giovedì 29 gennaio 2015

ANTOLOGIA: IL MEGLIO DI PEGASUS

 Pubblicata e già disponibile su Lulu.com l'antologia IL MEGLIO DI PEGASUS. Essa contiene quarantuno racconti dei seguenti autori:


Adriana Alarco, Valérie Bédard,Pierre Jean Brouillaud,  Fabio Calabrese,
Danilo Concas, Giuseppe Costantino Budetta, Paolo Durando, Aldo Flores Escobar, Daniel
Frini, Serena Gentilhomme, Sergio Gaut vel Hartman, Fabio Lastrucci, Peppe Murro, Giuseppe Novellino, Antonio Ognibene, Jean-Pierre Planque, Renato Pestriniero, Eduardo Poggi, Giorgio Sangiorgi, Paolo Secondini, Annalisa Seveso, Stefano Valente.


http://www.lulu.com/shop/paolo-secondini/il-meglio-di-pegasus/paperback/product-22019055.html

lunedì 26 gennaio 2015

GIORNI D’AUTUNNO di ALDO FLORES ESCOBAR

Vestito con panciotto e calzoni a righe, con una cartelletta di pelle consunta e lenti incrinate, un gerundio ha trascorso il giorno in cerca di un impiego. La notte è scesa d'un tratto; egli fuma sigarette senza filtro e prende doppio caffè senza zucchero. Oggi non ha mangiato e le suole delle sue scarpe si sciupano sempre di più, perché continua a vagare in cerca perfino di un libro; conosce una libreria di infima categoria, e magari in questo vecchio negozio egli otterrà una pagina morbida, che gli dia riparo finché non giunga il nuovo giorno. 
(Traduzione dallo spagnolo di Paolo Secondini) 

giovedì 22 gennaio 2015

L’ALIENO di Peppe Murro



In tutta la mia vita avevo desiderato di incontrare un alieno! Scrutavo le stelle dalla cupola del mio veicolo, incrociavo dati, cercavo indizi...
Era immenso lo spazio, ma mi rifiutavo di credere che noi fossimo la sola specie intelligente in tutto il cosmo; e poi mi sorreggeva la speranza: la mia astronave era fatta per i viaggi transdimensionali e, ne ero certo, un giorno sarei riuscito a trovare un'altra creatura intelligente.
Ed ora stavo qui, in questo pianeta del quadrante Y3, a scrutare con trepidazione ed attenzione il mio primo alieno incontrato. Gli avrei sorriso per la gioia, ma dalla mia tuta all'esterno avrebbe visto ben poco. E poi c'era un'oscurità che mi pareva lo infastidisse.
 Il primo alieno incontrato! Ero felice, anche se a prima vista avevo provato una sorta di repulsione: era veramente orribile e strano, almeno ai miei occhi.
Stava lì, immobile, di fronte a me: dovevo decifrare in fretta le sue espressioni ed i suoi gesti, se volevo un contatto. Portai al massimo la potenza del mio elaboratore portatile.
Intanto l'eco scandaglio rimandava sul mio display la struttura del suo corpo, se pure quello era un corpo, almeno come lo intendiamo noi.
Non ebbi tempo di meravigliarmi dei suoi movimenti: prima poggiava su quatto protuberanze ed ora su due, mentre da una terza pià tozza uscivano onde sonore modulate e stridenti. Anche queste avrei dovuto interpretare per bene, se mai erano il suo linguaggio, altrimenti sia gli scienziati della mia missione che gli oppositori ai viaggi interstellari mi avrebbero sommerso di critiche.
Dati, avevo urgenza di dati, ma la cautela mi imponeva di non fare gesti precipitosi, mentre aspettavo risultati dall'eco scandaglio.
Guardavo l'alieno: aveva cinque protuberanze articolate o forse tentacoli.  Due di esse, parallele, si protendevano verso quella più tozza, anzi, no, ora verso di me, mentre dalla tozza centrale usciva un suono la cui frequenza diventava sempre più alta.
 Feci istintivamente un passo indietro, ma mi accorsi subito che era un gesto sbagliato: misi in azione i pattini gravitazionali e per calmarlo e fargli capire le mie amichevoli intenzioni feci il nostro gesto più tipico di saluto, dondolando un po' goffamente per la rigidità della tuta. Neppure questa fu una scelta felice. Allora decisi di stare fermo, mentre mi arrivavano i dati completi dell'eco scandaglio.
Era veramente una creatura strana!
Oltre a quattro lunghe appendici articolate come tentacoli, ne aveva una più tozza con movimenti meno ampi. Il corpo, se così si può chiamare, aveva delle cavità (nove) quasi tutte appaiate, ma di forma e, supponevo, funzioni diverse. Le cavità in basso erano disposte con una simmetria strana, almeno per noi: una più piccola, in quello che poteva essere il davanti e che mi si mostrava, era collegata a un contenitore di liquidi con prevalenza d' ammoniaca; l'altra, leggermente più ampia, si collegava a strane condotte di una melma con metano. Lo scandaglio mi faceva poi vedere tante sacche interne, chi con acido nitrico, chi con gas dove prevaleva ossigeno: una miriade di tubi condotte e tubicini collegava (una rete di trasmissione?) queste sacche.
“Nessuno mi crederà” pensavo con un po' di preoccupazione “se non porto dati precisi.”
In quel mentre stavo notando che da una delle condotte anteriori fuorisciva  una parte di quel liquido colorato a base di anmmoniaca che stava nella sacca. “Devo capire in fretta, non ho molto tempo.”
Due cavità in alto avevano cerniere organiche che chiudevano a tratti due ovali pigmentati capaci di dilatarsi come ora; non riuscivo a decifrare la funzione delle due che stavano ai lati dell'escrescenza tozza e che mi ricordavano vagamente antenne radio (una ulteriore scansione 3d sarebbe pià chiara); altre due cavità emettevano in alternanza gas con polveri e rilevanti tracce di azoto, carbonio ed ossigeno. Anche quella più grande svolgeva la stessa funzione: ora era aperta e rumorosa.
Chiesi al computer se aveva decifrato i gesti o il linguaggio dell'alieno, se ne aveva uno. Mi comunicò che ora l'alieno sembrava impaurito eppure gli avevo fatto il nostro segno di pace e di amore, ma evidentemente non lo aveva capito.
Il compure mi consigliava di dargli una scarica di onde rilassanti, mentre cercava un modo appropriato di contattere l'alieno. Lo feci.
Ero piuttosto deluso. Questa forma non mi pareva molto intelligente.
 Il computer ora mi diceva di avere probabilmente decifrato il lunguaggio dell'alieno e che potevo parlargli con il trasmettitore telepatico. Finalmente! era la realizzazione del sogno della mia vita di esploratore.
Io, Ben Loss jr, mando a te i miei pensieri più colmi di gratitudine e il mio più caldo messaggio di amicizia.
L'alieno si era irrigidito come a farsi più attento, restò un po' con una sorta di tentacolo o protuberanza a mezz'aria. Poi aprì ad arco la cavità rossiccia della protuberanza più tozza, mostrando due righe parallele di strutture a base calcio.
"Pericolo !" mi gridò il computer." Possibile arma."
Il colpo partì quasi da solo, grazie al mio perfetto addestramento: un lampo verde e l'alieno era incenerito davanti a me.

Da dietro gli anelli di Saturno i guardiani  del III pianeta, Adon-Hais  e Him-Elo, si guardarono sgomenti: "Accidenti, quello stupido bio-robot ha ucciso Adamo!"

sabato 17 gennaio 2015

SECONDO ANNIVERSARIO DI PEGASUS



In occasione del Secondo Anniversario del blog Pegasus (nato nel febbraio 2013), sarà di prossima pubblicazione (febbraio 2015), per i tipi di Lulu.com, l’antologia IL MEGLIO DI PEGASUS, riservata ai soli collaboratori del blog.
Pertanto, gli autori che sono interessati a partecipare alla suddetta antologia – con uno o non più di due racconti da scegliersi tra quelli già pubblicati su Pegasus – facciano sapere, entro l'1 febbraio 2015, quali dei loro racconti vogliono che figurino nell’antologia.
Va da sé che questo blog, non essendo una casa editrice, non può donare agli autori partecipanti alcuna copia dell’antologia, trattandosi di editoria su richiesta (print on demand). Ogni autore potrà acquistarne, se crede, almeno una copia-ricordo direttamente su Lulu.com.

Se publicará próximamente en Lulu.com, la antología LO MEJOR DE PEGASUS, reservada solamente a los colaboradores del blog.  Por lo tanto, los autores que estén interesados en participar a dicha antología, con no más de dos cuentos escogidos entre los que se han ya publicado en Pegasus, me lo hacen saber, por favor dentro del primero de Febrero, 2015, indicando el nombre de sus cuentos que desean que figuren en la antología.  Ya que este blog no es una casa editorial, no puede donar a los autores participantes ninguna copia de la antología, pues se trata de una forma de print on demand.

Lulu.com publiera prochainement l'anthologie intitulée LE BEST DE PEGASUS (ou le MEILLEUR DE PEGASUS, si tu préfères, Paolo)) qui sera réservée aux seuls collaborateurs du blog. Donc, les auteurs qui souhaitent participer à cette initiative - avec un maximum de deux récits à choisir parmi ceux  sont qui ont déjà paru sur PEGASUS - sont invités à préciser,  avant le premier février, quels sont leurs récits qui figureront dans l'anthologie. 
Il va de soi que ce blog, n'étant pas une maison d'édition, ne peut faire aux auteurs participants l'hommage d'un exemplaire  de l'anthologie, car il s'agit là d'une forme d’édition à la demande.

venerdì 16 gennaio 2015

FANTASCIENZA E FANTASIE di Paolo Secondini - Peppe Murro

Su LULU.com è disponibile l'antologia di Paolo Secondini e Peppe Murro FANTASCIENZA E FANTASIE - Racconti
 http://www.lulu.com/shop/paolo-secondini/fantascienza-e-fantasie-racconti/paperback/product-22000030.html

sabato 10 gennaio 2015

IL RICHIAMO DELLE SIRENE di Micky Papoz



La tempesta soffiava con violenza. Il mare gonfio s'infrangeva urlando contro il fragile scafo. Le creste delle onde schiumavano e si attorcigliavano in spirali sopra le profondità di un verde fosforescente.
Una coppia di uccelli venne a rifugiarsi sul ponte di legno grondante. La velatura dell'unico albero non era più che uno straccio. Finì di afflosciarsi sotto gli sferzanti colpi delle raffiche. I due uccelli sbatterono le ali appesantite d'acqua salata quando la barca s'infossò in un avvallamento fra le onde prima di raddrizzarsi sopra le creste.
Lo scatto folgorante di una luce infiammò lo scafo che si aprì in due prima di affondare negli abissi tenebrosi.
Con gli occhi sgranati e la bocca spalancata, il negoziante fissava la bottiglia in vetro grossolano dove si era prodotta la tempesta. Sbatte gli occhi pensando di essere vittima di un'allucinazione, sussulta quando il campanello della porta d'ingresso fa risuonare la sua musica cristallina. Ma non si volta, i suoi occhi rimanevano attaccati alla bottiglia dove il mare si era calmato e la barca ricompariva in superficie come un tappo di sughero.
“Buon giorno!”, dice sorridendo una giovane donna dai lunghi capelli biondi, “Guardavo la sua vetrina e ho notato una clessidra che sembra molto antica. Posso vederla più da vicino?”
“Si, si, certo!”, annuisce il giovane ancora turbato dal dramma in miniatura cui aveva assistito.
Si diresse verso la vetrina aperta dalla parte del negozio per prendere la clessidra. La capovolse come gli aveva detto l'antiquario che desiderava che il suo commesso mostrasse ai clienti che tutti gli strumenti antichi come i mappamondi, i sestanti e le bussole funzionavano ancora. 
La giovane donna si era avvicinata al tavolino, dove su una base stava la bottiglia contenente il modellino. Carezzò con l'indice il vetro traslucido e delle increspature apparvero sull'acqua.
Toglie subito il dito e se lo posa sulle labbra come una bambina colta in fallo, prima di girarsi verso il commesso. I suoi occhi di acquamarina, quasi trasparenti, incrociano quelli scuri dell'uomo, che prova subito una curiosa sensazione: quella di entrare in un sogno da cui avrebbe avuto difficoltà a uscire.
Si lascia riempire dalla luce di quello strano sguardo e si sente subito differente, più sicuro di se, affascinato. Posa con la mano chiusa la clessidra sul tavolino. La sabbia continua a segnare il tempo, ma né il commesso né la giovane donna vi prestano attenzione. Entrambi si guardano.
“Chi è lei?”, domanda l'uomo con voce sorda.
“Io mi chiamo Lorelei, e lei?”
Aveva risposto alla domanda come se il semplice fatto di aver detto il suo nome fosse sufficiente per tutte le spiegazioni che l'uomo desiderava: chi era veramente e da dove veniva quel potere di animare gli oggetti inerti.
“Io mi chiamo Phillippe Glez e sono il nuovo commesso. Mi dica, lei capita spesso nei negozi di antiquariato in modo da provocare tempeste in bottiglia?”
 “No, stia tranquillo, non mi era successo da moltissimo tempo, in effetti dalla mia infanzia, da quando non ero ancora separata dalle mie sorelle”.
Solleva con la mano la massa pesante dei suoi capelli dorati, poi la butta sulla schiena. Il  suo polso era ornato da un doppio filo di perle.
“E' bella come il mare e il cielo che si fondono all'orizzonte”, pensa Philippe. Niente gli sembrava abbastanza per esprimere la sua ammirazione e l'attrazione che sentiva. Lorelei lo guardava in controluce col dorso appoggiato alla vetrina.
Sopra il vecchio porto il sole tramontava, una polvere dorata volteggiava nei suoi ultimi raggi. Una calda intimità invadeva il negozio di dolcezza.
Immobile, come pietrificato, perso nello sguardo della giovane donna, Philippe non pensò di accendere le luci, fu Lorelei che lo fece, azionando gli interruttori dietro una tenda damascata. Philippe sbatte le palpebre, gli occhi feriti dalla luce diffusa dalle numerose appliques.
“Qualcuno l'aspetta?”, le domanda con una certa ansietà.
“No, nessuno”.
La voce era soave, un sorriso fugace fece fremere la bocca carnosa.
“Allora sto per chiudere”, disse Philippe, “Se permette, posso fare due passi con lei”.
Aspetta col respiro affannoso.
“Ma la clientela”, protesta Lorelei.
“Non verrà più nessuno stasera. I clienti sono rari in questo inizio di stagione. Il Mare del Nord non attira più nessuno, tranne i...”.
Tacque bruscamente, i suoi occhi e i suoi pensieri si smarrivano. Gli veniva da accostare il nome della giovane donna a quello dell'altra Lorelei. Pensa a quello che è accaduto quando lei ha guardato attraverso la vetrina. Non aveva detto di aver fatto una cosa identica quando era bambina? “Quando non ero ancora separata dalle mie sorelle”? E se avesse realmente provocato un naufragio? Assurdo, delirava, si stava innamorando, non aveva la minima idea del tempo che passava. Immobile, con lo sguardo fisso sull'immagine che si era impressa nel suo animo, sussultò quando il campanello della porta d'ingresso tintinnò. Lorelei stava uscendo.
Non si prese nemmeno la pena di chiudere la porta, tanto aveva ansia di ritrovarla. Lei doveva aver girato l'angolo della strada, a meno che non fosse dalla parte opposta sul lungomare. Corre a perdifiato, torna sui suoi passi, scruta i rari passanti nella luce crepuscolare.
Una risata ironica lo trattiene sull'orlo di un marciapiede mentre sta per attraversare. Lorelei è seduta su una delle panchine sparse lungo la strada. Un riverbero getta la sua luce ramata su di lei.
“Si sieda e riprenda fiato. Respiri questa buona aria di mare. Perché è così agitato? Per il mio nome? Mia madre è appassionata di mitologia. E come si chiama? Doris, e non ha trovato niente di meglio che affibbiare alle mie sorelle e a me dei nomi ridicoli. La più piccola si chiama Galatea, è tutto dire. Mio padre era un marinaio, è morto da molti anni. Mamma pretende che quella notte abbiamo cantato di continuo, io e le mie sorelle. Anche Galatea gorgogliava nella sua culla. Mamma dice che era un canto strano, magnetico e così selvaggio che il mare si era ingrossato con una violenza eccezionale. Afferma che si sentivano da casa nostra le onde che s'infrangevano sugli scogli. Mio padre ha fatto naufragio con tutto il suo equipaggio”.
Protesta vedendo che Philippe stava per mettersi a parlare.
“Io non c'entro niente con la bottiglia nel negozio. C'è stata una piccola scossa sismica, capita spesso su questa parte della costa. Lei non è di qui?”
“No, sono forestiero. Sono contento di aver scovato questo lavoro per l'estate, o forse per tutto l'anno se sono un buon venditore. Mi piace questo negozio, e in più la vista sul porto è piacevole. Almeno nei quindici giorni da che sono qui, d'inverno dev'essere più triste. Il tempo è bello per essere maggio, non trova?”
Alzò il viso verso il cielo che cominciava a punteggiarsi di stelle.
“Vuole che...”
“Andiamo a far l'amore da te”, tronca lei determinata.
Philippe si alza, lei anche e lui le porge il braccio. Lei lo guida verso la vecchia città come se conoscesse la strada. Le viuzze si smarrivano tra file di case dalle finestre per la maggior parte cieche, dei sentori sgradevoli avevano sostituito il forte odore di salso del mare e quello più acre del catrame. Passarono davanti a un bar prima di sbucare in un corridoio tenebroso.
Fu ancora la donna che accese la lampadina nuda che pendeva appesa a un filo. Quel po' di luce rivelava dei muri lebbrosi, la scala dai gradini irregolari. Lorelei precede l'uomo e si ferma al primo piano. Philippe apre la porta dell'appartamento. Un angolo cucina è sistemato da una parte, dall'altra una tenda plastificata dissimula una doccia e un lavabo.
“Mi ci sono appena trasferito, non ho ancora potuto sistemare niente”.
“Incantevole”, mormora Lorelei gettando uno sguardo indifferente sull'insieme.
Gli scatoloni accatastati erano ancora chiusi con lo scotch, ma s'indovinava una preoccupazione di comodità: dei cuscini disposti sul divano, una lampada con il paralume avvolto da un drappo di mussolina, tanti dettagli che il commesso aveva preso dal magazzino del suo padrone.
Philippe invita la sua compagna a sedersi. Lei si toglie il suo leggero soprabito. Sotto di esso è vestita di un abito di fine lana nera. Il desiderio blocca la respirazione del giovane. Abbraccia Lorelei e premendo sulla sua bocca la trascina su divano. Presto i loro corpi diventano uno solo.
E' più tardi, molto più tardi, nel cuore della notte, che Philippe si sveglia e il suo desiderio si riaccende. Tasta al suo fianco cercando il corpo morbido e docile. La luna riversava la sua luce beffarda attraverso la finestra senza tende. Il giovane era solo. La porta dell'appartamento era socchiusa. Una sofferenza acuta isola Philippe. Egli accende tutte le luci, fruga più volte lo stesso cantuccio alla ricerca di un ipotetico biglietto. Solo un braccialetto di perle perso fra due cuscini prova che non aveva sognato. Singhiozza come un bambino. Nella sua mano le perle gelate intiepidiscono.
Per giorni interi Philippe restò appostato dietro la vetrina. Quando passava una donna dai lunghi capelli biondi, il battito del suo cuore si accelerava.
Il padrone gli affida il negozio e Philippe, rasserenato, accetta l'impiego. Rivide la giovane donna nel mese di maggio dell'anno seguente. Giorno dopo giorno, i loro sguardi s'incrociarono attraverso la vetrina. Gli occhi d'acquamarina di Lorelei erano vuoti, distaccati. Philippe si sentì deluso, ma avrebbe giurato che lei avesse articolato una frase muta. Quale?
Quella sera nel suo appartamento fece come le altre sere da un anno. La nave in bottiglia era là davanti, l'aveva poggiata su un basso tavolino davanti al divano. Si siede e rievoca il minimo dettaglio che l'aveva colpito al loro primo incontro. Un solo particolare gli sfuggiva, così tenue che si domandava perché lo ricercava quando sarebbe stato più semplice evocare le carezze scambiate con Lorelei.
Si era comportato come un idiota, non aveva saputo pronunciare le parole che lei si attendeva. Doveva essere per questa ragione che lei era passata indifferente. Come doveva burlarsi della sua timidezza e della sua goffaggine! Si inginocchia davanti alla tavola, vi appoggia i gomiti, e col viso tra le mani fissa la bottiglia.
No, non sognava.
Dei minuscoli fremiti sulla superficie dell'acqua facevano muovere lo scafo. Due uccelli si posarono sull'albero. In sordina, una voce lontana, stupenda e priva di corpo, risuona. Un canto soprannaturale, quando la tempesta si scatena e fa affondare la barca come la prima volta.
“Il mare del Nord non attira più che le sirene”.
Si, era stata questa frase che le labbra di Lorelei avevano articolato.
Philippe si alza e si dirige verso la porta.
Già essa si apriva...

(Traduzione dal francese di Fabio Calabrese)

lunedì 5 gennaio 2015

SEGRETERIA TELEFONICA di Giuseppe Novellino



Edvige era impallidita. Seduta nel divanetto, fissava il cellulare. Il cuore le martellava e una fitta di emicrania si irradiava dalla cervicale.
Aveva già razionalizzato l’accaduto, ma il terrore non l’aveva ancora abbandonata. Aveva lasciato cadere l’apparecchio sul tavolino come le si fosse improvvisamente arroventato nella mano. E adesso la voce di lui era come un’eco minacciosa:
“Sono il tuo ganimede, piccola! Ti aspetto nel nostro nido alle nove di questa sera. Vedi di essere puntuale. Bye, bye!”
Il timbro catarroso dell’uomo risuonava ancora nelle sue orecchie.
Nel momento in cui aveva sentito quelle parole, aveva emesso un grido strozzato. Poi era stata assalita da quel malessere che ora la attanagliava.
Lui era morto ormai da una settimana in un incidente stradale che era risultato per lei provvidenziale. Ma risentire così improvvisamente la sua voce era stata un’esperienza sconvolgente, anche se subito aveva capito: le parole dell’uomo non venivano dall’aldilà, ma semplicemente dalla segreteria telefonica. Erano rimaste registrate in un messaggio di diversi giorni prima, in agguato, pronte a riprodursi in qualsiasi momento.
Impegnò un bel momento a ritrovare la calma. Poi si alzò per andare in cucina a bere un bicchiere di acqua minerale.
Passando accanto allo specchio dell’anticamera, si fermò a guardarsi nella luce incerta del tardo pomeriggio. I graziosi lineamenti, ancora sottolineati dal trucco leggero della giornata lavorativa, le apparivano un po’ contratti, ma testimoniavano sempre quella sua bellezza da attrice. Lo sguardo le cadde sul busto e sui fianchi armoniosamente modellati e non riuscì ad evitare un interiore moto di compiacimento. Ecco, quello era uno dei motivi per cui lui, l’uomo, l’aveva perseguitata. L’altro era il ricatto.
Lasciò perdere la sua immagine riflessa e andò ad aprire il frigorifero. L’acqua fresca le diede un po’ di tono. Si sedette al tavolo di cucina, tenendo il bicchiere fra le mani posato sul ripiano. Fissò le bollicine, riandando con la mente a quei trascorsi giorni di angoscia.
Lui l’aveva presa in flagrante mentre cercava di manipolare dei dati aziendali. Era stata tentata in un’occasione favorevole che le si era presentata durante lo svolgimento di un lavoro straordinario. Non aveva resistito e ci era cascata in pieno. Lui aveva minacciato di denunciarla all’amministrazione; poi, con quel sorrisetto maligno, l’aveva squadrata ben bene. Le aveva chiesto l’equivalente di uno stipendio per risolvere un suo problemino finanziario e poi… il corpo di lei. Edvige non poteva permettersi di perdere quel lavoro così gratificante e sicuro.
Vuotò il bicchiere e tornò in salotto. Dalla finestra aperta entrava una dolce aria di primavera. Si sentivano i bambini vociare nel giardinetto del condominio, mentre il sole calava dietro le colline.
Comodamente abbandonata nel divanetto, fissò il cellulare ancora posato sul ripiano di cristallo.
Rievocò la voce sgradevole dell’uomo. L’immaginazione, ancora in subbuglio per lo spavento, la costrinse a rivivere le sensazioni di quei rapporti forzati, nella squallida stanzetta. Le mani di lui, rigide come quelle di un cadavere, esploravano il suo corpo riluttante. Quando le alitava nelle orecchie, soprattutto nel momento culminante della voluttà, lei provava un puntuale senso di nausea. Ma quello era stato il castigo per avere tentato di cogliere, in maniera disonesta, un’opportunità a sua vantaggio. Per quasi due mesi, Edvige aveva cercato il modo per sfuggire a quell’inferno, ma senza risultati. Poi c’era stato l’incidente. E così lui, l’uomo, era uscito di scena, lasciandola improvvisamente libera.
La sofferenza non era stata inutile. Adesso Edvige si sentiva più saggia, se non altro non avrebbe più commesso errori di quel tipo.
Si protese in avanti e allungò una mano verso il cellulare. Esitò ad afferrarlo. La voce che poco prima ne era scaturita l’aveva agghiacciata. Ma adesso poteva sorridere. Bisognava semplicemente cancellare i messaggi rimasti sulla segreteria.
Finalmente afferrò l’apparecchio e si lasciò ricadere contro lo schienale del divano. Sospirò.
Il display era ancora acceso sulla pagina dei messaggi registrati. Con un certo batticuore cercò quello incriminato. Non solo non c’era, ma non ce ne erano altri. La segreteria risultava completamente ripulita. Possibile?
Freneticamente lavorò con le dita alla ricerca di quello che cercava. Niente. Eppure lo aveva visto comparire nel momento in cui aveva nitidamente udito la voce dell’uomo, minacciosa e beffarda.
Ora non c’era più.
O non c’era più… da alcuni giorni?
Un alito di brezza entrò dalla finestra spalancata, sì, come in un altro momento analogo, sette giorni prima. Ecco, ricordava. Era proprio seduta, come adesso, nel divanetto del salotto, il giorno che aveva appreso dell’incidente. Aveva parlato al telefono con Sonia, una sua collega di ufficio. Poi aveva ripulito la segreteria da tutti i messaggi, compresi quelli di lui.
Ma allora… la voce di poco prima…
Se avesse avuto davanti uno specchio e avesse visto la sua faccia, Edvige avrebbe lanciato un grido di terrore.

giovedì 1 gennaio 2015

UNA FOSSA GRANDE COME IL CIELO di Renato Pestriniero



Intuì che era un passo sbagliato un attimo prima di posare il piede. Attraverso lo schermo trasparente del casco ci fu un roteare di grigio e di nero e di striature rossocupo e di lampi accecanti.
Il corpo dell'uomo rimase immobile sul fondo del crepaccio, una ferita nell'uniformità della piana, e la tuta era adesso un punto di luce immobile, visibile unicamente dall'alto e da una particolare angolazione.
Il tempo cominciò a fluire lento, la stella intorno alla quale il pianeta ruotava cambiò posizione rispetto alla linea dell'orizzonte. Le ombre dei massi si allungarono, la catena di monti si ritagliò nera sullo sfondo del cielo. Molto più lontano, invisibile, un'astronave aspettava su una radura vetrificata dai getti.
Quando la stella fu completamente nascosta dalla catena di monti, sulla superficie ci fu un movimento. Quell'unico segno di vita raggiunse il ciglio della fenditura e vi entrò. Poi tutto tornò immobile in un silenzio immenso. Con la luce della stella era scomparsa gradualmente anche la percezione del tempo. Sembrava che ogni cosa trattenesse il respiro, come in attesa di un accadimento.
Il freddo cominciò a penetrare nella tuta; allora ci fu un clicchettio e la temperatura interna aumentò. Lontano, una manciata di uomini lanciavano messaggi che si diffondevano inutili attraverso la piana. Per l'uomo dentro il crepaccio tutto questo era più lontano della Terra stessa.
L'improvvisa consapevolezza fu frenata dalla preparazione. L'uomo rimase immobile. Per prima cosa ascoltò il precipitoso ritmo cardiaco e aspirò profondamente l'ossigeno delle bombole. Non tentò di alzarsi: la tuta poteva essersi impigliata su qualche spuntone di roccia o essere danneggiata per lo sfregamento, e un movimento rapido e improvviso avrebbe potuto lacerare il tessuto. Malgrado avesse gli occhi spalancati, non riusciva a vedere nulla. Sono diventato cieco, pensò l'uomo. Per un attimo perse il controllo, e la paura tenuta sino allora arginata lo sommerse. Ma subito scosse la testa, probabilmente è notte... ma le stelle dove sono? Poi pensò ancora, forse da questa posizione non posso vedere il cielo.
Ed ecco che il dolore alla gamba prese il sopravvento su tutto e uscì dallo stato latente per esplodere ed espandersi in tutto il corpo. Solo allora l'uomo si rese conto che quel dolore c'era sempre stato, sin dall'istante in cui aveva ripreso conoscenza, ma la gravità della situazione e l'accertarsi che non ci fossero immediate necessità per la sua sopravvivenza avevano relegato il dolore a livello inconscio, o meglio l'avevano rimosso per permettergli di fare un primo lucido esame.
Sentiva il braccio destro schiacciato dal peso del corpo, la gamba era un ammasso di dolore. Doveva fare qualcosa. Passò le dita guantate sulla spalla sinistra fino a raggiungere la tasca porta-attrezzi. Estrasse un sottile cilindro metallico e lo portò proprio davanti la visiera. Quando premette il pulsante fu come l'accendersi dell'albero di Natale quand'era bambino. Passò il raggio della torcia tutt'intorno per rendersi conto del luogo in cui si trovava, poi lo fermò su quella maledetta gamba. Era rotta, naturalmente. Come la ricetrasmittente. La tuta invece aveva resistito.
Alle sue spalle la parete rientrava a tetto verso l'alto in modo che l'ampiezza del crepaccio al livello della superficie non raggiungeva il mezzo metro e gli impediva di scorgere il cielo. Si spostò lentamente, e mentre osservava le poche stelle ora visibili, fu preso da una grande stanchezza. Come una marea crescente, un caldo torpore gli salì su su fino agli occhi. Affondò nuovamente nell'incoscienza.
La luce era un po' strana. Dorata, più calda. Ad ogni modo gli piaceva, gli dava un senso di sicurezza. Con la luce del giorno il crepaccio aveva perduto l'aspetto misterioso dovuto al buio e alle ingannevoli ombre create dalla torcia. L'uomo rimase seduto a guardare attraverso la fenditura sopra di lui. Allungando le braccia avrebbe potuto raggiungere l'orlo della fenditura. E poi i suoi compagni lo stavano sicuramente cercando. Sorrise. Riuscì a muovere la gamba ferita e rimase sorpreso dalla facilità con cui sembrava risolto uno dei problemi più gravi. Un piccolo sforzo e fu in piedi. Anziché dolore lancinante, migliaia di formiche si misero a correre su e giù per la gamba, «Bene,» disse l'uomo a voce alta, «Bene.»
Guardò ancora verso l'alto perché c'era qualcosa in quella luce... e improvvisamente capì: la luce che scrosciava era la stessa luce dorata del Sole in una splendida giornata d'estate sulla Terra. Rimase sbigottito, gli occhi ammiccanti.
A questo punto non restava che cercare il luogo più adatto per uscire sulla superficie e raggiungere i suoi compagni. Lentamente si mise in cammino. L'ostacolo gli si presentò improvvisamente dietro una curva a gomito, ma la sua mente razionale subito lo rifiutò. Scaturiva dalla parete a destra, attraversava tutta l'ampiezza del crepaccio e si protendeva verso l'alto. Un groviglio di radici e rami, una vera barriera vegetale.
Con gli occhi sbarrati, l'uomo rimase immobile, mentre la sua mente registrava cose impossibili: il colore, il fogliame rigoglioso, la pianta stessa, «Sto delirando,» concluse l'uomo, «Eppure questa luce, ed ora questa pianta, tutto ciò è reale!»
Cominciò ad avanzare verso il viluppo e più si avvicinava più diminuiva il suo timore per quella entità così estranea in quel contesto, così illogica. La primitiva sensazione di estraneità lasciò il posto a un senso di simpatia, come l'aver trovato un vicino di casa in un paese straniero, e improvvisamente dentro l'uomo una diga si ruppe e un'onda impetuosa di commozione lo pervase. Grosse lacrime gli spuntarono. Si inginocchiò singhiozzando davanti a quei rami così simili a braccia familiari, dolci e carezzevoli, si lasciò cadere sopra quel manto accogliente, abbandonandosi come su un letto di amante, e le sue braccia si intrecciarono in un amplesso immenso con altre braccia del tutto nuove eppure conosciute da sempre, e il suo casco e il suo corpo goffo dentro la tuta furono accarezzati da petali come dita leggere e baciati da muschi morbidi come labbra di donna... in una catena lunga di ricordi. L'uomo chiuse gli occhi. C'era amicizia e amore, però non a misura d'uomo ma a livello cosmico, da intelligenza vivente a intelligenza vivente, indipendentemente e al di sopra dei sentimenti umani contaminati e finiti. Nella sua limitatezza doveva infatti “umanizzare” quelle sensazioni agganciandole a modelli comprensibili.
Sentì la sua essenza sciogliersi, desiderò espandersi fino a coprire tutto il cosmo in un unico muto abbraccio ma nello stesso tempo, con umile lucidità, era consapevole di trovarsi di fronte ai suoi limiti umani, impossibilitato a trasmettere tutto questo.
Poi il dolore alla gamba coprì ogni cosa e si ritrovò appoggiato alla parete di fango, immerso nel buio, urlante.
Sotto la tuta l'arto si era gonfiato. Attraverso il grosso guanto sentiva il gonfiore che aveva trasformato la gamba in un ammasso turgido, «Sono fregato,» disse a voce alta, «Da questa fossa schifosa non mi muovo più, questo è certo.» Succhiò un po' d'acqua dalla cannuccia interna. L'indicatore di ossigeno dava un flusso regolare e una riserva per una quindicina d'ore, «Che posso fare in quindici ore se quelli non mi trovano?» si chiese l'uomo. Sopra di lui il cielo schiariva. Sta sorgendo, pensò,  e sarà l'ultima volta che vedrò il sole di questo pianeta. Spero abbia la luce che ho visto nel sogno... sembrava proprio il Sole della Terra. Vorrei... un'onda di nausea gli arrivò improvvisa e a stento trattenne il vomito, «Oh, no!» con voce rotta, «Questo no!» Un'altra onda di nausea lo investì con violenza maggiore e questa volta non fu in grado di trattenersi. I conati si susseguirono convulsi. Poi l'uomo scivolò lentamente e giacque sfinito.
Quando si riprese, un'ora o pochi minuti dopo, gli sembrò che il dolore alla gamba si fosse un po' attutito, ma ora gl'importava solo dormire e possibilmente terminare la riserva di ossigeno prima di un altro risveglio.
Non fu così. Ancora una volta la luce filtrò dal crepaccio traendo l'uomo dal rifugio dell'incoscienza. E quando la mente gli si snebbiò, finalmente si sentì pronto. Bastava un piccolo taglio sulla tuta.
Già con il coltello in mano, fu fermato dall'indicatore dell'ossigeno. Flusso regolare e riserva per circa ventitré ore. Forse prima non ho visto bene, pensò l'uomo, era buio e ho letto quindici ore anziché venticinque. Con ventitré ore di tempo a mia disposizione può ancora succedere qualcosa... ma come posso essere sicuro che sto vivendo la realtà? Afferrò la gamba all'altezza della ferita e strinse con tutta la forza che gli era rimasta. Urlò, ma nello stesso tempo si rese conto che l'urlo era stato un riflesso condizionato perché non c’era nessuna necessità di urlare.
«E va bene,» disse l'uomo ad alta voce, «Ora non dovrebbero esserci dubbi.» Succhiò dalle cannucce interne una buona dose di concentrato vitaminico e alcune sorsate di acqua piacevolmente fresca, e fu in piedi.
Non ci furono esitazioni nella direzione da prendere. Dietro la curva, nessuna traccia di piante, naturalmente, solo il fondo accidentato del crepaccio leggermente in salita. In salita? Le sue condizioni fisiche glielo impedivano, ma dentro di sé l'uomo fece un balzo di gioia. Lentamente, appoggiandosi alla parete, proseguì salendo lungo lo stretto camminamento, arrivò a una seconda curva, la superò, e a quel punto avrebbe dovuto trovarsi sulla superficie.
Ma il sentiero continuava a salire. La parete a sinistra manteneva un'altezza costante mentre quella a destra si abbassava gradualmente. A una decina di metri si presentò un'altra curva, questa volta in direzione opposta. La mente dell'uomo ricominciò a vacillare. Si fermò ansante, guardandosi intorno, «Ho capito,» disse, «Malgrado la prova, anche questo è frutto del delirio. Comunque, cosciente o no, devo proseguire.»
Ciò che vide al di là dell'ultima curva spazzò come un turbine l'importanza di sapere se stava vivendo nella realtà o nel labirinto dell'incoscienza. Di colpo una sola cosa divenne essenziale: essere presente in quella determinata porzione di spazio. La sua mente fu subito chiara e limpida, senza problemi di sopravvivenza, l'unica imperiosa necessità era partecipare a quell'accadimento nel modo più completo possibile. Il fondo del crepaccio non era adesso che una stretta cengia aperta a picco sul mare, e l'uomo ebbe la sensazione di trovarsi su un poggiolo sospeso nel cielo. Appoggiato alla parete, sentiva che ogni cosa era composta solo di colore. Come l'azzurro del cielo, che non si poteva più confinare entro il valore semantico di azzurro perché il cielo, oltre che essere – non avere – quel colore, era la conseguenza unica e logica del tutto, e il ritmo era talmente perfetto che ogni variazione comportava un immediato cambiamento nell'insieme in modo da mantenere un costante equilibrio cromatico. E l'uomo non si sentiva estraneo all'insieme perché con la tuta sporca di terra e il casco lordo di vomito era la tessera insostituibile nell'intero mosaico. Nient'altro all'infuori della sua presenza fisio-cromatica poteva trovarsi là in quel frammento spazio-temporale e creare così una simbiosi fino a livello molecolare con il tutto che lo circondava, ogni molecola del suo corpo vibrava in risonanza con gli altri miliardi di miliardi di molecole...
Allora comprese ciò che nessun uomo era arrivato a comprendere così a fondo; ebbe la visione di ciò che significa bellezza, di ciò che gli artisti avevano cercato da sempre di tradurre in colore e forma e ritmo, di ciò che gli uomini dall'inizio della loro comparsa sulla Terra avevano creduto di dire con la musica e la pittura e la scultura e con le parole e con tutte le altre espressioni d'arte. Apprezzò i tentativi passati di tradurre ingenuamente la bellezza con il metro delle possibilità umane, e con simpatia comprese gli errori e soffrì le mancanze.
Avanzò di un passo. Vibrazioni percorsero lo spazio trasformando l'insieme come in un caleidoscopio, anche se a occhio umano nulla veniva modificato se non la posizione spaziale dell'uomo. Ma perché tutto questo solo per il dolore provocato da una semplice frattura?  Si chiese muto.
Cercava di trovare una risposta, quando la sua nuova sensibilità avvertì all'improvviso un neo nella perfezione, una nota stonata nel possente ritmo di cui faceva parte, e subito la individuò: nello spazio tra il sentiero e la superficie del mare era necessaria la presenza di un segmento blu in sospensione. L'uomo si chiese perché mai l'estetica fosse stata improvvisamente spezzata provocandogli un male quasi fisico. La bellezza era svanita nell'attimo in cui si era manifestata la necessità di quel volume blu sospeso sull'acqua. Ora si trovava impotente di fronte a una situazione che gli sfuggiva e che gli era contemporaneamente insopportabile.
Fu allora che dalla parte opposta del sentiero apparve l'essere.
Lentamente si avvicinava all'uomo, la parte anteriore protesa verso l'alto, il resto del corpo apparentemente senza contatto col suolo per evitare eccessiva materialità, quasi etereo nella sua consistenza traslucida, elegante nell'essenzialità delle linee, liscio ma non viscido.
L'essere si arrestò, ed ecco che nell'uomo si rinnovò impetuoso il sentimento di amicizia e di amore provato dinanzi la pianta, e subito cercò di avvicinarsi a quel piccolo essere. Ma la creatura, con un unico plastico movimento, passò oltre il ciglio del sentiero e precipitò nel baratro sovrastante il mare.
L'uomo urlò, portandosi le mani guantate davanti la visiera in un incontrollabile gesto di terrore. Quello era un sacrificio, era un morire! Anche se non conosceva la natura dell'essere, aveva la certezza che quello non era un gesto normale come il volare per un uccello bensì un atto del tutto estraneo alle sue caratteristiche, era un suicidio!
«Perché!» gridò l'uomo, «Perché!»
La creatura precipitava verso le onde ma il suo precipitare non era caotico; coerentemente con la sua struttura, era un veleggiare elegante, dolce e tranquillo, da esteta. L'uomo si avvicinò all'orlo del sentiero e guardò giù, e allora tutto fu chiaro. Durante la caduta, la luce colpiva la creatura con un'angolazione che traeva dal suo corpo una ben determinata tonalità di blu. E poiché il suo non era un precipitare ma un bellissimo statico rimpicciolirsi, si era venuto a creare un volume sospeso sull'acqua. L'insieme era ricomposto e l'uomo sentì la perfezione nuovamente ristabilita. Dentro di lui tornò la completezza.
Ma anche una grande stanchezza. Aveva trovato un fratello nell'immensità del cosmo e subito l'aveva perduto. Si sentì nuovamente umano, meschino e limitato, rozzo e sporco. E con un atroce dolore alla gamba.
Aprì gli occhi. L'unica cosa che vide intorno fu la solita scura roccia fangosa del crepaccio, ma non provò delusione né ribellione, rimase con gli occhi fissi sulla parete di fronte, senza vedere nulla. Più tardi avvertì appena gli ultimi residui di ossigeno.
Una grande pace era scesa in lui.
Quando la creatura gli si avvicinò, la gioia fu completa. Le sorrise, e dentro la sua mente ci fu un sorriso di risposta. «Grazie,» disse l'uomo. La creatura gli si fermò accanto. «Sono felice di ritrovarti,» disse ancora l'uomo, «Credevo di averti perduto. Ho provato tanto dolore. Era da ragazzo che non piangevo...»
La creatura rispose nella mente dell'uomo: Non mi sono mai allontanato da te.
«Come hai fatto a manipolare il mio delirio?» chiese l'uomo, «Come hai fatto a ricostruire nella mia mente le scene della Terra?» e in attesa della risposta chiuse gli occhi, esausto.
Certe volte la tua mente era come un quadro su cui potevo vedere e capire il significato del mondo da dove vieni e ciò che sei oltre la tua materialità. Ma a volte scendeva un velo che oscurava il quadro e non riuscivo a leggere nulla. Credo che questo dipendesse dalla tua ferita.
L'uomo rimase con gli occhi chiusi, ansimando, «Sì,» disse in un soffio, «Ho capito. E quando non ero cosciente... hai fatto in modo che io conoscessi te...» si volse verso la creatura al suo fianco e la guardò, «La pianta,» disse, «Era il significato di com'era il nostro mondo una volta... hai raggiunto lo scopo... ho capito l'amore e l'amicizia, e poi... il tuo sacrificio sulla rupe per farmi capire la bellezza e cosa si deve fare per raggiungerla... ho capito. Ma ora dimmi... cosa posso fare per te?»
La creatura era immobile, Hai già fatto abbastanza incontrandomi.
«Ma io non ho fatto niente,» disse l'uomo con quanta forza gli rimaneva, «Io sono semplicemente caduto.»
Potevi non rispondermi, non accettare la mia presenza fisica.
Ci fu un lungo silenzio mentre le due creature rimanevano immobili, una vicina all'altra nell'immenso silenzio del pianeta. Poi la creatura continuò: Qui ci sono stati esseri di altri mondi. A tutti ho fatto la mia offerta, ma nessuno l'ha capita. Anche i tuoi simili lassù in superficie non sono riusciti a comprendermi, e nei periodi in cui la loro mente si schiariva e io potevo leggere, li ho chiamati e li ho invitati a un incontro... ma nessuno ha risposto.
L'uomo non riuscì a ricevere le ultime parole della creatura. Il casco reclinò impercettibilmente da un lato. Ci fu come un grido, e per un attimo ancora l'uomo riprese lucidità. Aspettami! Gridò la creatura nella sua mente, quando la tua nave scese, il fuoco che la sosteneva era troppo vicino a me. Esiste anche per noi una morte fisica... e ora sto morendo anch'io. Vorrei esserti più vicino…
L'uomo guardò la creatura attraverso un velo sempre più spesso e sorrise. Stese un braccio ma non poté raggiungerla. E allora qualcosa si mosse nel corpo della creatura, si allungò in un commovente tentativo di braccio umano, e all'estremità ci fu un lento scindersi in cinque piccole dita fino a raggiungere le sembianze di una mano umana.
Quando le due mani poterono toccarsi, si strinsero. E rimasero immobili.

***

Il suolo tremava sotto il procedere del cingolato. Poi il grosso veicolo si fermò, due uomini scesero e avanzarono cautamente verso il ciglio del crepaccio. Improvvisamente una voce irruppe negli auricolari: «L'ho trovato! È laggiù, è laggiù!» un'imprecazione strozzata e poi gli auricolari furono nuovamente riempiti da un sovrapporsi disordinato di parole: «C'è qualcosa con lui! Sembra... sembra qualcosa di vivo. Ehi, tu, presto! Vieni qui. La vedi anche tu quella schifezza? Ho l'impressione che ce l'abbia ammazzato, maledetto mostro schifoso! Ora...»
«Aspetta!» gridò l'altro uomo. Ma già l'arma aveva sparato con precisione e il bersaglio era stato raggiunto.
«Beh?» disse l'uomo al suo compagno, rimasto silenzioso da quando il cingolato aveva ripreso la via del ritorno, «Sembra quasi che ce l'abbia con me perché ho spiaccicato quel lerciume. Dovevo lasciarlo fare, secondo te?»
«Era già morto,» disse piattamente l'altro, «Tutti e due erano già morti.»
«E tu come lo sai? Tu ci abiti in questo schifo di pianeta? Chi era quell'ammasso di merda, eh? tuo fratello?»
L'altro non rispose e guardò fuori dal finestrino. Ancora qualche centinaio di metri e avrebbero raggiunto l'astronave. «Forse hai ragione,» disse, «Eppure... quella specie di tentacolo che Den teneva così stretto con la mano, sorridendo... sembrava quasi... mah, non so.»