venerdì 4 aprile 2014

INTERIORA di Serena Gentilhomme



Questo racconto è dedicato alla dolce, arguta memoria di mio padre, Giulio Truci, medico, poeta e musicista (1914-2008)
                                                                                    Serena Gentilhomme

Aspro è il distacco da te, dal tuo volto bellissimo composto in un misterioso (ironico?) sorriso, ma il dovere mi chiama oltre la cima di questa scala impervia, verso il nitore della luna crescente – profilo identico al tuo – irrorante i cipressi, le vigne, i colli e le alte mura di pietre sconnesse che rasento, di corsa, strappando ciocche di capperi che stritolo tra i denti: il sapore della tenera, acida carne dei boccioli è quello delle mie lacrime.
Arrivo a casa esausta, ma pronta a compiere quanto promesso a te, rimasto solo in quella triste stanza che, stranamente, hai scelto come sala d'attesa, un locale squallido, spoglio, dove l'umidità affresca sulle pareti oscure forme – une delle quali m'incute un vago terrore profondo, come quello lasciato degli incubi dimenticati…
Le nostre donne mi accolgono, mi consolano, mi lavano, mi rivestono di un abito di lino finissimo, laminato d'oro, stretto alla cinta da un corsetto bronzeo. Abili mani mi riuniscono i capelli a crocchia sulla nuca, ricoperta da una retina dorata. Sul mio seno ricadono due trecce.
Così ricomposta, entro nelle cucine.
L'afrore e il fervore che vi regnano mi rinvigoriscono: i preparativi per il simposio di domani culminano. Nel ruggire dei fuochi, in uno sciame di faville, nello scoppiettare dei ciocchi e delle torce, i nostri undici cuochi, mezzi nudi e lucenti di sudore, spennano, scuoiano, sventrano e tagliano, ridendo, bestemmiando e lanciandosi certe loro oscene, innocenti facezie. Ancora non si sono resi conto della mia presenza: eretta sulla soglia, onusta di gioielli, osservo i bei corpi scolpiti dal sole e dallo sforzo che si agitano tra un bue appeso accanto a cinque lepri, un cerbiatto, dieci fagiani ed una capra parzialmente sventrata, la cui testa è stata posta su di un ceppo intriso di sangue, ai miei piedi. Il mio sguardo si perde in quegli occhi morti…
Morti?
No: quei globi di brace, come il rictus disperato, astuto delle labbra cascanti, sono quelli dell'Orco dal becco d'avvoltoio, dagli orecchi d'asino, dal cranio irto di serpenti, del divoratore d'anime di cui nessuno osa pronunciare il nome.
Tukhulka.
Il sangue mi s'agghiaccia e batto i denti.
Ora capisco: l'oscura forma che si è disegnata sulla parete nel momento in cui ho dovuto lasciarti era la sua immagine…
– Tanaquil?
Davanti a me sorride il mio cuoco preferito, Pultuce: come sai, come sempre hai saputo – anche se non te l'ho mai confessato – questo bizzarro, vecchio fanciullo più giovane di me è stato il mio amante per molti anni, fin quando ha voluto. Ormai, le sue membra si sono appesantite, i suoi lunghi ricci rossi sbiancati, ma il bagliore dei suoi occhi verdi come il fiele d'un galletto è rimasto vivido.
– Tanaquil, devi cucinare questo per l'offerta agli dei involuti: ordine di lui …
– Fegato di capra?
Prendo il vassoio, il coltello affilato – lo stesso che tu usavi per divinare – che Pultuce mi porge e une saliva famelica m'inonda le fauci: brillante, liscio, chiaro, di grana più fine del lino che mi avvolge, questa materia tremolante e perlacea esige di essere sezionata, snervata, sfaldata e lavorata a fondo, amorosamente, in un'orgia di profumi e di sapori – olio vergine, capperi, sedano, cipolla, sublimati da un vino bianco dal sentore d'agrumi…
– Di capretto, via. Meglio di quello dell'agnello, l'ha detto lui. Credimi! Credilo!
La lama splende di mille faci. L'ho appena immersa nel fegato per tagliarlo a fettine sottili, quando una vertigine mi assale.
L'ardore, il fragore, il fortore della cucina scompaiono.
Davanti a me si disegna la sagoma d'un'esile barca fuggente su di un'onda lieve, trasparente – inesorabile – che salpa verso una sponda nebulosa, in un battito d'ali immense et diafane, quelle della Lase, gli angeli della morte…
– Attenta, non farlo bruciare!
La bocca carnosa di Pultuce è vicinissima alla mia: fra noi due, un bucchero colmo di vino. Ne beviamo un sorso ciascuno: vispo e croccante, il nettare dorato sfrigola nella teglia dove il fegato della bestia si è trasformato in pasta mantecata aromatica, alla quale aggiungo qualche rametto di maggiorana.
– Assaggia!
– Divino.
Assaporando il manicaretto che mi ha lasciato una scia di velluto profumato in bocca e in gola, ho sbirciato verso il cranio di capra dallo sguardo di fuoco, ed ho visto una piccola testa d'agnello dai mansueti occhi chiusi. Poi, credo di essermi addormentata: tutte le faci, tutti i fuochi erano spenti, quando mi sono ritrovata distesa su un triclinio dei convivi, con una coppa profumata in mano…


Una donna chiamata Tanaquil, della stirpe di Tagete e di Vegoia, avanza nella notte etrusca per raggiungere la spoglia di suo padre, l'aruspice Vel, nella tomba ch'egli ha voluta, contro la tradizione, disadorna e nella quale lei, la figlia dell'indovino iniziata all'interpretazione delle viscere, del volo degli uccelli ed ai misteri degli dei involuti, ha creduto riconoscere l'ombra di Tukhulka. Grande è il terrore che la pervade e la fa tremare tutta, ma niente la farebbe recedere: stringendo la coppa da cui si sprigiona un vivificante sentore di fegato commisto agli aromi delle erbe selvagge abbarbicate alle mura, Tanaquil sospira e si rassegna a scendere i ripidi, sconnessi scalini che la condurranno alla buia cella dove suo padre giace come un vecchio giglio reciso…
Una fiammata l'acceca: Pultuce è davanti a lei, con una torcia in mano.
– Vieni!
Una dopo l'altra le faci splendono, illuminando scene di banchetti dai colori di carne e di festa, giù, sempre più giù, fino alla camera mortuaria dove l'aruspice sembra contemplare l'affresco della parete principale: un'esile barca, sospinta uno stormo di Lase, salpa sulla pace di un'onda incolore.
Tanaquil s'inginocchia, posa la coppa votiva, contempla colui che fu Vel – e spera.
Spera che quel misterioso sorriso scorra nelle sue vene e la sostenga.
Spera che il vago paradiso delle Lase esista e che gli abbia schiuso le sue porte.
Spera che quando le si schiuderanno quelle silenziose porte egli risorga davanti a lei, in un nitore di luna nascente, oltre la cima dell'impervia scala.


4 commenti:

  1. Prosa suadente, forbita, carezzevole, quella di Serena: una prosa sviluppata sul filo del ricordo, del sentimento, ma anche dell’invenzione che, pur ispirata da una realtà tangibile, vissuta, sembra essere trasfigurata liricamente dal sogno e dalla grande sensibilità della scrittrice.
    Brano intenso, suggestivo.
    Paolo

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  2. Il racconto, assai coinvolgente e scritto bene, affascina per il modo con cui unisce l'aspetto visionario al ricordo intimo e familiare. Il risultato è originale, accattivante, gustoso.

    Giuseppe Novellino

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  3. Grazie dei complimenti: per molte ragioni questo testo è molto caro al mio cuore e talmente legato alle mie emozioni più profonde che mai avrei potuto tradurlo in francese. Mi ci sono provata, ma invano.

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  4. Bel racconto. Molto ben scritto.
    G.S.

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