musclée, sourde à mes supplications, cette jeune veuve au regard glacial ne ralentissait jamais, sauf pour s’arrêter pour me dévisager, moi, le petit boulet boulot, essoufflé, sanglotant, souffrant le martyre dans mes chaussures hostiles qui me meurtrissaient les orteils et les talons… Et l’arrivée au paradis des intrépides, le Walhalla, comme elle l’appelait – une cime en dos de stégosaure, surplombant un éboulement de cailloux – n’arrangeait jamais mon affaire: sujet au mal des montagnes, écrasé par l’azur sombre et menaçant dont les Dolomites ont le secret, je me transformais  en masse amorphe, incapable d’entreprendre la descente avec elle, mon impitoyable Walkyrie, qui devait se résigner à me porter, m’insultant copieusement, pour regagner la vallée: un vert coussin de répit, sur lequel j’aspirais à m’écraser.
Docteur, en ce moment où je les survole, les Alpes françaises me font le même effet. Euphorique, je réalise mon rêve d’enfant, celui qui a mûri en moi le jour où, après une escalade particulièrement éprouvante, j’ai aperçu, ronronnant dans un azur minéral, quelque chose de lointain, d’argenté et d’indifférent à tous les problèmes du monde : un avion, vu duquel les Dolomites ne seraient qu’un tas de sable aux arêtes inoffensives et les humains des microbes invisibles à l’?il nu, sauf à celui de Wotan…
Je suis sûr que ma vocation de pilote aérien est née à ce moment-là. Les années qui ont suivi n’ont été qu’une perpétuelle tension vers ce but. Certes, des méchants – comme mère et vous même, entre autres – ont tout fait pour me décourager, mais j’ai su dominer tout le monde, sans avoir l’air d’y toucher : personne ne se méfie d’un blondinet aussi lisse que moi, apparemment  obéissant et sociable – mais solitaire absolu dans l’âme. D’ailleurs, le fait que nous devons toujours être deux dans la cabine m’a toujours dérangé, mais, aujourd’hui, j’ai trouvé la parade : mon collègue vient de quitter  les lieux précipitamment…
Pas étonnant, avec la double dose de laxatif que j’ai versé dans son café.
Me voilà, Herr Doktor, enfin seul maître à bord. Il est 10h30. Je respire. Très calme, j’écoute mentalement ma musique préférée. Je déclenche la descente, graduelle, constante, paisible. Pas de turbulence. Mille mètres à la minute. Le visage de ma mère jaillit d’une ouate nuageuse. Je lui dis que, dans huit minutes, pas plus, je serai son héros sans peur. Pour l’instant, mon collègue et les 150 misérables qui me rendront célèbre n’ont peut-être pas encore compris l’enjeu mythologique de cet instant, où mon vaisseau fantôme ronronne, argenté, dans la férocité de l’azur… Dommage que ma mère ne puisse me voir en cet instant, si ça se trouve elle serait fière de moi et comprendrait le besoin que j’avais de m’enfermer dans ma chambre, sourd à ses appels, aussi bruyants que ceux qui résonnent derrière mon dos. Respirant à fond, je cherche à me concentrer sur l’évocation de Loge, annoncé par les arpèges frétillants de six harpes, mais, là, à deux mille mètres des Alpes, c’est une froideur serpentine qui m’arpente, et je ne suis plus capable d’ignorer les stimulations extérieures…
– Siegfried ! Siegfriiieed ! Ouvre cette putain de porte !
Ça y est. Des hurlements de toute part. On a dû tout comprendre, moi aussi : l’effet des médicaments vient de me lâcher, pas trop géniale, votre dernière prescription, Docteur ! Moins 500 mètres, je cherche désespérément à remonter, mais pas moyen, et la vallée s’est transformée en vulve de géante…
De laquelle surgit la gueule de Loge : hideuse.
Quelque chose me dit que jamais je ne gagnerai le Walhalla…
Au moment de l’impact au sol, j’ai fait sous moi.
(Illustrazione di Giorgio Sangiorgi) 
 
PATRICK RAVEAU
Espace vital
Face à moi Caroline me regarde avec tendresse, m'adresse un sourire, mais, pour finir, part faire un pas en direction de la porte. Etonné, je lui demande : « Pourquoi veux-tu partir déjà ?
  Je risque d'être en retard.
  En retard ! Que veux-tu dire ? »
Pour toute réponse, la jeune femme dépose un baiser sur mes lèvres, s'empresse de quitter ma chambre où une faible lumière bataille avec l'obscurité.
Le fantôme d'une bibliothèque me dévisage. Des centaines de livres recouverts d'une fine poussière jaunâtre. Une unique fenêtre filtre la pâle lumière de janvier. Habitué depuis mon plus jeune âge à vivre dans cette pénombre, je n'y fais même plus attention. Machinalement mon regard se pose sur des vieilles photographies accrochées au mur. Sur l'une d'elles, une femme nue lance un sourire aguicheur, tandis qu'une autre montre un gamin des années trente enjambant une barrière ; sur une troisième une fillette disparaît dans un champ de pâquerettes, comme absorbée par la lumière sereine du printemps.
Sur la dernière, j'aperçois mon visage à la fois rieur et triste, visage de clown désenchanté.
Je viens de recevoir le dernier rappel des trois derniers loyers à payer et j'ai bien peur que les huissiers ne débarquent d'un instant à l'autre. Qu'ils ne me dévêtent de tous les biens encombrant ma chambre exiguë !
J'ai si peur qu'ils viennent sans prévenir et qu'ils emportent tout ; mes romans, mes disques, la minichaîne datant du moyen âge, et les rares bouteilles de scotch recouvertes d'une fine poussière d'étoiles, (ou plutôt de toiles d'araignées). Pour ce qui est de mon gros chat noir, Lou, il aura disparu bien avant qu'ils ne franchissent le pas de la porte.
Il n'aime pas leur odeur...
Par bonheur, Caroline ne sait rien de cet état de chose. Du moins pour le moment. Je n'ai jamais osé lui en parler. Que lui avouer d'ailleurs ? Que je vais être mis à la rue comme un mendiant ? Qu'il ne me reste plus un sou en poche... Si je disparaissais pendant quelque temps, histoire de prendre l'air et de trouver un gagne-pain honnête ! Des milliers de fois, cette idée a germé en moi, et j'ai tout essayé, toutes sortes de boulots. Sans succès !
Sur le sol carrelé, gît une photo de Caro. Ses yeux de chat perdus derrière une chevelure d'ambre... Caroline, ma petite étrangère rencontrée un soir dans une bodéga enfumée. Nous ne nous sommes jamais quittés par la suite. Son accent pointu, aux intonations italiennes. J'approche une main de la photographie où elle est agenouillée sur la plage, frôlant le sable de la main. C'était il y a bien longtemps. Le crépuscule allait revêtir l'océan d'un drap bleu nuit et la lune jouait derrière les fins nuages effilochés, teintés de nacre. Je m'en souviens encore mais je ne comprendrais jamais pourquoi seule la mémoire peut faire revivre le réel.
D'une main rêveuse, je caresse la photographie de Caroline, et parcours amoureusement la courbe de ses hanches, de ses seins, de sa gorge, le merveilleux sourire qui joue sur ses lèvres, quand soudain sous mes doigts, la photo semble s'animer un bref instant. Durant ce court moment de bonheur, je songe à fuir ce capharnaüm immonde, et respirer l'air frais et matinal. Je me lève, d'un pas décidé, je me dirige vers la porte. Je tente de l'ouvrir.
Elle est fermée.
Impossible. Caroline est partie sans même se retourner et je ne l'ai pas entendu fermer la porte. Je me mets à trembler quand je réalise que celle-ci n'a plus de judas...  Que signifie cette farce grotesque ? A moins que... Ce ne soit les huissiers eux-mêmes qui m'aient condamné à rester ici, de peur que je ne leur fasse faux bond. Non, c'est absurde. Car il leur faudrait une clé pour entrer. Or la porte est également condamnée.
Je tourne en rond, examinant d'un ?il hagard les murs, le plafond, la petite fenêtre. J'appelle Lou. En vain. Il doit être parti chasser la femelle. Sacré vieux matou ! De toute façon, s'ils me dépouillent de tous mes biens, de ces vieux disques de rock des années soixante jusqu'aux fameux eighties, quelle importance, du moment qu'ils me laissent partir…
Je dois sortir d'ici. Le plus vite possible…
Je me mets à cogner tambour battant contre la porte comme un fou et lui assène de violents coups de pieds  Je me surprends à crier, pleurer si fort que j'ai l'impression que les larmes coulent en moi, que les cris me déchirent de l'intérieur, et qu'ils laissent sur le mur comme une trace indélébile. Une longue fissure. Une cicatrice. Un nom...  Le mien peut-être.
Pourquoi me torturent-ils ainsi ? Je les hais mais ils ont les cartes en main et bientôt ils frapperont à ma porte, le regard inflexible. Les yeux sans vie, vitreux comme ceux des morts qui chaque nuit hantent mes rêves.
Je dois réfléchir. Je me mets à respirer plus profondément. Le visage de Caro diffuse en moi une agréable chaleur. C'est certain, elle va revenir d'un instant à l'autre. J'entends déjà sa voix. Je sens déjà la caresse de sa main sur mon front en sueur. Son parfum, si doux !
Je tente de ne plus penser à cette farce ignoble. De toutes mes forces, je m'applique à ouvrir en tirant sur la poignée des deux mains, tout le poids du corps en arrière. Mais rien n'y fait. Elle est condamnée, pour de bon !
Une secousse fait brusquement trembler la pièce. Les photos accrochées au mur tombent en même temps, et celle de Caroline glisse d'un bon mètre sur le sol. J'enfouis la tête entre mes mains. Je me mets à crier le nom de mon amie. Sans succès ! J'ai soudain l'intime conviction qu'elle ne reviendra jamais. Suis-je victime d'un mauvais rêve, mais le rêve de qui, de quoi ? Et où est donc passé ce chat de malheur ?
Je tente de respirer, une fois, deux fois, dix fois dans l'espoir de m'extirper du songe que tisse lentement la folie. Une vision plus terrifiante s'offre à mes yeux fatigués. Au-dessus de moi le plafond se met à descendre, rétrécissant de seconde en seconde le volume de la chambre dans laquelle je n'ose plus bouger. J'essaye de me redresser mais l'angoisse m'en empêche... Mon c?ur cogne dans ma poitrine, mon sang cogne contre mes tempes tandis que le plafond se rapproche du sol, et que le temps semble s'éterniser à mesure que dure le supplice. Tout le volume de la pièce diminue. L'air devient irrespirable, mes yeux n'osent se fermer de peur que la chambre ne m'engloutisse d'un seul coup. Comme un gamin, je me mets à pleurer. Les détails du plafond grossissent à vue d'?il, grossissent, menaçants.
   Mais une petite lueur d'espoir s'allume soudain dans ma nuit. Un bruit anodin, extérieur. Des pas dans le jardin, peut-être ! Une faible lumière tente maintenant de s'infiltrer par la minuscule lucarne réduite à quelques centimètres de côté.
La lumière se fait plus dense, plus crue. Je réalise que le jour vient de se lever et que je n'ai pas fermé l'?il une seconde, toujours prisonnier de quatre murs de pierre. Mille fois je m'efforce de bouger, mille fois j'ouvre et ferme les yeux pour tuer la nuit qui m'envahit lentement. Par miracle, je parviens après maints efforts à bouger le petit doigt, puis la main toute entière. J'arrive finalement à me redresser.
Mon cauchemar va bientôt prendre fin, et la chambre recouvrer ses dimensions habituelles. Pourtant rien ne bouge autour de moi. Excepté l'espace tout entier qui, animé d'un mouvement de bascule, m'entraîne brusquement vers l'avant puis vers l'arrière. Je parviens à tourner la tête lentement vers la maigre lucarne réduite à quelques centimètres de côté.
Un visage apparaît. Celui de Caroline... Elle semble avoir passé une très mauvaise nuit, ne pas avoir dormi du tout. Son teint est blême, comme celui d'un mort... Une larme coule de son ?il. Je ramène alors la couverture sur moi, convaincu d'avoir touché la plus froide des réalités.
Le peu d'espace qui m'était octroyé, bascule une nouvelle fois selon un axe oblique puis retrouve l'horizontal. Soudain une lourde pluie cingle le plafond de mon nouvel habitacle, je pense à du sable, une pluie de sable. Ou du gravier, rien que gravier !
Du gravier, non, plutôt du sable ! Oui, du sable doré comme celui qui borde l'océan, qui couvre la plage d'un drap d'or. D'or... Dors mon petit. Je vais te couvrir, te recouvrir. Qui parle ? Te recouvrir d'un drap...
Oh oui, j'aimerais tant dormir aux creux de draps somptueux s'étendant à l'infini, et qui couvriraient la mer, la terre, le ciel, recouvriraient l'univers... Mais les draps qui m'enveloppent m'empêchent de voir...  Mes poumons me font mal. Suis-je en train de me noyer ou bien tout ceci n'est-il qu'un songe se déroulant au ralenti ?
Une étrange vision m'apparaît soudain. La tête de Caroline est penchée sur moi. Ses lèvres se rapprochent des miennes. Elles ont un goût étrange, salé. De ses yeux coulent des gouttelettes de sel, d'argent et...  Non, elles ont un goût de gravier, de ce gravier qui emplit la bouche et qui raye les dents, noir, si noir que... Les lèvres de Caroline s'écrasent sur ma bouche. 
Une vague amère glisse sur mon corps. Je tente une ultime fois de bouger, de quitter la boîte et d'ouvrir le hublot derrière lequel j'en suis certain, Lou m'attend. Mais une pluie de graviers frappe à nouveau le couvercle de la petite boîte, glisse le long de mon corps.
Une voix se met à chanter.
Un psaume !
Un océan d'étoiles brunes m'engloutit d'un seul coup.
Patrick Raveau a publié une trentaine de nouvelles dans des magazines spécialisés dans la fiction et le fantastique, un roman de science-fiction, ainsi que de nombreux textes courts, poésies, aphorismes, et essais sur des poètes contemporains. Il a obtenu le Premier prix du concours de la nouvelle fantastique organisé par l’association « Infini » en 1994 avec « Mémoire du vent » Patrick enseigne la philosophie en région parisienne.

(Illustrazione di Giorgio Sangiorgi)

ANTONIO BELLOMI
L’homme qui avait un don


Il n’y avait pas grand monde dans le Parc de la Paix. Le gazon couvrait une étendue plate et verte de plusieurs hectares, piquée de quelques taches de cyprès ça et là, jusqu’à la lisière de la falaise qui donnait sur une mer perpétuellement agitée dont les vagues se fracassaient bruyamment contre les rochers noirs et tranchants, pareils aux dents d’un monstre marin préhistorique.
Le soleil était haut, et les lentilles de contact que portait l’homme s’obscurcirent encore quand il franchit la bordure du parc. Alors le scintillement des petits obélisques de verre qui constellaient le tapis végétal se déversa sur le lui, tel une cascade de lumière.
Lajos Dritan s’arrêta un instant, comme intimidé par ces flèches lumineuses qui l’investissaient. C’était ce qui se produisait chaque fois qu’il venait là, bien que, désormais, il y vînt très peu, seulement quand il éprouvait un profond tourment.
Ce qui était le cas, ce jour-là.
Il poussa un profond soupir et fit un pas en avant, brisant cette sorte de transe qui l’avait saisi dans l’instant où il passait le portail d’entrée.
Il trouva aussitôt l’obélisque qu’il cherchait et qui n’était pas loin de l’entrée. Un obélisque de cristal bleuâtre, dont la teinte se faisait plus prononcée à mesure qu’il s’approchait. Quand il fut devant, à un pas, le bleu prit un ton cobalt intense.
- Me voici, papa, dit l’homme.
Le bleu de l’obélisque palpita, tel un c?ur qui recommence à battre après être resté à l’arrêt pendant une éternité. Le verre lui même se mit à vibrer légèrement tandis qu’alentour l’air semblait se charger d’électricité.
- Il y a si longtemps que tu n’étais pas venu, résonna le cristal. Qu’est-ce qui t’amène ici ?
Lajos ne répondit pas tout de suite, et son esprit s’agita frénétiquement à la recherche d’une réplique quelconque, parce que le moment n’était pas encore venu d’affronter la question qui l’avait poussé à venir jusqu’ici.
- Un remords, papa, répondit-il enfin, et, au moment même où il prononçait ces mots, il savait qu’il ne disait pas la vérité, que le problème était autre.
La voix synthétisée du verre parlait doucement, sur le ton d’un père qui apaise son jeune fils :
- Je ne pouvais pas faire autrement, Lajos. Nous en avons déjà discuté plusieurs fois, tu ne te rappelles pas ? Je n’aurais jamais dû attendre de mon fils qu’il mette lui même fin à ma vie.
- La malédiction des immortels, murmura Lajos. C’est la malédiction qui nous accompagne du fait que nous avons osé défier les lois de la nature. Pourtant, tout semblait si beau, si radieux.
Autour de l’obélisque, l’air crépita comme si les décharges électriques s’intensifiaient.
- Défier la mort n’a pas été la victoire de l’homme, mais sa défaite, dit le cristal. Moi aussi j’y voyais une victoire, dans ma jeunesse, puis, avec le passage des années, avec le poids de la vie, j’ai souhaité que l’on puisse faire marche arrière, revenir à une époque lointaine, celle où, un jour, on s’abandonnait au sommeil éternel.
Il y eut une longue pause. Un long silence. A ce moment-là, Lajos aurait voulu dire tant de choses, bien qu’un seul mot lui eût énormément coûté.
La malédiction des immortels… Oui, vivre éternellement était une malédiction, et non la merveille que tous avaient applaudie trois cents ans plus tôt, quand, pour la première fois, dans un obscur laboratoire d’Asie, on avait fait la synthèse de la protéine qui assurait l’immortalité.
- A quoi penses-tu, mon fils ? demanda le cristal.
La gorge nouée, Lajos ne put répondre.
Il avait gardé le souvenir très douloureux de ce jour, cinquante ans plus tôt, où son père lui avait avoué, d’une voix cassée, qu’il ne voulait plus vivre. Et où il lui avait demandé, à lui, Lajos, son fils, de l’aider, parce que Lajos était peut-être le seul homme sur la Terre qui avait ce don, le don de l’oubli éternel. La capacité surnaturelle d’inverser le processus d’immortalité et de faire que dans l’espace de quelques minutes survienne la mort naturelle.
- Je n’en ai pas été capable, père, dit-il, d’une voix tremblante. Je n’ai pas pu. Pas pour toi. Non.
Le cristal vibra intensément, comme s’il vivait ses propres émotions, et dans l’air crépitèrent de nouveau de fortes décharges, si fortes qu’elles parvinrent à un groupe de goélands qui survolaient alors le gazon, venant de la falaise et qu’elles les firent changer brusquement de direction.
- Alors il ne m’est pas resté d’autre solution que d’enfermer mon esprit dans ce verre où je peux au moins reposer dans l’oubli. Je ne suis réveillé que s’il vient un visiteur, dit la voix de cristal qui trahissait moins la souffrance que la lassitude.
Un immortel qui trouvait la vie horrible n’avait pas beaucoup de solutions, pensa Lajos, avec tristesse. Ou il se suicidait par un moyen sanglant qui ne laissait pas aux médecins la possibilité de le rappeler à la vie par leurs interventions réparatrices. Ou il choisissait la voie de l’oubli éternel, enfermant son esprit dans un des obélisques de cristal du Parc de la Paix. Mais rares étaient ceux qui avaient le courage d’affronter un suicide sanglant et cruel, comme la mutilation ou la crémation. Presque tous choisissaient donc la voie de l’oubli.
Ou le don de Lajos.
Il se souvenait encore très bien de la première fois où s’était rendu compte du pouvoir dont il disposait. Un vieillard, vieux par l’âge, mais d’aspect encore jeune, l’avait supplié de lui procurer la mort, parce qu’il n’avait pas le courage de se tuer. Mais Lajos était médecin, il n’aurait jamais pu tuer quelqu’un en parfaite santé et il ne l’avait pas fait. Il s’était contenté de lui poser la main sur un bras et de lui murmurer : Je ne peux pas. Je voudrais tellement mettre fin à tes souffrances, mais je ne peux pas le faire. Si seulement je pouvais supprimer cette malédiction de l’immortalité, ça, je le ferais tout de suite.
Et, à ce moment, il le souhaitait de toutes ses forces.
Un instant après, il avait vu ce corps encore jeune vieillir d’un seul coup, par un processus qui s’accéléra de seconde en seconde, jusqu’à ce qu’au bout de cinq à dix minutes au plus Lajos ait devant lui un vieillard ridé aux cheveux blancs, qui s’était affaissé sur le sol et qui, avec un sourire de béatitude sur les lèvres, avait expiré.
- C’est un pouvoir terrible et grandiose que le tien, dit la voix du père, comme si celui-ci avait lu dans la pensée de son fils.
Oui, terrible et grandiose, en effet. Un pouvoir auquel recourait un nombre toujours plus grand d’immortels. Un pouvoir qui donnait à d’autres hommes la possibilité de fuir la malédiction de la vie éternelle quand le poids des souvenirs, des remords, des tourments devenait insupportable.
- Tu donnes la paix à tant de gens, dit le cristal. Tu devrais t’en réjouir.
- Oh ! non ! s’écria Lajos d’une voix étranglée. Je suis médecin, je devrais porter la vie et non la mort. Je ne tolère plus ce poids, je ne peux pas continuer comme ça. Chaque fois, j’éprouve une tension toujours plus insupportable. Au début, je croyais que mon action était juste, et même j’en suis encore convaincu, mais néanmoins je ne supporte pas de donner la mort.
- Tu ne donnes pas la mort, mon fils, répliqua le cristal. Tu rétablis simplement le cours naturel des choses. La mort n’est pas un accident de la vie, mais sa conclusion naturelle, c’est l’immortalité qui est l’élément étranger, le pêché d’orgueil de l’homme qui a fini par le rendre aussi malheureux.
Le bleu du cristal palpita de nouveau, comme pour exprimer une forte émotion.
- Tu ne peux pas renoncer à ta mission, dit encore le cristal, tu peux épargner douleurs et souffrances.
C’est vrai, pensa Lajos, mais cela ne le consolait pas. Il aurait été merveilleux de redevenir un médecin comme les médecins d’autrefois, ceux dont parlaient les livres d’histoire. Les médecins qui faisaient naître les enfants, qui portaient le souffle de la vie dans le monde.
Mais maintenant, il ne naissait plus d’enfants. Et ainsi, à la longue, l’espèce humaine se serait éteinte d’elle même. Il ne serait resté pour l’éternité que les cristaux du Parc de la Paix et leurs âmes plongées dans le sommeil de l’oubli.
-Alors je n’ai pas le choix ? demanda Lajos.
A cet instant il se sentit à nouveau le fils qui, depuis son enfance, courait demander conseil à son père, à ce père qui, solide comme un rocher, avait toujours une réponse à tous ses doutes et à toutes ses peurs.
- J’ai peur que non, répondit le cristal. Chacun de nous a ou a eu une fonction dans ce monde, et la tienne est de soulager ceux qui souffrent. Au fond, c’est exactement ta mission de médecin. Un médecin soigne et guérit, mais il doit aussi mettre fin aux souffrances. Tu peux le faire. Tu dois le faire.
- Même si cela me fait souffrir, papa- dit Lajos, entre ses larmes.
Il avait eu raison de venir au Parc de la Paix. Une fois encore, son père avait su lui donner le bon conseil. Maintenant, il devait le suivre.
(Traduction : Pierre Jean Brouillaud)

giovedì 4 giugno 2015

Asterione Di Peppe Murro



"Tutto si ripete infinite volte, solo due cose sono uniche, in alto l'intricato sole, in basso Asterione".

Ripeteva a se stesso che forse era bello essere unici  in un mondo che si rivoltava attorno a se stesso sempre uguale, ma come in un vortice si sentì  trasportato nell'infinito ripetersi di cose e situazioni.
Si sentì perduto.
 Capì l'orrore di essere senza centro, l'amaro fiele della ripetizione senza identità.
Fu allora che Asterione corse felice verso la spada che lo avrebbe salvato.
 Senza difese, senza rimpianto.
 Forse non sarebbe finita la sua storia di mostro semiumano, ma sarebbe certamente finita la sua solitudine.
E per la prima volta sorrise in uno sbocco vermiglio di sangue alla luce del sole.

"...sai?, disse Teseo,...il Minotauro quasi non s'è difeso..."