mercoledì 30 aprile 2014

TC21 di Peppe Murro


Si sdraiò, mettendosi comodo, appoggiò bene la testa ed aprì il libro di Zamiatin: …tra 120 giorni sarà portata a termine la costruzione dell’Integrale. È vicina la grande ora storica in cui il primo Integrale si lancerà nello spazio dei mondi…
Si fermò un attimo, come inseguito da un pensiero: scrivere di fantascienza, fantasia applicata alla scienza, o viceversa… che stupidata, pensò, non esistono libri di fantascienza; si può scrivere di mondi lontani o dei soprammobili di una stanza, di guerre e di litigi fra innamorati, ma la cosa che importa è scrivere, dare corpo a ciò che hai nell’anima. Certo, chi scrive lo può fare per vanità o per mania o per urgenze interiori, ma soprattutto per comunicare. È questo il vero bisogno, avere non ascoltatori o lettori, ma compagnia. Forse per non sentirsi soli.
E magari, pensò ancora, in questo modo soltanto, trasformando pensieri ed emozioni in parole e segni si attua il miracolo di ritrovarli rimasticati in altri pensieri, da qualche altra parte del tutto. Si illuminò: è questo il vero scarto quantistico, o forse così procede Dio, o chi per lui, a rinnovare la creazione. Sì, far nascere un pensiero od emozione da un altro pensiero, forse questa è la vera dimensione quantistica dell’universo, o la cifra segreta di Dio.
Non ebbe neppure il tempo di complimentarsi da sé per tali considerazioni che udì una specie di clic ed in quell’istante TC21 fu colto da una nuova meraviglia, intuì di aver colto qualcosa di misterioso, la dissoluzione di ogni continuo spazio-temporale e di colpo sentì le sue giunture idrocarboniche sciogliersi e vide galassie, e civiltà, e procarioti primordiali e musica, mentre i suoi processori fondevano in un grumo nero e tormentato, misterioso e profondo come i sentimenti.
Allora capì il mistero intricato delle cose, intuì le infinite porte dell’infinito e la dimensione aperta del disordine, capì la gioia e il dolore, capì di avere un’anima.
I suoi processori si dissolvevano in un pianto di allegria… era diventato un uomo.

lunedì 28 aprile 2014

LA MOSSA MIGLIORE di Sergio Gaut vel Hartman



 – Credete che i giocatori sappiano che noi abbiamo coscienza, sentimenti; che soffriamo quando ci eliminano dalla scacchiera, quando cade un compagno; che moriamo un po’ ogni volta che il nostro re si arrende? Avete pensato qualche volta a questo, quando la mano vi afferra e vi porta di qua e di là seguendo i dettami dei suoi capricci? Non ci avete mai pensato, vero?
Il giovane alfiere, influenzato dalle idee che sono solite aleggiare sugli scacchi quando il gioco finisce, cercava di generare uno stato di riflessione critica tra i membri del suo auditorio formato da rozzi pedoni, stupide torri e cavalli appena più focosi che bruti. E siccome non ottenne risposta, aspettò docilmente che l’umano di turno lo togliesse da effe uno per portarlo a bi cinque. Era sicuro che un giorno sarebbe riuscito a stabilire un contatto con lo scacchista e perfino suggerirgli una mossa migliore.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)

sabato 26 aprile 2014

LE PROFEZIE NELLO SPECCHIO di Daniel Frini



Tra Mattutino e Lodi del due di luglio dell’Anno del Signore 1541, Don Miquel scese nelle cantine dell’Abazia di Nôtre-Dame d’Orval, vicino alla molto Cristiana Villa di Florenville, tra i boschi di Watinsart e Houdrée, in cerca di una bottiglia di liquore prodotto dai monaci cistercensi, per portarlo all’Abate, nella Sala Capitolare.
Frate Miquel era al Monastero solo da una settimana, pertanto i passaggi sotterranei gli erano sconosciuti; e nonostante le indicazioni ricevute, la luce fioca delle candele fece sì che deviasse il suo percorso e arrivasse, senza volere, nelle segrete; le stesse dove, quasi cinque secoli prima, Pietro l'Eremita aveva incitato Goffredo di Buglione a marciare su Gerusalemme, nella Prima Crociata e dove, si dice, fu custodito il Santo Graal.
Cercando di ritrovare il cammino, Miquel aprì una vecchia porta dalle cerniere arrugginite ed entrò in una piccola stanza di non più di due pertiche di altezza.
Lì trovò lo specchio.

Si trovava al centro della stanza, coperto con una tela di lino molto vecchia, che si disfò al toccarla. Era strano, più largo che alto, molto opaco e a malapena rifletteva le candele.
Don Miquel passò la mano sulla cornice, e a un certo punto lo specchio prese vita. Spaventato, il monaco cadde all’indietro, finendo seduto contro la parete vicina alla porta. Restò lì pietrificato, mentre lo specchio gli mostrava cose incredibili.
Tra nuvolette di fiato, vide altissimi castelli di vetro mai immaginati, carrozze che si muovevano senza cavalli, sentieri oscuri ed enormi per i quali camminavano folle vestite in modo curioso; macchine giganti che si alzavano in volo come uccelli; nei mari vide navi senza vele e che non erano di legno. Vide armi che non esistevano ed esplosioni gigantesche e guerre che sfidavano l'immaginazione. Vide luci brillantissime e di strani colori. E lo specchio gli parlò in lingue sconosciute e gli fece ascoltare musiche nuove; gli mostrò pesti molto peggiori della Peste Nera e malattie senza nome e morti atroci.
Miquel vide navi che fluttuavano fuori dalla Terra, e verso la Terra dalla Luna; e vide che la terra era rotonda. E conobbe il ghiaccio che galleggia nel mare e animali stranissimi…
La successione di cose straordinarie continuò per ore. Alla fine Miquel, con una grande afflizione nel petto, ormai incapace di sopportare quello che vedeva, prese una grossa pietra staccata dalla parete della cella, e la scagliò contro le immagini.
Lo specchio esplose in una lampo subito spento. E restò a terra. Muto. Distrutto. Da lì a circa 450 anni nessuno avrebbe più visto un televisore di quaranta pollici con schermo a cristalli liquidi.
Don Miquel, Miquel di Notre-Dame, Nostradamus uscì al sole del due di luglio dell’Anno del Signore 1541, a Orval. La sua vita era cambiata per sempre. Era già l’ora Terza.
(Traduzione dallo spagnolo: Giuliana Acanfora)

giovedì 24 aprile 2014

ALFIO di Antonio Bellomi



Alfio aveva otto anni. Ed era diverso da tutti gli altri bambini della sua età. A scuola non era particolarmente brillante; ma non era neppure particolarmente ritardato, sembrava solo vivere in un mondo tutto suo, dove gli altri, fossero i compagni, i genitori o la maestra, avevano solo un ruolo limitato e tutto sommato marginale.
Quando non era a scuola si sedeva sul muretto davanti a casa e fantasticava. O almeno questo lo credevano tutti coloro che lo vedevano con gli occhi assenti, fissi su una realtà che non era quella che lo circondava. Oppure guardava i cartoni animati alla televisione. E allora rideva e si divertiva come tutti i bambini della sua età.
Ma aveva anche una grande abilità manuale. Quando suo padre, Gennaro, che faceva il riparatutto nel remoto paesotto del meridione in cui vivevano, aveva un problema insolubile lo chiamava: «Alfio!» E allora Alfio correva, prendeva l’oggetto da riparare tra le mani, fosse una caffettiera o il motore di un tritatutto, e in un battibaleno ecco che l’oggetto tornava a funzionare.
Oppure poteva trattarsi di un impianto idraulico che non funzionava a dovere. Alfio non capiva nulla di portata, velocità di scorrimento, pressione e altri termini astrusi, non sapeva neppure che esistessero forse, ma in compenso quando accompagnava suo padre a riparare un impianto difettoso e ci metteva lui le mani, si poteva stare sicuro che poi l’impianto funzionava a meraviglia.
«Vorrei avercelo in fabbrica io,» disse il commendator Paolella il giorno in cui Alfio gli ebbe risistemato alla perfezione tutto l’impianto idraulico della sua villa di campagna, dopo numerosi e vani tentativi da parte di idraulici di grido portati dalla città i quali non erano mai riusciti a calibrare i giochi d’acqua del giardino.
Insomma, Alfio era anche un genio. Misconosciuto, ma genio.
Un giorno suo padre lo chiamò mentre se ne stava come al solito appollaiato sul muretto a guardare nel nulla.
«Ripara questo,» gli disse brusco rifilandogli un aggeggio in mano. «La mamma ne ha bisogno.»
Questo era un aspirapolvere vecchio modello. Alfio non lo guardò neppure. Disse: «Va bene.» E sparì.
Due ore dopo Gennaro andò a cercarlo perché ne aveva bisogno.
«Dove si sarà cacciato quello scansafatiche,» brontolò, non riuscendo a trovarlo da nessuna parte. Alla fine lo scovò in soggiorno. Stava guardando i cartoni animati alla televisione. Vicino a lui c’era l’aspirapolvere con la spina inserita.
«Ecco come si lavora!» lo sgridò il padre. Poi vide l’aspirapolvere e ne provò l’interruttore. Niente. Il motore non attaccava. «Non l’hai neanche riparato!» urlò. «Sei un lazzarone buono a nulla. Se non ci fossi io a tenerti sotto pressione…» Prese il figlio per un orecchio e lo portò con sé. C’era un ferro da stiro da riparare e non ci capiva assolutamente nulla. Non si ricordò di staccare la spina dell’aspirapolvere.
Nel laboratorio mise il ferro da stiro in mano al figlio e si mise a far pulizia sul banco di lavoro. Quindici minuti dopo, Alfio gli si avvicinò e gli mise il ferro da stiro sul tavolo. «Posso andare?»
Gennaro infilò la spina nella presa. Controllò che il ferro funzionasse e grugnì. «Se avrò bisogno ti chiamerò. Adesso ritorna a riparare quell’aspirapolvere.»
Più tardi, non avendo più rivisto Alfio in laboratorio, andò di nuovo a cercarlo e lo trovò ancora davanti alla televisione. L’interruttore dell’aspirapolvere continuava a dare risposta muta. «Mangiapane a tradimento!» gridò esasperato, «Si può sapere che ti prende oggi? Questo lo chiami funzionare?»
Alfio alzò impaurito gli occhi verso di lui e vedendolo avanzare col braccio levato per mollargli un ceffone scappò dalla porta come una lepre proprio mentre entrava la madre.
«Che ti prende, Gennaro?» chiese la donna, allibita. «Non hai visto che bel lavoro che ha fatto Alfio?»
«Hai il coraggio di difenderlo?» brontolò il marito. «Se ne sta a guardare la televisione invece di riparare l’aspirapolvere.»
«Oh, ma l’ha riparato,» disse la donna. «Solo che adesso funziona in modo diverso. Basta inserire la spina e la polvere della stanza sparisce semplicemente. E il motore neanche si sente.»
«Mi prendi in giro?» chiese Gennaro, sospettoso.
«No, guarda,» gli disse la donna, passando un dito sui mobili e ritirandolo immacolato. «Non c’è un filo di polvere. Funziona meglio di prima.»
Era vero. Non c’era in giro neppure un granello di polvere. Anche l’aria sembrava quasi più pura, come se fosse stata filtrata. Non ancora soddisfatto, Gennaro volle fare una prova. Prese una palettata di sabbia e la portò in soggiorno. Come varcò la soglia …la sabbia sparì.
«Abbiamo un figlio genio!» esclamò la moglie. «L’ho sempre detto che non era quel buono a nulla che dicevi tu!»
La prima cosa a cui pensò Gennaro fu dove finiva la polvere prelevata. Veniva disintegrata? Trasportata chissà dove e chissà come in virtù di qualche principio troppo difficile per lui da capire? Poi gli vennero in mente le implicazioni economiche del nuovo tipo di aspirapolvere e gli prese il febbrone. Inforcò la motocicletta e corse alla villa del commendator Paolella. Quello era l’uomo che poteva aiutarlo, con gli agganci giusti nel mondo della produzione e del commercio.
Il commendatore stava riposando in giardino, ma la storia di Gennaro non gli parve poi così incredibile. Dopo tutto conosceva bene quanto fosse abile Alfio. Per cui disse semplicemente «Andiamo!» e montò sul sellino posteriore della motocicletta di Gennaro per andarsi a sincerare di persona dell’invenzione.
Gennaro viaggiò a rotta di collo. Davanti agli occhi di Gennaro ballavano cifre con tanti zeri che neanche riusciva a contarli. Quando fermò davanti a casa sua vide Alfio dalla finestrella del laboratorio. Entrò di corsa seguito dal commendatore e vide Alfio chino sull’aspirapolvere. «Che cosa stai facendo?» ululò. «Lascia stare quell’affare!»
Il figlio volse verso di lui gli occhi in cui brillava un lampo di soddisfazione. «Adesso funziona come vuoi tu, papà,» gli disse. «Guarda.»
Premette il pulsante e il motore si avviò, il sacco si gonfiò e si udì un rumore di risucchio.
«Disgraziato! Che cosa hai fatto?» gridò Gennaro fuori di sé. «Rimettilo subito a posto com’era prima!»
Ma Alfio scosse la testa. «No, papà, avevi ragione. E così che deve funzionare un aspirapolvere.»
E né quel giorno né mai più ci fu verso di smuoverlo. Perché, oltre a tutto il resto, Alfio era un uomo di saldi principi.


lunedì 21 aprile 2014

AZIONE DI FORZA di Paolo Secondini



L’astronave attraversava silenziosamente lo spazio nero e vuoto.
Era enorme: un vero mastodonte di metallo con tante luci opalescenti che sagomavano, in modo intermittente, la sua forma oblunga.
Era diretta a Oklas – pianeta-colonia nel sistema di Surk– col suo carico di agguerrite truppe d’assalto.  
«Ci vorrà ancora molto, B’dlin?» chiese J’dek a un altro soldato che sedeva al suo fianco, in pieno assetto di battaglia.
«A questa velocità saremo sul posto in brevissimo tempo.»
«E l’azione,» l’altro insistette, «quanto credi che durerà?»
«Oh, non molto!»
«Poche whertzel? Come ci hanno più volte assicurato durante l’addestramento?»
«Durerà il tempo di essere teletrasportati sulla grande cupola della “Galassia Polipo Alimentare”, piazzare le cariche esplosive e tornare sulla nostra astronave, per allontanarci il più in fretta possibile.»
«Questo è il piano, infatti! Spero che tutto vada bene.»
 «Andrà tutto bene, J’dek! Sta’ tranquillo!… La faremo saltare una volta per sempre quella dannata fabbrica di morte. Vendicheremo i nostri compagni uccisi ed eviteremo che altri finiscano, tagliati a fettine e conditi con salsa, in scatolette di latta, di cui sono pieni i supermercati di quei maledetti terrestri,» disse con foga il cefalopode B’dlin, passandosi vigorosamente un tentacolo sugli occhi.

venerdì 18 aprile 2014

PONTE DI COMANDO di Fabio Calabrese


      Non era possibile distinguere la linea dell’orizzonte, l’acqua grigia e plumbea si saldava, senza apparente soluzione di continuità, al cielo grigio, ammantato di foschia, solo il leggero rollio del ponte sotto i piedi, ed il ritmico sciabordio delle onde contro la superficie metallica dello scafo, davano la sensazione di non essere perduti in un nulla nebbioso ed ovattato.
Il tenente De Almeida posò il binocolo e si rivolse al capo Okigawa.
«Allora», domandò, «Le previsioni meteorologiche per oggi?»
«Situazione stabile, signore», rispose il sottufficiale, un piccolo giapponese magro e legnoso, «Foschie in mattinata e qualche annuvolamento nel pomeriggio, ma non sono previste precipitazioni. Calma di vento, mare poco mosso.»
«Meglio così», commentò De Almeida, «Di problemi ne avremo già fin troppi.»
«Comodi, signori.»
Il tenente ed il nostromo erano automaticamente scattati sull’attenti all’arrivo del capitano Mills.
«Bene, signori», disse il comandante, «Immagino che sia tutto pronto per l’avvicendamento. De Almeida, la prego, non stia così impalato, calcoli che sono già quasi un civile. Quando è previsto l’arrivo della lancia del capitano Palmer?»
«Tra circa un’ora, signore.»
«Si», concluse il capitano, «Lo so cosa state pensando, quel Palmer, doveva capitare proprio sul cacciatorpediniere Georgetown. D’altra parte, è un ufficiale comandante, e dovevano pur assegnargli un servizio. Andiamo! Il diavolo non sarà così brutto come lo si dipinge. Ho letto le sue note caratteristiche, e sembrerebbe un buon ufficiale, prima dell’“incidente” il suo stato di servizio era ineccepibile.»
Con un gesto semiconscio, De Almeida si raddrizzò il distintivo di astronauta che, del resto, era appuntato sulla divisa con precisione quasi matematica, a voler quasi riaffermare la sua appartenenza alla famiglia di coloro che erano stati nello spazio. Ormai ci aveva fatto l’occhio, bastava poco per capire: la marina, quella tradizionale, che trascinava le sue bagnarole per quello sputo d’acqua che copriva i sette decimi del pianeta natio, era solo un’estensione residuale della marina spaziale, che richiamava gli uomini e le energie migliori, oltre ai fondi ed alle attrezzature. Certo, non si poteva competere con il fascino dei Grandi Spazi ed il fascino dell’avventura su mondi semi inesplorati.
Bastava guardarsi attorno. I capitani di nave erano, come Mills, ufficiali anziani, non più idonei fisicamente al servizio spaziale, che finivano di maturare sulle navi l’anzianità per la pensione. Quanti ne aveva visti avvicendarsi in pochi anni! Gli equipaggi e gli ufficialetti di complemento, erano tutti ragazzi di leva, che presto se ne sarebbero andati per i fatti loro con tanti auguri. I sottufficiali, i nostromi, beh, quelli erano una razza che De Almeida non riusciva a capire: erano quasi tutti giapponesi, greci o norvegesi, gente che nelle vene doveva avere acqua salata invece del sangue, discendenti di generazioni di marinai e pescatori che probabilmente risalivano al neolitico, a cui gli abissi cosmici non dicevano nulla, ma che potevano vivere solo dove l’aria era intrisa di vapori salmastri e pervasa dallo stridio dei gabbiani.
Il suo caso, poi, era ancora diverso: aveva passato tutti i test psicofisici e si era laureato all’Accademia spaziale con il massimo dei voti. Al decollo del razzo per la sua prima missione operativa, per poco non ci aveva rimesso la pelle, un raro vizio cardiaco sfuggito a tutti i test non gli consentiva di sopportare l’accelerazione gravitazionale. Poi sei mesi di servizio nella stazione orbitale, come da routine, e l’avevano riportato giù in una costosissima bolla ad animazione sospesa, come una vecchia signora dalle ossa fragili, e con la consapevolezza che non avrebbe mai più staccato i piedi dal suolo del pianeta natale; era uno dei pochi ufficiali non anziani che prestavano servizio imbarcati non sulle navi o le stazioni spaziali, ma su di una bagnarola acquatica. Col tempo, si era faticosamente rassegnato ad una carriera meno brillante e ad una vita più monotona di quello che aveva progettato.
De Almeida sapeva che non c’era nulla da temere da uomini come Mills, uomini che avevano già realizzato le loro ambizioni o si erano rassegnati a vederle sfumare, ma Andrew Palmer era una faccenda del tutto diversa.
La lancia con il nuovo capitano attraccò un’ora più tardi. Mills e De Almeida sapevano il fatto loro, il cacciatorpediniere Georgetown era tirato a lucido e con il gran pavese alzato, l’equipaggio era schierato sul ponte in ordine impeccabile.
Andrew Palmer salì sul ponte con passo spedito, era successo anche a De Almeida: potevi non essere nemmeno salito su di un tronco nell’acqua di un ruscello, ma quando avevi fatto l’abitudine alle improvvise variazioni di gravità e di orientamento dello spazio, il rollio ritmico di uno scafo non ti dava più il minimo disturbo. Senza volerlo, De Almeida non poté impedirsi di provare un’improvvisa simpatia per Palmer.
Andrew Palmer era un uomo piuttosto giovane, di statura media, il fisico asciutto, capelli castani, occhi color nocciola, un volto, per quel che De Almeida poteva giudicare, né brutto né bello, ma non una faccia anonima, un volto incisivo, determinato.
Dopo il passaggio delle consegne, il capitano Mills fece visitare a Palmer la nave, poi, dopo aver salutato tutti, salì sulla stessa lancia che aveva portato Palmer.
Andrew Palmer si voltò verso De Almeida.
«Così è lei il mio secondo», disse, «Grazie al cielo, avevo temuto di trovare uno di quei vecchietti a cui dover rimboccare le coperte.»
Roberto De Almeida ricambiò con stupore il suo sorriso. Nessuno avrebbe potuto meravigliarsi, né biasimarlo troppo, se Palmer fosse stato un uomo amareggiato dal brutto tiro giocatogli dal destino.
L’incrociatore spaziale Conqueror era classificato come “nave da battaglia”, ma ovviamente nessuno si aspettava che battaglie ne dovesse sostenere davvero. Ancora ai tempi in cui esistevano gli stati nazionali, lo spazio extraterrestre era considerato “patrimonio comune dell’umanità”, dove non era lecito condurre atti di guerra. Forse un giorno, quando gli uomini fossero riusciti ad addentrarsi nello spazio esterno al sistema solare, o degli alieni fossero giunti fino alla Terra, ci sarebbero state battaglie negli spazi, ma per il momento, la razza umana era riuscita a trovare una pace sia pure precaria con il suo nemico di sempre: se stessa.
Il Conqueror, come le altre navi della sua classe era comunque armato di cannoni laser e missili a testata esplosiva, e faceva bella mostra di sé, con la sua linea filante ed aggressiva, parcheggiato in orbita lunare. Nel quadrato ufficiali, il comandante Vojcec aprì la busta sigillata che aveva tolto dalla cassaforte.
«Bene, Palmer», disse rivolto al primo ufficiale, «Gli ordini sono chiari. Dobbiamo accompagnare la spedizione scientifica Hermes su Mercurio, e fornire tutto l’appoggio logistico necessario per l’installazione della base.»
Andrew Palmer era sceso sul ponte inferiore a controllare il carico che, dalle shuttle veniva riversato nella capace pancia del Conqueror, le tabelle di carico in una mano, una matita nell’altra, a spuntare uno dopo l’altro i contenitori trasportati dai carrelli robot. Accadde così che si trovava sul posto giusto quando attraccò la shuttle con i passeggeri. Vojcec non era ancora stato avvertito, e così Palmer pensò che toccasse a lui fare gli onori di casa.
Astronomi, astrofisici, scienziati: civili, in una parola. Palmer era un militare figlio di militari, a volte trovava perfino imbarazzanti le stravaganze e la mancanza di autocontrollo di quelle persone, degli scienziati, soprattutto.
Il portello interno della camera stagna si aprì, e improvvisamente Andrew Palmer si trovò con lo sguardo incollato al più magnifico paio di occhi color verde smeraldo che avesse mai visto, occhi che erano incastonati in un viso di un perfetto ovale botticelliano dalla pelle bianca e morbida, circondato da una nuvola di capelli biondi. Più sotto, s’intravedevano due spalle esili, due seni non molto voluminosi, ma modellati in maniera deliziosa, una vita sottile che si saldava armoniosamente a dei fianchi provocanti e un paio di gambe assolutamente perfette; il tutto racchiuso da un abitino corto che riusciva a rendere grazioso perfino l’informe camice da laboratorio sbottonato buttato negligentemente sopra di esso. Veramente, per sicurezza, i passeggeri avrebbero dovuto indossare delle tute spaziali durante il trasbordo dalla shuttle alla nave, ma era una precauzione di cui molti facevano a meno.
«Buon giorno», riuscì a dire, «Maggiore Andrew Palmer, primo ufficiale dell’incrociatore Conqueror
«Buon giorno», rispose lei, «Tanja, Tanja Nahicheva dell’Istituto Astrofisico di Mosca.»
Dietro la dottoressa Nahicheva erano saliti gli altri due membri della spedizione, l’astronomo Jean Duverger, che ne era il direttore, un uomo anziano dai capelli bianchi e l’aria vagamente patriarcale, e Jay Rakamchandra, cosmologo, un robusto indiano dalla pelle olivastra ed un’imponente barba scura, ma Andrew Palmer si accorse appena di loro.

«Posso sedermi qui?»
«Siamo noi gli ospiti qui, lei è in casa sua, maggiore.»
Andrew Palmer si sentiva sperduto nella contemplazione di quei meravigliosi occhi color smeraldo, si rendeva conto che stava facendo davanti ai subalterni ed all’equipaggio la figura del pivello, dell’adolescente innamorato, ma non gliene importava nulla.»
«Voglio dire, non la disturberebbe, se mangiassi qui vicino a lei?»
«Certo che no, maggiore», rispose Tanja sbattendo soavemente le lunghe ciglia su quegli splendidi occhi smeraldini, «Per quale motivo dovrebbe dispiacermi?»
Andrew Palmer decise di prenderlo per un incoraggiamento.
La mensa del Conqueror era gremita, ma per Andrew Palmer era esattamente la stessa cosa che se fossero stati nel deserto, o in una bolla di spazio-tempo che comprendesse soltanto loro due.
Le parole in basic english, la lingua dei rapporti internazionali, uscivano dalla bocca di Tanja curiosamente deformate dal suo accento slavo, in una maniera che Palmer trovava incantevole.
«Che genere di esperimenti», chiese Palmer cercando di mantenere un tono neutro, «avete in programma di compiere sulla superficie di Mercurio?»
«Se lei è del tutto digiuno in materia», rispose Tanja, «mi sarà difficile spiegarglielo. Forse saprà che Mercurio è l’unico pianeta del sistema solare con una massa abbastanza piccola e con un’orbita abbastanza vicina al sole perché si manifestino effetti relativistici. La precessione del perielio di Mercurio è stata per secoli l’unico aspetto noto della meccanica del sistema solare che non fosse spiegabile nei termini della fisica newtoniana.»
«Affascinante», commentò Palmer, che non era ben sicuro di aver capito.
«Mi sta prendendo in giro, maggiore?», chiese Tanja, «E’ la fisica relativistica che trova affascinante, o sono per caso io?»
Ma non c’era cattiveria nella sua replica.
«No, la prego», disse Palmer, «Vada avanti.»
«In pratica», disse lei, «Dovremo ripetere un po’ tutti gli esperimenti della fisica classica...masse inerziali e masse gravitazionali, quelli che si fanno al liceo, per intenderci, e misurare con la massima esattezza possibile tutti gli scostamenti dalle previsioni in base alla meccanica newtoniana. In concreto, sarà una faccenda piuttosto noiosa e, visto che ci siamo, faremo una prospezione geologica approfondita.»
«Dubito che quel grosso sasso calcinato dal sole meriti tante attenzioni», commentò Palmer.
Il paesaggio era surreale, un perenne crepuscolo illuminato da una luce color mattone. La zona crepuscolare non era più ampia di un paio di chilometri. A destra il giorno, a sinistra la notte; di qua un inferno di luce abbacinante e di fuoco, di là il buio e il gelo dei Grandi Abissi.
Impacciati nelle tute spaziali, gli uomini davano l’impressione di grandi artropodi, enormi, innaturali coleotteri. L’assemblaggio della stazione prefabbricata procedeva spedito: materialmente, erano i robot a fare quasi tutto il lavoro, ma la presenza e la supervisione umane erano, come sempre, indispensabili.
La base Hermes era una snella cupola di metallo e vetroacciaio.
Jean Duverger si avvicinò al comandante Vojcec.
«Reggerà?», chiese, «E’ sicura?»
Ci si abituava presto a conversare attraverso le radio incorporate nelle tute, bastava che fossero tutte sintonizzate sulla medesima frequenza, ed era come chiacchierare in un parco pubblico.
«Senza il minimo problema», rispose Vojcec, «A parte lo schermo anti meteoriti, è lo stesso modello che si usa nelle stazioni oceaniche. Qui la differenza fra la pressione esterna e quella interna è sempre di una atmosfera, mentre là deve resistere a pressioni centinaia di volte superiori».
Il lavoro fu presto completato. Silenziosi e docili, i robot rientrarono nei loro alloggiamenti nella stiva del Conqueror, e gli uomini si apprestarono a seguirli.
«Beh, arrivederci», disse Vojcec, «Tra tre mesi, torneremo a prendervi.»
Palmer e Tanja si salutarono con particolare calore; era un peccato, pensò Palmer, che le tute spaziali non permettessero di sentire il corpo della giovane contro il suo.
Muoversi nella plancia dell’incrociatore, senza l’ingombro delle tute spaziali, era un sollievo.
«Ma, comandante», stava dicendo Palmer, «Non pensa che due uomini e una donna, soli per tre mesi nello spazio, possano dar luogo a qualche problema?»
«No, non credo», rispose Vojcec, «Duverger ha più di settant’anni, e Rakamchandra, sembra che non apprezzi molto le occidentali, per quanto ne so, è felicemente sposato con entrambe le sue mogli. Ad ogni modo, si tratta di un problema loro, non nostro.»
Sulla scrivania di Vojcec si accese la luce dell’interfono.
«Si, cosa c’è?»
«Qui è la sala radio, signore. Abbiamo captato un S.O.S.»
«Proveniente da dove?»
«Da Mercurio, signore, dalla base Hermes.»
«Cosa? Li abbiamo lasciati nemmeno due giorni fa, e sono già nei guai? Veda di informarsi su cosa è successo esattamente.»
«L’abbiamo già fatto, signore», proseguì la voce del radiofonista, «Come lei sa, la spedizione aveva con sé un certo quantitativo di esplosivo per gli esperimenti sismografici e le prospezioni minerarie. Sembra che, per un contatto elettrico accidentale, le cariche siano esplose tutte insieme.»
«Ci sono feriti?»
«Soltanto contusi, signore, ma sembra che la forza dell’esplosione sia stata sufficiente a staccare la base Hermes dalla superficie di Mercurio. Come lei sa, il pianeta ha una massa molto modesta e, per conseguenza, una velocità di fuga molto bassa. La stazione è sfuggita all’orbita di Mercurio ed è stata attirata in orbita solare. Il professor Duverger riferisce che non corrono pericolo immediato, ma nei prossimi giorni la stazione precipiterà sul sole, o comunque l’orbita attuale la porterà troppo vicina per consentire la sopravvivenza dei suoi occupanti.»
Grazie», disse il comandante Vojcec, «Ritrasmettete lo S.O.S. della Hermes. Mi apra un canale con il comando della flotta.»
Schiacciò un altro pulsante dell’interfono.
«Sala radar, qui è il comandante. Individuare un oggetto staccatosi dalla superficie di Mercurio e tracciarne la rotta. Si presume trattarsi della stazione Hermes.»
Schiacciò un altro pulsante.
«A tutto l’equipaggio. Qui è il comandante. Da questo momento, la nave è in condizione di preallarme.»
L’atmosfera a bordo era carica di tensione, sembrava che un temporale fosse sul punto di scoppiare. Il comandante Vojcec aveva deciso di parlare all’equipaggio. I marinai e gli ufficiali erano disciplinatamente schierati sul ponte, ma si udivano mormorii fra i ranghi, e sulle facce di tutti era possibile leggere il malumore.
Dopo aver imposto il silenzio con un gesto brusco, Vojcec iniziò a parlare.
«Tutti voi siete al corrente», esordì, «Dell’incidente occorso alla stazione scientifica Hermes. Devo informarvi con rincrescimento che, sebbene l’incrociatore Conqueror sia l’unica nave che si trovi in questo momento in questo settore del sistema solare, non siamo in condizione di prestare soccorso. Non disponiamo di sufficiente carburante per raggiungere la Hermes e tornare, potremmo solo condividere il loro destino. Come certamente sapete, abbiamo consumato la maggior parte del carburante dei nostri razzi nella fase di allontanamento dal sole, per vincere l’attrazione solare...»
«Chiedo la parola, signore.»
Palmer aveva interrotto il comandante, e lo fissò con aria di sfida.
«Ritengo sia possibile salvare i componenti della spedizione Hermes. Ho elaborato una rotta che ci consentirebbe di raggiungere la stazione, che non si trova più sul pianeta, agganciarla e porci in orbita solare stabile, approfittando dell’effetto fionda dell’attrazione solare. Qui, noi e loro potremmo attendere soccorsi con un ampio margine di tempo, mentre senza un nostro intervento immediato, la Hermes è perduta. La prego anche di considerare, comandante, quale pessima impressione farebbe sull’opinione pubblica una delle più scelte unità della marina spaziale che abbandona dei civili al loro destino, senza nemmeno tentare di soccorrerli.»
Dall’equipaggio schierato salirono dei mormorii di approvazione. Il volto del comandante Vojcec si era fatto paonazzo.
«Palmer!», gridò, «Avevo già respinto questo suo piano, e le avevo proibito di parlarne davanti all’equipaggio. Le probabilità di riuscita di questa sua trovata sono minime. Per sfruttare l’effetto fionda occorre muoversi tangenti al campo gravitazionale con un angolo strettissimo, e i suoi calcoli sul carburante ci lasciano senza nessun margine per correzioni di rotta. Lei propone di mettere a rischio la nave ed un centinaio di vite nel tentativo probabilmente vano di salvarne tre. Mi consegni la pistola, si rechi nella sua cabina, e si consideri agli arresti.»
Andrew Palmer sfilò la pistola dalla fondina e la soppesò sul palmo della mano. Doveva stare attento a non compiere nessun gesto che in tribunale potesse essergli imputato come un’aperta minaccia, ma il sottinteso doveva essere chiaro.
«No, signore», disse, «Ai sensi dell’articolo 522 del Codice militare, la rilevo dal comando.»
«Cosa? Ma è impazzito!»
«Al contrario, comandante, è lei che, almeno temporaneamente, non si dimostra in possesso delle sue facoltà. Il timore dei rischi che potremmo correre nel salvataggio della Hermes le ha fatto dimenticare il nostro dovere.»
Sembrava che gli occhi di Vojcec stessero per schizzare fuori dalle orbite, aprì e chiuse la bocca deglutendo, come se fosse sul punto di pronunciare un’imprecazione troppo grossa per uscirgli dalla gola.
«Palmer», disse alla fine, «Questo è ammutinamento! Se non ci ucciderà con questa sua pazzia, le garantisco che farò di tutto per assicurarle lunghi anni di soggiorno nel carcere militare.»
Si trattenne osservando le espressioni dei marinai, era evidente che erano tutti dalla parte di Palmer.
«Io non desidero metterla agli arresti, signore», disse Andrew Palmer, «Le chiedo solo di darmi la sua parola che non ostacolerà le operazioni di soccorso.»
«Le spiego il nostro problema.»
Andrew Palmer passeggiava nervosamente avanti e indietro, mentre parlava con il secondo ufficiale, il tenente Ozala, un robusto nigeriano dalla pelle scura e lucida come l’ebano.
Era una strana sensazione trovarsi improvvisamente al comando, una cosa a cui essere a qualunque posto della scala gerarchica, eccetto il primo, non preparava mai veramente: nessuno da cui attendere ordini, nessuno a cui chiedere consiglio, nessuno da cui aspettarsi un commento di approvazione o di rimprovero al tuo operato, e sapere che la vita di un centinaio di persone dipende da te, dalle tue decisioni, dai tuoi errori.
«Se noi prendiamo due palle da biliardo», disse, «Mettiamo che la prima si muove sul tavolo in una determinata direzione, con una data velocità, e la seconda è ferma. Le due palle si urtano, quella in movimento colpisce l’altra, cosa succede?»
«La palla in movimento si ferma», rispose Ozala, «Mentre l’altra si muove nella stessa direzione e con la stessa velocità della prima, se le due masse sono uguali, e non tenendo conto dell’attrito.»
«Esattamente, ed è proprio quello che può succedere a noi. Non possiamo arrivare nei pressi della stazione Hermes, fermarci, raccogliere gli scienziati e rimetterci in volo, perché non avremmo abbastanza carburante per sfuggire all’attrazione solare, ma se arriviamo addosso alla Hermes senza decelerare, la possiamo spingere in un’orbita solare stabile, ma sarà a sua volta il Conqueror a correre il rischio di precipitare sul sole. Uno scambio della quantità di moto, proprio come sul tavolo da biliardo.»
«Allora, cosa intende fare?»
«Una cosa semplice in teoria, ma che richiederà parecchia attenzione e parecchia abilità per essere messa in pratica: agganciare la Hermes prima di urtarla. In questo modo, la stazione trainerà noi, dopo che le avremo trasmesso la nostra quantità di moto e direzione.»
«Un bell’azzardo», disse Ozala, «Se funziona, saremo tutti degli eroi.»
«E se non funziona, io verrò esposto al ludibrio universale.»
«Non lei, signore, solo la sua memoria.»
Il comandante Vojcec era rimasto volontariamente confinato nel suo alloggio fin dal giorno dell’ammutinamento, non aveva contatti con nessuno, tranne che con i marinai che gli portavano i pasti e gli rifacevano la branda, ed anche verso di loro si comportava con un mutismo che era un’ostentazione di disprezzo.
Man mano che l’incrociatore Conqueror avvicinava al sole, nonostante le schermature, la temperatura a bordo saliva, ed occorreva fare turni di lavoro sempre più brevi.
Andrew Palmer si era fatto assegnare i turni di guardia in sala radio ed in sala radar come qualsiasi altro membro dell’equipaggio. Era smontato, passato in sala navigazione a controllare la rotta, e si era buttato ancora vestito sulla branda per un breve riposo, da non più di una mezz’ora, quando squillò il cicalino dell’interfono.
«La stazione Hermes a contatto visivo, signor Palmer.»
Si precipitò in plancia.
Dapprima, la stazione era soltanto un puntolino abbagliante che rifletteva l’accecante barbaglio del sole, poi cominciò ad espandersi, anche se non era possibile distinguerne i particolari per l’abbacinante riflesso.
Andrew Palmer abbassò la visiera polarizzata del casco della tuta spaziale, e la forma emisferica della stazione Hermes divenne di colpo visibile, e prese a ingrandire rapidamente davanti alla prua del Conqueror. Sembrava che l’esplosione che l’aveva trasformata da base planetaria in imprevisto satellite, non avesse danneggiato visibilmente le strutture esterne.
Palmer aveva fatto sgombrare i locali di prua, tranne per gli uomini addetti alla manovra di aggancio, che dovevano indossare la tuta spaziale, non solo per usare la visiera a luce polarizzata, ma anche per il caso che l’urto aprisse qualche falla nello scafo.
Ora la stazione occupava quasi tutto lo spazio visibile dallo schermo di prua.
Palmer osservò una figura umana in tuta spaziale al di fuori della stazione, che si teneva agganciata con le suole magnetiche in una posizione che in presenza di gravità sarebbe stata impossibile: doveva essere Rakamchandra.
Osservò spasmodicamente i dati del telemetro. Quello era il momento della verità.
«Fuoco!», ordinò.
Tre razzi furono sparati in rapida successione, ciascuno di essi aveva un’ogiva magnetica e portava agganciate centinaia di metri di cavo metallico.
Palmer vide Rakamchandra correre avanti e indietro come un ragno sulla sua tela, per fissare le estremità dei cavi: la sola aderenza magnetica delle ogive dei razzi non sarebbe bastata, poi la sagoma massiccia del robusto indiano sparì dentro un portello.
Ora non restava che attendere e pregare.
«Presto», gridò Palmer nell’interfono, «Aggrappatevi tutti a qualcosa!»
L’urto arrivò subito dopo, ed era da farti sputare le viscere. La prua del Conqueror entrò in collisione violenta con la Hermes, ma era solo l’inizio.
La Hermes, colpita, schizzò via come una palla da baseball.
I cavi si tesero, e Palmer temette che non reggessero. Subito dopo, il violento strappo ricacciò fino ai calcagni le viscere che l’urto di poco prima aveva fatto salire in gola.
La stazione e l’incrociatore iniziarono, agganciati, una folle corsa verso la fornace solare.
Il sole, che invadeva tutti gli schermi esterni della nave, sembrava una cosa viva...e famelica.
Lo scafo esterno era al calor rosso. Palmer era pronto a giurare, sebbene non avesse il coraggio di toccarle, che anche le paratie interne scottavano, nonostante tutti gli isolamenti e le protezioni. Vide un termometro a parete scoppiare e riversare in una cascata argentea di metallo liquido il mercurio, che rimbalzava dappertutto, suddividendosi in minutissime goccioline; era sicuro che a tutti gli altri termometri della nave stesse accadendo esattamente la stessa cosa.
Un getto di plasma della corona solare, un mostruoso artiglio di fuoco, passò loro vicinissimo. Andrew Palmer sapeva che in realtà non era così: se quel getto, grande migliaia di volte l’intera Terra non fosse passato a qualche migliaio di chilometri da loro, nessuno sarebbe rimasto ancora vivo, sarebbero stati tutti vaporizzati in un istante, ma l’impressione era quella di una potenza enorme e maligna che cercasse di ghermirli.
Non poteva comunicare né con la Hermes né coi suoi uomini: la radio del casco, per la ionizzazione, gli stava assordando le orecchie con sibili, fischi e crepitii.
Poi, all’improvviso, furono fuori. L’enorme massa solare non invadeva più tutti gli schermi, ma rimpiccioliva rapidamente sotto di loro.
Anche la radio aveva ripreso a funzionare. Tra le scariche, Palmer udì la voce del tenente Ozala:
«Complimenti, signore. Ha funzionato, non avrei mai scommesso che ne saremmo usciti vivi.»
«Grazie per la fiducia, tenente.»
Poi cambiò frequenza.
«Sala radio? Qui è il primo ufficiale. Lanciate un S.O.S. e comunicate la nostra posizione al Comando della flotta.»
Ormai la stazione e l’incrociatore avevano raggiunto un’orbita solare stabile, Un raccordo flessibile venne steso fra l’Hermes ed il Conqueror. Andrew Palmer era là, fra i primi, ad attendere febbrilmente l’apertura del portello, sebbene Duverger avesse già comunicato per radio che i tre scienziati stavano bene.
Quando il portello si aprì, Palmer si trovò davanti i bellissimi occhi color smeraldo di Tanja.
La giovane gli si buttò fra le braccia.
«Oh, Andrew», disse, «Sapevo che non ci avresti abbandonati.»
Rientrarono a bordo del Conqueror. Rakamchandra e Ozala sorreggevano Duverger che zoppicava vistosamente.
Ad attenderli, c’era il comandante Vojcec: a giudicare dalla sua espressione, si sarebbe detto che avrebbe preferito precipitare sul sole.
Palmer si mise sull’attenti.
«Le restituisco il comando, signore».
«Complimenti, signor Palmer», disse Vojcec acido, «Così, dopotutto, ce l’ha fatta. Lei aveva ragione ed io torto. Forse non la sbatteranno in carcere, si limiteranno a cacciarla dalla marina, o la metteranno a pulire latrine per il resto della vita. Naturalmente, da questo momento è agli arresti.»
Il Conqueror e la Hermes furono raggiunti dalla spedizione di soccorso due mesi più tardi. Per tutto quel tempo, Andrew Palmer era rimasto confinato nella propria cabina, l’unico sollievo erano le visite di Tanja Nahicheva, che Vojcec gli aveva concesso di ricevere per un’ora al giorno.
Al ritorno sulla Terra, Palmer scoprì che il suo caso era già accompagnato da una sgradevole notorietà. A quanto pareva, c’era dappertutto gente ansiosa di stabilire se dovesse essere considerato un eroe o un ribelle.
Il processo, tuttavia, fu una cosa relativamente breve. Era strano, ma dai codici militari e dai regolamenti che il tribunale era tenuto ad applicare, finiva per emergere una paradossale saggezza. Tutti sapevano che il suo gesto di ribellione aveva salvato tre vite umane, ma la tesi della temporanea infermità mentale di Vojcec non venne sostenuta con troppa convinzione neppure dalla difesa, e non si poteva creare un precedente che avrebbe autorizzato un subordinato a rifiutare l’obbedienza ad un superiore ogni volta che l’avesse ritenuto opportuno.
L’imputazione di ammutinamento venne derubricata in quella di insubordinazione grave, Andrew Palmer fu retrocesso a capitano, e dichiarato psicologicamente ed emotivamente non idoneo a prestare servizio nello spazio, ma rimaneva sempre un ufficiale della marina.
Andrew Palmer ripiegò con cura la lettera che aveva finito di leggere, e la rimise in tasca. Prese il binocolo e fece un giro d’orizzonte con lo sguardo. L’oceano era di un grigiore plumbeo, chiazzato qua e là dall’iridescenza degli idrocarburi.
Forse in un’epoca remota, avventurarsi sugli oceani era stata un’impresa esaltante, come oggi solcare gli spazi, ma quei tempi erano finiti, appartenevano ad un mondo scomparso da un pezzo, e una vecchia bagnarola come il cacciatorpediniere Georgetown non era certo paragonabile ad un gioiello della più raffinata tecnologia, come il Conqueror, eppure...Eppure, quella era la sua nave, quelli erano i suoi uomini, entro le murate di quello scafo, non c’era nessuno sopra di lui, le decisioni e le responsabilità erano sue, era lui l'uomo sul ponte di comando.
Sentì un’ondata di affetto salirgli da dentro per tutti loro, e per il buon, vecchio Georgetown.
Qualcuno era salito sulle murate, e si era portato alle spalle di Palmer.
«De Almeida.»
«Scusi, signore. Pensavo che forse sarebbe il caso di scendere sotto coperta. In questa stagione, fa freddo presto, dopo il tramonto.»
Il tenente De Almeida aveva visto la lettera che Andrew Palmer aveva rimesso in tasca, gliel’aveva consegnata lui stesso poche ore prima; non c’era l’indirizzo del mittente sulla busta, ma il timbro postale di partenza, da una di quelle località russe dal nome troppo pieno di consonanti, rivelava con chiarezza chi l’avesse spedita.
«De Almeida», disse Palmer, «Le devo chiedere un favore.»
«Se posso, signore.»
«Le piacerebbe farmi da testimone di nozze?»

mercoledì 16 aprile 2014

LA MIA CASA NELL'ALBERO di Adriana Alarco de Zadra



La casa cresceva man mano che l’albero si innalzava. La creatività transgenica produceva alloggi: un’abitazione dentro l’albero. Con questo esperimento moderno, la pianta si sviluppava intorno a una sfera di materiale genetico che si gonfiava dentro di lei. Quando cresceva e arrivava alla dimensione richiesta, la sfera veniva sgonfiata e lasciava un abitazione al centro dell’albero. Crescevano così le case nel bosco.
Si entrava nell’alloggio in mezzo alle radici, in uno spazio che poteva essere suddiviso e arredato a gusto dell’inquilino. Era pregevole la nuova invenzione di produrre case che si fabbricavano da sole, aprendosi un varco dentro gli alberi.
Quando lo spazio dentro al nostro albero fu sufficiente, la sfera di materiale genetico venne sgonfiata e restò un luogo spazioso, circondato dalle parete interne del tronco. Pronto da arredare e riempire di mobili e di tecnologia…
Che altro si poteva desiderare? Essere proprietari di una casa senza dover usare acciaio o mano d’opera! Una meraviglia della scienza moderna!
Era la prima casa della colonia Bosquejo, vigorosa e vitale. L’energia che la pianta assorbiva dal terreno si diffondeva attraverso le pareti concave e poteva essere utilizzata. Le tubature scendevano portando acqua piovana dalla cisterna. Appena fu pronta, mi trasferii nella nuova casa con i miei figli Pastor e Juglar. Vi piazzai dei mobili scomponibili e degli elettrodomestici. I bambini saltavano felici, grattando le pareti della nuova abitazione e dormirono ninnati dai suoni del bosco. Eravamo i primi abitanti a usufruire di quell’invenzione moderna.
Poco tempo dopo, un pomeriggio, le urla spaventate dei miei figli mi fecero trasalire. Notai con terrore che erano immobilizzati nelle pareti interne dell’albero. Si supponeva che non dovesse più crescere, invece stava aumentando a vista d’occhio il suo volume verso l’interno, riempiendo il vuoto. I corpi di Pastor e Juglar sarebbero potuti scomparire inghiottiti dall’albero. La casa del bosco aveva bisogno di un alimento genetico per crescere? Non ero in grado di pensare e stavo perdendo il senno. Con orrore, vidi che non riuscivo a staccarli dalla parete che li abbracciava. Disperato, afferrai un machete, tagliai il legno intorno a Pastor e lo liberai da quella prigione.
Juglar mi guardava supplicante, con la bocca aperta e senza riuscire a gridare, bloccato nella sua infame prigione vegetale. Alla fine, a colpi di machete, riuscii a liberarlo dall’albero che inghiottiva le persone.
Non facemmo mai più ritorno alla colonia transgenica del pianeta. Costruimmo la nostra casa di acciaio, cemento e vetro nella città più chiassosa e bandimmo tutto quello che ci faceva ricordare l’albero ingordo di Bosquejo, il suo legno, la carta e perfino i libri dove anticamente si leggeva quello che oggi si vede sullo schermo. Non mangiamo nemmeno verdura o legumi. Attualmente ci nutriamo solo di pillole vitaminiche e di bevande chimiche.
I miei figli cresceranno circondati di tecnologia, senza visitare boschi genetici, e io nutro la speranza di sopravvivere in salute per il resto dei miei giorni, anche senza la bellezza della natura, tanto rovinata dall’uomo, ultimamente.
(Traduzione dallo spagnolo: Giuliana Acanfora)

domenica 13 aprile 2014

LE GEMELLE di Eduardo Poggi



Siccome Julia sarebbe arrivata quella sera da Buenos Aires, mi recai alla spiaggia per ammazzare il pomeriggio.
Due gemelle, che giocavano sulla spiaggia con formine di plastica, attirarono la mia attenzione. Giocavano al centro di un grande specchio d’acqua, inginocchiate su un letto di sabbia semiliquida. Ogni volta che cercavano di alzare le mura di un castello, queste affondavano nella sabbia liquefatta dall’acqua spumosa della costa.
Le bambine si scambiavano sguardi silenziosi. Bionde, con i capelli lunghi e setosi e la carnagione pallida, una sembrava la copia dell’altra, come se si vedessero riflesse in uno specchio.
Una donna – supposi fosse la madre – le sorvegliava dalla tenda.
Osservavo le gemelle colpito dal loro atteggiamento ostinato: quanto più rapido il fossato inghiottiva le mura che franavano per l’instabilità del terreno sabbioso, tanto più veloci ricominciavano il lavoro, con rinnovato impegno.
Mi ricordarono la mia infanzia, quando costruivo castelli in quella stessa spiaggia, temendo il crollo delle mura, e l’apparizione di mostri marini e draghi, tra le torri e dalle profondità dell’oceano.
Le gemelle continuavano ad assemblare il castello. Il ponte d’ingresso sopra il fossato e le quattro torri periferiche erano ancora in equilibrio. Sembrava che questa volta ce l’avrebbero fatta.
Mi distrassi quando la madre afferrò una borsa. E, al girare di nuovo lo sguardo, le vidi proprio nel momento in cui le mura franate del castello si perdevano nel fondo della fossa acquosa. Sembrava che lo specchio d’acqua prendesse vita per inghiottire le mura e qualunque cosa gli si mettesse davanti.
Quando una delle gemelle mise l’altra nel fossato e cominciò a coprirla – forse frustrata dalle continue frane – il mio corpo fu scosso da un brivido: non ho mai sopportato quella sensazione di vuoto sotto ai piedi, quel vuoto lasciato delle onde al ritirarsi dalla costa e i piedi che affondano, come se una forza invisibile strattonasse dal basso per risucchiarmi.
Aveva già ricoperto la sorella fino al collo, quando la madre si avvicinò con un barattolo di protezione solare. La bimba guardò sua madre e le disse che non voleva essere disturbata, non si rendeva conto che stava giocando? L’altra doveva essere muta o sorda o entrambe le cose: la madre parlava sempre con la stessa.
E ritornò in fretta alla tenda.
Mi sconcertò non vedere la testa della piccola muta interrata. L’altra mi guardava fisso. Aveva notato che la osservavo? E anche fosse stato così, che cosa c’era di male? Non poteva sapere che io stavo immaginando la sorella sepolta viva.
Le sorrisi e le lanciai un bacino. I suoi occhi azzurri si oscurarono poco a poco, fino a raggiungere un nero intenso, e mi fissarono. La sua bocca si deformò, si aprì  e mi vidi obbligato a distogliere lo sguardo da quell’orribile smorfia. Sentii un braccio che mi afferrava il collo fin quasi a strozzarmi: la sorella – che avevo immaginato affogata nella fossato – era appesa alle mie spalle, mi affondava le ginocchia nelle reni e mi bagnava con il suo costume imbevuto di acqua salata. Mi graffiò con la sabbia attaccata al suo corpo. Cercai di afferrarla per le braccia, ma lei me lo impedì con un movimento brusco. Desiderai accarezzarla, perché capisse che la sua birichinata non mi aveva fatto arrabbiare.
E ad appoggiarle la mano sulla testa… non esisteva… o meglio, sì, esisteva, ma non materialmente. Si era trasformata in un miraggio, nel frutto della mia immaginazione? Non so. La bambina, molto più veloce di me, scappò prima che potessi anche solo toccarla.
O forse il mio braccio le passò attraverso. Non lo so.
Tornai alla realtà.
Lei si girò e mi guardò: il corpo rigido, lo sguardo penetrante, gli occhi azzurri, e le labbra tirate, dicendomi:
Lasciami in pace, ok?
Mi parlò senza muovere le labbra. Mi ero dimenticato il cappello e pensai: è un effetto del sole che mi picchia in testa. I raggi UV che sembrano emergere dalla sabbia, che deformano le sagome delle persone quando le si guarda a distanza, che fiammeggiano in verticale, salendo fino a ferirti il cervello. Sì, era stato questo. Questo, o il buco dell’ozono che è tanto di moda.
Le bambine ripresero a giocare, intestardite nel costruire il castello.
Io mi alzai e camminai verso la costa, schivai le prime onde e mi addentrai nell’acqua per rinfrescare, soprattutto, la testa. Per cercare di capire cosa mi stava succedendo.
Sapevo nuotare molto bene; superai il terzo frangente godendo della profondità dell’oceano. Galleggiavo, mi immergevo e non riuscivo a toccare il fondo. Vidi tre gabbiani bianchi che ondeggiavano sul mare. Mi affascinava vederli immersi nella quiete, alzandosi e abbassandosi col movimento delle onde, in un ritmo musicale. Mi proposi di arrivare fino a loro e nuotai, ma si alzarono in volo proprio quando credevo di aver raggiunto il mio obiettivo. Una coppia di delfini che saltò poco distante mi fece spaventare, e il godimento e l’incanto si trasformarono in paura, come quando ero bambino. Paura dell’immensità del mare, paura dei riflessi del sole sulla superficie che prendevano l’aspetto di bagliori spettrali, paura che si convertisse in realtà un incubo ricorrente: una fenditura del mare aperto mi risucchiava fino al fondo. Decisi di tornare indietro per raccogliere le mie cose e tornare nel mio monolocale ad aspettare Julia, e nuotai fino a riva.
Passai camminando di fianco al fossato dove una delle bambine teneva il braccio come a voler afferrare le mura che di sicuro un’altra volta erano affondate. L’altra alzò lo sguardo.
Io preferii continuare a camminare.
Presi un telo, mi asciugai e mi infastidì il sale che graffiava la pelle. Quando cercai con lo sguardo le gemelle, per controllare se avevano abbandonato il loro intento o se ancora perseveravano, vidi un mulinello al centro del fossato liquefatto. E un piede, con la pianta in su, che scompariva inghiottito dal letto sabbioso.
La gemella guardava, imperturbabile, la trasparenza a specchio di quei due o tre centimetri di acqua, sparsi sopra la sabbia che aveva inghiottito la sorella. La madre, con la stessa flemma, camminava verso il fossato. Arrivò, prese la figlia per mano, e quando tornò alla tenda, la vestì con una tutina di spugna rosa.
Corsi per avvertirla di ciò che avevo visto.
– L’altra sua figlia, signora! – le gridai confuso – L’ha inghiottita la sabbia del fossato! – Mi guardò come se le avessi detto che gli extraterrestri avevano conquistato il pianeta. – La sabbia se l’è…
Non mi lasciò terminare la frase. Afferrò la mano di sua figlia, sicuramente per allontanarla da me, e mi diede le spalle.
– Sua figlia, signora! – le gridai di nuovo, senza sapere se dovevo insistere o correre verso il fossato per salvare l’altra gemella.
– Guardi, signore – disse affrontandomi secca, autoritaria. – Mia figlia è qui con me ­– la bimba mi guardava con scherno –  e quello che mi ha appena detto mi sembra uno scherzo di cattivo gusto.
– Parlo dell’altra sua figlia, signora! ­ – Indicai la fossato. ­ – La sabbia ha inghiottito l’altra sua figlia!
– Per favore! – mi disse in tono indignato, e tese il braccio mostrandomi la palma della mano, con il chiaro significato che non mi avvicinassi. – La smetta di dire stupidaggini! Questa è mia figlia! – Scosse la mano in alto, le dita intrecciate con quelle della bambina. – La mia unica figlia!
Si mise una borsa in spalla, si girarono e se ne andarono a piedi.
Le guardavo andare via tenendosi per mano. Le guardavo senza sapere cosa fare.
Osservai il fossato, poi la bambina che andava via con sua madre. La bimba girò la testa e mi guardò con quei suoi occhi azzurri. E le vidi di nuovo quella smorfia: le labbra aperte, spaccate e grondanti pus, i denti separati, conici, storti e macchiati. Le pupille le si dilatarono, e potei vedere attraverso le orbite vuote l’oscurità interna della testa, mentre dalla sua bocca usciva un odore putrido che arrivò a me nonostante la distanza.
Mi sedetti sulla sabbia, stordito, desiderando capire.
Al rientro, una strana figura ferma su una montagnola all’angolo mi turbò. Il sole, che si trovava dietro alla duna, ostacolava la mia visione. Continuai a camminare, e quando girai l’angolo le vidi ferme faccia a faccia, come se si stessero guardando nello specchio. Le gemelle si afferravano la gola con entrambe le mani.
E i  miei polmoni si svuotavano. Lentamente si svuotavano.
Subito dopo corsero via e scomparvero inghiottite dalla penombra del pomeriggio.
Solo quando chiusi la porta del monolocale mi sentii più sicuro. Tuttavia neanche il rumore del rock pesante che arrivava da qualche caffetteria della zona pedonale mi aiutava a dimenticare ciò che avevo vissuto. Desideravo che arrivasse Julia, e che arrivasse in fretta, per vederla e raccontarle tutto.
Intuii che, in quel monolocale, qualcuno mi sorvegliava.
Una pressione e un nodo alla gola mi rendevano difficile respirare, e l’aria che esalavo mi bruciava le narici.
Una forza incontenibile mi trascinò in bagno. Mi fermai di fronte allo specchio che si muoveva in un mare di ondulazioni. E vidi il mio riflesso girare in un mulinello. Un mulinello che convertiva quel riflesso nell’immagine della gemella. Un mulinello che girava e girava. Un mulinello che terminò assorbendola.
Poco dopo, vidi arrivare Julia. Mi si avvicinò e mi diede un bacio profondo, umido e salato.
Ma non potei dirle che io non ero io. Non potei dirle che io la guardavo dall’altro lato dello specchio.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana Acanfora)