GLOBALIA di Jean-Christophe Rufin
Cominciamo la lettura e abbiamo la
sensazione di esserci imbattuti nell’ennesima utopia negativa. Conosciamo
subito due personaggi protagonisti e assistiamo al loro tentativo di evadere da
un mondo ormai intollerabile. Globalia si estende a macchie di leopardo
su tutto l’emisfero settentrionale della Terra. Le città, i territori che la
compongono sono situati sotto immense cupole trasparenti. È il mondo dei
“fortunati”, dei ricchi; mentre al di fuori, nelle cosiddette non-zone,
dilagano la barbarie e la povertà dei disperati, esclusi da ogni forma di
benessere pianificato. Fin qui nulla di nuovo. Sembra proprio una
variante poco originale del mondo futuro, con le sue incredibili deformazioni e
mostruosità. Ma procedendo nella lettura, ci si accorge che l’utopia coinvolge
in modo particolare, perché risulta fin troppo riconoscibile. A Globalia si
trovano tutte le storture e le demenzialità di questo nostro mondo attuale e
reale. Sono solo un tantino esasperate. I giovani si trovano ai margini,
ritenuti praticamente degli esseri repellenti, in attesa di sbocciare, verso i
settant’anni, per poter inserirsi a tutto titolo nell’attività sociale vera e
propria. Vige la perfetta democrazia, dove tutti hanno possibilità di
esprimersi ma senza incidere sulla realtà sociale, che invece risulta
pianificata dall’alto in modo occulto e inflessibile. Il pluralismo è perfetto,
ma vuoto in se stesso. Il consumismo viene vissuto come una religione. La gente
si occupa di cose futili, di vita comoda e del tutto sicura, di piaceri
reclamizzati quotidianamente attraverso gli “schermi” (supertelevisori)
onnipresenti. L’igiene e il salutismo trionfano come valori indiscutibili. In
buona sostanza, la gente pensa di essere felice e fortunata, ma in realtà è
povera di spirito, perfettamente ignorante, allontanata irrimediabilmente da ogni
forma di cultura. I libri (ma questo non è un fattore originale) sono, come è
ovvio, banditi. Tuttavia c’è un altro fattore, ben riconoscibile anche nel
nostro mondo reale: per tenere in piedi il sistema, per dominare le masse,
occorre creare dei nemici, rigorosamente esterni. Esiste, dunque, un Comitato
della Coesione e della Sicurezza Sociale, il quale ha il compito di stroncare
ogni dissidenza (che comunque non può nemmeno essere immaginata), ma
soprattutto di creare e di gestire nemici che dall’esterno, dalle barbariche
non-zone, penetrino nel mondo perfetto di Globalia a piazzare le loro bombe.
Sono i terroristi, che indignano la popolazione e la rendono docile nel seguire
le direttive che in modo ferreo, ma estremamente discreto, vengono impartite
dai bicentenari governanti.
È un mondo in realtà opprimente, del tutto
piatto. Qualcuno se ne accorge, come i due giovani Kate e Bajkal che
all’inizio, appunto, tentano la fuga per raggiungere le non-zone. In esse è
presente la barbarie, trionfano miseria e sofferenza; ma gli spazi sono aperti,
la natura è selvaggia e apre orizzonti nuovi, nell’imprevedibilità più totale.
I due ragazzi vengono fermati, ma a poco a
poco si troveranno al centro di un intrigo davvero pericoloso. Il manovratore è
il vecchio Ron Altman, grande funzionario del regime. È un tipo assai
originale, esercita il suo potere su Globalia con una sorta di perfetta
malafede, sapendo cioè che tutto quel presunto benessere è finto, inutile,
pianificato a tavolino, ma estremamente necessario.
È senz’altro una lettura appassionante. La
trama è complessa ma ben congegnata, ricca di colpi di scena, di situazioni dense
di suspense. I personaggi sono credibili, ben delineati, come pure
l’ambientazione. Dei due mondi, Globalia e quello delle non-zone, è il primo a
risultare più originale, a suscitare la curiosità e la riflessione del lettore.
L’altro segue più pedissequamente la maniera di tanta fantascienza del
cosiddetto “dopobomba”, con i suoi derelitti che bruciano copertoni, si vestono
da improvvisati guerrieri, vivono tra i rottami di un mondo che non c’è più.
Jean-Christophe Rufin, medico,
diplomatico, fondatore di Medici Senza Frontiere (ma anche noto e collaudato
romanziere) ci regala, con questo suo “Globalia”, una efficace riflessione su
quelli che potrebbero essere gli sbocchi non tanto futuri di questa nostra
società del XXI secolo. E lo fa con molta espressività narrativa, condita con
viva drammaticità ma a tratti con un umorismo irresistibile, un po’ acido… alla
Crozza, per intenderci.
Giuseppe Novellino
IL DEMONE DEL MOTO
(Racconti
fantaferroviari)
di
Stefan Grabinski
Ediz.
Stampa Alternativa, 2015
Szygon è un tipo strano. Periodicamente si
lascia prendere da una forma di sonnambulismo che lo porta a prendere il treno
e a viaggiare verso una qualsiasi località lontana da casa. Ora si ritrova sul
“fulmineo Continental” che corre sulla linea Parigi Madrid. E qui, prendendo
spunto dalla velocità del mezzo, attacca bottone con il controllore sulla
natura del moto e sulla madre di tutti i movimenti. Ma la storia, ovviamente,
non finisce qui
Si tratta di una delle dieci narrazioni fantaferroviarie
(noir, fantasy, horror e fantascienza) che corrono rigorosamente sui binari di
mezza Europa: quella dell’Est in particolare. In un caso le rotaie si snodano
su un percorso davvero impressionante: vi si racconta, infatti, di un treno
superveloce (l’autore scrive negli anni ’30, ma avrebbe già bene in testa l’alta
velocità)che parte da Barcellona, costeggia tutto il bacino del Mediterraneo, e
ritorna, dopo soli tre giorni, al punto di partenza. Su una di queste corse,
alcuni passeggeri vanno incontro a una avventura allucinante. Il treno, già
arrivato sulla costa ligure, rallenta, entra in una gola e poi si ferma in una
strana stazione dal nome sconosciuto: Buon Ritiro. Ma sono io a ritirarmi, a
questo punto, per non svelare il finale.
Procedendo nella lettura, si passa da un
mistero all’altro. Si viene a conoscenza degli strani poteri emanati da un
binario morto. Le carrozze che vi hanno sostato sono a dir poco stregate, tanto
che i passeggeri scendono alla spicciolata durante il viaggio, anche se non
sono ancora arrivati alla loro destinazione. Rimangono solo i due protagonisti.
Ma per vedere come va a finire, dobbiamo continuare l’itinerario con loro.
Poi c’è la vicenda del treno fantasma (se
qualcuno pensa che non sia originale, ricordi che GrabinsKi, l’autore, la
scrisse negli anni Venti; quindi sarebbe opportuno fargli tanto di
cappello). Appare sulla linea quando e
dove meno ci si aspetta di trovarlo, crea una grande confusione fino a mettere
a dura prova tutta la pianificazione ferroviaria moderna. Alla fine si
scontrerà con un altro treno. Ma bisogna leggere per credere, per rendersi
conto che un regista cinematografico sarebbe impazzito a rendere visibile una
simile catastrofe. Che sarà poi stata tale?
Ci sono altre storie: un casellante
strambo fa la guardia a un tunnel nei Carpazi, senza mai vedere la luce del
giorno; due amanti consumano la loro avventura trovandosi periodicamente sullo
stesso treno; due ferrovieri s’incontrano in uno sperduto e misterioso
capolinea fra le montagne; una sciagura viene misteriosamente preannunciata; un
tizio ritrova l’amante e scopre che era morta un po’ di tempo prima, in un
incidente ferroviario.
Insomma ce n’è abbastanza per soddisfare
il lettore che ama il fantastico. Solo che costui deve essere disposto a
viaggiare, ad ascoltare il monotono canto delle rotaie, sottoporsi allo sguardo
sospettoso dei controllori, veder fuggire il paesaggio attraverso i finestrini.
Il sottotitolo parla chiaro e mette in guardia: si tratta di fantaferroviaria.
L’autore polacco Stefan Grabinski
(1889-1936) viene qui giustamente riscoperto in una gustosa raccolta che lui
stesso aveva concepito in questo modo. Poco conosciuto, e a dire il vero anche
un po’ sottovalutato ai suoi tempi, era un vero artista, uno scrittore dedito
al fantastico e all’horror, tormentato dall’idea fissa di come possano
convivere realtà e alterità, visto che quest’ultima è tanto impalpabile quanto
incombente. Cultore di filosofia e di psicologia, ma anche delle scienze
occulte, Grabinski ci ha regalato questo conturbante mosaico ferroviario, che
diventa una metafora di quel mistero nel quale siamo immersi.
Giuseppe Novellino
Stefano Valente – Breve
storia della fantascienza (e del fantastico) in Portogallo - 2
II. IL CUORE “ANTICO” DELLA FANTASCIENZA PORTOGHESE
Le incursioni nel fantastico dell’Ottocento
Sono
numerose le incursioni nel fantastico da parte dei maggiori scrittori
dell’Ottocento portoghese. Per le quali non è possibile, tuttavia, parlare
ancora di una produzione fantascientifica strictu
sensu.
Il
poeta, drammaturgo e diplomatico Almeida Garrett (1799-1854), autore del famoso
romanzo-descrizione del proprio Paese Viagens
na Minha Terra e dei notissimi drammi romantici Camões e Dona Branca, nel
1818 scrive O Retrato de Vénus[1].
L’opera gli costerà l’accusa di «materialista,
ateu e imoral» e un processo giudiziario.
(La
copertina di un’edizione del 1937 de Il
teschio della martire, di Camilo Castelo Branco)
Tra
realismo e romanticismo si pongono i lavori di Camilo Castelo Branco – il primo
autore lusitano che vivrà esclusivamente della propria opera, nominato
soprattutto per Amor de Perdição, del
1862[2]
–: suoi sono O Esqueleto[3],
l’esteso e tenebroso Anátema, A Caveira da Mártir – in cui un cadavere
viene dissepolto per trafugarne il teschio[4]
–, il notissimo Os Mistérios de Lisboa e
dos Seus Crimes (1854)[5],
adattato per il cinema da Raul Ruiz nel 2010; da ricordare pure O Livro Negro de Padre Diniz (il
prosieguo de Os Mistérios de Lisboa) e Coisas
Espantosas[6] che
svolge tematiche sociali.
Non
si può prescindere, poi, dal massimo esponente del realismo portoghese: Eça de
Queiroz (o de Queirós, secondo l’ortografia successiva). A lui si devono
capolavori come O Crime do Padre Amaro
(1875), A Relíquia (1887), Os Maias (1888), A Ilustre Casa de Ramires (1900)[7].
Dalla sua penna nascono racconti di contenuto o sfondo fantastico (e
“agiografico”) quali O Defunto, O Suave Milagre, Santo Onofre, S. Cristóvão,
S. Frei Gil[8],
le Lendas de Santos[9],
Adão e Eva no Paraíso, nonché un Dicionário de Milagres[10]
incompleto. E, soprattutto, la novella O
Mandarim.
Eça de Queiroz e il «paradosso del
mandarino»
Pubblicato
nel 1880, O Mandarim segna
prepotentemente la deriva fantastica
del realismo nella letteratura portoghese. Ed è, per molti versi, una sorta di
manifesto di una nuova, irrimandabile esigenza: per usare le parole dello
stesso Eça de Queiroz «Sobre a nudez
forte da verdade o manto diáfano da fantasia»[11].
Con
l’ironia, a volte crudele, che lo contraddistingue, lo scrittore narra le
vicissitudini e il dramma morale di Teodoro, un mediocre impiegato di Lisbona.
Alla sua porta bussa un giorno uno sconosciuto; ha con sé un campanello: ogni
qualvolta Teodoro lo suonerà, dall’altra parte del mondo, nell’esotica Cina, morrà
un uomo, ma non un uomo qualsiasi: un facoltoso mandarino. E Teodoro, senza
correre alcun pericolo d’essere scoperto, ne riceverà beni e ricchezze.
(La pellicola The Box, di Richard Kelly (2009) è uno dei molti adattamenti
ispirati a O Mandarim di Eça de
Queiroz)
O Mandarim sviluppa
fino alle estreme conseguenze il cosiddetto «paradosso del mandarino» (introdotto
da Balzac nel suo Père Goriot): la
possibilità di uccidere in segreto e impunemente, e la risoluzione nel farlo –
con le relative implicazioni etiche che questo comporta.
La
novella di Eça de Queiroz è stata ripetutamente ripresa e riadattata, più o
meno fedelmente; due esempi per tutti: la commedia musicale Un mandarino per Teo di Garinei e
Giovannini (1960), e il film The Box di
Richard Kelly (2009), il regista di Donnie
Darko.
Ma
per la fantascienza vera e propria – o ficção
científica (FC), per usare il corrispettivo portoghese – i
tempi non erano ancora maturi. Tralasciando di citare opere tuttora di rilievo nell’ambito
della Storia del Folclore (si pensi alle raccolte Contos Tradicionais do Povo Português[12],
pubblicata nel 1834, e Contos Fantásticos,
del 1865, entrambe di Teófilo Braga, che fu tra l’altro il secondo presidente
della giovane repubblica[13],
e poi Lendas e Narrativas – 1851 – del
romantico Alexandre Herculano, in cui spicca il racconto della leggenda A Dama Pé-de-Cabra[14]),
antologie ricche di tutti i contenuti favolosi che le credenze e la tradizione
orale del Paese tramandavano, si dovrà giungere alla fine del XIX secolo per
veder dato alle stampe il primo vero romanzo di genere.
Il cuore “antico” della fantascienza
portoghese
È il
1895: esce O Que Há de Ser o Mundo no Ano
Três Mil[15] di Pedro
José Suppico de Moraes, una visione della società del futuro e un evento
decisamente nuovo nel panorama culturale del momento. Nuovo e paradossale.
Perché il libro è in realtà un recupero dal passato, addirittura dagli inizi
del Settecento!... Suppico de Moraes era infatti il Moço de Câmara, ossia il ciambellano, del re Dom João V. E non sarà
ricordato per la sua “anticipazione del futuro”, ma per le sue due summae di enunciati e massime storiche e
filosofiche: la Colleçaõ Politica de
Apothegmas ou ditos agudos, e sentenciosos, che l’autore dedicherà al
monarca nel 1718, e la Colleçaõ Moral de
Apothegmas ou ditos agudos, e sentenciosos che Suppico de Moraes offrirà
all’Infante Dom Francisco.
Non
è una forzatura definire O Que Há de Ser
o Mundo no Ano Três Mil di Pedro José Suppico de Moraes il primo vero
romanzo fantascientifico lusitano. È però un dato incontrovertibile che la SF,
all’interno dei confini portoghesi, da quel 1895 dell’utopia del Moço de Câmara di Dom João V, segnerà
una nuova battuta d’arresto[16].
(Un’immagine
a corredo dell’articolo Lisboa no Ano
2000, apparso nel 1906 sull’«Illustração Portugueza».)
L’ininterrotta parentesi fantastica fino
alla «Colecção Azul»
Per l’ambito
“fantastico” in senso più ampio, invece, il Portogallo e la sua letteratura mostreranno
un interesse e un’inclinazione che non s’interromperanno mai – sino ai nostri
giorni.
È
stato merito dell’Editorial Caminho, tra gli anni Ottanta e Novanta, nella sua
«Colecção Azul», quello di far
conoscere – o riscoprire – racconti, novelle e romanzi classificabili come fantastici, che appartengono alla
produzione di poeti e scrittori sicuramente “non di genere”. Nella collana,
accanto a titoli ormai notissimi anche fuori dei confini lusitani, come il
lungo racconto Um Jantar Muito Original
di Fernando Pessoa[17],
è così apparso Mário de Sá-Carneiro e i suoi A Confissão de Lúcio, A
Grande Sombra, A Estranha Morte do
Professor Antena, O Fixador de
Instantes[18] (gli
ultimi tre inclusi originariamente in Céu
em Fogo[19], del
1915).
Amico
di Pessoa e, con questo, condirettore della rivista «Orpheu», Sá-Carneiro è tra
le personalità di spicco del modernismo portoghese. A Confissão de Lúcio, del 1914, si articola su una struttura
«gialla» sulla scia dei racconti fantastici di Poe; struttura, tuttavia,
“decostruita” (con Sá-Carneiro siamo in piena avanguardia) in chiave funzionale
alla confessione, per l’appunto, dell’io narrante. Al centro della vicenda un
triangolo amoroso, e i temi della follia, della passione anormale – omosessuale
– e del suicidio (Sá-Carneiro morrà suicida a Parigi due anni dopo, nel 1916, a
soli 25 anni).
(Un’immagine
del modernista Mário de Sá-Carneiro)
Da
ricordare pure Il principe dalle orecchie
d’asino e Ci sono più mondi (O Príncipe com Orelhas de Burro, 1942; Há Mais Mundos, 1962), del modernista
più tardo José Régio. Le avventure di
Giovanni senza paura (As Aventuras Maravilhosas
de João Sem Medo, 1963) di José Gomes Ferreira: un «panfleto mágico» e un «divertimento literário» destinato ai
giovani lettori, con un personaggio fanfarone all’interno di molti universi
magici: il proprio e quelli delle altre figure incontrate sul cammino; ma anche
una profonda parabola ironica sul fascismo portoghese e sull’arretratezza di
una nazione intera. I racconti raccolti in Contos
do Gin-Tonic (1973) e in Novos Contos
do Gin (1974) del surrealista (e pittore) Mário-Henrique Leiria, e i suoi –
più prettamente fantascientifici, e caustici come tutta la produzione
dell’autore – Casos do Direito Galáctico
(1975): cinque «casi esemplari sottoposti ad analisi nel Corso di Diritto
Galattico per studenti della federazione mista (umanità del 1º Agglomerato
Stellare) all’Università Regionale di Aldebaran 3»[20].
E O Físico Prodigioso (1966) del
poeta Jorge de Sena: una novella cavalleresca narrata adottando un registro
linguistico “medievale”, che prende il via da un patto col Demonio.
Ma
proseguendo in questa digressione – o salto temporale – offerta dai recuperi
“fantastici” della «Colecção Azul»
avremo modo di incontrare altre figure, tanto rilevanti quanto forse
misconosciute. È il caso – come vedremo – di Romeu de Melo, uno
scrittore-chiave per la comprensione del fenomeno fantascientifico lusitano e
della sua originalità, e al tempo stesso il simbolo della transizione verso una
vera e propria letteratura di genere.
[1] ‘Il ritratto di
Venere’.
[2] Amore
di perdizione, tradotto in vari idiomi – dall’inglese fino al norvegese ed al cinese – è probabilmente la più celebre storia
passionale del panorama letterario lusofono (peraltro ispirata alle vere
vicende dello zio dello stesso autore, Simão António Botelho, recluso per
omicidio nelle carceri di Oporto). Da Amor
de Perdição sono stati0 tratti ben quattro film e vari adattamenti
televisivi.
[3] ‘Lo scheletro’.
[4] ‘Il teschio della martire’. Il romanzo si
svolge all’epoca dell’inquisizione.
[5] ‘I misteri di
Lisbona e dei suoi delitti’.
[6] ‘Il libro nero di
Padre Diniz’ e ‘Cose
impressionanti,
incredibili’.
[7] Tradd. italiane: Il crimine di Padre Amaro, La reliquia, I Maia, L’illustre casata dei
Ramires.
[8] Cfr. nota 17.
[9] ‘Leggende di santi’.
[10] ‘Dizionario di miracoli’.
[11] «Sotto la nudità forte della
realtà il manto diafano della fantasia»: è la frase che, sette anni più tardi,
farà da sottotitolo al romanzo A Relíquia.
[12] ‘Racconti tradizionali del
popolo portoghese’.
[13] Teófilo Braga sarà anche
autore di Frei Gil de Santarém (1905),
libro imperniato sulla leggenda del monaco santo e medico del Medioevo
portoghese che firma – una sorta di Faust ante
litteram – il patto con il
Diavolo.
[14] ‘La dama Piè-di-Capra’.
[15] ‘Ciò che sarà il
mondo nell’anno tremila’.
[16] Anche se, secondo
alcuni, il primo vero testo fantascientifico portoghese sarebbe l’articolo Lisboa no Ano 2000, dell’ingegnere
civile Mello de Mattos, apparso in un numero della rivista «Illustração Portugueza»
nel 1906. Vi compare una descrizione della futura capitale portoghese come il
fremente centro mondiale, all’avanguardia in ogni campo d’innovazione
tecnologica: primo fra tutti quello dei trasporti (con la sua metropolitana
sopraelevata e il tunnel sotto il fiume Tago che la collega a Seixal).
[17] Trad. italiana: Una cena molto originale.
[18] ‘La confessione di
Lúcio’, ‘La grande ombra’, ‘La strana morte del professor Antena’, ‘Il
fissatore di istanti’.
[19] ‘Cielo in fiamme’.
[20] Mário-Henrique Leiria fu, tra l’altro,
anche traduttore di opere di fantascienza: sua, ad esempio, la versione
portoghese di un classico fra i romanzi distopici come Brave New World (trad. it.: Il
mondo nuovo) di Aldous Huxley (1932).
BREVE STORIA DELLA FANTASCIENZA (E DEL FANTASTICO) IN
PORTOGALLO di Stefano Valente
I.
GLI ESORDI
La
prima “caravella del pensiero”: la Passarola
di padre Bartolomeu de Gusmão
Senza
tener conto della coppia mitica di Dedalo e di suo figlio Icaro, che
fugge dal labirinto di Cnosso grazie ad ali artificiali, il primo
uomo a spiccare il volo sarebbe stato un portoghese: padre Bartolomeu
de Gusmão.
Siamo
nell’anno 1709, lo scenario è la Casa da Índia di Lisbona,
l’istituzione che amministra i territori e i commerci delle colonie
lusitane. Il gesuita Bartolomeu Lourenço de Gusmão è un giovane e
geniale inventore: si è appena trasferito dal natio Brasile –
allora dominio della corona portoghese – dove si è già segnalato
per la costruzione di un sistema idraulico per pompare le acque
fluviali nel seminario dei suoi studi. Ma il congegno che adesso
esibisce, alla presenza della nobiltà e del re Dom João V, è
strabiliante: si tratta di un vascello volante, in grado di sollevare
in aria il suo manovratore.
In
realtà della Passarola, o Barcarola – come è
tuttora ricordata – del «sacerdote volante» sappiamo assai poco.
Doveva essere una sorta di mongolfiera o dirigibile ante litteram,
tanto che un cronista dell’epoca parla di un globo di cartone
pesante al cui fondo era posta una caldaia con del fuoco. Di sicuro
si trattava di un progetto che solleticava la fantasia dei regnanti,
aprendo prospettive fino ad allora inimmaginabili sia nel campo
commerciale che in quello delle applicazioni militari.
Ad
ogni buon conto, da quell’8 di agosto del 1709, la Passarola fa
il suo ingresso nell’immaginario collettivo di un intero popolo.
Una presenza che – è il caso di dirlo – non ha mai smesso di
aleggiare nelle visioni lusitane. Ritroveremo la Passarola
e il suo creatore, quel «padre voador» Bartolomeu de
Gusmão, come elementi-cardine di Memoriale del Convento (Memorial
do Convento, 1982), l’opera più nota di José Saramago, premio
Nobel per la letteratura.
(Una
rappresentazione della Passarola di padre Bartolomeu de
Gusmão)
(La
copertina di Memorial do Convento di José Saramago: tra i
protagonisti del romanzo di padre Bartolomeu de Gusmão e il suo
veicolo volante, la Passarola)
Per
parlare del fantastico e della fantascienza in Portogallo cominciamo
allora dalla navicella volante di Bartolomeu de Gusmão. La Passarola
simbolizza alla perfezione l’ansia esplorativa e immaginifica
di un popolo e di una cultura: a partire dal 1500 – il secolo della
massima espansione dell’impero coloniale lusitano – i portoghesi
si avventurano sempre oltre e al di là: oltre i
minuscoli confini della patria e – il più delle volte, e
fatalmente – ben al di là dei loro mezzi e possibilità. La
Storia, e la stessa geografia, finiranno per ridimensionare i sogni
di grandezza dell’angolo più occidentale d’Europa. Il popolo
portoghese, tuttavia, non cessa di sognare – di proiettarsi su
nuove terre da scoprire, su nuovi oceani da solcare. Quantomeno con
le “caravelle del pensiero”…
Leggende
araldiche, giganti, mostri ed esseri marini: epica e tradizione
A
dire il vero l’elemento fantastico “abitava” già da tempo
nella tradizione e nelle coscienze lusitane. In campo letterario
l’Amadis de Gaula, verosimilmente attribuito a João de
Lobeira – trovatore ai tempi dei re Dom Afonso III e Dom Dinis
–, del XIII secolo, è senza dubbio il capostipite della
narrativa d’immaginazione ad occidente della Penisola Iberica: vi
si narrano le gesta eroiche di Amadigi, cavaliere innamorato della
principessa Oriana, i suoi combattimenti contro giganti e mostri.
Da
ricordare poi, in età cinquecentesca, la Crónica do Imperador
Clarimundo, scritta da João de Barros – il «Tito Livio
portoghese», nonché grande grammatico –: un’opera, secondo
alcuni1,
fitta di elementi riconducibili al meraviglioso di matrice celtica
(stregonerie, filtri magici, giganti, sogni premonitori), e tuttavia
ben combinati con l’immaginario di tradizione cristiana. E certo
una menzione merita anche il teatro di Gil Vicente com i suoi
numerosi Autos2
– ad esempio le famose Barca do Inferno, Barca do
Purgatório e Barca da Glória.
Al
centro degli interessi di questa nazione di navigatori, ben più che
le tematiche cavalleresche, vi è però il mare e i suoi misteri. In
uno dei più antichi manoscritti dell’Archivio Nazionale della
Torre do Tombo, il Nobiliário del Conte di Barcelos Dom Pedro
(1287-1354, figlio naturale del re Dom Dinis), si fa risalire
l’origine del lignaggio dei Marinho all’incontro tra un cavaliere
e una sorta di sirena, e al loro successivo matrimonio. Duecento anni
dopo, nel 1554, nell’Urbis Olisiponis Descriptio del grande
umanista Damião de Góis, incontriamo una digressione sopra sirene e
tritoni, e circa il relativo contratto di dominio su queste
creature3.
C’è
poi il mostro marino – o meglio: oceanico – per
eccellenza, il simbolo dei pericoli affrontati dalle caravelle
portoghesi lanciate verso l’ignoto: è il gigante Adamastor,
personificazione del Capo delle Tempeste, con cui se la vedranno gli
eroi cantati da Camões nel poema epico nazionale, Os Lusíadas.
È l’impresa di Vasco da Gama, la flotta lusitana che conquista la
via per le Indie – la consacrazione dell’Era dos
Descobrimentos, la celebrazione dell’impero coloniale
portoghese.
(Gigante
Adamastor, azulejo di Jorge Colaço, 1933 – Centro Cultural
Rodrigues de Faria, Forjães)
L’eco
del tremendo Adamastor risuonerà fino al Novecento, nell’opera di
Fernando Pessoa Mensagem (1934), che rievoca e rielabora il
mito dell’Epoca delle Scoperte: qui, nella poesia O Mostrengo,
Pessoa descrive un’inquietante creatura alata che «sta alla fine
del mare», e vola tutt’attorno ai bastimenti domandando chi osi
violare le onde tenebrose del suo regno (si tratta ovviamente dei
temerari piloti del re Dom João II: sono sue le navi che sfidano i
limiti del mondo):
In
una notte tenebrosa, il mostro
Che
là dimora dove ha fine il mare
S’alzò
in volo, girò intorno alla nave
Tre
volte e disse: «Chi è che ha osato entrare
Nelle
caverne mie sempre nascoste,
Negli
antri oscuri dove ha fine il mondo?».
E,
tremando, disse il timoniere:
«Il
nostro Re Don Giovanni Secondo! ».
«Di
chi son queste vele in cui m’impiglio?
Di
chi le chiglie che ora vedo e sento?»,
Esclamò
il mostro e roteò tre volte,
Tre
volte girò intorno, immondo, enorme.
«Chi
vien qui a fare ciò che sol io posso,
Io
che dimoro dove mai fui visto
E
i terrori del mare senza fondo
Corro?».
Tremando, il timoniere disse:
«Il
nostro Re Don Giovanni Secondo!».
Le
mani alzò tre volte dal timone,
Tre
volte le rimise sulla barra,
Tremò
tre volte e disse: «Qui alla guida
Della
nave non c’è soltanto un uomo:
C’è
una Nazione che al tuo mar anela;
E
più del mostro che il mio cuore teme
E
che dimora dove ha fine il mondo,
comanda
me e mi lega a questo legno
Ciò
che vuole Don Giovanni Secondo!»4.
Padre
António Vieira e la smisurata utopia del «Quinto Impero»
Ad
ogni modo, al di là del contesto leggendario e tradizionale, lo
sviluppo di una letteratura di vera e propria tematica fantastica si
farà attendere per lungo tempo in Portogallo. Così, la chiusura del
XVII secolo e il principio del ’700 sono segnati dalla smisurata
utopia di Padre António Vieira (1608-1697) e della sua História
do Futuro (edita
postuma, nel 1718): in questo testo il filosofo e missionario gesuita
articola minuziosamente il «Quinto Impero» e la società perfetta
che esso instaurerà, diffondendo il cristianesimo nel mondo intero.
Il tutto, naturalmente, sotto il dominio di un sovrano portoghese
(quel Dom Sebastião scomparso sul campo di battaglia – nel cui
ritorno il popolo lusitano non smetterà mai di sperare – e poi Dom
João IV). L’Inquisizione portoghese, dopo un lungo processo,
condannerà Padre Vieira e la sua visione millenaristica: il gesuita
aveva infatti parlato del Quinto Impero in una lettera indirizzata al
vescovo del Giappone.
Il
XVIII secolo vede il repêchage
mitologico greco-romano di António José da Silva (Anfitrião,
ou Júpiter e Alcmena,
As Variedades de
Proteu, il Labirinto
de Creta, il
Precipício de Faetonte
ecc.), e l’interesse per l’orrore soprannaturale degli autori
dell’Arcadia (con Manuel de Figueiredo, Pedro Correia Garção,
Domingos dos Reis e altri) e della cosiddetta «Nuova Arcadia» (si
pensi al preromantico Manuel Maria du Bocage).
1
António José Saraiva e Óscar Lopes nella História
da Literatura Portuguesa.
2
Letteralmente ‘Atti’.
3
Entrambi i documenti sono segnalati dallo scrittore, storico e
saggista Álvaro de Sousa Holstein (Na
Periferia do Império
– Encontros de Ficção Científica, Porto/Cascais 1996).
4
La traduzione, libera, è tratta dal sito Mensagem
– Il Portogallo di Fernando Pessoa.
Di seguito il testo originale:
O
mostrengo que está no fim do mar
Na
noite de breu ergueu-se a voar;
À roda
da nau voou três vezes,
Voou
três vezes a chiar,
E
disse: «Quem é que ousou entrar
Nas
minhas cavernas que não desvendo,
Meus
tectos negros do fim do mundo?»
E o
homem do leme disse, tremendo:
«El-Rei
D. João Segundo!»
«De
quem são as velas onde me roço?
De quem
as quilhas que vejo e ouço?»
Disse o
mostrengo, e rodou três vezes,
Três
vezes rodou imundo e grosso,
«Quem
vem poder o que só eu posso,
Que
moro onde nunca ninguém me visse
E
escorro os medos do mar sem fundo?»
E o
homem do leme tremeu, e disse:
«El-Rei
D. João Segundo!»
Três
vezes do leme as mãos ergueu,
Três
vezes ao leme as reprendeu,
E disse
no fim de tremer três vezes:
«Aqui
ao leme sou mais do que eu:
Sou um
Povo que quer o mar que é teu;
E mais
que o mostrengo, que me a alma teme
E roda
nas trevas do fim do mundo;
Manda a
vontade, que me ata ao leme,
De
El-Rei D. João Segundo!»
Fernando
Pessoa,
Mensagem,
Mar
Portuguez, IV. O
Mostrengo.
(La poesia porta la data 9 settembre 1918; Mensagem
è
pubblicato nel 1934).
LE VIE DELLE STELLE
di Fabio Calabrese
(Fabio
Calabrese, LE VIE DELLE STELLE, Scudo
Edizioni, Bologna)
Il cervello umano è diviso in due
emisferi: l'emisfero sinistro, logico, razionale, in possesso delle abilità
linguistiche e numeriche, e l'emisfero destro, emotivo, creativo, sede delle
emozioni e dei sentimenti. E' una cosa curiosa, ma anche nella narrativa di
fantascienza sembra esistere una divisione analoga: esiste una parte di essa
che sembra essersi assunta l'incarico di delucidarci sul nostro possibile
futuro: fantascienza sociologica ed ecologica che ci parla di possibili
catastrofi ambientali, e non ci dipinge di certo un quadro molto ottimistico
dei domani che ci attendono, oppure fantascienza tecnologica che ci porta
addentro ai misteri della robotica e dell'informatica, a esplorare le realtà
virtuali e conoscere le intelligenze artificiali.
Questo è, per così dire, l'emisfero
sinistro della fantascienza. L'emisfero destro è imperniato sulle saghe
galattiche e oggi come oggi sembra essere soprattutto un rimbalzo della
produzione mediatica che ripropone in una serie di varianti gli eroi di Star
Trek e di Star Wars. In qualche modo l'evidenza visiva, l'impatto
dato al pubblico dallo schermo grande o piccolo, cinematografico o televisivo,
supplisce alla mancanza di plausibilità.
Entrambe cercano in qualche modo di
aggirare un dato di fondo: l'esplorazione dello spazio e l'espansione umana nel
Cosmo non sono più, com'era per la fantascienza dei primordi, un'immagine
attendibile di ciò che il futuro può avere in serbo per noi. I pianeti del
sistema solare sono dei deserti inabitabili e privi di vita, mentre le stelle
sono poste a distanze incommensurabili rispetto a noi, perse “nel buio degli
anni luce” e che alla velocità della luce stessa, la massima raggiungibile, un
viaggio fino ad esse impiegherebbe secoli o millenni.
I due emisferi del cervello umano non
sono separati, sono congiunti da un'area che si chiama corpo calloso, che
permette connessioni e scambi fra uno e l'altro che fanno si che la nostra
scatola cranica non sia abitata da due diverse personalità, ma da una
personalità unica in cui si equilibrano aspetti razionali ed emotivi.
Esiste, esiste ancora, è ancora
possibile un corpo calloso della fantascienza? E' possibile scrivere storie di
avventura spaziale che tengano conto delle nostre reali conoscenze sulla natura
del sistema solare e dell'universo? Io credo di poter dire che queste storie
costituiscono una risposta affermativa.
Il sistema solare, tanto per cominciare,
rimane alla nostra portata, anche se siamo ormai certi che non incontreremo né
i marziani né i venusiani né le creature provenienti dalla sesta luna di Giove
con cui ci ha terrorizzati Robert Heinlein, ma c'è comunque una specie con la
quale non finiremo mai di confrontarci e che non cessa di fornire spunti
narrativi all'immaginazione: la specie umana.
Partiamo dalla Luna. Il satellite del
nostro pianeta è quasi la nostra periferia, è stato raggiunto dagli uomini nel
1969, e sappiamo che è un enorme ciottolo cosmico privo di vita e di atmosfera.
Ma ... se per esempio il famoso monolito immaginato da Arthur C. Clarke in 2001,
Odissea nello spazio esistesse davvero? E' il tema del racconto Zagadoka.
Certo la Luna rispetto alle distanze
cosmiche è il cortile dietro casa, ma è pur sempre il nostro avamposto nello
spazio, e gli incontri che potremmo fare sul suo suolo sono davvero
imprevedibili, ad esempio, che ne direste di un alieno di cristallo,
un’astronave vivente venuta da sei secoli nel futuro? Ve lo racconto in Crystal.
C'è almeno un vantaggio nell'avere i
capelli grigi: il fatto di essere vissuto e di essere già stato attivo come
autore in un'epoca in cui certe idee sulla natura del sistema solare non
avevano perso del tutto attendibilità. Il 20 giugno 1976, la sonda spaziale
americana Viking 1 raggiunse la superficie di Marte e cominciò a trasmettere
alla Terra immagini del pianeta rosso, che fra le altre cose ne hanno
dimostrato in maniera lampante l'inesistenza di vita attuale (se Marte possa
averne ospitata in passato, se ne discute ancora). Giusto la sera prima,
scrissi il racconto I figli del deserto. Già allora, i sospetti circa
l'inesistenza dei marziani erano fortissimi, ma prima che questo mito svanisse
del tutto, perché non fare un ultimo tuffo nel Marte sognato da Ray Bradbury e
Leigh Brackett, non respirare ancora un po' di aria nostalgica e prendersi, in
fondo, l'onore di chiudere un'epoca della fantascienza?
“Terraforming” o, con un brutto
neologismo talvolta italianizzato in “terraformazione” è la serie di trasformazioni
che si possono mettere in atto su di un pianeta alieno per renderlo quanto più
simile alla Terra e adatto a ospitare la vita umana. Il pianeta più adatto per
tentare un terraforming, è ovviamente Marte, come si narra nel racconto
omonimo, ma non aspettatevi che tutto fili liscio.
Un Marte terraformato potrebbe offrire
rifugio ai superstiti della nostra specie il giorno che l'umanità terrestre
cadesse in una crisi convulsa, ma quando costoro o i loro discendenti dovessero
tornare sul pianeta madre, potrebbero trovarvi una sorpresa molto sgradita, è
quanto vi racconto in Gaia.
Saremmo più fortunati se un pianeta
cominciasse ad avviare spontaneamente una sorta di terraforming naturale con
solo un piccolo aiuto da parte nostra. Questo potrebbe accadere a Venere, se la
temperatura di 600 gradi al suolo che attualmente lo caratterizza, cominciasse
ad abbassarsi. Ma attenzione, questo avviene perché il sole è prossimo a
esaurire la sua scorta di idrogeno e a trasformarsi in nova. Ve lo racconto in Un
giorno da leoni.
Poiché ci siamo spinti in direzione di
Venere, potremmo ancora proseguire verso il sole e incontrare Mercurio, il
pianeta più vicino alla nostra stella, anch'esso un gigantesco sasso cosmico,
in più calcinato dalla vampa solare, e questo potrebbe mettere in una posizione
molto scomoda chi si trovasse sul Ponte di comando di un'astronave che
deve passare da quelle parti.
In direzione opposta, troviamo Giove, il
pianeta gassoso gigante. Secondo una teoria in voga anni addietro, esso sarebbe
una sorta di stella abortita ed emanerebbe una radiazione termica che potrebbe
rendere abitabili i suoi satelliti e gli asteroidi dell'omonima cintura,
facendo di questi ultimi un buon luogo, uno sfondo plausibile per ambientarvi
una storia di fantascienza. L'ho fatto con Una volta o l'altra, anche se
la ragion d'essere di questo racconto è quella di presentare una possibile
eccezione al secondo principio della termodinamica.
Giove, il gigante gassoso del sistema
solare, se volessimo esplorarlo ci imbatteremmo subito in una grossa
difficoltà, le enormi pressioni capaci di schiacciare qualsiasi organismo e
qualsiasi oggetto ben prima di averne raggiunto la superficie. Però, mi era
capitato di leggere in Ai limiti del conosciuto di Jacques Bergier
(co-autore assieme a Louis Pauwels del celeberrimo Mattino dei maghi)
un'idea interessante: un veicolo composto da un unico “foglio” bidimensionale
di circuiti stampati avrebbe solo due facce che sarebbero soggette a una
pressione uguale su entrambe, sarebbe il mezzo ideale per esplorare gli abissi
oceanici e – ho subito pensato – anche quelli gioviani. A volte succede che
un'idea ne trascina con sé una concatenazione di altre: un veicolo del genere
(che ho subito battezzato nastronave) dovrebbe essere per forza
teleguidato, e meglio di tutto se fosse un veicolo tipo waldo con il
driver che ha l'impressione di trovarsi a bordo di esso, o addirittura che esso
sia il suo corpo, anche se fisicamente non è lì. Meglio ancora, se il pilota
fosse una persona nata con gravi malformazioni e abituata a servirsi di protesi
fin dalla nascita. Ho pensato alla menomazione più grave, un individuo che in
pratica è solo un sistema nervoso senza corpo. Questa persona non avrebbe
neppure sesso, o il suo sesso cambierebbe di volta in volta a seconda dei waldo
in cui è inserita. Noi forse non ci rendiamo neppure conto con chiarezza di
quanto il sesso condizioni la nostra identità, il nostro modo di rapportarci
agli altri, il modo in cui gli altri si rapportano a noi. Io non vorrei
sembrare presuntuoso, ma il vero modo di procedere della fantascienza dovrebbe
essere proprio questo: si parte da un'idea tecnico-scientifica e se ne scoprono
le implicazioni umane, psicologiche e sociali. In questo modo ha visto la luce
quel racconto del tutto particolare che è Any.
Almeno le stelle più vicine a noi, sono
però del tutto al di fuori della nostra portata? Forse non è detto, e potremmo
studiare dei modi per raggiungerle. Uno potrebbe essere rappresentato da
un'astronave-macchina del tempo, che arretra nel tempo man mano che avanza
nello spazio, un altro potrebbe esserlo dal teletrasporto, sono le ipotesi
sviscerate nei due racconti Erpetofobia e La sagola, che
evidenziano anche come, in un caso e nell'altro potremmo combinare disastri. La
sagola, che è il racconto eponimo di quest'antologia, mi è particolarmente
caro, perché mi permise di uscire da un lungo periodo di blocco narrativo, e
nacque proprio dalla riflessione sull'uso del teletrasporto in un episodio di Star
Trek.
Tuttavia, noi sappiamo che gli autori di
fantascienza hanno inventato modi ingegnosi per consentire ai loro eroi di
superare l'interminabile pista delle stelle: dalla velocità superiore a
quella della luce, la mitica overdrive, all'utilizzo della deformazione
o curvatura dello spazio-tempo, fino ad
arrivare a Star Trek dove con la “velocità curvatura” si
utilizzano entrambi.
Cosa dire a tal proposito? Io azzarderei
che non sia consigliabile usare tali espedienti, che non hanno ovviamente
plausibilità scientifica, se non con parsimonia, e se non quando sono
giustificati dal fatto che la narrazione ha in vista finalità diverse
dall'ipotizzare il nostro futuro, cioè quando acquisisce più scopertamente il
valore di metafora. Faccio un esempio: I reietti dell'altro pianeta di
Ursula Le Guin è una narrazione ambientata negli spazi, ma in realtà si tratta
di una moderna filiazione della narrativa utopica, e l'autrice fa bene a non
impacciarsi con questioni tecniche estranee al suo argomento, e non abbiamo il
diritto di pretenderle come non le pretenderemmo da Platone, Thomas More,
Bacone, Campanella o Swift.
Come potete vedere, per quanto mi
riguarda, io qui vi porto quattro esempio di trasgressione della regola, ma
sempre per giustificati motivi. Stella di neutroni. In questo caso, il
racconto è stato costruito intorno a una teoria cosmologica, che non ho altro
modo di presentare, e che è quella illustrata dal professor English. Macché
materia o energia oscura, ciò che spiegherebbe la “compattezza” gravitazionale
delle galassie potrebbe essere il fatto che non sono se non dei giganteschi
gorghi intorno a buchi neri supermassicci. Chissà che in questa forma non
arrivi alle orecchie di qualche ricercatore dotato dei titoli accademici e
degli strumenti giusti per svilupparla!
In altri casi, (fare finta di)
dimenticare l'invalicabilità dello spazio interstellare può essere giustificato
in un racconto che ha fini polemici, satirici o semplicemente umoristici. Un
buco nel cielo, Il connettore e Il ricorso sono tre esempi in questo
senso. Un buco nel cielo nacque come “risposta” al racconto La
sindrome lunare di Vittorio Curtoni, dove si immagina che in una colonia
spaziale, per le particolari condizioni ambientali si vada incontro a una
perdita della parte inconscia e irrazionale della mente. Io ho provato piuttosto
a pensare a una perdita della razionalità, appoggiandola alla teoria del
cervello tripartito (il nostro cervello sarebbe in pratica formato da tre
cervelli sovrapposti, il più antico che abbiamo in comune coi rettili e i
vertebrati inferiori, il secondo, il cervello-mammifero, e infine il terzo, la
neocorteccia, specificamente umano. In determinate circostanze, sono gli strati
inferiori a prendere il sopravvento sulla parte più evoluta).
Il connettore è una parodia di Star Trek con qualche
allusione al connettivismo e Giovanni De Matteo, tanto per non farci mancare
nulla, e Il ricorso semplicemente un racconto umoristico. In entrambi i
casi, preferisco non darvi anticipazioni per non rovinarvi l'effetto delle gag
finali.
Adesso farò io una domanda a voi: a
conclusione di questa carrellata, pensate che l'avventura spaziale sia davvero
morta o che non sia invece viva e con ancora qualche buona freccia nel suo
arco?
ELEKTRON
Cinzia
Baldini - Linee Infinite Edizioni
L’antico
Egitto non cessa di esercitare i suo fascino. Una civiltà che si
perde nella notte dei tempi, e che si fonda su miti avvincenti e
misteriosi, puntualmente torna a ispirare gli scrittori di
fantascienza. Così avviene in questo romanzo di Cinzia Baldini, con
tutte le carte in regola per la sua appartenenza al genere. Il libro
si posiziona degnamente nel contesto di una narrativa che fa della
fantaegittologia il suo cavallo di battaglia.
La storia
procede su due piani. In uno troviamo le vicende legate alla
dottoressa Nur Hammand, giovane e affascinante archeologa, che
coniuga il suo amore professionale per le antichità egizie con
l’affetto e l’attrazione erotica per Patrick, un giovane studioso
della Svizzera francese. Nell’altro seguiamo le avventure dei
componenti della missione “Ank-taui”, provenienti dal misterioso
pianeta Proteros e sbarcati sul suolo terrestre qualcosa come
trentacinquemila anni fa. Ovviamente un filo unisce le due storie
che, pur procedendo parallele, rinviano fatti e significati l’una
all’altra fino alla rivelazione finale.
Chi sono i
proteriani? Che cosa sono venuti a fare sulla Terra? Il lettore se lo
chiede, pagina dopo pagina, soprattutto attraverso le vicissitudini
della bella dottoressa di origini egiziane, alla quale ne capitano
appunto di tutti i colori: viene rapita da misteriosi delinquenti e
rischia perfino la vita. Ciò che fa da anello di congiunzione è uno
strano oggetto, un singolare reperto archeologico, che si chiama
“Djed”. Questo ha il potere di produrre delle specie di visioni
in chi se lo tiene vicino. Nur è il soggetto destinato a fare tali
esperienze misteriose che hanno a che vedere con la dimensione
extrasensoriale.
Il romanzo offre il piacere di percorrere i
meandri di un affascinante mistero. Anche se i contorni fondamentali
di esso appaiono prevedibili fin dai primi capitoli, le ragioni
profonde, che legano avvenimenti vicini e lontani, sono avvolti da
una nebbia che solo a poco a poco viene dissolta attraverso un gioco
di fatti e rivelazioni sapientemente orchestrati. E la tesi, quindi,
dell’origine extraterreste degli esseri umani (perché è di questo
che si parla) viene argomentata con l’apporto di nozioni
interessanti di cui il lettore prende coscienza attraverso la
dimensione avventurosa.
Si tratta di una questione
intrigante, non nuova per la fantascienza, ma sempre in grado di
catturare l’attenzione del lettore. È un argomento che, a mio
modesto avviso, ha legittimità e si affronta con piacere sul terreno
della narrativa d’invenzione. Ricordo, invece, di avere provato una
noia mortale, anni fa, durante la lettura dell’unico libro di Peter
Kolosimo che mi era capitato fra le mani. In esso si trattava proprio
dell’origine extraterrestre dell’umanità. Ma quel parlarne con
pretese scientifiche (forse erano anch’esse sottili invenzioni),
quel calcare il terreno con materiale del tutto rigorosamente
documentabile ma per nulla convalidabile, mi dava la sensazione di
una mera perdita di tempo. Tutt’altra cosa è la lettura di un
romanzo di fantascienza. In questo caso, il patto narrativo risulta
del tutto chiaro: chi vi si accosta sa di trascorrere qualche ora di
piacevole e onesto esercizio della fantasia, magari riuscendo non
solo a divertirsi, ma ad arricchire un po’ la propria cultura in
materia.
È il caso di questo romanzo, scritto bene, con
abilità nell’intrecciare situazioni, personaggi, ambientazioni e
colpi di scena sullo sfondo del sempre affascinante mondo dell’antico
Egitto.
Giuseppe
Novellino
ROMAGICK di Claudio
Foti
(Claudio
Foti, ROMAGIK, Arpeggio Libero Editore)
La
raccolta consta di 24 storie ambientate nel passato, nel presente e nel futuro.
Storie con un forte fondamento storico come San Silvestro o Halos
Veni, storie attuali e lovecraftiane al tempo stesso come Il palazzo di
via S. Eustachio e Interessi letterari, storie vampiriche come Una
notte di sangue e dannazione e Farkaskoldus, storie inquietanti e
attuali come La Prima volta o Lo squarcio solo per citarne
alcune ma come non aggiungere per esempio racconti, a mio avviso,
sbalorditivi come Terribilis est locus iste, Roma, Lycaonia, Pantheon,
Porrophagus o i futuristici Anfis-Ibenas e La Vecchia? Questa
interessantissima raccolta di racconti ha come sfondo la Città Eterna. Una
città però molto diversa da come la conosciamo o da come viene rappresentata in
televisione e nei cinema. Una città inquieta, a volte sordida, ma allo stesso
tempo ammantata di quel velo di magia che la rende speciale e unica. Certo un
ritratto fuori dagli schemi, racconti fuori dagli schemi, storie fuori di
testa. Terribili e accattivanti, piacevoli e meno piacevoli, a volte
inquietanti a volte ossessive.
TIMESCAPE
di Gregory Benford
(Gregory Benford, TIMESCAPE, Ed.
Cosmo)
Bisogna sfuggire al tempo o a
un pericolo che inesorabilmente attende in un prossimo futuro?
Questo è l’interrogativo che accompagna il lettore per quattrocento pagine di
narrazione serrata. Ma a lui si offrono
altri quesiti di carattere scientifico, sempre riguardanti la speculazione e
l’indagine della fisica moderna.
Al centro di tutto ci sono i tachioni, particelle che corrono a una velocità
superiore a quella della luce. E quando un gruppo di scienziati si mette a
giocare con essi, intravede la possibilità di utilizzarli come macchina del
tempo. Lo scopo è quello di mandare un messaggio agli scienziati di quarant’anni prima per indurli a desistere
dallo sconsiderato uso di sostanze chimiche capaci di cambiare il clima
terrestre, innescando un meccanismo perverso, sovvertitore dell’equilibrio
oceanico. Insomma, si delinea l’idea di scongiurare la catastrofe già in atto,
modificando i comportamenti che l’hanno determinata. Quindi non si tratta di
spostamenti fisici , ma di un più realistico crono viaggio di messaggi a
cavallo di particelle infinitesimali e capricciose, le quali hanno proprio la
caratteristica di rendere il tempo una realtà verosimilmente manipolabile e in
qualche modo esplorabile.
La vicenda si muove su due binari: il 1998 e il 1963. Nel primo periodo
troviamo un gruppo di personaggi (scienziati dell’università di Cambridge)
impegnato nella trasmissione del messaggio di avvertimento; nel secondo le
persone destinate a riceverlo. Solo che né i primi, né i secondi hanno vita
facile, scientificamente e professionalmente parlando. Immaginatevi i questi
ultimi nella fatica di darla a intendere a colleghi parrucconi o a politici
ultraprudenti; tra l’altro non sono essi stessi del tutto sicuri che i loro
messaggi (specie di “risonanze” dei tachioni) risultino del tutto accettabili,
comprensibili ed efficaci. La posta è alta: salvare il pianeta da una
catastrofe che si potrebbe evitare con l’adozione pregressa di comportamenti più
prudenti.
Il romanzo è intrigante per la sua idea e per le considerazioni scientifiche
(spiegate in modo chiaro) che rendono assai
convincente l’aspetto fantastico della storia. Un po’ meno interessante,
a mio avviso, risulta tutta la parte riguardante la vita quotidiana e
sentimentale dei personaggi principali,
che spesso apre siparietti troppo lunghi e a volte un tantino giustapposti. Di
notevole interesse è invece la descrizione dell’attività accademica, tra ricerca
e realizzazione tecnologica, che spesso viene ostacolata da gelosie, da
incomprensioni, da meschini sabotaggi e da pastoie burocratiche e politiche.
Dopotutto Gregory Benford è un fisico di professione e quindi parla con
cognizione di causa.
Si tratta di un romanzo ben scritto, meditato a lungo e supportato da nozioni
scientifiche di robusta consistenza. E quella che viene offerta è una
fantascienza alla Fred Hoyle, per intenderci (ricordate il celeberrimo “La
nuvola nera”?), dove l’azione è ridotta al minimo e il fantastico non nasce arbitrariamente
o spregiudicatamente dalle avventure dei personaggi, ma viene dosato e
veicolato dalla teoria scientifica più ortodossa.
Personalmente ho trovato “Timescape”
interessante più che avvincente. Ma c’è da ricordare che alla sua
uscita, nel 1980, vendette un milione di copie e vinse il Premio Nebula; segno
che gli appassionati di fantascienza lo hanno gradito. Si tratta, a mio avviso,
di un romanzo non datato, che sfugge egregiamente alla trappola del tempo.
Giuseppe
Novellino
IL MONDO SOPRA di Michel Franzoso - Ediz. I sognatori
L’autore ci propone l’ennesima variazione
del tema, comunque intrigante, dei mondi separati che poi finiscono con
l’incontrarsi. Questa volta non si tratta di pianeti a sé stanti, né di
dimensioni parallele o di società sotterranee radiate dalla superficie
terrestre.
Ecco di che cosa si tratta.
Uno spesso strato di nuvole perenni ha
oscurato il cielo, dopo una grave crisi energetica che ha scatenato guerre
estremamente devastanti. Solo Dione è rimasta intatta; e ora si estende sotto
la soffice, impenetrabile coltre. I suoi grattacieli svettano, alcuni di essi
forano il corpo nuvoloso ma di essi non si vede la cima. Colui che sale con
l’ascensore arriva solo a un certo punto. A sbarrargli la strada trova il piano
di contenimento, vero e proprio confine tra il mondo conosciuto e l’ignoto
sovrastante, considerato ovviamente tabù. Secondo la vulgata diffusa dalle
autorità, oltre non c’è nulla.
Meela ha quattordici anni e come tutte le
ragazzine della sua età vive la sua realtà con sentimenti altalenanti. Le hanno
messo accanto Cyman, un robot un po’ rompiscatole, con il compito di istruirla.
La ragazza guarda le nuvole e si
interroga. Sale più volte fino ai piani di contenimento. Un giorno, sfugge ai
controlli e trova un passaggio che le permette di superare la barriera. Cyman
non riesce a fermarla in tempo e viene coinvolto nella scappatella. Così si
ritrovano sotto le stelle, sotto il sole e la luna. Lo spettacolo li stupisce,
ovviamente; da quel momento comincia l’avventura.
Aureralya (questo è il nome del mondo di
sopra, a cielo aperto) si rivela un luogo incredibile, affascinante ma anche
pieno di pericoli e minacce. Case e strade sono ancorate alle cime delle
costruzioni sottostanti (cioè quelle del mondo di sotto), formando una
straordinaria struttura aerea. Qui mi fermo, perché dalle peripezie sono appena
tornato e ho il fiato troppo grosso per riviverle a vostro consumo.
Si tratta di un romanzo di fantascienza,
anche se l’idea di fondo, brillante ma piuttosto ingenua, porta più acqua al
mulino della fantasy. Ci sono tutti gli ingredienti del primo genere (robot,
tecnologie inquietanti, oscure minacce sociali, ecc.), ma l’aspetto che domina,
alla fine, riguarda una fantasia più sfarfallante, svincolata dagli schemi
futuristici. Nella prima parte troviamo qualche ammiccamento a romanzi
fantasociologici come il classico “I reietti dell’altro pianeta” di Ursula K.
Le Guin, ma ben presto il racconto deborda, invade il campo della pura
immaginazione con atmosfere e azioni un po’ alla Herry Potter. Infatti, da un
certo punto in poi, la storia si caratterizza come avventura giovanilistica con
il ritmo pulsante di un cuore adolescente. Allora le idee fantasociologiche si
stemperano e lasciano il sopravvento alle peripezie di giovani solidali che
intendono venir fuori da una brutta situazione, ma anche conoscere se stessi.
Il romanzo presenta delle buone
caratterizzazioni di ambienti e personaggi, si legge con facilità. È adatto a
un pubblico giovanile, al quale, insieme al divertimento si dà lo spunto per
riflettere sul problema del diverso e dell’ignoto mondo che rappresenta.
Giuseppe Novellino
IL VOLTO SEGRETO DI GAIA
Lo dico subito,
non è esattamente fantascienza. Piuttosto è un fantasy in chiave
fantascientifica. Come se Maria Lidia avesse un universo narrativo sci-fi in
cui le cose hanno una spiegazione naturale o tecnologica, invece che magica. Questa
cosa si precisa sempre più nel corso del testo e personalmente l’ho
apprezzata molto. In parte perché non sono una grande appassionata di fantasy,
in parte perché dà un’impronta originale all’opera.
Quindi, inevitabilmente, la storia ha iniziato a prendermi davvero quando gli
ybridis e gli umani (che poi sono due ragazzini) lasciano il bucolico Artan,
partono per il cosmo alla ricerca del salvifico artefatto che riporterà
l’equilibrio sul loro pianeta d’origine e atterrano su Gaia, che è un posto glaciale
e inospitale, con una popolazione in parte deforme e in parte composta da cloni
perfetti e anaffettivi.
Qua è dove la storia entra più nel vivo. Diciamo che i capitoli precedenti sono
solo l’indispensabile premessa, per far capire al lettore che cosa ci facciano
degli ybridis su Gaia e che cosa stiano cercando. E qua è anche il punto in cui
la storia diventa davvero appassionante.
Nei capitoli precedenti, è semplicemente piena di belle idee: gli umani
ipocondriaci che vivono dentro delle gigantesche bolle, la storia del popolo
ybridis… mentre nei restanti due terzi il libro si precisa come una sorta di
thriller psicologico di ambientazione fantascientifica in cui un gruppo di eroi
non particolarmente eroici deve superare notevoli difficoltà per recuperare un
qualcosa della cui efficacia dubita persino.
Maria Lidia Patrulli usa i generi in modo intelligente, a mio avviso. Il genere
fantasy per fare una riflessione sull’ecologia e il genere fantascientifico per
fare una riflessione sull’umanità e sul significato di morte per gli esseri
umani.
Lo stile dell’autrice è funzionale e diretto, non senza dei momenti evocativi e
quasi lirici, bilanciati da una notevole ironia.
La mia impressione è che Il volto segreto di Gaia si vada sempre
più definendo e che probabilmente il secondo capitolo sarà meglio del primo.
(Maria Lidia Patrulli, Il volto segreto di Gaia, Edizioni Il Ciliegio)
SUSANNA
RAULE
INCUBI E
PRODIGI
(Fabio Calabrese, Incubi e prodigi, Edizioni Scudo 2012)
Detto francamente, l’horror non mi piace, perché mi fa venire gli incubi;
ma Fabio Calabrese riesce a compiere prodigi, perché è l’unico autore di
horror che riesco a leggere. Il motivo è presto detto: il suo stile è pervaso
da una vena ironica – più o meno accentuata a seconda del tema trattato – che
riesce ad alleggerire qualsiasi tema horror al punto da farmelo non solo
leggere, ma perfino apprezzare. Anche perché all’ironia si aggiunge un’altra
importante capacità, che è quella dell’originalità. Pochi autori moderni
riescono ad essere originali su temi ripetitivi ed ormai sfruttati fino alla
nausea come fantasmi, vampiri, streghe, demoni e licantropi.
Per entrare nello specifico di
questa antologia, prendiamo ad esempio il tema del licantropismo. Viene subito
alla mente l’uomo lupo, ma esistono altri tipi di incroci, come ad esempio il liomo,
l’uomo leone, che fa parte dell’immaginario orrorifico nordafricano, e che è il
tema nonché il titolo del primo racconto.
Un altro tema molto conosciuto
del genere horror è il vampirismo. Nel racconto L’ultima recita è
affrontato da un punto di vista molto originale, che è quello di un uomo che
per convenienza finge di essere un vampiro, durante l’occupazione nazista della
Francia; e mal gliene incoglie quando arrivano gli americani.
Una persona che ruba l’identità
di un’altra fa pensare al genere poliziesco, più che a quello horror; eppure in
La zia Milly l'autore riuscito a combinare i due temi. Pur senza essere
prettamente horror, questo è uno dei racconti che più mi hanno fatto
rabbrividire, forse perché riesce a rendere molto personale questo
scambio d’identità, facendo immedesimare il lettore nella storia ad un punto
che sembra di viverla in prima persona.
Il tema della metempsicosi è
forse uno dei meno sfruttati, nel genere horror; specialmente quando si tratta
di reincarnare un essere umano in un animale. Nel racconto intitolato Butch
un uomo ritorna nelle sembianze di un cane perché possa compiere la propria
vendetta. L’idea che l’anima possa trasmigrare in ogni essere vivente, animale,
vegetale o umano, è affascinante ed un po’ spaventosa, ed è proprio così che
definirei questa storia.
Una casa con presenze inquietanti
fa subito pensare a tanta cinematografia. In Gli amici di casa questo
punto di vista è ribaltato: ambientata su una sperduta isola del Pacifico
durante la Seconda Guerra Mondiale, le presenze non sono ostili all’inquilino,
che percependole ne ha avuto rispetto più che paura, bensì agli invasori giapponesi, che vengono
bersagliati senza pietà. Il racconto fa quasi venir voglia che tali presenze ci
siano in ogni casa, a tener lontani i disturbatori!
Un altro racconto che mi è
piaciuto molto è Il dannato, ispirato ad una leggenda friulana. Questa
storia mi ha addirittura commossa, ma la battuta finale mi ha fatto proprio
ridere di cuore, perché è la classica situazione in cui un essere umano riesce
a gabbare un essere soprannaturale. Mi ha ricordato moltissimo l’episodio del Il
Signore degli Anelli in cui l’intrepida Eowyn sconfigge il terribile Re
degli Stregoni.
L’episodio Geneticamente
modificato ha un titolo auto-esplicativo. Mi sembra un vero e proprio
monito a non pasticciare con la Natura, incrociando specie diverse.
Ne La preda mi sembra
d’intravedere un altro monito, che è quello di non avere l’arroganza di voler a
tutti i costi svelare misteri che è meglio lasciar inviolati. In questo caso
parli del wendigo, un essere per certi versi simile al sasquatch
o allo yeti, ma molto più pericoloso per l’uomo. A volte è davvero meglio lasciare in pace gli
enigmi della Natura.
Mariangela Mariga
OCCHI D’ARGENTO
(Fabio Calabrese, Occhi d’argento, Perseo Libri 2005)
Non è la prima volta per Sheila,
che ha avuto la sua prima esperienza nel lontano 1978, né per degli strani tipi
dagli occhi d'argento, né per gli axolotl; per gli altri invece è proprio così.
E soprattutto è la prima volta che un triestino si propone di sedurre il
pubblico con un'antologia dei propri racconti di fantascienza. L'autore in
questione è Fabio Calabrese, che dopo varie opere di saggistica e narrativa
torna in libreria con questo volume, 'Occhi d'argento'. Scienza e fantasia
intrecciate assieme in venti storie irreali-ma-non-troppo, visto che la maggior
parte di quelle che ritroviamo in questa raccolta traggono ispirazione da
tematiche scientifiche, ma anche etiche e sociali che ci riguardano da vicino.
Ormai la scienza ci fa credere che ogni prodigio sia possibile, e da un certo
punto di vista il campo di gioco di un onesto scrittore del fantastico si fa
sempre più ristretto. Per fortuna, come lasciano intravvedere i tre mondi,
quelli dell'immaginazione, della realtà e del possibile, esistono infiniti
universi ad un passo da quello in cui ci troviamo, alcuni dei quali molto
diversi, altri invece quasi indistinguibili dal nostro; ad ogni modo tutti
quanti folli e affascinanti. Se, per ipotesi, un'astronave in viaggio nello
spazio e nel tempo deviasse l'asteroide che 65 milioni di anni fa avrebbe
dovuto sterminare i dinosauri, ora ci ritroveremmo con una Terra popolata da
orribili rettili bipedi e intelligenti. Oppure potrebbe accadere che i bizzarri
abitanti di un programma di computer creato da noi stessi inizino a penetrare
nel nostro mondo, utilizzando la corrente elettrica e sfruttando la ben nota
formula E=mc2 per materializzarsi. E come vi sono infiniti mondi, così vi sono
infinite forme di vita possibili, sia in senso alieno che nel senso di
mutazioni di noi stessi. Se vi trovate in Amazzonia, ad esempio, evitate di
infastidire gli axolotl. Sono degli esseri anfibi semiumani, dall'aspetto
eternamente bambino, che vivono nelle grotte e all'ombra del fogliame. Sono
innocui, a patto che non andiate a toccargli il loro habitat. Oppure potreste
perdere il senno innamorandovi di un' 'aviana', su uno strano pianeta popolato
di grandi uccelli intelligenti. Ma per incontrare i diversi, gli alieni, i
mostri, non occorre andare su lontane galassie, teletrasportandosi o viaggiando
nel tempo. Basta frugare nella nostra mente, per trovare la meraviglia e
l'inquietudine. Sono sufficienti poche ore di permanenza in un ambiente buio e
privo di stimoli perché il cervello cominci a lavorare in modo anomalo. Non
indulgete quindi in strani esperimenti' potrebbe accadervi di regredire sempre
più nel passato, e di confondere le allucinazioni con la realtà, in modo anche
drammatico e violento' potreste persino giungere a scoprire la verità suprema'
E a dimostrazione dell'unione indissolubile tra la vita e la morte e il bene e
il male, proprio le tecniche che ci fanno sognare l'immortalità, come la
clonazione, l'ingegneria genetica e l'uso di organi artificiali possono
rivelarsi pericolose armi a doppio taglio e non di certo la soluzione di ogni
nostro problema. Rischiamo di non riconoscerci più, di divenire stranieri a noi
stessi, come le 'orme' di uno di questi racconti, individui prigionieri di corpi
divenuti lentamente qualcosa di non più umano. Bisogna fare attenzione, che
magari si comincia con un dente finto, un pace-maker, una protesi di plastica,
poi ci si lascia prendere la mano e si diviene dei robot' Gli extraterrestri
sono sempre in agguato, così come i draghi, se pensiamo che serpenti,
coccodrilli e iguane ce li portiamo tutti i giorni appresso, nel cosiddetto
'cervello rettile'. E secondo l'ipotesi della panspermia, avanzata qualche
decennio fa da Fred Hoyle, grande scienziato e anche lui scrittore di
fantascienza, la stessa vita sulla Terra proverrebbe dagli spazi siderali,
seminata dalle comete. Forse a volte gli scienziati invadono i terreni che
apparterrebbero agli scrittori, e viceversa. In questo modo si possono prendere
delle grosse cantonate, ma anche intuire brandelli di verità. L'unico dato
certo, al di là della fantasia, al di là della scienza, è che gli alieni siamo
noi. E come gli alieni possiamo essere indicibilmente cattivi, o viceversa dei
messaggeri di pace, o semplicemente ritrovarci smarriti su un pianeta
incomprensibile, il nostro. E Fabio Calabrese ce lo ricorda continuamente,
inserendo nel tessuto delle sue costruzioni fantastiche tutte le sfumature del
nostro essere, da quelle brillanti dell'amore verso noi stessi e verso la vita,
alle tinte oscure della sete di potere e della distruzione. La morale, secondo
me, è che non ci sono morali: sta a noi avere il coraggio di seguire la nostra
autentica natura e decidere quali colori indossare, che siano questi il bianco
immacolato delle stelle, il rosso sanguigno e bellicoso del pianeta Marte, o
una delle infinite tonalità che la Terra nella sua generosa tavolozza ci offre.
'Occhi d'argento', di Fabio Calabrese (Perseo Libri 2005), non si trova in
libreria, ma è acquistabile online su www.perseolibri.it, oppure telefonando
allo 051 300575.
Francesco Gizdic
Stefano Valente – Breve
storia della fantascienza (e del fantastico) in Portogallo - 2
II. IL CUORE “ANTICO” DELLA FANTASCIENZA PORTOGHESE
Le incursioni nel fantastico dell’Ottocento
Sono
numerose le incursioni nel fantastico da parte dei maggiori scrittori
dell’Ottocento portoghese. Per le quali non è possibile, tuttavia, parlare
ancora di una produzione fantascientifica strictu
sensu.
Il
poeta, drammaturgo e diplomatico Almeida Garrett (1799-1854), autore del famoso
romanzo-descrizione del proprio Paese Viagens
na Minha Terra e dei notissimi drammi romantici Camões e Dona Branca, nel
1818 scrive O Retrato de Vénus[1].
L’opera gli costerà l’accusa di «materialista,
ateu e imoral» e un processo giudiziario.
(La
copertina di un’edizione del 1937 de Il
teschio della martire, di Camilo Castelo Branco)
Tra
realismo e romanticismo si pongono i lavori di Camilo Castelo Branco – il primo
autore lusitano che vivrà esclusivamente della propria opera, nominato
soprattutto per Amor de Perdição, del
1862[2]
–: suoi sono O Esqueleto[3],
l’esteso e tenebroso Anátema, A Caveira da Mártir – in cui un cadavere
viene dissepolto per trafugarne il teschio[4]
–, il notissimo Os Mistérios de Lisboa e
dos Seus Crimes (1854)[5],
adattato per il cinema da Raul Ruiz nel 2010; da ricordare pure O Livro Negro de Padre Diniz (il
prosieguo de Os Mistérios de Lisboa) e Coisas
Espantosas[6] che
svolge tematiche sociali.
Non
si può prescindere, poi, dal massimo esponente del realismo portoghese: Eça de
Queiroz (o de Queirós, secondo l’ortografia successiva). A lui si devono
capolavori come O Crime do Padre Amaro
(1875), A Relíquia (1887), Os Maias (1888), A Ilustre Casa de Ramires (1900)[7].
Dalla sua penna nascono racconti di contenuto o sfondo fantastico (e
“agiografico”) quali O Defunto, O Suave Milagre, Santo Onofre, S. Cristóvão,
S. Frei Gil[8],
le Lendas de Santos[9],
Adão e Eva no Paraíso, nonché un Dicionário de Milagres[10]
incompleto. E, soprattutto, la novella O
Mandarim.
Eça de Queiroz e il «paradosso del
mandarino»
Pubblicato
nel 1880, O Mandarim segna
prepotentemente la deriva fantastica
del realismo nella letteratura portoghese. Ed è, per molti versi, una sorta di
manifesto di una nuova, irrimandabile esigenza: per usare le parole dello
stesso Eça de Queiroz «Sobre a nudez
forte da verdade o manto diáfano da fantasia»[11].
Con
l’ironia, a volte crudele, che lo contraddistingue, lo scrittore narra le
vicissitudini e il dramma morale di Teodoro, un mediocre impiegato di Lisbona.
Alla sua porta bussa un giorno uno sconosciuto; ha con sé un campanello: ogni
qualvolta Teodoro lo suonerà, dall’altra parte del mondo, nell’esotica Cina, morrà
un uomo, ma non un uomo qualsiasi: un facoltoso mandarino. E Teodoro, senza
correre alcun pericolo d’essere scoperto, ne riceverà beni e ricchezze.
(La pellicola The Box, di Richard Kelly (2009) è uno dei molti adattamenti
ispirati a O Mandarim di Eça de
Queiroz)
O Mandarim sviluppa
fino alle estreme conseguenze il cosiddetto «paradosso del mandarino» (introdotto
da Balzac nel suo Père Goriot): la
possibilità di uccidere in segreto e impunemente, e la risoluzione nel farlo –
con le relative implicazioni etiche che questo comporta.
La
novella di Eça de Queiroz è stata ripetutamente ripresa e riadattata, più o
meno fedelmente; due esempi per tutti: la commedia musicale Un mandarino per Teo di Garinei e
Giovannini (1960), e il film The Box di
Richard Kelly (2009), il regista di Donnie
Darko.
Ma
per la fantascienza vera e propria – o ficção
científica (FC), per usare il corrispettivo portoghese – i
tempi non erano ancora maturi. Tralasciando di citare opere tuttora di rilievo nell’ambito
della Storia del Folclore (si pensi alle raccolte Contos Tradicionais do Povo Português[12],
pubblicata nel 1834, e Contos Fantásticos,
del 1865, entrambe di Teófilo Braga, che fu tra l’altro il secondo presidente
della giovane repubblica[13],
e poi Lendas e Narrativas – 1851 – del
romantico Alexandre Herculano, in cui spicca il racconto della leggenda A Dama Pé-de-Cabra[14]),
antologie ricche di tutti i contenuti favolosi che le credenze e la tradizione
orale del Paese tramandavano, si dovrà giungere alla fine del XIX secolo per
veder dato alle stampe il primo vero romanzo di genere.
Il cuore “antico” della fantascienza
portoghese
È il
1895: esce O Que Há de Ser o Mundo no Ano
Três Mil[15] di Pedro
José Suppico de Moraes, una visione della società del futuro e un evento
decisamente nuovo nel panorama culturale del momento. Nuovo e paradossale.
Perché il libro è in realtà un recupero dal passato, addirittura dagli inizi
del Settecento!... Suppico de Moraes era infatti il Moço de Câmara, ossia il ciambellano, del re Dom João V. E non sarà
ricordato per la sua “anticipazione del futuro”, ma per le sue due summae di enunciati e massime storiche e
filosofiche: la Colleçaõ Politica de
Apothegmas ou ditos agudos, e sentenciosos, che l’autore dedicherà al
monarca nel 1718, e la Colleçaõ Moral de
Apothegmas ou ditos agudos, e sentenciosos che Suppico de Moraes offrirà
all’Infante Dom Francisco.
Non
è una forzatura definire O Que Há de Ser
o Mundo no Ano Três Mil di Pedro José Suppico de Moraes il primo vero
romanzo fantascientifico lusitano. È però un dato incontrovertibile che la SF,
all’interno dei confini portoghesi, da quel 1895 dell’utopia del Moço de Câmara di Dom João V, segnerà
una nuova battuta d’arresto[16].
(Un’immagine
a corredo dell’articolo Lisboa no Ano
2000, apparso nel 1906 sull’«Illustração Portugueza».)
L’ininterrotta parentesi fantastica fino
alla «Colecção Azul»
Per l’ambito
“fantastico” in senso più ampio, invece, il Portogallo e la sua letteratura mostreranno
un interesse e un’inclinazione che non s’interromperanno mai – sino ai nostri
giorni.
È
stato merito dell’Editorial Caminho, tra gli anni Ottanta e Novanta, nella sua
«Colecção Azul», quello di far
conoscere – o riscoprire – racconti, novelle e romanzi classificabili come fantastici, che appartengono alla
produzione di poeti e scrittori sicuramente “non di genere”. Nella collana,
accanto a titoli ormai notissimi anche fuori dei confini lusitani, come il
lungo racconto Um Jantar Muito Original
di Fernando Pessoa[17],
è così apparso Mário de Sá-Carneiro e i suoi A Confissão de Lúcio, A
Grande Sombra, A Estranha Morte do
Professor Antena, O Fixador de
Instantes[18] (gli
ultimi tre inclusi originariamente in Céu
em Fogo[19], del
1915).
Amico
di Pessoa e, con questo, condirettore della rivista «Orpheu», Sá-Carneiro è tra
le personalità di spicco del modernismo portoghese. A Confissão de Lúcio, del 1914, si articola su una struttura
«gialla» sulla scia dei racconti fantastici di Poe; struttura, tuttavia,
“decostruita” (con Sá-Carneiro siamo in piena avanguardia) in chiave funzionale
alla confessione, per l’appunto, dell’io narrante. Al centro della vicenda un
triangolo amoroso, e i temi della follia, della passione anormale – omosessuale
– e del suicidio (Sá-Carneiro morrà suicida a Parigi due anni dopo, nel 1916, a
soli 25 anni).
(Un’immagine
del modernista Mário de Sá-Carneiro)
Da
ricordare pure Il principe dalle orecchie
d’asino e Ci sono più mondi (O Príncipe com Orelhas de Burro, 1942; Há Mais Mundos, 1962), del modernista
più tardo José Régio. Le avventure di
Giovanni senza paura (As Aventuras Maravilhosas
de João Sem Medo, 1963) di José Gomes Ferreira: un «panfleto mágico» e un «divertimento literário» destinato ai
giovani lettori, con un personaggio fanfarone all’interno di molti universi
magici: il proprio e quelli delle altre figure incontrate sul cammino; ma anche
una profonda parabola ironica sul fascismo portoghese e sull’arretratezza di
una nazione intera. I racconti raccolti in Contos
do Gin-Tonic (1973) e in Novos Contos
do Gin (1974) del surrealista (e pittore) Mário-Henrique Leiria, e i suoi –
più prettamente fantascientifici, e caustici come tutta la produzione
dell’autore – Casos do Direito Galáctico
(1975): cinque «casi esemplari sottoposti ad analisi nel Corso di Diritto
Galattico per studenti della federazione mista (umanità del 1º Agglomerato
Stellare) all’Università Regionale di Aldebaran 3»[20].
E O Físico Prodigioso (1966) del
poeta Jorge de Sena: una novella cavalleresca narrata adottando un registro
linguistico “medievale”, che prende il via da un patto col Demonio.
Ma
proseguendo in questa digressione – o salto temporale – offerta dai recuperi
“fantastici” della «Colecção Azul»
avremo modo di incontrare altre figure, tanto rilevanti quanto forse
misconosciute. È il caso – come vedremo – di Romeu de Melo, uno
scrittore-chiave per la comprensione del fenomeno fantascientifico lusitano e
della sua originalità, e al tempo stesso il simbolo della transizione verso una
vera e propria letteratura di genere.
[1] ‘Il ritratto di
Venere’.
[2] Amore
di perdizione, tradotto in vari idiomi – dall’inglese fino al norvegese ed al cinese – è probabilmente la più celebre storia
passionale del panorama letterario lusofono (peraltro ispirata alle vere
vicende dello zio dello stesso autore, Simão António Botelho, recluso per
omicidio nelle carceri di Oporto). Da Amor
de Perdição sono stati0 tratti ben quattro film e vari adattamenti
televisivi.
[3] ‘Lo scheletro’.
[4] ‘Il teschio della martire’. Il romanzo si
svolge all’epoca dell’inquisizione.
[5] ‘I misteri di
Lisbona e dei suoi delitti’.
[6] ‘Il libro nero di
Padre Diniz’ e ‘Cose
impressionanti,
incredibili’.
[7] Tradd. italiane: Il crimine di Padre Amaro, La reliquia, I Maia, L’illustre casata dei
Ramires.
[8] Cfr. nota 17.
[9] ‘Leggende di santi’.
[10] ‘Dizionario di miracoli’.
[11] «Sotto la nudità forte della
realtà il manto diafano della fantasia»: è la frase che, sette anni più tardi,
farà da sottotitolo al romanzo A Relíquia.
[12] ‘Racconti tradizionali del
popolo portoghese’.
[13] Teófilo Braga sarà anche
autore di Frei Gil de Santarém (1905),
libro imperniato sulla leggenda del monaco santo e medico del Medioevo
portoghese che firma – una sorta di Faust ante
litteram – il patto con il
Diavolo.
[14] ‘La dama Piè-di-Capra’.
[15] ‘Ciò che sarà il
mondo nell’anno tremila’.
[16] Anche se, secondo
alcuni, il primo vero testo fantascientifico portoghese sarebbe l’articolo Lisboa no Ano 2000, dell’ingegnere
civile Mello de Mattos, apparso in un numero della rivista «Illustração Portugueza»
nel 1906. Vi compare una descrizione della futura capitale portoghese come il
fremente centro mondiale, all’avanguardia in ogni campo d’innovazione
tecnologica: primo fra tutti quello dei trasporti (con la sua metropolitana
sopraelevata e il tunnel sotto il fiume Tago che la collega a Seixal).
[17] Trad. italiana: Una cena molto originale.
[18] ‘La confessione di
Lúcio’, ‘La grande ombra’, ‘La strana morte del professor Antena’, ‘Il
fissatore di istanti’.
[19] ‘Cielo in fiamme’.
[20] Mário-Henrique Leiria fu, tra l’altro,
anche traduttore di opere di fantascienza: sua, ad esempio, la versione
portoghese di un classico fra i romanzi distopici come Brave New World (trad. it.: Il
mondo nuovo) di Aldous Huxley (1932).
BREVE STORIA DELLA FANTASCIENZA (E DEL FANTASTICO) IN
PORTOGALLO di Stefano Valente
I.
GLI ESORDI
La
prima “caravella del pensiero”: la Passarola
di padre Bartolomeu de Gusmão
Senza
tener conto della coppia mitica di Dedalo e di suo figlio Icaro, che
fugge dal labirinto di Cnosso grazie ad ali artificiali, il primo
uomo a spiccare il volo sarebbe stato un portoghese: padre Bartolomeu
de Gusmão.
Siamo
nell’anno 1709, lo scenario è la Casa da Índia di Lisbona,
l’istituzione che amministra i territori e i commerci delle colonie
lusitane. Il gesuita Bartolomeu Lourenço de Gusmão è un giovane e
geniale inventore: si è appena trasferito dal natio Brasile –
allora dominio della corona portoghese – dove si è già segnalato
per la costruzione di un sistema idraulico per pompare le acque
fluviali nel seminario dei suoi studi. Ma il congegno che adesso
esibisce, alla presenza della nobiltà e del re Dom João V, è
strabiliante: si tratta di un vascello volante, in grado di sollevare
in aria il suo manovratore.
In
realtà della Passarola, o Barcarola – come è
tuttora ricordata – del «sacerdote volante» sappiamo assai poco.
Doveva essere una sorta di mongolfiera o dirigibile ante litteram,
tanto che un cronista dell’epoca parla di un globo di cartone
pesante al cui fondo era posta una caldaia con del fuoco. Di sicuro
si trattava di un progetto che solleticava la fantasia dei regnanti,
aprendo prospettive fino ad allora inimmaginabili sia nel campo
commerciale che in quello delle applicazioni militari.
Ad
ogni buon conto, da quell’8 di agosto del 1709, la Passarola fa
il suo ingresso nell’immaginario collettivo di un intero popolo.
Una presenza che – è il caso di dirlo – non ha mai smesso di
aleggiare nelle visioni lusitane. Ritroveremo la Passarola
e il suo creatore, quel «padre voador» Bartolomeu de
Gusmão, come elementi-cardine di Memoriale del Convento (Memorial
do Convento, 1982), l’opera più nota di José Saramago, premio
Nobel per la letteratura.
(Una
rappresentazione della Passarola di padre Bartolomeu de
Gusmão)
(La
copertina di Memorial do Convento di José Saramago: tra i
protagonisti del romanzo di padre Bartolomeu de Gusmão e il suo
veicolo volante, la Passarola)
Per
parlare del fantastico e della fantascienza in Portogallo cominciamo
allora dalla navicella volante di Bartolomeu de Gusmão. La Passarola
simbolizza alla perfezione l’ansia esplorativa e immaginifica
di un popolo e di una cultura: a partire dal 1500 – il secolo della
massima espansione dell’impero coloniale lusitano – i portoghesi
si avventurano sempre oltre e al di là: oltre i
minuscoli confini della patria e – il più delle volte, e
fatalmente – ben al di là dei loro mezzi e possibilità. La
Storia, e la stessa geografia, finiranno per ridimensionare i sogni
di grandezza dell’angolo più occidentale d’Europa. Il popolo
portoghese, tuttavia, non cessa di sognare – di proiettarsi su
nuove terre da scoprire, su nuovi oceani da solcare. Quantomeno con
le “caravelle del pensiero”…
Leggende
araldiche, giganti, mostri ed esseri marini: epica e tradizione
A
dire il vero l’elemento fantastico “abitava” già da tempo
nella tradizione e nelle coscienze lusitane. In campo letterario
l’Amadis de Gaula, verosimilmente attribuito a João de
Lobeira – trovatore ai tempi dei re Dom Afonso III e Dom Dinis
–, del XIII secolo, è senza dubbio il capostipite della
narrativa d’immaginazione ad occidente della Penisola Iberica: vi
si narrano le gesta eroiche di Amadigi, cavaliere innamorato della
principessa Oriana, i suoi combattimenti contro giganti e mostri.
Da
ricordare poi, in età cinquecentesca, la Crónica do Imperador
Clarimundo, scritta da João de Barros – il «Tito Livio
portoghese», nonché grande grammatico –: un’opera, secondo
alcuni1,
fitta di elementi riconducibili al meraviglioso di matrice celtica
(stregonerie, filtri magici, giganti, sogni premonitori), e tuttavia
ben combinati con l’immaginario di tradizione cristiana. E certo
una menzione merita anche il teatro di Gil Vicente com i suoi
numerosi Autos2
– ad esempio le famose Barca do Inferno, Barca do
Purgatório e Barca da Glória.
Al
centro degli interessi di questa nazione di navigatori, ben più che
le tematiche cavalleresche, vi è però il mare e i suoi misteri. In
uno dei più antichi manoscritti dell’Archivio Nazionale della
Torre do Tombo, il Nobiliário del Conte di Barcelos Dom Pedro
(1287-1354, figlio naturale del re Dom Dinis), si fa risalire
l’origine del lignaggio dei Marinho all’incontro tra un cavaliere
e una sorta di sirena, e al loro successivo matrimonio. Duecento anni
dopo, nel 1554, nell’Urbis Olisiponis Descriptio del grande
umanista Damião de Góis, incontriamo una digressione sopra sirene e
tritoni, e circa il relativo contratto di dominio su queste
creature3.
C’è
poi il mostro marino – o meglio: oceanico – per
eccellenza, il simbolo dei pericoli affrontati dalle caravelle
portoghesi lanciate verso l’ignoto: è il gigante Adamastor,
personificazione del Capo delle Tempeste, con cui se la vedranno gli
eroi cantati da Camões nel poema epico nazionale, Os Lusíadas.
È l’impresa di Vasco da Gama, la flotta lusitana che conquista la
via per le Indie – la consacrazione dell’Era dos
Descobrimentos, la celebrazione dell’impero coloniale
portoghese.
(Gigante
Adamastor, azulejo di Jorge Colaço, 1933 – Centro Cultural
Rodrigues de Faria, Forjães)
L’eco
del tremendo Adamastor risuonerà fino al Novecento, nell’opera di
Fernando Pessoa Mensagem (1934), che rievoca e rielabora il
mito dell’Epoca delle Scoperte: qui, nella poesia O Mostrengo,
Pessoa descrive un’inquietante creatura alata che «sta alla fine
del mare», e vola tutt’attorno ai bastimenti domandando chi osi
violare le onde tenebrose del suo regno (si tratta ovviamente dei
temerari piloti del re Dom João II: sono sue le navi che sfidano i
limiti del mondo):
In
una notte tenebrosa, il mostro
Che
là dimora dove ha fine il mare
S’alzò
in volo, girò intorno alla nave
Tre
volte e disse: «Chi è che ha osato entrare
Nelle
caverne mie sempre nascoste,
Negli
antri oscuri dove ha fine il mondo?».
E,
tremando, disse il timoniere:
«Il
nostro Re Don Giovanni Secondo! ».
«Di
chi son queste vele in cui m’impiglio?
Di
chi le chiglie che ora vedo e sento?»,
Esclamò
il mostro e roteò tre volte,
Tre
volte girò intorno, immondo, enorme.
«Chi
vien qui a fare ciò che sol io posso,
Io
che dimoro dove mai fui visto
E
i terrori del mare senza fondo
Corro?».
Tremando, il timoniere disse:
«Il
nostro Re Don Giovanni Secondo!».
Le
mani alzò tre volte dal timone,
Tre
volte le rimise sulla barra,
Tremò
tre volte e disse: «Qui alla guida
Della
nave non c’è soltanto un uomo:
C’è
una Nazione che al tuo mar anela;
E
più del mostro che il mio cuore teme
E
che dimora dove ha fine il mondo,
comanda
me e mi lega a questo legno
Ciò
che vuole Don Giovanni Secondo!»4.
Padre
António Vieira e la smisurata utopia del «Quinto Impero»
Ad
ogni modo, al di là del contesto leggendario e tradizionale, lo
sviluppo di una letteratura di vera e propria tematica fantastica si
farà attendere per lungo tempo in Portogallo. Così, la chiusura del
XVII secolo e il principio del ’700 sono segnati dalla smisurata
utopia di Padre António Vieira (1608-1697) e della sua História
do Futuro (edita
postuma, nel 1718): in questo testo il filosofo e missionario gesuita
articola minuziosamente il «Quinto Impero» e la società perfetta
che esso instaurerà, diffondendo il cristianesimo nel mondo intero.
Il tutto, naturalmente, sotto il dominio di un sovrano portoghese
(quel Dom Sebastião scomparso sul campo di battaglia – nel cui
ritorno il popolo lusitano non smetterà mai di sperare – e poi Dom
João IV). L’Inquisizione portoghese, dopo un lungo processo,
condannerà Padre Vieira e la sua visione millenaristica: il gesuita
aveva infatti parlato del Quinto Impero in una lettera indirizzata al
vescovo del Giappone.
Il
XVIII secolo vede il repêchage
mitologico greco-romano di António José da Silva (Anfitrião,
ou Júpiter e Alcmena,
As Variedades de
Proteu, il Labirinto
de Creta, il
Precipício de Faetonte
ecc.), e l’interesse per l’orrore soprannaturale degli autori
dell’Arcadia (con Manuel de Figueiredo, Pedro Correia Garção,
Domingos dos Reis e altri) e della cosiddetta «Nuova Arcadia» (si
pensi al preromantico Manuel Maria du Bocage).
1
António José Saraiva e Óscar Lopes nella História
da Literatura Portuguesa.
2
Letteralmente ‘Atti’.
3
Entrambi i documenti sono segnalati dallo scrittore, storico e
saggista Álvaro de Sousa Holstein (Na
Periferia do Império
– Encontros de Ficção Científica, Porto/Cascais 1996).
4
La traduzione, libera, è tratta dal sito Mensagem
– Il Portogallo di Fernando Pessoa.
Di seguito il testo originale:
O
mostrengo que está no fim do mar
Na
noite de breu ergueu-se a voar;
À roda
da nau voou três vezes,
Voou
três vezes a chiar,
E
disse: «Quem é que ousou entrar
Nas
minhas cavernas que não desvendo,
Meus
tectos negros do fim do mundo?»
E o
homem do leme disse, tremendo:
«El-Rei
D. João Segundo!»
«De
quem são as velas onde me roço?
De quem
as quilhas que vejo e ouço?»
Disse o
mostrengo, e rodou três vezes,
Três
vezes rodou imundo e grosso,
«Quem
vem poder o que só eu posso,
Que
moro onde nunca ninguém me visse
E
escorro os medos do mar sem fundo?»
E o
homem do leme tremeu, e disse:
«El-Rei
D. João Segundo!»
Três
vezes do leme as mãos ergueu,
Três
vezes ao leme as reprendeu,
E disse
no fim de tremer três vezes:
«Aqui
ao leme sou mais do que eu:
Sou um
Povo que quer o mar que é teu;
E mais
que o mostrengo, que me a alma teme
E roda
nas trevas do fim do mundo;
Manda a
vontade, que me ata ao leme,
De
El-Rei D. João Segundo!»
Fernando
Pessoa,
Mensagem,
Mar
Portuguez, IV. O
Mostrengo.
(La poesia porta la data 9 settembre 1918; Mensagem
è
pubblicato nel 1934).
LE VIE DELLE STELLE
di Fabio Calabrese
(Fabio
Calabrese, LE VIE DELLE STELLE, Scudo
Edizioni, Bologna)
Il cervello umano è diviso in due
emisferi: l'emisfero sinistro, logico, razionale, in possesso delle abilità
linguistiche e numeriche, e l'emisfero destro, emotivo, creativo, sede delle
emozioni e dei sentimenti. E' una cosa curiosa, ma anche nella narrativa di
fantascienza sembra esistere una divisione analoga: esiste una parte di essa
che sembra essersi assunta l'incarico di delucidarci sul nostro possibile
futuro: fantascienza sociologica ed ecologica che ci parla di possibili
catastrofi ambientali, e non ci dipinge di certo un quadro molto ottimistico
dei domani che ci attendono, oppure fantascienza tecnologica che ci porta
addentro ai misteri della robotica e dell'informatica, a esplorare le realtà
virtuali e conoscere le intelligenze artificiali.
Questo è, per così dire, l'emisfero
sinistro della fantascienza. L'emisfero destro è imperniato sulle saghe
galattiche e oggi come oggi sembra essere soprattutto un rimbalzo della
produzione mediatica che ripropone in una serie di varianti gli eroi di Star
Trek e di Star Wars. In qualche modo l'evidenza visiva, l'impatto
dato al pubblico dallo schermo grande o piccolo, cinematografico o televisivo,
supplisce alla mancanza di plausibilità.
Entrambe cercano in qualche modo di
aggirare un dato di fondo: l'esplorazione dello spazio e l'espansione umana nel
Cosmo non sono più, com'era per la fantascienza dei primordi, un'immagine
attendibile di ciò che il futuro può avere in serbo per noi. I pianeti del
sistema solare sono dei deserti inabitabili e privi di vita, mentre le stelle
sono poste a distanze incommensurabili rispetto a noi, perse “nel buio degli
anni luce” e che alla velocità della luce stessa, la massima raggiungibile, un
viaggio fino ad esse impiegherebbe secoli o millenni.
I due emisferi del cervello umano non
sono separati, sono congiunti da un'area che si chiama corpo calloso, che
permette connessioni e scambi fra uno e l'altro che fanno si che la nostra
scatola cranica non sia abitata da due diverse personalità, ma da una
personalità unica in cui si equilibrano aspetti razionali ed emotivi.
Esiste, esiste ancora, è ancora
possibile un corpo calloso della fantascienza? E' possibile scrivere storie di
avventura spaziale che tengano conto delle nostre reali conoscenze sulla natura
del sistema solare e dell'universo? Io credo di poter dire che queste storie
costituiscono una risposta affermativa.
Il sistema solare, tanto per cominciare,
rimane alla nostra portata, anche se siamo ormai certi che non incontreremo né
i marziani né i venusiani né le creature provenienti dalla sesta luna di Giove
con cui ci ha terrorizzati Robert Heinlein, ma c'è comunque una specie con la
quale non finiremo mai di confrontarci e che non cessa di fornire spunti
narrativi all'immaginazione: la specie umana.
Partiamo dalla Luna. Il satellite del
nostro pianeta è quasi la nostra periferia, è stato raggiunto dagli uomini nel
1969, e sappiamo che è un enorme ciottolo cosmico privo di vita e di atmosfera.
Ma ... se per esempio il famoso monolito immaginato da Arthur C. Clarke in 2001,
Odissea nello spazio esistesse davvero? E' il tema del racconto Zagadoka.
Certo la Luna rispetto alle distanze
cosmiche è il cortile dietro casa, ma è pur sempre il nostro avamposto nello
spazio, e gli incontri che potremmo fare sul suo suolo sono davvero
imprevedibili, ad esempio, che ne direste di un alieno di cristallo,
un’astronave vivente venuta da sei secoli nel futuro? Ve lo racconto in Crystal.
C'è almeno un vantaggio nell'avere i
capelli grigi: il fatto di essere vissuto e di essere già stato attivo come
autore in un'epoca in cui certe idee sulla natura del sistema solare non
avevano perso del tutto attendibilità. Il 20 giugno 1976, la sonda spaziale
americana Viking 1 raggiunse la superficie di Marte e cominciò a trasmettere
alla Terra immagini del pianeta rosso, che fra le altre cose ne hanno
dimostrato in maniera lampante l'inesistenza di vita attuale (se Marte possa
averne ospitata in passato, se ne discute ancora). Giusto la sera prima,
scrissi il racconto I figli del deserto. Già allora, i sospetti circa
l'inesistenza dei marziani erano fortissimi, ma prima che questo mito svanisse
del tutto, perché non fare un ultimo tuffo nel Marte sognato da Ray Bradbury e
Leigh Brackett, non respirare ancora un po' di aria nostalgica e prendersi, in
fondo, l'onore di chiudere un'epoca della fantascienza?
“Terraforming” o, con un brutto
neologismo talvolta italianizzato in “terraformazione” è la serie di trasformazioni
che si possono mettere in atto su di un pianeta alieno per renderlo quanto più
simile alla Terra e adatto a ospitare la vita umana. Il pianeta più adatto per
tentare un terraforming, è ovviamente Marte, come si narra nel racconto
omonimo, ma non aspettatevi che tutto fili liscio.
Un Marte terraformato potrebbe offrire
rifugio ai superstiti della nostra specie il giorno che l'umanità terrestre
cadesse in una crisi convulsa, ma quando costoro o i loro discendenti dovessero
tornare sul pianeta madre, potrebbero trovarvi una sorpresa molto sgradita, è
quanto vi racconto in Gaia.
Saremmo più fortunati se un pianeta
cominciasse ad avviare spontaneamente una sorta di terraforming naturale con
solo un piccolo aiuto da parte nostra. Questo potrebbe accadere a Venere, se la
temperatura di 600 gradi al suolo che attualmente lo caratterizza, cominciasse
ad abbassarsi. Ma attenzione, questo avviene perché il sole è prossimo a
esaurire la sua scorta di idrogeno e a trasformarsi in nova. Ve lo racconto in Un
giorno da leoni.
Poiché ci siamo spinti in direzione di
Venere, potremmo ancora proseguire verso il sole e incontrare Mercurio, il
pianeta più vicino alla nostra stella, anch'esso un gigantesco sasso cosmico,
in più calcinato dalla vampa solare, e questo potrebbe mettere in una posizione
molto scomoda chi si trovasse sul Ponte di comando di un'astronave che
deve passare da quelle parti.
In direzione opposta, troviamo Giove, il
pianeta gassoso gigante. Secondo una teoria in voga anni addietro, esso sarebbe
una sorta di stella abortita ed emanerebbe una radiazione termica che potrebbe
rendere abitabili i suoi satelliti e gli asteroidi dell'omonima cintura,
facendo di questi ultimi un buon luogo, uno sfondo plausibile per ambientarvi
una storia di fantascienza. L'ho fatto con Una volta o l'altra, anche se
la ragion d'essere di questo racconto è quella di presentare una possibile
eccezione al secondo principio della termodinamica.
Giove, il gigante gassoso del sistema
solare, se volessimo esplorarlo ci imbatteremmo subito in una grossa
difficoltà, le enormi pressioni capaci di schiacciare qualsiasi organismo e
qualsiasi oggetto ben prima di averne raggiunto la superficie. Però, mi era
capitato di leggere in Ai limiti del conosciuto di Jacques Bergier
(co-autore assieme a Louis Pauwels del celeberrimo Mattino dei maghi)
un'idea interessante: un veicolo composto da un unico “foglio” bidimensionale
di circuiti stampati avrebbe solo due facce che sarebbero soggette a una
pressione uguale su entrambe, sarebbe il mezzo ideale per esplorare gli abissi
oceanici e – ho subito pensato – anche quelli gioviani. A volte succede che
un'idea ne trascina con sé una concatenazione di altre: un veicolo del genere
(che ho subito battezzato nastronave) dovrebbe essere per forza
teleguidato, e meglio di tutto se fosse un veicolo tipo waldo con il
driver che ha l'impressione di trovarsi a bordo di esso, o addirittura che esso
sia il suo corpo, anche se fisicamente non è lì. Meglio ancora, se il pilota
fosse una persona nata con gravi malformazioni e abituata a servirsi di protesi
fin dalla nascita. Ho pensato alla menomazione più grave, un individuo che in
pratica è solo un sistema nervoso senza corpo. Questa persona non avrebbe
neppure sesso, o il suo sesso cambierebbe di volta in volta a seconda dei waldo
in cui è inserita. Noi forse non ci rendiamo neppure conto con chiarezza di
quanto il sesso condizioni la nostra identità, il nostro modo di rapportarci
agli altri, il modo in cui gli altri si rapportano a noi. Io non vorrei
sembrare presuntuoso, ma il vero modo di procedere della fantascienza dovrebbe
essere proprio questo: si parte da un'idea tecnico-scientifica e se ne scoprono
le implicazioni umane, psicologiche e sociali. In questo modo ha visto la luce
quel racconto del tutto particolare che è Any.
Almeno le stelle più vicine a noi, sono
però del tutto al di fuori della nostra portata? Forse non è detto, e potremmo
studiare dei modi per raggiungerle. Uno potrebbe essere rappresentato da
un'astronave-macchina del tempo, che arretra nel tempo man mano che avanza
nello spazio, un altro potrebbe esserlo dal teletrasporto, sono le ipotesi
sviscerate nei due racconti Erpetofobia e La sagola, che
evidenziano anche come, in un caso e nell'altro potremmo combinare disastri. La
sagola, che è il racconto eponimo di quest'antologia, mi è particolarmente
caro, perché mi permise di uscire da un lungo periodo di blocco narrativo, e
nacque proprio dalla riflessione sull'uso del teletrasporto in un episodio di Star
Trek.
Tuttavia, noi sappiamo che gli autori di
fantascienza hanno inventato modi ingegnosi per consentire ai loro eroi di
superare l'interminabile pista delle stelle: dalla velocità superiore a
quella della luce, la mitica overdrive, all'utilizzo della deformazione
o curvatura dello spazio-tempo, fino ad
arrivare a Star Trek dove con la “velocità curvatura” si
utilizzano entrambi.
Cosa dire a tal proposito? Io azzarderei
che non sia consigliabile usare tali espedienti, che non hanno ovviamente
plausibilità scientifica, se non con parsimonia, e se non quando sono
giustificati dal fatto che la narrazione ha in vista finalità diverse
dall'ipotizzare il nostro futuro, cioè quando acquisisce più scopertamente il
valore di metafora. Faccio un esempio: I reietti dell'altro pianeta di
Ursula Le Guin è una narrazione ambientata negli spazi, ma in realtà si tratta
di una moderna filiazione della narrativa utopica, e l'autrice fa bene a non
impacciarsi con questioni tecniche estranee al suo argomento, e non abbiamo il
diritto di pretenderle come non le pretenderemmo da Platone, Thomas More,
Bacone, Campanella o Swift.
Come potete vedere, per quanto mi
riguarda, io qui vi porto quattro esempio di trasgressione della regola, ma
sempre per giustificati motivi. Stella di neutroni. In questo caso, il
racconto è stato costruito intorno a una teoria cosmologica, che non ho altro
modo di presentare, e che è quella illustrata dal professor English. Macché
materia o energia oscura, ciò che spiegherebbe la “compattezza” gravitazionale
delle galassie potrebbe essere il fatto che non sono se non dei giganteschi
gorghi intorno a buchi neri supermassicci. Chissà che in questa forma non
arrivi alle orecchie di qualche ricercatore dotato dei titoli accademici e
degli strumenti giusti per svilupparla!
In altri casi, (fare finta di)
dimenticare l'invalicabilità dello spazio interstellare può essere giustificato
in un racconto che ha fini polemici, satirici o semplicemente umoristici. Un
buco nel cielo, Il connettore e Il ricorso sono tre esempi in questo
senso. Un buco nel cielo nacque come “risposta” al racconto La
sindrome lunare di Vittorio Curtoni, dove si immagina che in una colonia
spaziale, per le particolari condizioni ambientali si vada incontro a una
perdita della parte inconscia e irrazionale della mente. Io ho provato piuttosto
a pensare a una perdita della razionalità, appoggiandola alla teoria del
cervello tripartito (il nostro cervello sarebbe in pratica formato da tre
cervelli sovrapposti, il più antico che abbiamo in comune coi rettili e i
vertebrati inferiori, il secondo, il cervello-mammifero, e infine il terzo, la
neocorteccia, specificamente umano. In determinate circostanze, sono gli strati
inferiori a prendere il sopravvento sulla parte più evoluta).
Il connettore è una parodia di Star Trek con qualche
allusione al connettivismo e Giovanni De Matteo, tanto per non farci mancare
nulla, e Il ricorso semplicemente un racconto umoristico. In entrambi i
casi, preferisco non darvi anticipazioni per non rovinarvi l'effetto delle gag
finali.
Adesso farò io una domanda a voi: a
conclusione di questa carrellata, pensate che l'avventura spaziale sia davvero
morta o che non sia invece viva e con ancora qualche buona freccia nel suo
arco?
ELEKTRON
Cinzia
Baldini - Linee Infinite Edizioni
L’antico
Egitto non cessa di esercitare i suo fascino. Una civiltà che si
perde nella notte dei tempi, e che si fonda su miti avvincenti e
misteriosi, puntualmente torna a ispirare gli scrittori di
fantascienza. Così avviene in questo romanzo di Cinzia Baldini, con
tutte le carte in regola per la sua appartenenza al genere. Il libro
si posiziona degnamente nel contesto di una narrativa che fa della
fantaegittologia il suo cavallo di battaglia.
La storia
procede su due piani. In uno troviamo le vicende legate alla
dottoressa Nur Hammand, giovane e affascinante archeologa, che
coniuga il suo amore professionale per le antichità egizie con
l’affetto e l’attrazione erotica per Patrick, un giovane studioso
della Svizzera francese. Nell’altro seguiamo le avventure dei
componenti della missione “Ank-taui”, provenienti dal misterioso
pianeta Proteros e sbarcati sul suolo terrestre qualcosa come
trentacinquemila anni fa. Ovviamente un filo unisce le due storie
che, pur procedendo parallele, rinviano fatti e significati l’una
all’altra fino alla rivelazione finale.
Chi sono i
proteriani? Che cosa sono venuti a fare sulla Terra? Il lettore se lo
chiede, pagina dopo pagina, soprattutto attraverso le vicissitudini
della bella dottoressa di origini egiziane, alla quale ne capitano
appunto di tutti i colori: viene rapita da misteriosi delinquenti e
rischia perfino la vita. Ciò che fa da anello di congiunzione è uno
strano oggetto, un singolare reperto archeologico, che si chiama
“Djed”. Questo ha il potere di produrre delle specie di visioni
in chi se lo tiene vicino. Nur è il soggetto destinato a fare tali
esperienze misteriose che hanno a che vedere con la dimensione
extrasensoriale.
Il romanzo offre il piacere di percorrere i
meandri di un affascinante mistero. Anche se i contorni fondamentali
di esso appaiono prevedibili fin dai primi capitoli, le ragioni
profonde, che legano avvenimenti vicini e lontani, sono avvolti da
una nebbia che solo a poco a poco viene dissolta attraverso un gioco
di fatti e rivelazioni sapientemente orchestrati. E la tesi, quindi,
dell’origine extraterreste degli esseri umani (perché è di questo
che si parla) viene argomentata con l’apporto di nozioni
interessanti di cui il lettore prende coscienza attraverso la
dimensione avventurosa.
Si tratta di una questione
intrigante, non nuova per la fantascienza, ma sempre in grado di
catturare l’attenzione del lettore. È un argomento che, a mio
modesto avviso, ha legittimità e si affronta con piacere sul terreno
della narrativa d’invenzione. Ricordo, invece, di avere provato una
noia mortale, anni fa, durante la lettura dell’unico libro di Peter
Kolosimo che mi era capitato fra le mani. In esso si trattava proprio
dell’origine extraterrestre dell’umanità. Ma quel parlarne con
pretese scientifiche (forse erano anch’esse sottili invenzioni),
quel calcare il terreno con materiale del tutto rigorosamente
documentabile ma per nulla convalidabile, mi dava la sensazione di
una mera perdita di tempo. Tutt’altra cosa è la lettura di un
romanzo di fantascienza. In questo caso, il patto narrativo risulta
del tutto chiaro: chi vi si accosta sa di trascorrere qualche ora di
piacevole e onesto esercizio della fantasia, magari riuscendo non
solo a divertirsi, ma ad arricchire un po’ la propria cultura in
materia.
È il caso di questo romanzo, scritto bene, con
abilità nell’intrecciare situazioni, personaggi, ambientazioni e
colpi di scena sullo sfondo del sempre affascinante mondo dell’antico
Egitto.
Giuseppe
Novellino
ROMAGICK di Claudio
Foti
(Claudio
Foti, ROMAGIK, Arpeggio Libero Editore)
La
raccolta consta di 24 storie ambientate nel passato, nel presente e nel futuro.
Storie con un forte fondamento storico come San Silvestro o Halos
Veni, storie attuali e lovecraftiane al tempo stesso come Il palazzo di
via S. Eustachio e Interessi letterari, storie vampiriche come Una
notte di sangue e dannazione e Farkaskoldus, storie inquietanti e
attuali come La Prima volta o Lo squarcio solo per citarne
alcune ma come non aggiungere per esempio racconti, a mio avviso,
sbalorditivi come Terribilis est locus iste, Roma, Lycaonia, Pantheon,
Porrophagus o i futuristici Anfis-Ibenas e La Vecchia? Questa
interessantissima raccolta di racconti ha come sfondo la Città Eterna. Una
città però molto diversa da come la conosciamo o da come viene rappresentata in
televisione e nei cinema. Una città inquieta, a volte sordida, ma allo stesso
tempo ammantata di quel velo di magia che la rende speciale e unica. Certo un
ritratto fuori dagli schemi, racconti fuori dagli schemi, storie fuori di
testa. Terribili e accattivanti, piacevoli e meno piacevoli, a volte
inquietanti a volte ossessive.
TIMESCAPE
di Gregory Benford
(Gregory Benford, TIMESCAPE, Ed.
Cosmo)
Bisogna sfuggire al tempo o a
un pericolo che inesorabilmente attende in un prossimo futuro?
Questo è l’interrogativo che accompagna il lettore per quattrocento pagine di
narrazione serrata. Ma a lui si offrono
altri quesiti di carattere scientifico, sempre riguardanti la speculazione e
l’indagine della fisica moderna.
Al centro di tutto ci sono i tachioni, particelle che corrono a una velocità
superiore a quella della luce. E quando un gruppo di scienziati si mette a
giocare con essi, intravede la possibilità di utilizzarli come macchina del
tempo. Lo scopo è quello di mandare un messaggio agli scienziati di quarant’anni prima per indurli a desistere
dallo sconsiderato uso di sostanze chimiche capaci di cambiare il clima
terrestre, innescando un meccanismo perverso, sovvertitore dell’equilibrio
oceanico. Insomma, si delinea l’idea di scongiurare la catastrofe già in atto,
modificando i comportamenti che l’hanno determinata. Quindi non si tratta di
spostamenti fisici , ma di un più realistico crono viaggio di messaggi a
cavallo di particelle infinitesimali e capricciose, le quali hanno proprio la
caratteristica di rendere il tempo una realtà verosimilmente manipolabile e in
qualche modo esplorabile.
La vicenda si muove su due binari: il 1998 e il 1963. Nel primo periodo
troviamo un gruppo di personaggi (scienziati dell’università di Cambridge)
impegnato nella trasmissione del messaggio di avvertimento; nel secondo le
persone destinate a riceverlo. Solo che né i primi, né i secondi hanno vita
facile, scientificamente e professionalmente parlando. Immaginatevi i questi
ultimi nella fatica di darla a intendere a colleghi parrucconi o a politici
ultraprudenti; tra l’altro non sono essi stessi del tutto sicuri che i loro
messaggi (specie di “risonanze” dei tachioni) risultino del tutto accettabili,
comprensibili ed efficaci. La posta è alta: salvare il pianeta da una
catastrofe che si potrebbe evitare con l’adozione pregressa di comportamenti più
prudenti.
Il romanzo è intrigante per la sua idea e per le considerazioni scientifiche
(spiegate in modo chiaro) che rendono assai
convincente l’aspetto fantastico della storia. Un po’ meno interessante,
a mio avviso, risulta tutta la parte riguardante la vita quotidiana e
sentimentale dei personaggi principali,
che spesso apre siparietti troppo lunghi e a volte un tantino giustapposti. Di
notevole interesse è invece la descrizione dell’attività accademica, tra ricerca
e realizzazione tecnologica, che spesso viene ostacolata da gelosie, da
incomprensioni, da meschini sabotaggi e da pastoie burocratiche e politiche.
Dopotutto Gregory Benford è un fisico di professione e quindi parla con
cognizione di causa.
Si tratta di un romanzo ben scritto, meditato a lungo e supportato da nozioni
scientifiche di robusta consistenza. E quella che viene offerta è una
fantascienza alla Fred Hoyle, per intenderci (ricordate il celeberrimo “La
nuvola nera”?), dove l’azione è ridotta al minimo e il fantastico non nasce arbitrariamente
o spregiudicatamente dalle avventure dei personaggi, ma viene dosato e
veicolato dalla teoria scientifica più ortodossa.
Personalmente ho trovato “Timescape”
interessante più che avvincente. Ma c’è da ricordare che alla sua
uscita, nel 1980, vendette un milione di copie e vinse il Premio Nebula; segno
che gli appassionati di fantascienza lo hanno gradito. Si tratta, a mio avviso,
di un romanzo non datato, che sfugge egregiamente alla trappola del tempo.
Giuseppe
Novellino
Stefano Valente – Breve
storia della fantascienza (e del fantastico) in Portogallo - 2
II. IL CUORE “ANTICO” DELLA FANTASCIENZA PORTOGHESE
Le incursioni nel fantastico dell’Ottocento
Sono
numerose le incursioni nel fantastico da parte dei maggiori scrittori
dell’Ottocento portoghese. Per le quali non è possibile, tuttavia, parlare
ancora di una produzione fantascientifica strictu
sensu.
Il
poeta, drammaturgo e diplomatico Almeida Garrett (1799-1854), autore del famoso
romanzo-descrizione del proprio Paese Viagens
na Minha Terra e dei notissimi drammi romantici Camões e Dona Branca, nel
1818 scrive O Retrato de Vénus[1].
L’opera gli costerà l’accusa di «materialista,
ateu e imoral» e un processo giudiziario.
(La
copertina di un’edizione del 1937 de Il
teschio della martire, di Camilo Castelo Branco)
Tra
realismo e romanticismo si pongono i lavori di Camilo Castelo Branco – il primo
autore lusitano che vivrà esclusivamente della propria opera, nominato
soprattutto per Amor de Perdição, del
1862[2]
–: suoi sono O Esqueleto[3],
l’esteso e tenebroso Anátema, A Caveira da Mártir – in cui un cadavere
viene dissepolto per trafugarne il teschio[4]
–, il notissimo Os Mistérios de Lisboa e
dos Seus Crimes (1854)[5],
adattato per il cinema da Raul Ruiz nel 2010; da ricordare pure O Livro Negro de Padre Diniz (il
prosieguo de Os Mistérios de Lisboa) e Coisas
Espantosas[6] che
svolge tematiche sociali.
Non
si può prescindere, poi, dal massimo esponente del realismo portoghese: Eça de
Queiroz (o de Queirós, secondo l’ortografia successiva). A lui si devono
capolavori come O Crime do Padre Amaro
(1875), A Relíquia (1887), Os Maias (1888), A Ilustre Casa de Ramires (1900)[7].
Dalla sua penna nascono racconti di contenuto o sfondo fantastico (e
“agiografico”) quali O Defunto, O Suave Milagre, Santo Onofre, S. Cristóvão,
S. Frei Gil[8],
le Lendas de Santos[9],
Adão e Eva no Paraíso, nonché un Dicionário de Milagres[10]
incompleto. E, soprattutto, la novella O
Mandarim.
Eça de Queiroz e il «paradosso del
mandarino»
Pubblicato
nel 1880, O Mandarim segna
prepotentemente la deriva fantastica
del realismo nella letteratura portoghese. Ed è, per molti versi, una sorta di
manifesto di una nuova, irrimandabile esigenza: per usare le parole dello
stesso Eça de Queiroz «Sobre a nudez
forte da verdade o manto diáfano da fantasia»[11].
Con
l’ironia, a volte crudele, che lo contraddistingue, lo scrittore narra le
vicissitudini e il dramma morale di Teodoro, un mediocre impiegato di Lisbona.
Alla sua porta bussa un giorno uno sconosciuto; ha con sé un campanello: ogni
qualvolta Teodoro lo suonerà, dall’altra parte del mondo, nell’esotica Cina, morrà
un uomo, ma non un uomo qualsiasi: un facoltoso mandarino. E Teodoro, senza
correre alcun pericolo d’essere scoperto, ne riceverà beni e ricchezze.
(La pellicola The Box, di Richard Kelly (2009) è uno dei molti adattamenti
ispirati a O Mandarim di Eça de
Queiroz)
O Mandarim sviluppa
fino alle estreme conseguenze il cosiddetto «paradosso del mandarino» (introdotto
da Balzac nel suo Père Goriot): la
possibilità di uccidere in segreto e impunemente, e la risoluzione nel farlo –
con le relative implicazioni etiche che questo comporta.
La
novella di Eça de Queiroz è stata ripetutamente ripresa e riadattata, più o
meno fedelmente; due esempi per tutti: la commedia musicale Un mandarino per Teo di Garinei e
Giovannini (1960), e il film The Box di
Richard Kelly (2009), il regista di Donnie
Darko.
Ma
per la fantascienza vera e propria – o ficção
científica (FC), per usare il corrispettivo portoghese – i
tempi non erano ancora maturi. Tralasciando di citare opere tuttora di rilievo nell’ambito
della Storia del Folclore (si pensi alle raccolte Contos Tradicionais do Povo Português[12],
pubblicata nel 1834, e Contos Fantásticos,
del 1865, entrambe di Teófilo Braga, che fu tra l’altro il secondo presidente
della giovane repubblica[13],
e poi Lendas e Narrativas – 1851 – del
romantico Alexandre Herculano, in cui spicca il racconto della leggenda A Dama Pé-de-Cabra[14]),
antologie ricche di tutti i contenuti favolosi che le credenze e la tradizione
orale del Paese tramandavano, si dovrà giungere alla fine del XIX secolo per
veder dato alle stampe il primo vero romanzo di genere.
Il cuore “antico” della fantascienza
portoghese
È il
1895: esce O Que Há de Ser o Mundo no Ano
Três Mil[15] di Pedro
José Suppico de Moraes, una visione della società del futuro e un evento
decisamente nuovo nel panorama culturale del momento. Nuovo e paradossale.
Perché il libro è in realtà un recupero dal passato, addirittura dagli inizi
del Settecento!... Suppico de Moraes era infatti il Moço de Câmara, ossia il ciambellano, del re Dom João V. E non sarà
ricordato per la sua “anticipazione del futuro”, ma per le sue due summae di enunciati e massime storiche e
filosofiche: la Colleçaõ Politica de
Apothegmas ou ditos agudos, e sentenciosos, che l’autore dedicherà al
monarca nel 1718, e la Colleçaõ Moral de
Apothegmas ou ditos agudos, e sentenciosos che Suppico de Moraes offrirà
all’Infante Dom Francisco.
Non
è una forzatura definire O Que Há de Ser
o Mundo no Ano Três Mil di Pedro José Suppico de Moraes il primo vero
romanzo fantascientifico lusitano. È però un dato incontrovertibile che la SF,
all’interno dei confini portoghesi, da quel 1895 dell’utopia del Moço de Câmara di Dom João V, segnerà
una nuova battuta d’arresto[16].
(Un’immagine
a corredo dell’articolo Lisboa no Ano
2000, apparso nel 1906 sull’«Illustração Portugueza».)
L’ininterrotta parentesi fantastica fino
alla «Colecção Azul»
Per l’ambito
“fantastico” in senso più ampio, invece, il Portogallo e la sua letteratura mostreranno
un interesse e un’inclinazione che non s’interromperanno mai – sino ai nostri
giorni.
È
stato merito dell’Editorial Caminho, tra gli anni Ottanta e Novanta, nella sua
«Colecção Azul», quello di far
conoscere – o riscoprire – racconti, novelle e romanzi classificabili come fantastici, che appartengono alla
produzione di poeti e scrittori sicuramente “non di genere”. Nella collana,
accanto a titoli ormai notissimi anche fuori dei confini lusitani, come il
lungo racconto Um Jantar Muito Original
di Fernando Pessoa[17],
è così apparso Mário de Sá-Carneiro e i suoi A Confissão de Lúcio, A
Grande Sombra, A Estranha Morte do
Professor Antena, O Fixador de
Instantes[18] (gli
ultimi tre inclusi originariamente in Céu
em Fogo[19], del
1915).
Amico
di Pessoa e, con questo, condirettore della rivista «Orpheu», Sá-Carneiro è tra
le personalità di spicco del modernismo portoghese. A Confissão de Lúcio, del 1914, si articola su una struttura
«gialla» sulla scia dei racconti fantastici di Poe; struttura, tuttavia,
“decostruita” (con Sá-Carneiro siamo in piena avanguardia) in chiave funzionale
alla confessione, per l’appunto, dell’io narrante. Al centro della vicenda un
triangolo amoroso, e i temi della follia, della passione anormale – omosessuale
– e del suicidio (Sá-Carneiro morrà suicida a Parigi due anni dopo, nel 1916, a
soli 25 anni).
(Un’immagine
del modernista Mário de Sá-Carneiro)
Da
ricordare pure Il principe dalle orecchie
d’asino e Ci sono più mondi (O Príncipe com Orelhas de Burro, 1942; Há Mais Mundos, 1962), del modernista
più tardo José Régio. Le avventure di
Giovanni senza paura (As Aventuras Maravilhosas
de João Sem Medo, 1963) di José Gomes Ferreira: un «panfleto mágico» e un «divertimento literário» destinato ai
giovani lettori, con un personaggio fanfarone all’interno di molti universi
magici: il proprio e quelli delle altre figure incontrate sul cammino; ma anche
una profonda parabola ironica sul fascismo portoghese e sull’arretratezza di
una nazione intera. I racconti raccolti in Contos
do Gin-Tonic (1973) e in Novos Contos
do Gin (1974) del surrealista (e pittore) Mário-Henrique Leiria, e i suoi –
più prettamente fantascientifici, e caustici come tutta la produzione
dell’autore – Casos do Direito Galáctico
(1975): cinque «casi esemplari sottoposti ad analisi nel Corso di Diritto
Galattico per studenti della federazione mista (umanità del 1º Agglomerato
Stellare) all’Università Regionale di Aldebaran 3»[20].
E O Físico Prodigioso (1966) del
poeta Jorge de Sena: una novella cavalleresca narrata adottando un registro
linguistico “medievale”, che prende il via da un patto col Demonio.
Ma
proseguendo in questa digressione – o salto temporale – offerta dai recuperi
“fantastici” della «Colecção Azul»
avremo modo di incontrare altre figure, tanto rilevanti quanto forse
misconosciute. È il caso – come vedremo – di Romeu de Melo, uno
scrittore-chiave per la comprensione del fenomeno fantascientifico lusitano e
della sua originalità, e al tempo stesso il simbolo della transizione verso una
vera e propria letteratura di genere.
[1] ‘Il ritratto di
Venere’.
[2] Amore
di perdizione, tradotto in vari idiomi – dall’inglese fino al norvegese ed al cinese – è probabilmente la più celebre storia
passionale del panorama letterario lusofono (peraltro ispirata alle vere
vicende dello zio dello stesso autore, Simão António Botelho, recluso per
omicidio nelle carceri di Oporto). Da Amor
de Perdição sono stati0 tratti ben quattro film e vari adattamenti
televisivi.
[3] ‘Lo scheletro’.
[4] ‘Il teschio della martire’. Il romanzo si
svolge all’epoca dell’inquisizione.
[5] ‘I misteri di
Lisbona e dei suoi delitti’.
[6] ‘Il libro nero di
Padre Diniz’ e ‘Cose
impressionanti,
incredibili’.
[7] Tradd. italiane: Il crimine di Padre Amaro, La reliquia, I Maia, L’illustre casata dei
Ramires.
[8] Cfr. nota 17.
[9] ‘Leggende di santi’.
[10] ‘Dizionario di miracoli’.
[11] «Sotto la nudità forte della
realtà il manto diafano della fantasia»: è la frase che, sette anni più tardi,
farà da sottotitolo al romanzo A Relíquia.
[12] ‘Racconti tradizionali del
popolo portoghese’.
[13] Teófilo Braga sarà anche
autore di Frei Gil de Santarém (1905),
libro imperniato sulla leggenda del monaco santo e medico del Medioevo
portoghese che firma – una sorta di Faust ante
litteram – il patto con il
Diavolo.
[14] ‘La dama Piè-di-Capra’.
[15] ‘Ciò che sarà il
mondo nell’anno tremila’.
[16] Anche se, secondo
alcuni, il primo vero testo fantascientifico portoghese sarebbe l’articolo Lisboa no Ano 2000, dell’ingegnere
civile Mello de Mattos, apparso in un numero della rivista «Illustração Portugueza»
nel 1906. Vi compare una descrizione della futura capitale portoghese come il
fremente centro mondiale, all’avanguardia in ogni campo d’innovazione
tecnologica: primo fra tutti quello dei trasporti (con la sua metropolitana
sopraelevata e il tunnel sotto il fiume Tago che la collega a Seixal).
[17] Trad. italiana: Una cena molto originale.
[18] ‘La confessione di
Lúcio’, ‘La grande ombra’, ‘La strana morte del professor Antena’, ‘Il
fissatore di istanti’.
[19] ‘Cielo in fiamme’.
[20] Mário-Henrique Leiria fu, tra l’altro,
anche traduttore di opere di fantascienza: sua, ad esempio, la versione
portoghese di un classico fra i romanzi distopici come Brave New World (trad. it.: Il
mondo nuovo) di Aldous Huxley (1932).
BREVE STORIA DELLA FANTASCIENZA (E DEL FANTASTICO) IN PORTOGALLO di Stefano Valente
I.
GLI ESORDI
La
prima “caravella del pensiero”: la Passarola
di padre Bartolomeu de Gusmão
Senza
tener conto della coppia mitica di Dedalo e di suo figlio Icaro, che
fugge dal labirinto di Cnosso grazie ad ali artificiali, il primo
uomo a spiccare il volo sarebbe stato un portoghese: padre Bartolomeu
de Gusmão.
Siamo
nell’anno 1709, lo scenario è la Casa da Índia di Lisbona,
l’istituzione che amministra i territori e i commerci delle colonie
lusitane. Il gesuita Bartolomeu Lourenço de Gusmão è un giovane e
geniale inventore: si è appena trasferito dal natio Brasile –
allora dominio della corona portoghese – dove si è già segnalato
per la costruzione di un sistema idraulico per pompare le acque
fluviali nel seminario dei suoi studi. Ma il congegno che adesso
esibisce, alla presenza della nobiltà e del re Dom João V, è
strabiliante: si tratta di un vascello volante, in grado di sollevare
in aria il suo manovratore.
In
realtà della Passarola, o Barcarola – come è
tuttora ricordata – del «sacerdote volante» sappiamo assai poco.
Doveva essere una sorta di mongolfiera o dirigibile ante litteram,
tanto che un cronista dell’epoca parla di un globo di cartone
pesante al cui fondo era posta una caldaia con del fuoco. Di sicuro
si trattava di un progetto che solleticava la fantasia dei regnanti,
aprendo prospettive fino ad allora inimmaginabili sia nel campo
commerciale che in quello delle applicazioni militari.
Ad
ogni buon conto, da quell’8 di agosto del 1709, la Passarola fa
il suo ingresso nell’immaginario collettivo di un intero popolo.
Una presenza che – è il caso di dirlo – non ha mai smesso di
aleggiare nelle visioni lusitane. Ritroveremo la Passarola
e il suo creatore, quel «padre voador» Bartolomeu de
Gusmão, come elementi-cardine di Memoriale del Convento (Memorial
do Convento, 1982), l’opera più nota di José Saramago, premio
Nobel per la letteratura.
(Una
rappresentazione della Passarola di padre Bartolomeu de
Gusmão)
(La
copertina di Memorial do Convento di José Saramago: tra i
protagonisti del romanzo di padre Bartolomeu de Gusmão e il suo
veicolo volante, la Passarola)
Per
parlare del fantastico e della fantascienza in Portogallo cominciamo
allora dalla navicella volante di Bartolomeu de Gusmão. La Passarola
simbolizza alla perfezione l’ansia esplorativa e immaginifica
di un popolo e di una cultura: a partire dal 1500 – il secolo della
massima espansione dell’impero coloniale lusitano – i portoghesi
si avventurano sempre oltre e al di là: oltre i
minuscoli confini della patria e – il più delle volte, e
fatalmente – ben al di là dei loro mezzi e possibilità. La
Storia, e la stessa geografia, finiranno per ridimensionare i sogni
di grandezza dell’angolo più occidentale d’Europa. Il popolo
portoghese, tuttavia, non cessa di sognare – di proiettarsi su
nuove terre da scoprire, su nuovi oceani da solcare. Quantomeno con
le “caravelle del pensiero”…
Leggende
araldiche, giganti, mostri ed esseri marini: epica e tradizione
A
dire il vero l’elemento fantastico “abitava” già da tempo
nella tradizione e nelle coscienze lusitane. In campo letterario
l’Amadis de Gaula, verosimilmente attribuito a João de
Lobeira – trovatore ai tempi dei re Dom Afonso III e Dom Dinis
–, del XIII secolo, è senza dubbio il capostipite della
narrativa d’immaginazione ad occidente della Penisola Iberica: vi
si narrano le gesta eroiche di Amadigi, cavaliere innamorato della
principessa Oriana, i suoi combattimenti contro giganti e mostri.
Da
ricordare poi, in età cinquecentesca, la Crónica do Imperador
Clarimundo, scritta da João de Barros – il «Tito Livio
portoghese», nonché grande grammatico –: un’opera, secondo
alcuni1,
fitta di elementi riconducibili al meraviglioso di matrice celtica
(stregonerie, filtri magici, giganti, sogni premonitori), e tuttavia
ben combinati con l’immaginario di tradizione cristiana. E certo
una menzione merita anche il teatro di Gil Vicente com i suoi
numerosi Autos2
– ad esempio le famose Barca do Inferno, Barca do
Purgatório e Barca da Glória.
Al
centro degli interessi di questa nazione di navigatori, ben più che
le tematiche cavalleresche, vi è però il mare e i suoi misteri. In
uno dei più antichi manoscritti dell’Archivio Nazionale della
Torre do Tombo, il Nobiliário del Conte di Barcelos Dom Pedro
(1287-1354, figlio naturale del re Dom Dinis), si fa risalire
l’origine del lignaggio dei Marinho all’incontro tra un cavaliere
e una sorta di sirena, e al loro successivo matrimonio. Duecento anni
dopo, nel 1554, nell’Urbis Olisiponis Descriptio del grande
umanista Damião de Góis, incontriamo una digressione sopra sirene e
tritoni, e circa il relativo contratto di dominio su queste
creature3.
C’è
poi il mostro marino – o meglio: oceanico – per
eccellenza, il simbolo dei pericoli affrontati dalle caravelle
portoghesi lanciate verso l’ignoto: è il gigante Adamastor,
personificazione del Capo delle Tempeste, con cui se la vedranno gli
eroi cantati da Camões nel poema epico nazionale, Os Lusíadas.
È l’impresa di Vasco da Gama, la flotta lusitana che conquista la
via per le Indie – la consacrazione dell’Era dos
Descobrimentos, la celebrazione dell’impero coloniale
portoghese.
(Gigante
Adamastor, azulejo di Jorge Colaço, 1933 – Centro Cultural
Rodrigues de Faria, Forjães)
L’eco
del tremendo Adamastor risuonerà fino al Novecento, nell’opera di
Fernando Pessoa Mensagem (1934), che rievoca e rielabora il
mito dell’Epoca delle Scoperte: qui, nella poesia O Mostrengo,
Pessoa descrive un’inquietante creatura alata che «sta alla fine
del mare», e vola tutt’attorno ai bastimenti domandando chi osi
violare le onde tenebrose del suo regno (si tratta ovviamente dei
temerari piloti del re Dom João II: sono sue le navi che sfidano i
limiti del mondo):
In
una notte tenebrosa, il mostro
Che
là dimora dove ha fine il mare
S’alzò
in volo, girò intorno alla nave
Tre
volte e disse: «Chi è che ha osato entrare
Nelle
caverne mie sempre nascoste,
Negli
antri oscuri dove ha fine il mondo?».
E,
tremando, disse il timoniere:
«Il
nostro Re Don Giovanni Secondo! ».
«Di
chi son queste vele in cui m’impiglio?
Di
chi le chiglie che ora vedo e sento?»,
Esclamò
il mostro e roteò tre volte,
Tre
volte girò intorno, immondo, enorme.
«Chi
vien qui a fare ciò che sol io posso,
Io
che dimoro dove mai fui visto
E
i terrori del mare senza fondo
Corro?».
Tremando, il timoniere disse:
«Il
nostro Re Don Giovanni Secondo!».
Le
mani alzò tre volte dal timone,
Tre
volte le rimise sulla barra,
Tremò
tre volte e disse: «Qui alla guida
Della
nave non c’è soltanto un uomo:
C’è
una Nazione che al tuo mar anela;
E
più del mostro che il mio cuore teme
E
che dimora dove ha fine il mondo,
comanda
me e mi lega a questo legno
Ciò
che vuole Don Giovanni Secondo!»4.
Padre
António Vieira e la smisurata utopia del «Quinto Impero»
Ad
ogni modo, al di là del contesto leggendario e tradizionale, lo
sviluppo di una letteratura di vera e propria tematica fantastica si
farà attendere per lungo tempo in Portogallo. Così, la chiusura del
XVII secolo e il principio del ’700 sono segnati dalla smisurata
utopia di Padre António Vieira (1608-1697) e della sua História
do Futuro (edita
postuma, nel 1718): in questo testo il filosofo e missionario gesuita
articola minuziosamente il «Quinto Impero» e la società perfetta
che esso instaurerà, diffondendo il cristianesimo nel mondo intero.
Il tutto, naturalmente, sotto il dominio di un sovrano portoghese
(quel Dom Sebastião scomparso sul campo di battaglia – nel cui
ritorno il popolo lusitano non smetterà mai di sperare – e poi Dom
João IV). L’Inquisizione portoghese, dopo un lungo processo,
condannerà Padre Vieira e la sua visione millenaristica: il gesuita
aveva infatti parlato del Quinto Impero in una lettera indirizzata al
vescovo del Giappone.
Il
XVIII secolo vede il repêchage
mitologico greco-romano di António José da Silva (Anfitrião,
ou Júpiter e Alcmena,
As Variedades de
Proteu, il Labirinto
de Creta, il
Precipício de Faetonte
ecc.), e l’interesse per l’orrore soprannaturale degli autori
dell’Arcadia (con Manuel de Figueiredo, Pedro Correia Garção,
Domingos dos Reis e altri) e della cosiddetta «Nuova Arcadia» (si
pensi al preromantico Manuel Maria du Bocage).
1
António José Saraiva e Óscar Lopes nella História
da Literatura Portuguesa.
2
Letteralmente ‘Atti’.
3
Entrambi i documenti sono segnalati dallo scrittore, storico e
saggista Álvaro de Sousa Holstein (Na
Periferia do Império
– Encontros de Ficção Científica, Porto/Cascais 1996).
4
La traduzione, libera, è tratta dal sito Mensagem
– Il Portogallo di Fernando Pessoa.
Di seguito il testo originale:
O
mostrengo que está no fim do mar
Na
noite de breu ergueu-se a voar;
À roda
da nau voou três vezes,
Voou
três vezes a chiar,
E
disse: «Quem é que ousou entrar
Nas
minhas cavernas que não desvendo,
Meus
tectos negros do fim do mundo?»
E o
homem do leme disse, tremendo:
«El-Rei
D. João Segundo!»
«De
quem são as velas onde me roço?
De quem
as quilhas que vejo e ouço?»
Disse o
mostrengo, e rodou três vezes,
Três
vezes rodou imundo e grosso,
«Quem
vem poder o que só eu posso,
Que
moro onde nunca ninguém me visse
E
escorro os medos do mar sem fundo?»
E o
homem do leme tremeu, e disse:
«El-Rei
D. João Segundo!»
Três
vezes do leme as mãos ergueu,
Três
vezes ao leme as reprendeu,
E disse
no fim de tremer três vezes:
«Aqui
ao leme sou mais do que eu:
Sou um
Povo que quer o mar que é teu;
E mais
que o mostrengo, que me a alma teme
E roda
nas trevas do fim do mundo;
Manda a
vontade, que me ata ao leme,
De
El-Rei D. João Segundo!»
Fernando
Pessoa,
Mensagem,
Mar
Portuguez, IV. O
Mostrengo.
(La poesia porta la data 9 settembre 1918; Mensagem
è
pubblicato nel 1934).
LE VIE DELLE STELLE
di Fabio Calabrese
(Fabio
Calabrese, LE VIE DELLE STELLE, Scudo
Edizioni, Bologna)
Il cervello umano è diviso in due
emisferi: l'emisfero sinistro, logico, razionale, in possesso delle abilità
linguistiche e numeriche, e l'emisfero destro, emotivo, creativo, sede delle
emozioni e dei sentimenti. E' una cosa curiosa, ma anche nella narrativa di
fantascienza sembra esistere una divisione analoga: esiste una parte di essa
che sembra essersi assunta l'incarico di delucidarci sul nostro possibile
futuro: fantascienza sociologica ed ecologica che ci parla di possibili
catastrofi ambientali, e non ci dipinge di certo un quadro molto ottimistico
dei domani che ci attendono, oppure fantascienza tecnologica che ci porta
addentro ai misteri della robotica e dell'informatica, a esplorare le realtà
virtuali e conoscere le intelligenze artificiali.
Questo è, per così dire, l'emisfero
sinistro della fantascienza. L'emisfero destro è imperniato sulle saghe
galattiche e oggi come oggi sembra essere soprattutto un rimbalzo della
produzione mediatica che ripropone in una serie di varianti gli eroi di Star
Trek e di Star Wars. In qualche modo l'evidenza visiva, l'impatto
dato al pubblico dallo schermo grande o piccolo, cinematografico o televisivo,
supplisce alla mancanza di plausibilità.
Entrambe cercano in qualche modo di
aggirare un dato di fondo: l'esplorazione dello spazio e l'espansione umana nel
Cosmo non sono più, com'era per la fantascienza dei primordi, un'immagine
attendibile di ciò che il futuro può avere in serbo per noi. I pianeti del
sistema solare sono dei deserti inabitabili e privi di vita, mentre le stelle
sono poste a distanze incommensurabili rispetto a noi, perse “nel buio degli
anni luce” e che alla velocità della luce stessa, la massima raggiungibile, un
viaggio fino ad esse impiegherebbe secoli o millenni.
I due emisferi del cervello umano non
sono separati, sono congiunti da un'area che si chiama corpo calloso, che
permette connessioni e scambi fra uno e l'altro che fanno si che la nostra
scatola cranica non sia abitata da due diverse personalità, ma da una
personalità unica in cui si equilibrano aspetti razionali ed emotivi.
Esiste, esiste ancora, è ancora
possibile un corpo calloso della fantascienza? E' possibile scrivere storie di
avventura spaziale che tengano conto delle nostre reali conoscenze sulla natura
del sistema solare e dell'universo? Io credo di poter dire che queste storie
costituiscono una risposta affermativa.
Il sistema solare, tanto per cominciare,
rimane alla nostra portata, anche se siamo ormai certi che non incontreremo né
i marziani né i venusiani né le creature provenienti dalla sesta luna di Giove
con cui ci ha terrorizzati Robert Heinlein, ma c'è comunque una specie con la
quale non finiremo mai di confrontarci e che non cessa di fornire spunti
narrativi all'immaginazione: la specie umana.
Partiamo dalla Luna. Il satellite del
nostro pianeta è quasi la nostra periferia, è stato raggiunto dagli uomini nel
1969, e sappiamo che è un enorme ciottolo cosmico privo di vita e di atmosfera.
Ma ... se per esempio il famoso monolito immaginato da Arthur C. Clarke in 2001,
Odissea nello spazio esistesse davvero? E' il tema del racconto Zagadoka.
Certo la Luna rispetto alle distanze
cosmiche è il cortile dietro casa, ma è pur sempre il nostro avamposto nello
spazio, e gli incontri che potremmo fare sul suo suolo sono davvero
imprevedibili, ad esempio, che ne direste di un alieno di cristallo,
un’astronave vivente venuta da sei secoli nel futuro? Ve lo racconto in Crystal.
C'è almeno un vantaggio nell'avere i
capelli grigi: il fatto di essere vissuto e di essere già stato attivo come
autore in un'epoca in cui certe idee sulla natura del sistema solare non
avevano perso del tutto attendibilità. Il 20 giugno 1976, la sonda spaziale
americana Viking 1 raggiunse la superficie di Marte e cominciò a trasmettere
alla Terra immagini del pianeta rosso, che fra le altre cose ne hanno
dimostrato in maniera lampante l'inesistenza di vita attuale (se Marte possa
averne ospitata in passato, se ne discute ancora). Giusto la sera prima,
scrissi il racconto I figli del deserto. Già allora, i sospetti circa
l'inesistenza dei marziani erano fortissimi, ma prima che questo mito svanisse
del tutto, perché non fare un ultimo tuffo nel Marte sognato da Ray Bradbury e
Leigh Brackett, non respirare ancora un po' di aria nostalgica e prendersi, in
fondo, l'onore di chiudere un'epoca della fantascienza?
“Terraforming” o, con un brutto
neologismo talvolta italianizzato in “terraformazione” è la serie di trasformazioni
che si possono mettere in atto su di un pianeta alieno per renderlo quanto più
simile alla Terra e adatto a ospitare la vita umana. Il pianeta più adatto per
tentare un terraforming, è ovviamente Marte, come si narra nel racconto
omonimo, ma non aspettatevi che tutto fili liscio.
Un Marte terraformato potrebbe offrire
rifugio ai superstiti della nostra specie il giorno che l'umanità terrestre
cadesse in una crisi convulsa, ma quando costoro o i loro discendenti dovessero
tornare sul pianeta madre, potrebbero trovarvi una sorpresa molto sgradita, è
quanto vi racconto in Gaia.
Saremmo più fortunati se un pianeta
cominciasse ad avviare spontaneamente una sorta di terraforming naturale con
solo un piccolo aiuto da parte nostra. Questo potrebbe accadere a Venere, se la
temperatura di 600 gradi al suolo che attualmente lo caratterizza, cominciasse
ad abbassarsi. Ma attenzione, questo avviene perché il sole è prossimo a
esaurire la sua scorta di idrogeno e a trasformarsi in nova. Ve lo racconto in Un
giorno da leoni.
Poiché ci siamo spinti in direzione di
Venere, potremmo ancora proseguire verso il sole e incontrare Mercurio, il
pianeta più vicino alla nostra stella, anch'esso un gigantesco sasso cosmico,
in più calcinato dalla vampa solare, e questo potrebbe mettere in una posizione
molto scomoda chi si trovasse sul Ponte di comando di un'astronave che
deve passare da quelle parti.
In direzione opposta, troviamo Giove, il
pianeta gassoso gigante. Secondo una teoria in voga anni addietro, esso sarebbe
una sorta di stella abortita ed emanerebbe una radiazione termica che potrebbe
rendere abitabili i suoi satelliti e gli asteroidi dell'omonima cintura,
facendo di questi ultimi un buon luogo, uno sfondo plausibile per ambientarvi
una storia di fantascienza. L'ho fatto con Una volta o l'altra, anche se
la ragion d'essere di questo racconto è quella di presentare una possibile
eccezione al secondo principio della termodinamica.
Giove, il gigante gassoso del sistema
solare, se volessimo esplorarlo ci imbatteremmo subito in una grossa
difficoltà, le enormi pressioni capaci di schiacciare qualsiasi organismo e
qualsiasi oggetto ben prima di averne raggiunto la superficie. Però, mi era
capitato di leggere in Ai limiti del conosciuto di Jacques Bergier
(co-autore assieme a Louis Pauwels del celeberrimo Mattino dei maghi)
un'idea interessante: un veicolo composto da un unico “foglio” bidimensionale
di circuiti stampati avrebbe solo due facce che sarebbero soggette a una
pressione uguale su entrambe, sarebbe il mezzo ideale per esplorare gli abissi
oceanici e – ho subito pensato – anche quelli gioviani. A volte succede che
un'idea ne trascina con sé una concatenazione di altre: un veicolo del genere
(che ho subito battezzato nastronave) dovrebbe essere per forza
teleguidato, e meglio di tutto se fosse un veicolo tipo waldo con il
driver che ha l'impressione di trovarsi a bordo di esso, o addirittura che esso
sia il suo corpo, anche se fisicamente non è lì. Meglio ancora, se il pilota
fosse una persona nata con gravi malformazioni e abituata a servirsi di protesi
fin dalla nascita. Ho pensato alla menomazione più grave, un individuo che in
pratica è solo un sistema nervoso senza corpo. Questa persona non avrebbe
neppure sesso, o il suo sesso cambierebbe di volta in volta a seconda dei waldo
in cui è inserita. Noi forse non ci rendiamo neppure conto con chiarezza di
quanto il sesso condizioni la nostra identità, il nostro modo di rapportarci
agli altri, il modo in cui gli altri si rapportano a noi. Io non vorrei
sembrare presuntuoso, ma il vero modo di procedere della fantascienza dovrebbe
essere proprio questo: si parte da un'idea tecnico-scientifica e se ne scoprono
le implicazioni umane, psicologiche e sociali. In questo modo ha visto la luce
quel racconto del tutto particolare che è Any.
Almeno le stelle più vicine a noi, sono
però del tutto al di fuori della nostra portata? Forse non è detto, e potremmo
studiare dei modi per raggiungerle. Uno potrebbe essere rappresentato da
un'astronave-macchina del tempo, che arretra nel tempo man mano che avanza
nello spazio, un altro potrebbe esserlo dal teletrasporto, sono le ipotesi
sviscerate nei due racconti Erpetofobia e La sagola, che
evidenziano anche come, in un caso e nell'altro potremmo combinare disastri. La
sagola, che è il racconto eponimo di quest'antologia, mi è particolarmente
caro, perché mi permise di uscire da un lungo periodo di blocco narrativo, e
nacque proprio dalla riflessione sull'uso del teletrasporto in un episodio di Star
Trek.
Tuttavia, noi sappiamo che gli autori di
fantascienza hanno inventato modi ingegnosi per consentire ai loro eroi di
superare l'interminabile pista delle stelle: dalla velocità superiore a
quella della luce, la mitica overdrive, all'utilizzo della deformazione
o curvatura dello spazio-tempo, fino ad
arrivare a Star Trek dove con la “velocità curvatura” si
utilizzano entrambi.
Cosa dire a tal proposito? Io azzarderei
che non sia consigliabile usare tali espedienti, che non hanno ovviamente
plausibilità scientifica, se non con parsimonia, e se non quando sono
giustificati dal fatto che la narrazione ha in vista finalità diverse
dall'ipotizzare il nostro futuro, cioè quando acquisisce più scopertamente il
valore di metafora. Faccio un esempio: I reietti dell'altro pianeta di
Ursula Le Guin è una narrazione ambientata negli spazi, ma in realtà si tratta
di una moderna filiazione della narrativa utopica, e l'autrice fa bene a non
impacciarsi con questioni tecniche estranee al suo argomento, e non abbiamo il
diritto di pretenderle come non le pretenderemmo da Platone, Thomas More,
Bacone, Campanella o Swift.
Come potete vedere, per quanto mi
riguarda, io qui vi porto quattro esempio di trasgressione della regola, ma
sempre per giustificati motivi. Stella di neutroni. In questo caso, il
racconto è stato costruito intorno a una teoria cosmologica, che non ho altro
modo di presentare, e che è quella illustrata dal professor English. Macché
materia o energia oscura, ciò che spiegherebbe la “compattezza” gravitazionale
delle galassie potrebbe essere il fatto che non sono se non dei giganteschi
gorghi intorno a buchi neri supermassicci. Chissà che in questa forma non
arrivi alle orecchie di qualche ricercatore dotato dei titoli accademici e
degli strumenti giusti per svilupparla!
In altri casi, (fare finta di)
dimenticare l'invalicabilità dello spazio interstellare può essere giustificato
in un racconto che ha fini polemici, satirici o semplicemente umoristici. Un
buco nel cielo, Il connettore e Il ricorso sono tre esempi in questo
senso. Un buco nel cielo nacque come “risposta” al racconto La
sindrome lunare di Vittorio Curtoni, dove si immagina che in una colonia
spaziale, per le particolari condizioni ambientali si vada incontro a una
perdita della parte inconscia e irrazionale della mente. Io ho provato piuttosto
a pensare a una perdita della razionalità, appoggiandola alla teoria del
cervello tripartito (il nostro cervello sarebbe in pratica formato da tre
cervelli sovrapposti, il più antico che abbiamo in comune coi rettili e i
vertebrati inferiori, il secondo, il cervello-mammifero, e infine il terzo, la
neocorteccia, specificamente umano. In determinate circostanze, sono gli strati
inferiori a prendere il sopravvento sulla parte più evoluta).
Il connettore è una parodia di Star Trek con qualche
allusione al connettivismo e Giovanni De Matteo, tanto per non farci mancare
nulla, e Il ricorso semplicemente un racconto umoristico. In entrambi i
casi, preferisco non darvi anticipazioni per non rovinarvi l'effetto delle gag
finali.
Adesso farò io una domanda a voi: a
conclusione di questa carrellata, pensate che l'avventura spaziale sia davvero
morta o che non sia invece viva e con ancora qualche buona freccia nel suo
arco?
Cinzia
Baldini - Linee Infinite Edizioni
L’antico
Egitto non cessa di esercitare i suo fascino. Una civiltà che si
perde nella notte dei tempi, e che si fonda su miti avvincenti e
misteriosi, puntualmente torna a ispirare gli scrittori di
fantascienza. Così avviene in questo romanzo di Cinzia Baldini, con
tutte le carte in regola per la sua appartenenza al genere. Il libro
si posiziona degnamente nel contesto di una narrativa che fa della
fantaegittologia il suo cavallo di battaglia.
La storia procede su due piani. In uno troviamo le vicende legate alla dottoressa Nur Hammand, giovane e affascinante archeologa, che coniuga il suo amore professionale per le antichità egizie con l’affetto e l’attrazione erotica per Patrick, un giovane studioso della Svizzera francese. Nell’altro seguiamo le avventure dei componenti della missione “Ank-taui”, provenienti dal misterioso pianeta Proteros e sbarcati sul suolo terrestre qualcosa come trentacinquemila anni fa. Ovviamente un filo unisce le due storie che, pur procedendo parallele, rinviano fatti e significati l’una all’altra fino alla rivelazione finale.
Chi sono i proteriani? Che cosa sono venuti a fare sulla Terra? Il lettore se lo chiede, pagina dopo pagina, soprattutto attraverso le vicissitudini della bella dottoressa di origini egiziane, alla quale ne capitano appunto di tutti i colori: viene rapita da misteriosi delinquenti e rischia perfino la vita. Ciò che fa da anello di congiunzione è uno strano oggetto, un singolare reperto archeologico, che si chiama “Djed”. Questo ha il potere di produrre delle specie di visioni in chi se lo tiene vicino. Nur è il soggetto destinato a fare tali esperienze misteriose che hanno a che vedere con la dimensione extrasensoriale.
Il romanzo offre il piacere di percorrere i meandri di un affascinante mistero. Anche se i contorni fondamentali di esso appaiono prevedibili fin dai primi capitoli, le ragioni profonde, che legano avvenimenti vicini e lontani, sono avvolti da una nebbia che solo a poco a poco viene dissolta attraverso un gioco di fatti e rivelazioni sapientemente orchestrati. E la tesi, quindi, dell’origine extraterreste degli esseri umani (perché è di questo che si parla) viene argomentata con l’apporto di nozioni interessanti di cui il lettore prende coscienza attraverso la dimensione avventurosa.
Si tratta di una questione intrigante, non nuova per la fantascienza, ma sempre in grado di catturare l’attenzione del lettore. È un argomento che, a mio modesto avviso, ha legittimità e si affronta con piacere sul terreno della narrativa d’invenzione. Ricordo, invece, di avere provato una noia mortale, anni fa, durante la lettura dell’unico libro di Peter Kolosimo che mi era capitato fra le mani. In esso si trattava proprio dell’origine extraterrestre dell’umanità. Ma quel parlarne con pretese scientifiche (forse erano anch’esse sottili invenzioni), quel calcare il terreno con materiale del tutto rigorosamente documentabile ma per nulla convalidabile, mi dava la sensazione di una mera perdita di tempo. Tutt’altra cosa è la lettura di un romanzo di fantascienza. In questo caso, il patto narrativo risulta del tutto chiaro: chi vi si accosta sa di trascorrere qualche ora di piacevole e onesto esercizio della fantasia, magari riuscendo non solo a divertirsi, ma ad arricchire un po’ la propria cultura in materia.
È il caso di questo romanzo, scritto bene, con abilità nell’intrecciare situazioni, personaggi, ambientazioni e colpi di scena sullo sfondo del sempre affascinante mondo dell’antico Egitto.
La storia procede su due piani. In uno troviamo le vicende legate alla dottoressa Nur Hammand, giovane e affascinante archeologa, che coniuga il suo amore professionale per le antichità egizie con l’affetto e l’attrazione erotica per Patrick, un giovane studioso della Svizzera francese. Nell’altro seguiamo le avventure dei componenti della missione “Ank-taui”, provenienti dal misterioso pianeta Proteros e sbarcati sul suolo terrestre qualcosa come trentacinquemila anni fa. Ovviamente un filo unisce le due storie che, pur procedendo parallele, rinviano fatti e significati l’una all’altra fino alla rivelazione finale.
Chi sono i proteriani? Che cosa sono venuti a fare sulla Terra? Il lettore se lo chiede, pagina dopo pagina, soprattutto attraverso le vicissitudini della bella dottoressa di origini egiziane, alla quale ne capitano appunto di tutti i colori: viene rapita da misteriosi delinquenti e rischia perfino la vita. Ciò che fa da anello di congiunzione è uno strano oggetto, un singolare reperto archeologico, che si chiama “Djed”. Questo ha il potere di produrre delle specie di visioni in chi se lo tiene vicino. Nur è il soggetto destinato a fare tali esperienze misteriose che hanno a che vedere con la dimensione extrasensoriale.
Il romanzo offre il piacere di percorrere i meandri di un affascinante mistero. Anche se i contorni fondamentali di esso appaiono prevedibili fin dai primi capitoli, le ragioni profonde, che legano avvenimenti vicini e lontani, sono avvolti da una nebbia che solo a poco a poco viene dissolta attraverso un gioco di fatti e rivelazioni sapientemente orchestrati. E la tesi, quindi, dell’origine extraterreste degli esseri umani (perché è di questo che si parla) viene argomentata con l’apporto di nozioni interessanti di cui il lettore prende coscienza attraverso la dimensione avventurosa.
Si tratta di una questione intrigante, non nuova per la fantascienza, ma sempre in grado di catturare l’attenzione del lettore. È un argomento che, a mio modesto avviso, ha legittimità e si affronta con piacere sul terreno della narrativa d’invenzione. Ricordo, invece, di avere provato una noia mortale, anni fa, durante la lettura dell’unico libro di Peter Kolosimo che mi era capitato fra le mani. In esso si trattava proprio dell’origine extraterrestre dell’umanità. Ma quel parlarne con pretese scientifiche (forse erano anch’esse sottili invenzioni), quel calcare il terreno con materiale del tutto rigorosamente documentabile ma per nulla convalidabile, mi dava la sensazione di una mera perdita di tempo. Tutt’altra cosa è la lettura di un romanzo di fantascienza. In questo caso, il patto narrativo risulta del tutto chiaro: chi vi si accosta sa di trascorrere qualche ora di piacevole e onesto esercizio della fantasia, magari riuscendo non solo a divertirsi, ma ad arricchire un po’ la propria cultura in materia.
È il caso di questo romanzo, scritto bene, con abilità nell’intrecciare situazioni, personaggi, ambientazioni e colpi di scena sullo sfondo del sempre affascinante mondo dell’antico Egitto.
Giuseppe
Novellino
ROMAGICK di Claudio Foti
(Claudio
Foti, ROMAGIK, Arpeggio Libero Editore)
La
raccolta consta di 24 storie ambientate nel passato, nel presente e nel futuro.
Storie con un forte fondamento storico come San Silvestro o Halos
Veni, storie attuali e lovecraftiane al tempo stesso come Il palazzo di
via S. Eustachio e Interessi letterari, storie vampiriche come Una
notte di sangue e dannazione e Farkaskoldus, storie inquietanti e
attuali come La Prima volta o Lo squarcio solo per citarne
alcune ma come non aggiungere per esempio racconti, a mio avviso,
sbalorditivi come Terribilis est locus iste, Roma, Lycaonia, Pantheon,
Porrophagus o i futuristici Anfis-Ibenas e La Vecchia? Questa
interessantissima raccolta di racconti ha come sfondo la Città Eterna. Una
città però molto diversa da come la conosciamo o da come viene rappresentata in
televisione e nei cinema. Una città inquieta, a volte sordida, ma allo stesso
tempo ammantata di quel velo di magia che la rende speciale e unica. Certo un
ritratto fuori dagli schemi, racconti fuori dagli schemi, storie fuori di
testa. Terribili e accattivanti, piacevoli e meno piacevoli, a volte
inquietanti a volte ossessive.
TIMESCAPE di Gregory Benford
Questo è l’interrogativo che accompagna il lettore per quattrocento pagine di narrazione serrata. Ma a lui si offrono altri quesiti di carattere scientifico, sempre riguardanti la speculazione e l’indagine della fisica moderna.
Al centro di tutto ci sono i tachioni, particelle che corrono a una velocità superiore a quella della luce. E quando un gruppo di scienziati si mette a giocare con essi, intravede la possibilità di utilizzarli come macchina del tempo. Lo scopo è quello di mandare un messaggio agli scienziati di quarant’anni prima per indurli a desistere dallo sconsiderato uso di sostanze chimiche capaci di cambiare il clima terrestre, innescando un meccanismo perverso, sovvertitore dell’equilibrio oceanico. Insomma, si delinea l’idea di scongiurare la catastrofe già in atto, modificando i comportamenti che l’hanno determinata. Quindi non si tratta di spostamenti fisici , ma di un più realistico crono viaggio di messaggi a cavallo di particelle infinitesimali e capricciose, le quali hanno proprio la caratteristica di rendere il tempo una realtà verosimilmente manipolabile e in qualche modo esplorabile.
La vicenda si muove su due binari: il 1998 e il 1963. Nel primo periodo troviamo un gruppo di personaggi (scienziati dell’università di Cambridge) impegnato nella trasmissione del messaggio di avvertimento; nel secondo le persone destinate a riceverlo. Solo che né i primi, né i secondi hanno vita facile, scientificamente e professionalmente parlando. Immaginatevi i questi ultimi nella fatica di darla a intendere a colleghi parrucconi o a politici ultraprudenti; tra l’altro non sono essi stessi del tutto sicuri che i loro messaggi (specie di “risonanze” dei tachioni) risultino del tutto accettabili, comprensibili ed efficaci. La posta è alta: salvare il pianeta da una catastrofe che si potrebbe evitare con l’adozione pregressa di comportamenti più prudenti.
Il romanzo è intrigante per la sua idea e per le considerazioni scientifiche (spiegate in modo chiaro) che rendono assai convincente l’aspetto fantastico della storia. Un po’ meno interessante, a mio avviso, risulta tutta la parte riguardante la vita quotidiana e sentimentale dei personaggi principali, che spesso apre siparietti troppo lunghi e a volte un tantino giustapposti. Di notevole interesse è invece la descrizione dell’attività accademica, tra ricerca e realizzazione tecnologica, che spesso viene ostacolata da gelosie, da incomprensioni, da meschini sabotaggi e da pastoie burocratiche e politiche. Dopotutto Gregory Benford è un fisico di professione e quindi parla con cognizione di causa.
Si tratta di un romanzo ben scritto, meditato a lungo e supportato da nozioni scientifiche di robusta consistenza. E quella che viene offerta è una fantascienza alla Fred Hoyle, per intenderci (ricordate il celeberrimo “La nuvola nera”?), dove l’azione è ridotta al minimo e il fantastico non nasce arbitrariamente o spregiudicatamente dalle avventure dei personaggi, ma viene dosato e veicolato dalla teoria scientifica più ortodossa.
Personalmente ho trovato “Timescape” interessante più che avvincente. Ma c’è da ricordare che alla sua uscita, nel 1980, vendette un milione di copie e vinse il Premio Nebula; segno che gli appassionati di fantascienza lo hanno gradito. Si tratta, a mio avviso, di un romanzo non datato, che sfugge egregiamente alla trappola del tempo.
IL MONDO SOPRA di Michel Franzoso - Ediz. I sognatori
L’autore ci propone l’ennesima variazione
del tema, comunque intrigante, dei mondi separati che poi finiscono con
l’incontrarsi. Questa volta non si tratta di pianeti a sé stanti, né di
dimensioni parallele o di società sotterranee radiate dalla superficie
terrestre.
Ecco di che cosa si tratta.
Uno spesso strato di nuvole perenni ha
oscurato il cielo, dopo una grave crisi energetica che ha scatenato guerre
estremamente devastanti. Solo Dione è rimasta intatta; e ora si estende sotto
la soffice, impenetrabile coltre. I suoi grattacieli svettano, alcuni di essi
forano il corpo nuvoloso ma di essi non si vede la cima. Colui che sale con
l’ascensore arriva solo a un certo punto. A sbarrargli la strada trova il piano
di contenimento, vero e proprio confine tra il mondo conosciuto e l’ignoto
sovrastante, considerato ovviamente tabù. Secondo la vulgata diffusa dalle
autorità, oltre non c’è nulla.
Meela ha quattordici anni e come tutte le
ragazzine della sua età vive la sua realtà con sentimenti altalenanti. Le hanno
messo accanto Cyman, un robot un po’ rompiscatole, con il compito di istruirla.
La ragazza guarda le nuvole e si
interroga. Sale più volte fino ai piani di contenimento. Un giorno, sfugge ai
controlli e trova un passaggio che le permette di superare la barriera. Cyman
non riesce a fermarla in tempo e viene coinvolto nella scappatella. Così si
ritrovano sotto le stelle, sotto il sole e la luna. Lo spettacolo li stupisce,
ovviamente; da quel momento comincia l’avventura.
Aureralya (questo è il nome del mondo di
sopra, a cielo aperto) si rivela un luogo incredibile, affascinante ma anche
pieno di pericoli e minacce. Case e strade sono ancorate alle cime delle
costruzioni sottostanti (cioè quelle del mondo di sotto), formando una
straordinaria struttura aerea. Qui mi fermo, perché dalle peripezie sono appena
tornato e ho il fiato troppo grosso per riviverle a vostro consumo.
Si tratta di un romanzo di fantascienza,
anche se l’idea di fondo, brillante ma piuttosto ingenua, porta più acqua al
mulino della fantasy. Ci sono tutti gli ingredienti del primo genere (robot,
tecnologie inquietanti, oscure minacce sociali, ecc.), ma l’aspetto che domina,
alla fine, riguarda una fantasia più sfarfallante, svincolata dagli schemi
futuristici. Nella prima parte troviamo qualche ammiccamento a romanzi
fantasociologici come il classico “I reietti dell’altro pianeta” di Ursula K.
Le Guin, ma ben presto il racconto deborda, invade il campo della pura
immaginazione con atmosfere e azioni un po’ alla Herry Potter. Infatti, da un
certo punto in poi, la storia si caratterizza come avventura giovanilistica con
il ritmo pulsante di un cuore adolescente. Allora le idee fantasociologiche si
stemperano e lasciano il sopravvento alle peripezie di giovani solidali che
intendono venir fuori da una brutta situazione, ma anche conoscere se stessi.
Il romanzo presenta delle buone
caratterizzazioni di ambienti e personaggi, si legge con facilità. È adatto a
un pubblico giovanile, al quale, insieme al divertimento si dà lo spunto per
riflettere sul problema del diverso e dell’ignoto mondo che rappresenta.
Giuseppe Novellino
IL VOLTO SEGRETO DI GAIA
Lo dico subito,
non è esattamente fantascienza. Piuttosto è un fantasy in chiave
fantascientifica. Come se Maria Lidia avesse un universo narrativo sci-fi in
cui le cose hanno una spiegazione naturale o tecnologica, invece che magica. Questa
cosa si precisa sempre più nel corso del testo e personalmente l’ho
apprezzata molto. In parte perché non sono una grande appassionata di fantasy,
in parte perché dà un’impronta originale all’opera.
Quindi, inevitabilmente, la storia ha iniziato a prendermi davvero quando gli ybridis e gli umani (che poi sono due ragazzini) lasciano il bucolico Artan, partono per il cosmo alla ricerca del salvifico artefatto che riporterà l’equilibrio sul loro pianeta d’origine e atterrano su Gaia, che è un posto glaciale e inospitale, con una popolazione in parte deforme e in parte composta da cloni perfetti e anaffettivi.
Qua è dove la storia entra più nel vivo. Diciamo che i capitoli precedenti sono solo l’indispensabile premessa, per far capire al lettore che cosa ci facciano degli ybridis su Gaia e che cosa stiano cercando. E qua è anche il punto in cui la storia diventa davvero appassionante.
Nei capitoli precedenti, è semplicemente piena di belle idee: gli umani ipocondriaci che vivono dentro delle gigantesche bolle, la storia del popolo ybridis… mentre nei restanti due terzi il libro si precisa come una sorta di thriller psicologico di ambientazione fantascientifica in cui un gruppo di eroi non particolarmente eroici deve superare notevoli difficoltà per recuperare un qualcosa della cui efficacia dubita persino.
Maria Lidia Patrulli usa i generi in modo intelligente, a mio avviso. Il genere fantasy per fare una riflessione sull’ecologia e il genere fantascientifico per fare una riflessione sull’umanità e sul significato di morte per gli esseri umani.
Lo stile dell’autrice è funzionale e diretto, non senza dei momenti evocativi e quasi lirici, bilanciati da una notevole ironia.
La mia impressione è che Il volto segreto di Gaia si vada sempre più definendo e che probabilmente il secondo capitolo sarà meglio del primo.
(Maria Lidia Patrulli, Il volto segreto di Gaia, Edizioni Il Ciliegio)
Quindi, inevitabilmente, la storia ha iniziato a prendermi davvero quando gli ybridis e gli umani (che poi sono due ragazzini) lasciano il bucolico Artan, partono per il cosmo alla ricerca del salvifico artefatto che riporterà l’equilibrio sul loro pianeta d’origine e atterrano su Gaia, che è un posto glaciale e inospitale, con una popolazione in parte deforme e in parte composta da cloni perfetti e anaffettivi.
Qua è dove la storia entra più nel vivo. Diciamo che i capitoli precedenti sono solo l’indispensabile premessa, per far capire al lettore che cosa ci facciano degli ybridis su Gaia e che cosa stiano cercando. E qua è anche il punto in cui la storia diventa davvero appassionante.
Nei capitoli precedenti, è semplicemente piena di belle idee: gli umani ipocondriaci che vivono dentro delle gigantesche bolle, la storia del popolo ybridis… mentre nei restanti due terzi il libro si precisa come una sorta di thriller psicologico di ambientazione fantascientifica in cui un gruppo di eroi non particolarmente eroici deve superare notevoli difficoltà per recuperare un qualcosa della cui efficacia dubita persino.
Maria Lidia Patrulli usa i generi in modo intelligente, a mio avviso. Il genere fantasy per fare una riflessione sull’ecologia e il genere fantascientifico per fare una riflessione sull’umanità e sul significato di morte per gli esseri umani.
Lo stile dell’autrice è funzionale e diretto, non senza dei momenti evocativi e quasi lirici, bilanciati da una notevole ironia.
La mia impressione è che Il volto segreto di Gaia si vada sempre più definendo e che probabilmente il secondo capitolo sarà meglio del primo.
(Maria Lidia Patrulli, Il volto segreto di Gaia, Edizioni Il Ciliegio)
SUSANNA
RAULE
(Fabio Calabrese, Incubi e prodigi, Edizioni Scudo 2012)
Detto francamente, l’horror non mi piace, perché mi fa venire gli incubi;
ma Fabio Calabrese riesce a compiere prodigi, perché è l’unico autore di
horror che riesco a leggere. Il motivo è presto detto: il suo stile è pervaso
da una vena ironica – più o meno accentuata a seconda del tema trattato – che
riesce ad alleggerire qualsiasi tema horror al punto da farmelo non solo
leggere, ma perfino apprezzare. Anche perché all’ironia si aggiunge un’altra
importante capacità, che è quella dell’originalità. Pochi autori moderni
riescono ad essere originali su temi ripetitivi ed ormai sfruttati fino alla
nausea come fantasmi, vampiri, streghe, demoni e licantropi.
Per entrare nello specifico di
questa antologia, prendiamo ad esempio il tema del licantropismo. Viene subito
alla mente l’uomo lupo, ma esistono altri tipi di incroci, come ad esempio il liomo,
l’uomo leone, che fa parte dell’immaginario orrorifico nordafricano, e che è il
tema nonché il titolo del primo racconto.
Un altro tema molto conosciuto
del genere horror è il vampirismo. Nel racconto L’ultima recita è
affrontato da un punto di vista molto originale, che è quello di un uomo che
per convenienza finge di essere un vampiro, durante l’occupazione nazista della
Francia; e mal gliene incoglie quando arrivano gli americani.
Una persona che ruba l’identità
di un’altra fa pensare al genere poliziesco, più che a quello horror; eppure in
La zia Milly l'autore riuscito a combinare i due temi. Pur senza essere
prettamente horror, questo è uno dei racconti che più mi hanno fatto
rabbrividire, forse perché riesce a rendere molto personale questo
scambio d’identità, facendo immedesimare il lettore nella storia ad un punto
che sembra di viverla in prima persona.
Il tema della metempsicosi è
forse uno dei meno sfruttati, nel genere horror; specialmente quando si tratta
di reincarnare un essere umano in un animale. Nel racconto intitolato Butch
un uomo ritorna nelle sembianze di un cane perché possa compiere la propria
vendetta. L’idea che l’anima possa trasmigrare in ogni essere vivente, animale,
vegetale o umano, è affascinante ed un po’ spaventosa, ed è proprio così che
definirei questa storia.
Una casa con presenze inquietanti
fa subito pensare a tanta cinematografia. In Gli amici di casa questo
punto di vista è ribaltato: ambientata su una sperduta isola del Pacifico
durante la Seconda Guerra Mondiale, le presenze non sono ostili all’inquilino,
che percependole ne ha avuto rispetto più che paura, bensì agli invasori giapponesi, che vengono
bersagliati senza pietà. Il racconto fa quasi venir voglia che tali presenze ci
siano in ogni casa, a tener lontani i disturbatori!
Un altro racconto che mi è
piaciuto molto è Il dannato, ispirato ad una leggenda friulana. Questa
storia mi ha addirittura commossa, ma la battuta finale mi ha fatto proprio
ridere di cuore, perché è la classica situazione in cui un essere umano riesce
a gabbare un essere soprannaturale. Mi ha ricordato moltissimo l’episodio del Il
Signore degli Anelli in cui l’intrepida Eowyn sconfigge il terribile Re
degli Stregoni.
L’episodio Geneticamente
modificato ha un titolo auto-esplicativo. Mi sembra un vero e proprio
monito a non pasticciare con la Natura, incrociando specie diverse.
Ne La preda mi sembra
d’intravedere un altro monito, che è quello di non avere l’arroganza di voler a
tutti i costi svelare misteri che è meglio lasciar inviolati. In questo caso
parli del wendigo, un essere per certi versi simile al sasquatch
o allo yeti, ma molto più pericoloso per l’uomo. A volte è davvero meglio lasciare in pace gli
enigmi della Natura.
Mariangela Mariga
OCCHI D’ARGENTOFabio Calabrese: Sulle orme di Alhazred
Esce per la mitica Dagon Press del grande Pietro Guarriello, uno
dei massimi esperti di fantastico e di H.P.Lovecraft in Italia, un
volume di racconti “lovecraftiani” di Fabio Calabrese intitolato
significativamente Sulle orme di Alhazred. Fabio Calabrese è
da sempre un grande appassionato del solitario di Providence. Negli
anni ’70 ha fondato a Trieste, assieme a Giuseppe Lippi, la
leggendaria fanzine Il Re in giallo consacrata all’universo
impazzito di HPL e ad altri grandi della letteratura
dell’immaginario. In questo nuovo volume, ricordiamo infatti che di
Calabrese è già stata pubblicata la raccolta Nel tempio di
Bokrug (2008) appena ristampata sempre dalla Dagon Press,
l’autore prosegue nella vena cosmica e “weird” del precedente.
Il libro si presenta con una sontuosa copertina raffigurante un
disegno di Virgil Finlay, perfetta per evocare le atmosfere oscure di
queste storie. I racconti di Calabrese sono piacevoli e non annoiano
mai e, in alcuni casi, si rivelano di grande spessore. Lo scrittore
triestino si inserisce nel filone “lovecraftiano” con grande
rispetto verso il maestro tanto che ha utilizzato anche dei frammenti
del Commonplace Book, il taccuino dove Lovecraft scriveva gli abbozzi
delle trame, per scrivere Il riflesso e Gargoyle,
due racconti presenti nell’antologia. La storia che dà il titolo
al libro – Sulle orme di Alhazred – è veramente ben
congegnata nell’evocare i terribili misteri del famigerato
Necronomicon che un’equipe di ricercatori cerca di risolvere. In I
cinque anelli Calabrese compie invece un’operazione originale
inserendo il mondo di Tolkien e del Signore degli anelli
all’interno delle atmosfere “weird” mentre Stirpe delle
tenebre è un riuscito omaggio al Figlio della notte di
Jack Williamson. L’oscuro segreto di Sir Thomas Winterton
è indubbiamente un’altra storia efficace nell’evocare i segreti
che si annidano in una vecchia magione gotica che il protagonista
vede in tutta la sua tetra antichità di fronte alla stanza del suo
alloggio. Fra i racconti migliori dell’antologia spiccca poi Teras
dove, pur non venendo mai nominata la mitologia di Cthulhu, vengono
descritti orrori cosmici al di là del tempo e dello spazio che si
inseriscono nel canone “lovecraftiano”. Il volume si chiude con
“La narrativa del mistero cosmico”, un bellissimo e importante
saggio di Fabio Calabrese apparso in origine nell’antologia della
Fanucci Il segno di Cthulhu. Per l’occasione, il testo è
stato rivisto e aggiornato. Si tratta di uno scritto di estremo
interesse, una sorta di manifesto dell’estetica della narrativa
appartenente al filone del cosmic horror a cui appartengono, oltre
allo stesso Lovecraft, giganti del fantastico non a lui inferiori
come Arthur Machen, Robert W. Chambers, Lord Dunsany, William Hope
Hodgson e molti altri. Calabrese analizza questi scrittori mettendo
in luce come la letteratura dell’orrore cosmico sia un vero e
proprio genere a sè stante pur avendo punti di contatto sia con il
gotico tradizionale sia con la fantascienza. All’origine di questo
particolare approccio “filosofico” al fantastico che mette l’uomo
di fronte agli abissi insondabili del cosmo viene citato, ancora una
volta, Edgar Alla Poe, non tanto per le tematiche da lui trattate
afferenti l’orrore e le patologie della mente umana (a parte
qualche racconto e il saggio “cosmologico” Eureka) ma
per lo stile innovativo, delirante e geniale. Il saggio si sofferma
poi sugli scrittori dell’epoca di “Weird Tales” come Clark
Ashton Smith, di cui stupisce il giudizio negativo datone
dall’autore, sinceramente troppo severo e Robert E. Howard per
parlare poi degli epigoni (in alcuni casi deludenti, come August
Derleth, la cui importanza è quella di avere preservato e reso
disponibile l’opera di HPL e Colin Wilson che pure al sottocritto
piace). Sulle orme di Alhazred è un volume imperdibile che
non dovrebbe mancare nelle biblioteche degli appassionati di
letteratura fantastica e di H.P.Lovecraft in particolare. Si può
acquistare direttamente sul sito della Dagon Press
(Studilovecraftiani)
o su Amazon
o su Lulu.
(Fabio Calabrese – Sulle orme di Alhazred – Dagon
Press – 243 pagine – 2014)
Cesare Buttaboni
DEL NUOVO E PERNICIOSO COSTUME DI
LEGGERE ROMANZI
Nello tempo presente che di tutti meglio
palesa l’ordine civile sopra l’impronta di quello celeste, grazie al sommo e
lungimirante potere che il beneamato sovrano esercita a beneficio nostro, lo
quale direttamente da Dio si emana, e che Egli si degna benignamente d’elargire
con i suoi fruttiferi effetti ai sudditi tutti, aggrapparsi al corpo sociale,
come mala pianta parassita, un costume nefando e portator d’orripilanti guasti
vedo. E tale opprime primariamente l’animo delle fanciulle, ma fiacca pure il
cuore altrimenti impavido e generoso di tanti giovani della prima società.
A ragion veduta parlo d’un oggetto che
oltremodo è corrosivo della spiritual rettitudine e che taluni chiamano
nouvelle e tal’altri romance, la cui lettura, ancorché frivola e dispersiva
dell’umane facoltà, travia svia e snatura con gran detrimaneto dell’anima
coscienziosa che fatta fu dal Sommo Creatore affinché ad esso primariamente si
elevi e poscia alla conoscenza dello perfettissimo e sapientissimo Creato
s’indirizzi con ardore sincero. Tale indirizzo richiede nobiltà di sentimento e
robusta saggezza, nonché forte carattere in corpore sano; non certo un fragile
sentire che come foglia morta nel vento d’autunno volteggi pazzamente onde a
terra cada e quivi dal piede del rustico villan calpestata e in fango
trasformata.
L’animo forte e timorato di Dio è retto da
nobili ideali; e codesti pascensi di solida dottrina, in primis, e di
edificanti letture in secundis. L’intelletto ravviva la sua eterea possanza
accostandosi a verità. Immergendo esso stesso nel ragionar metafisico,
nell’insegnamento altresì dei sommi maestri che in epoche remote svelaron i
segreti dell’Universo intero, dell’essere, del divenire e dei suoi accidenti,
per li quali il Sommo nostro Signore manifesta a noi la sua onnipotenza. E per
quanto dicasi di quella parte della nostra anima che li sapienti chiamano
sentire o sensibilità, ad essa dobbiamo prestare le più solerti cure affinché
non s’allontani dal retto cammino, indiandosi piuttosto, e affinando ancorpiù
le nobili virtù che in seme soggiacciono nel profondo della sua essenza.
Eziandio il retto sentire nutriscasi di qual si voglia componimento d’alta
ispirazione, per lo più di tragico registro, aulico altresì, tralasciando il
comico ch’è biada unicamente per lo basso sentire o per il ludico indulgere
d’una mente ottenebrata.
Il leggere, dunque, sia non mero
passatempo ma elevato cimento di spiritual natura: oggetti sian le grandi gesta
degli eroi sempiterni, li clari exempla, le fabule morali, le vite de’ Santi,
oppure, ma con dosi oculate, le vicissitudini dolorose dei nobili d’animo e di
casato, purché nello final di dette storie giunga catarsi che fughi il dubbio
com’ogni forma di male, e il bene faccia trionfare giustamente. Ciò non è dato
purtroppo di ritrovar negli scritti che la gente oggi chiama romanzi. Ivi
impudicizie, vergognose turpitudini, disordini dell’animo e del corpo,
dissipazioni spirituali e altri tristi accidenti mescolansi con tragiche e
comiche vicende vissute da persone per lo più di basso rango, ove le regole
poetiche del sommo Aristotile e il sublime gusto platonico son puntualmente
calpestate. Foraggio, codesto, per animali più che cibo per genti ad immagine
di Dio modellate.
E mi si conceda un altro timore. Oggi
vengon stampati libricini in carta leggera, che vanno in una tasca. In tal modo
veicolansi assai pericolosamente i germi di suddetto male. E qual altra
diavoleria verrà partorita da menti insane per propagare il seme della
malapianta, la perfida genìa del romanzesco? Forse un giorno, ahi fero giorno!
non basterà più l’umile carta… E qual diavoleria sarà suggerita dal grande
inimico per corrompere le menti dei mortali?
Domenico Panebianco Abate, per
grazia di Dio ispirato.
Giuseppe Novellino
IL LOVECRAFT ITALIANO
Sì, me ne rendo conto,
potrebbe essere un tantino presuntuoso un titolo del genere, ma sono
pronto, come sempre, a prendermi la responsabilità di quello che
scrivo. E questa volta lo faccio con cognizione di causa e con
piacere. E mettendo anche da parte i vincoli di vecchia amicizia che
mi legano a Fabio Calabrese.
L’amore del Nostro per
la narrativa lovecraftiana è di antica data. Questo ce lo racconta
nella postfazione narrando come lui, appena quindicenne, fu
affascinato dalla narrativa horror del ‘solitario di Providence’.
E dell’incontro illuminante con Giuseppe Lippi dal cui sodalizio
nacque Il Re in Giallo, una fantine che, nonostante l’esiguo
numero di pubblicazioni face parlare molto di sé. Non a caso oggi
Lippi e Calabrese sono due stelle di prima grandezza nel firmamento
della fantascienza italiana.
Nel Tempio di Bokrug
– e altri racconti lovecraftiani (Edizioni Dagon Press, Pineto
(TE), 2007) è, senza tema di smentite, una delle più belle prove di
narrativa di Calabrese e certo una antologia destinata a lasciare
traccia di sé nel tempo.
In genere giudico la
narrativa in due fasi differenti, quella epidermica e quella più
profonda che chiamo dell’anima. I racconti di questa antologia
hanno superato a pieni voti entrambe le chiavi di lettura, anzi mi
hanno strappato più volte commenti ammirati.
Esagero? No.
Assolutamente. In Italia, per quel po’ che riesco a seguire, sono
state più volte proposte antologie lovecraftiane di autori
italiani, a una ci ho persino partecipato io. Tutti i racconti,
selezionati con una certa cura, si sono dimostrati di buon livello
con delle punte di eccellenza.
Ma l’antologia di
Calabrese è unica perché credo sia l’unico caso, o almeno un raro
caso, di una antologia dedicata a Lovecraft con racconti di un solo
autore. E con livelli di racconti sempre altissimi.
La narrazione non scade
mai, neanche quando si dilunga in descrizioni che sono la croce e la
delizia degli scrittori. Calabrese riesce tanto a calarsi nel
personaggio che se avesse voluto tentare uno scherzo, quello di farli
passare per scritti di Lovecraft tradotti da lui, sarebbe stato molto
ma molto difficile svelare l’inganno.
I temi classici vengono
trattati in maniera da inserirsi nel filone horror senza sbavature e
affascinano come giunti da un passato che si pensava superato, ma che
torna a noi prepotente grazia all’eccellente penna dell’autore
triestino.
Calabrese è uno
scrittore a 360 gradi. Passa dalla fantascienza alla fantasy e
all’horror con l’abilità di un narratore navigato che riesce a
toccare, genere dopo genere, quei tasti giusti dell’animo del
lettore. Riesce a regalargli il senso del meraviglioso con la sua
fantascienza, il fascino della fiaba con la sua fantasy e il brivido
dell’oscuro col suo horror.
L’horror de L’essere
dal profondo, che ti prepara lentamente al finale inquietante,
perché potrebbe essere quello di uno qualsiasi di noi quando si
smarrisce in altre dimensioni. Spesso ci vediamo come vogliamo
essere, ma non come realmente siamo.
L’horror de L’ombra
dal passato, che ti convince in maniera semplice ma efficace che
i morti possono ancora uccidere. Sorridiamo quando qualcuno ce lo
rammenta, ma in cuor nostro sappiamo che è vero… Ma non ditelo
alla polizia, vi prenderebbero per folli.
L’horror de La casa
sulla collina, che ripropone, secondo la tradizione, per soggetto
una casa maledetta, ma che t’insegna come il male sia affascinante
e cosa si cela dietro di esso. T’insegna che è facile esserne
coinvolto. Una storia dai risvolti inaspettati, di altri esseri, una
storia che Calabrese racconta con l’abilità di rendere credibile
l’incredibile e l’arguzia di concludere questo lungo racconto con
quella che sembrerebbe una battuta. Fa sorridere. E pensare.
Una cosa va detta subito.
Calabrese è preparato. La sua laurea in filosofia gli permette di
conoscere, e quindi descrivere a fondo, il comportamento della gente
comune, inoltre la sua cultura di base, aggiunta alla capacità di
saper districarsi agilmente nella pieghe delle varie scienze gli
permette di realizzare strutture narrative complesse e colte senza
apparente sforzo. Pare che sappia bene di quello che scrive, sia
scienza che antropologia che storia o fisica o matematica, insomma,
non lascia nulla al caso nelle sue storie.
Questa sua capacità
traspare ne L’isola di Dioniso, bellissimo esempio di quella
mediterraneità che ogni autore italiano dovrebbe rinverdire e
sottolineare. E ci vuole coraggio da parte di un autore inserire un
racconto del genere, che nulla ha a che vedere con le ambientazioni
lovecraftiane se non il fascino dell’incognito e dell’orrore. Ma
Calabrese di coraggio ne ha da vendere. Come tanti dei suoi eroi.
Ah!, per inciso. Sapere
cosa significa Kakà. No, non si tratta del giocatore del Milan ma la
sua traduzione sarebbe…. Leggetelo, vi garantisco che è davvero
una chicca.
Ne La statuetta di
malachite tornano i temi classici orrorifici. Gli oggetti possono
avere una influenza nefasta su di noi. Ma soltanto se noi siamo
disposti a farsi sottomettere, se lasciamo che qualcuno ci manipoli,
qualcuno o qualcosa a volte non lo sappiamo. Un po’ in chiave
moderna restare affascinati da una pistola sino a quando non
decidiamo di usarla per uccidere. E’ la pistola che ha un terribile
influsso maligno su di noi o siamo noi che riversiamo su di essa la
nostra intima crudeltà abbandonandoci a lei certi di avere un alibi?
Fine storia filosofica per nulla noiosa, anzi capace, come accade per
tutti i racconti inclusi in questa antologia, di portarti dall’inizio
alla fine senza farti quasi respirare.
In Red Dugpa
Calabrese si immerge incrociando i generi, un pizzico di giallo, una
idea di fantascienza, una base di scienza e una dose abbondante di
horror. Scecherare tutto vigorosamente ed ecco a voi Red Dugpa, una
droga molto, ma molto particolare.
In L’anello fuori
dal tempo, torna il tema classico dei vampiri e dell’eternità.
Ma questa volta l’eternità del Vampiro per antonomasia è
frammentata. Leggere per credere. Condotto con la consueta abilità,
il racconto si legge senza interruzioni anche per la sua, sotto certo
aspetti, modernità di argomenti.
Iblis. Quante
volte abbiamo sognato? Secondo gli studiosi ogni uomo sogna quasi
sempre, l’unica differenza è nel rammentare o meno i sogni. A
molti capita addirittura di sognare tanto intensamente da confondere
il sogno con la realtà. Quante volte c’è successo? Dammi un
pizzico per vedere se sono davvero sveglio. Quale poi sia il sogno e
quale la realtà parrebbe facile da definire. Parrebbe. E se poi i
due modi di esistere si intrecciano tra loro… Iblis.
Forse c’è un gioco
dietro La casa di College Street. Un gioco il racconto, un
gioco la vicenda, un gioco la vita.
Il racconto che dà il
titolo all’intera antologia, Nel tempio di Bokrug ci cattura
con il fascio delle spedizioni archeologiche. L’autore ci
ammannisce una storia accattivante che ti sembra di vivere. La sua
narrazione è capace di immettere il lettore nella storia quasi
facesse davvero parte della spedizione che fa una scoperta
incredibile. Ma davvero sarebbe entusiasmante far parte della
spedizione? E’ anche impressionante la conoscenza che Calabrese
mostra di possedere nel trattare argomenti così difficili. Io non so
se quello che dice è vero o inventato, non sono in grado di capirlo,
ma certo lo dice in modo che se dovessi scommetterci direi di sì.
Giudicate voi.
Poi c’è La soglia.
Questo racconto potrebbe senza problemi collocarsi nell’ambito
della fantascienza. Parte secondo i più classici canoni del
fantasy-horror, ma poi si sviluppa in modo imprevedibile catturando
il lettore che viene catapultato in un mondo diverso e al contempo
simile al nostro. Ma come ci comporteremmo noi in una situazione del
genere? Nel leggere il racconto, alquanto lungo, mi ponevo questa
domanda e più che una risposta cercavo di anticipare le ‘mosse’
dell’eroe, naturalmente pilotato dall’autore. Qualche volta ci
azzeccavo, altre volte no. Questo è il bello della narrativa
fantastica: puoi pensarla diversamente, ma egualmente seguire
l’impossibile e immergerti dentro, anzi andare oltre una soglia che
nessun essere umano dovrebbe mai oltrepassare. Ma se così fosse…
non saremmo esseri senzienti.
L’antologia si chiude
con Principio d’induzione. Lasciamo all’autore spiegare di che si
tratta. “Il principio d’induzione “ scrive Calabrese
nella sua interessantissima postfazione Lovecraft ed io, “è
quel principio che consente di passare dall’osservazione di una
serie di casi particolari ad una legge generale, la cui validità è
garantita dal fatto che la natura tende a comportarsi in maniera
uniforme, ma a sua volta l’uniformità della natura non è
assicurata da null’altro se non l’esperienza della regolarità
delle singole leggi, (…). In pratica, (…) ci troviamo nella
stessa posizione del tacchino che ha visto l’allevatore venire per
portargli il becchime ieri, l’altro ieri, il giorno prima, ed ogni
giorno di cui ha memoria, e non sa che invece oggi l’allevatore è
venuto per tirargli il collo.” Orbene, chi tirerà il collo a
noi?
Concludendo.
Devo ammettere che mentre
leggevo queste storie ho provato un senso di straniamento, quasi
stessi leggendo racconti di Lovecraft o di Chambers, Machen, Dunsany,
Hodgson. Si potrebbe pensare che Calabrese sia un perfetto imitatore
di genere, ma si commetterebbe un errore grossolano. La sua narrativa
è autentica, personalissima. A lui piacciono le atmosfere cupe, le
storie inquietanti, a lui piacciono i mostri come parte essenziale
della nostra vita, a lui piacciono quelle verità che l’orrore cela
perché restino conosciute a pochi.
Ecco, pensate al lui come
a un conoscitore di occulte verità. E che lui stia trovando una
formula per svelarvele.
Allora cercatele nelle
sue parole, tentate di scoprirle, di metterle a nudo, di farle
vostre.
Prima che sia troppo
tardi.
Molfetta, 1 febbraio 2009
Donato ALTOMARE
SPORE
“AD 2019 - Robert Kerrigan aveva deciso,
molto tempo prima, che non sarebbe morto in ospedale”.
Così comincia “Spore”, il primo racconto
dell’omonima raccolta. E quello che segue è a dir poco inquietante. Il
protagonista non pensa solo a dove morire, ma anche a come trattare le proprie
spoglie. Seguendo una moda da poco affacciatasi sulla scena del mondo, egli
ordina che, dopo il decesso, il suo cadavere venga schiaffato in un decompikit.
“Si tratta di una tuta nella quale finirà il mio corpo. La troverete nel mio
armadio. La tuta è infestata di spore e di funghi, organismi che proliferano
nutrendosi di sostanze in decomposizione: decampi coltura. Le spore adesso sono
inattive, e possono sopravvivere in questo stato per secoli, ma quando mi
infilerete nella tuta la riempirete anche di un mix di minerali e soluzioni
attivatrici, che daranno inizio al processo.”
“E che cosa ne sarà di te, papà?” domanda il figlio. “Diventerò quei
funghi. Loro si nutriranno di me e mi reintrodurranno nel ciclo di vita del
pianeta. Sarò sempre parte di questo mondo.” Quale sarà l’esito? Anni dopo, il
decompikit diventa obbligatorio. I
cimiteri e i crematori sono aboliti e ovunque crescono funghi che sono le reincarnazioni
dei defunti e spargono spore ovunque. E se il lettore pensasse, a questo punto,
a una semplice invasione del globo terracqueo, dovrebbe piacevolmente
ricredersi. Qualcosa di ben più catastrofico è destinato a scaturire da
quell’insensato costume.
Ma c’è dell’altro in questo libro di
fantascienza: un’incredibile sfasatura esistenziale tra ieri e oggi; un’area
circoscritta, in cucina, che fa marcire la frutta a vista d’occhio e si rivela
una vera e propria macchina del tempo; una società futura diretta dal
Dottipardo, dove le nascite e le morti sono debitamente programmate; la
clonazione di grandi uomini dell’Ottocento che dovranno salvare un’umanità
sull’orlo del baratro; un robot, guardiano del faro, che manda segnalazioni ad
eventuali navigatori spaziali; un’invasione effettuata dalle macchine, a cui
assistiamo seguendo una cronologia impazzita; strani scherzi di un cervello
particolare; e infine una nuova, incredibile “soluzione finale”.
Scritti bene, con una prosa limpida,
semplice e funzionale, come si conviene al genere fantascientifico puro, questi
racconti riescono a intrattenere il lettore in modo intenso e senza cadute.
Vivaci per l’originalità delle idee, fanno prevalere il divertimento
intellettuale, ma riescono a trasmettere alcune idee sulle quali vale la pena
tornare ogni tanto a riflettere, come per esempio la cieca fiducia nella
tecnologia, l’intolleranza, la tentazione dell’apprendista stregone. E tutto
ciò nel sano costume della fantascienza, che non è letteratura solo di evasione.
L’autore di questo libro, chiaramente appassionato del genere, conosce bene la
lezione e dimostra di sapere usare tutti i trucchi per attirare l’attenzione. E
quando è riuscito in questo primo intento, fa anche il resto.
Il lettore, alla fine di ogni racconto,
non può fare a meno di abbozzare un amaro sorriso, prima di sintonizzare la
mente su considerazioni decisamente inquietanti.
Giuseppe
Novellino
La storia – si
sa – è una fonte inesauribile di personaggi e vicende che uno scrittore attinge
e tratta come meglio gli piace, secondo cioè i più disparati generi letterari,
le più differenti forme espressive. E alla storia si ispirano, con un disinvolto
senso umoristico, Stefano e Valentina Gelain, autori de I memorabili – Vite segrete di uomini illustri.
Come accorti archeologi,
essi scavano nell’esistenza di vari personaggi (di epoche e luoghi diversi) per
metterne in luce non già i reperti del
loro passato, del loro valore sociale, politico, culturale, quanto piuttosto le
debolezze, le manie, i vizi, le fissazioni, gli errori, i difetti – veri o
presunti tali – che, lungi dall’essere oggetto di satira (di qualsivoglia
natura), mirano semplicemente a suscitare, nel lettore, il sorriso o la risata,
spesso grassa, sonora.
Diciamolo pure
con franchezza: anche i grandi protagonisti della storia, nel segreto o
nell’intimità della loro vita, non appaiono immuni da banalità, da ridicolezze,
che si rivelano grottescamente abnormi, se confrontate con l’apparente serietà della
loro funzione, del loro ruolo ufficiale.
Aveva ragione
Pirandello nell’affermare che la comicità scaturisce dall’avvertimento del contrario: quando, cioè, in un dato personaggio cogliamo,
dal suo modo bizzarro o stravagante di apparire, l’esatto contrario di ciò che
dovrebbe essere.
E tutto questo
traspare, in modo palese, da I memorabili
– Vite segrete di uomini illustri,
libro divertente e ben costruito, bello e accattivante nella sua veste
tipografica, in cui Stefano e Valentina Gelain indulgono, spesso, al sarcasmo
vero e proprio, all’ironia mordace, pungente, icasticamente dissacratoria; in
cui sono sempre briosi nel narrare le varie vicende, nel ritrarre i loro simpatici
ma strampalati protagonisti, perspicaci nelle brillanti invenzioni, nelle trovate,
garbati nella scelta e nell’uso del lessico, accurati nella struttura dello
stile.
In sostanza un
libro, il loro, che davvero merita d’essere letto, per un senso di grande
piacere e rilassamento che se ne trae, per un senso di buonumore che accompagna
chi legge dalla prima all’ultima pagina.
Paolo Secondini
L’antologia comincia con un racconto di
Massimiliano Tosarelli e termina con un altro dello stesso autore. Ed ecco i
rispettivi titoli: “Babbo Natale è un tossico”, “Babbo natale è morto”. Non
rompo le uova nel paniere del lettore se dico che le due narrazioni contengono
lo stesso personaggio e fanno in qualche modo da cornice a tutta la raccolta. I
due titoli, comunque, rinforzano quello della copertina e contribuiscono a far
trapelare il programma dell’opera. Tutta da leggere, compresa la bella ma
“inutile” presentazione di Gianni Solla.
E veniamo a questo fatidico contenuto.
Intanto c’è un po’ di tutto, come in ogni antologia che si rispetti: narrazioni
a volte discordanti, stili diversi, modi di intendere l’arte e la vita (con un
termine tecnico si direbbe poetica) che spesso si contrappongono. Eppure c’è,
come sempre in ogni antologia che si rispetti, appunto, un filo conduttore che
non sta solo nell’idea che Babbo Natale, pur essendo un mito, è ormai da
considerarsi alla stregua di uno yogurt scaduto; ma anche nel fatto che tutte
le storie, quale più quale meno, hanno a che vedere con il genere fantastico. A
volte abbiamo dei veri e propri horror, oppure dei racconti di fantascienza; in
altri casi ci imbattiamo in un alone fantastico che nasce non solo dalla mente
di chi è messo a dura prova nel sopportare il ricorrente e invernale clima
festaiolo, ma anche dal clima stesso, la cui insulsaggine sentimentalconsumistica
non può che generare mostri agli occhi di chi li sa vedere.
Il natale (lo scrivo qui volutamente con
la lettera minuscola), grazie a questi racconti, fa la parodia di se stesso,
con i suoi orpelli e le sue atmosfere mielose. Il tutto con una buona dose di
dissacrazione. Troviamo, sotto il solito rosso costume, un Babbo Natale
assassino e squartatore; incontriamo bimbi sadicamente razzisti che giocano con
i pupazzi di neve; scopriamo che le statuine del presepe, soprattutto le
madonne, hanno qualche problema; sperimentiamo la struggente situazione di una
bimba di cinque anni che chiede a Babbo Natale un insolito regalo. Queste
alcune delle tematiche. Ma poi si violano i confini del tempo e dello spazio:
si va su altri mondi, si respira l’aria natalizia in pieno luglio, ci si
ritrova perfino sul fronte orientale, il 24 dicembre 1943, sotto il tiro dei
T-34 sovietici.
Ma che cosa viene dissacrato, in buona
sostanza? Non il Natale nel suo significato escatologico, sul quale si sospende
umilmente, o per onesto agnosticismo o per altrettanta onesta fede, il
giudizio. Piuttosto il Natale come festa dell’uomo occidentale, il quale cerca
in esso un improbabile diversivo alle pene esistenziali e quotidiane. Allora
non funziona più tanto bene, perché qualcosa sembra ormai essersi inceppato. La
pubblicità del panettone è rimasta l’unica vera protagonista.
In conclusione, mi va di elencare i nomi
degli autori, in ordine di apparizione:
Massimiliano Tosarelli, Stefano
Pallante, Vito Pirrò, Giuliana Acanfora, Antonio Ognibene, Giuseppe Novellino,
Elena Baldisseri, Anna Giraldo, Mara Munerati, Riccardo Giacchi, Caterina Gala,
Marco Viggi, Guido Anselmi.
I quali vi augurano, più che buon Natale,
una buona lettura!
Giuseppe Novellino
LE STORIE DELLA SALAMANDRA
Si tratta di un libro di fantascienza. Potrebbe però deludere il lettore semplice, quello che ama l’avventura fine a se stessa.
Offre quattro racconti che con la
fantascienza hanno tutto a che vedere. Comunque devono essere letti con
particolare attenzione e pazienza. Sì, perché
densi significati esistenziali rimangono impigliati in trame a volte
complesse, e vengono rivelati con parole accuratamente scelte e concatenate in
un discorso che ha del filosofico. Si tratta pur sempre di una lettura
affascinante, accessibile non esclusivamente al lettore dotto ma anche a quello
modesto, che sia però sorretto dalla buona volontà e dal desiderio della
ricerca. Una lettura corposa, insomma, che unisce la meraviglia al bisogno di
riflessione.
L’opera è basata su quattro racconti dove
la fantascienza in senso schietto, lo ripeto a scanso di equivoci, la fa da
padrona. Se non altro per i suoi bellissimi scenari futuribili e i riferimenti
a incredibili tecnologie.
Nel primo, “L’unico”, abbiamo una
situazione classica: quella dell’ultimo e solitario individuo sopravvissuto
alla sua civiltà. Più che un’articolata narrazione, è una sorta di
elucubrazione a ruota libera, che rievoca dimensioni affascinanti e misteriose
attraverso un linguaggio ricercato, destinato a diventare protagonista della
vicenda.
Il secondo racconto, intitolato “Amore con
varianti”, presenta un intreccio davvero accattivante. Coinvolge personaggi che
hanno a che vedere con le pieghe del tempo, o meglio, con il mistero degli
universi paralleli, dove le vite si susseguono in un mirabolante gioco di
specchi.
Altrettanto movimentato è “Francesco
uomo”, il terzo racconto, dove viene ripreso il tema del primo con uno scenario
più dettagliato: una città che tiene prigioniero l’unico uomo esistente, gli
fornisce tutti i servizi e poi gli fa fare un’esperienza davvero allucinante.
La quale teniamo in sospeso per non guastare il piacere della lettura. È un
racconto che richiama la mitica serie degli anni ’50: “Ai confini della
realtà”.
In “I Molteplici” torna a farla da padrone
il tempo. Vi si immagina l’esistenza di
un’incredibile unione tra persone disseminate lungo il percorso della storia,
dall’antica Roma al nostro futuro. Il loro incontrarsi produce un vero e
proprio viaggio temporale, quanto mai inquietante perché spogliato di quella
fisicità un po’ banale della macchina del tempo.
Che cosa ci propone, Paolo Durando, con
queste quattro storie di intrigante fantascienza? Direi una bella riflessione
sul senso del nostro precario esistere, sul bisogno di sapere chi siamo, sulla
vertiginosa esperienza della nostra fragilità di fronte all’immensità del tempo
e dello spazio. Nel leggerle, mi sono venuti in mente due autori a me cari:
Richard Matheson e Philip K. Dick. Il primo con la sua ossessione per lo
sdoppiamento; il secondo con l’ansia di trovare il confine tra il reale e il
non reale, tra l’essenza delle cose e il loro apparire.
L’autore del presente libro fa
un’operazione che, nell’impostazione, richiama l’opera dei suddetti autori. Il
suo narrare è di sapore filosofico, a volte intimistico e spiazzante. La parola
è attentamente ricercata, usata in maniera sovrabbondante, come a dimostrare
che l’esistenza è un caleidoscopio indefinibile, nel quale siamo
irrimediabilmente persi.
Ed ecco svelato il mistero del titolo. La
salamandra è un animale strano e misterioso. Simboleggia la rigenerazione e la
capacità di vincere il potere distruttivo del fuoco. Chi legge questi quattro
racconti ha infatti la sensazione che tutto sia parte del tutto, in un
susseguirsi di apparenze che si dissolvono e si rigenerano, rimandando
all’essere che, unico, comunque esiste, contrapponendosi al nulla.
(Paolo Durando, LE STORIE DELLA SALAMANDRA, Edizioni Abel Books)
Giuseppe Novellino
LA
VERTIGINE E L’ATTESA
Quella che apre la raccolta di
racconti di Giuseppe Novellino sembrerebbe una storia soft, ma in realtà è solo
un'introduzione a qualcosa di molto più inquietante, come se volesse destare
l'attenzione con un presagio e preparare il lettore a delle attente
riflessioni.
Andare con ordine è facile: l'autore, oltre a fornire un filo conduttore, ha anche usato un ordine cronologico, inverso però.
È mai possibile che l'Uomo possa diventare tanto schiavo delle macchine che un parafango ammaccato diventi una "conseguenza primaria" mentre un uomo investito una "conseguenza secondaria"? Evidentemente sì. O ancora, può un pedone diventare una "tacca" da sfoggiare sull'auto di chi l'ha travolto? Sembra impossibile, semplice fantascienza, eppure tutti noi attraversiamo le strade a scorrimento veloce con non poca ansia, nessuno si ferma, vanno tutti di fretta, in effetti le premesse ci sono tutte.
In un futuro non tanto lontano anche un banale virus potrebbe mutare tanto da ridurre drasticamente la popolazione, e noi cosa salveremmo? Non voglio darvi la risposta per non rovinarvi troppo la sorpresa, ma saranno i giovani, coloro che ancora non si sono inariditi e appiattiti, coloro che riescono ancora a sognare, come i barboni, i cosiddetti disadattati, che sapranno offrire solidarietà e calore umano, a riportare un segnale di speranza. In uno scenario catastrofico di ballardiana memoria, tra le rovine di Sondrio, qualcosa c'è, bisogna solo saperlo cercare. È poca cosa, sì, ma sufficiente per imprimere il giusto stimolo a ricominciare.
Possono chiamarsi Alessio, o Marco, o Walter o ancora Diana, ragazzi con nomi qualsiasi ma che rappresentano l'auspicio che l'Uomo riemerga dalle macerie di un mondo portato alla rovina da lui stesso. Forse dovremmo davvero toccare il fondo per poterlo fare. Ma la tecnologia non domina tutta l'opera di Giuseppe Novellino: anche gli animali, vittime incolpevoli, risentono dell'intervento troppo spesso incosciente dell'uomo, e ne emerge un quadro molto poco edificante per il Genere Umano. "La vertigine e l'attesa" fa venire i brividi, è un monito e come tale non deve essere sottovalutato, traspare da ogni singola parola l'amore per il nostro bistrattato pianeta e per i suoi abitanti, così come traspare l'amore per la lettura, sovente sottovalutato. Ignoranza, arroganza, superficialità, sono alla base dei mali che affliggono l'umanità, basterebbe che ognuno "spazzasse la propria soglia" per avere tutto il mondo pulito. Il messaggio dell'autore è forte e chiaro, lanciato con stile semplice e lineare tramite una serie di racconti godibilissimi che ci resteranno a lungo impressi nella memoria seppur lasciandoci con un po' di amaro in bocca.
Andare con ordine è facile: l'autore, oltre a fornire un filo conduttore, ha anche usato un ordine cronologico, inverso però.
È mai possibile che l'Uomo possa diventare tanto schiavo delle macchine che un parafango ammaccato diventi una "conseguenza primaria" mentre un uomo investito una "conseguenza secondaria"? Evidentemente sì. O ancora, può un pedone diventare una "tacca" da sfoggiare sull'auto di chi l'ha travolto? Sembra impossibile, semplice fantascienza, eppure tutti noi attraversiamo le strade a scorrimento veloce con non poca ansia, nessuno si ferma, vanno tutti di fretta, in effetti le premesse ci sono tutte.
In un futuro non tanto lontano anche un banale virus potrebbe mutare tanto da ridurre drasticamente la popolazione, e noi cosa salveremmo? Non voglio darvi la risposta per non rovinarvi troppo la sorpresa, ma saranno i giovani, coloro che ancora non si sono inariditi e appiattiti, coloro che riescono ancora a sognare, come i barboni, i cosiddetti disadattati, che sapranno offrire solidarietà e calore umano, a riportare un segnale di speranza. In uno scenario catastrofico di ballardiana memoria, tra le rovine di Sondrio, qualcosa c'è, bisogna solo saperlo cercare. È poca cosa, sì, ma sufficiente per imprimere il giusto stimolo a ricominciare.
Possono chiamarsi Alessio, o Marco, o Walter o ancora Diana, ragazzi con nomi qualsiasi ma che rappresentano l'auspicio che l'Uomo riemerga dalle macerie di un mondo portato alla rovina da lui stesso. Forse dovremmo davvero toccare il fondo per poterlo fare. Ma la tecnologia non domina tutta l'opera di Giuseppe Novellino: anche gli animali, vittime incolpevoli, risentono dell'intervento troppo spesso incosciente dell'uomo, e ne emerge un quadro molto poco edificante per il Genere Umano. "La vertigine e l'attesa" fa venire i brividi, è un monito e come tale non deve essere sottovalutato, traspare da ogni singola parola l'amore per il nostro bistrattato pianeta e per i suoi abitanti, così come traspare l'amore per la lettura, sovente sottovalutato. Ignoranza, arroganza, superficialità, sono alla base dei mali che affliggono l'umanità, basterebbe che ognuno "spazzasse la propria soglia" per avere tutto il mondo pulito. Il messaggio dell'autore è forte e chiaro, lanciato con stile semplice e lineare tramite una serie di racconti godibilissimi che ci resteranno a lungo impressi nella memoria seppur lasciandoci con un po' di amaro in bocca.
(Giuseppe Novellino, LA VERTIGINE E L’ATTESA, Edizioni
Creativa)
Pia Barletta
Pia Barletta
LITIGANDO COL DESTINO
La
vicenda è incentrata sul personaggio di Eliana, una donna volitiva, desiderosa
di affermarsi nel lavoro e innamorata di un uomo che rappresenta un archetipo
spesso comune nella galleria maschile: abbastanza viziato, timoroso di
assumersi responsabilità, eternamente indeciso nel vivere la storia d’amore con
la sua donna e, di conseguenza, restio ad effettuare ulteriori passi per
ufficializzare o, quanto meno, responsabilizzare il rapporto con la sua
compagna, in questo condizionato da una famiglia opprimente e miope unicamente
motivata da interessi materiali ed economici. Diventa quindi inevitabile una
rottura del legame nel momento in cui Eliana, stanca di una situazione ormai
inadeguata, vorrebbe vivere un rapporto più maturo; la separazione oltre a
prostrarla psicologicamente comporterà un ulteriore problematica con lo
scoprire un’involontaria gravidanza che la ragazza, orgogliosamente, sceglierà
di portare a compimento.
Litigando col destino, rappresenta il semplice piacere di raccontare una vicenda veritiera con le inevitabili variabili e relativi colpi di scena indispensabili in qualsiasi intreccio narrativo con il contributo, quanto mai positivo, di uno stile corretto e piacevole.
(Annalisa Seveso, LITIGANDO COL DESTINO, Albatros, Il filo)
Michele Rosa
Litigando col destino, rappresenta il semplice piacere di raccontare una vicenda veritiera con le inevitabili variabili e relativi colpi di scena indispensabili in qualsiasi intreccio narrativo con il contributo, quanto mai positivo, di uno stile corretto e piacevole.
(Annalisa Seveso, LITIGANDO COL DESTINO, Albatros, Il filo)
Michele Rosa
LE MIRIADI
Romanzo o antologia di racconti?
Quello che è certo è che l’Equipaggio viaggia nel cosmo ed esplora i mondi
raccogliendo conoscenze e storie che valgono la pena di essere raccontate.
Quando, poi, ai metodi tradizionali di esplorazione si affianca un misterioso teletrasporto interdimensionale, ecco che i nostri eroi si trovano dispersi nelle Miriadi: un angolo del cosmo? Un crocevia tra i mondi?
Di certo un luogo in cui non esiste più un gruppo di valorosi alla conquista dell’universo, ma un manipolo di dispersi in balia di forze troppo grandi per essere gestite con le sole umane forze.
Quando, poi, ai metodi tradizionali di esplorazione si affianca un misterioso teletrasporto interdimensionale, ecco che i nostri eroi si trovano dispersi nelle Miriadi: un angolo del cosmo? Un crocevia tra i mondi?
Di certo un luogo in cui non esiste più un gruppo di valorosi alla conquista dell’universo, ma un manipolo di dispersi in balia di forze troppo grandi per essere gestite con le sole umane forze.
(Pierre Jean Brouillaud, LE MIRIADI, Edizioni Scudo – Lulu.com)
IL QUINTO PRINCIPIO
C’è molta carne al fuoco. Bisogna
però dire che il contenitore è capace. Si tratta di un romanzo corale di ampio
respiro, il cui disegno complesso viene tratteggiato con maestria da un decano
della fantascienza italiana.
Il mondo evocato è il nostro
amato pianeta nell’anno 2043.
Ne capitano di cotte e di crude.
Il lettore si trova davanti una serie di avvenimenti che hanno tutta la
caratteristica di una resa dei conti. Sì, la Terra è arrivata alla frutta, per
il semplice fatto che l’evoluzione dei suoi abitanti ha raggiunto l’apice di un
progresso alienante, dove gli egoismi privati la fanno da padrone, dove la
tecnologia ha regalato all’uomo possibilità incontrollabili e dove si sta
instaurando una nuova forma di globale tirannia.
I personaggi sono tanti,
rappresentano un po’ tutte le condizioni sociali, ma si possono classificare in
due categorie: gli schiavi e i padroni. Il maggiore rappresentante di questi
ultimi è un certo Yarin. Egli e i suoi simili si stanno spartendo il mondo in
tante proprietà private. Il capitalismo ha raggiunto la sua massima evoluzione
(in senso negativo), che poi appare come una vera e propria involuzione. I
super ricchi sono come dei signori feudali e si ritrovano per lo più
concentrati a Diaspar, un’immensa città esclusiva nel bel mezzo della Foresta
Amazzonica. I loro maggiori esponenti si scannano a vicenda (non solo
metaforicamente) per arraffare il più possibile. E con immense somme di denaro
provano a togliersi tutti gli sfizi. Quanto costa, per esempio, l’Antardide?
Ebbene, Yarin deve fare i conti con un avversario altrettanto cocciuto e
bramoso. Si celebra allora un’asta che ha dell’incredibile.
Miliardi di esseri umani sono
soggetti al potere di pochi. Risultano semplici consumatori, ma devono
acquistare beni sempre più esigui e sempre meno naturali. Vivono come le
termiti in megalopoli degradate. New York, per esempio, è diventata un luogo
invivibile e si è in gran parte sviluppata nel sottosuolo. Ma tutti (sia loro
che gli abbienti) possono usufruire della PEM, l’ultima, sorprendente
evoluzione del telefonino. È una specie di protesi, applicata sulla calotta
cranica. Fornisce all’utente possibilità incredibili di comunicazione: parlare
ma anche semplicemente trasmettere i pensieri. Come tutte le diavolerie che
hanno a che vedere con l’informatica, la PEM è vulnerabile ai virus. Ma essendo
il rapporto tra cervello e apparecchio talmente stretto, anche l’organo umano
può subire aggressioni, e quindi anch’esso deve essere sottoposto a scansioni
protettive.
In questo scenario molto
variegato e complesso, si dipana una vicenda che sostanzialmente è molto
semplice, pur nelle sue numerose ramificazioni: la lotta tra gli sfruttati e
gli sfruttatori. Ma con qualche complicazione. Il mondo è soggetto a cataclismi
inspiegabili, che poi verranno messi in relazione con l’avverarsi del
misterioso Quinto Principio. Inoltre qualcuno ha trovato una terza via per la
risoluzione del problema mondiale. All’alternativa se ribellarsi o
sottomettersi, se ne è aggiunta un’altra: fare i bagagli, chiudere il gas,
infilarsi nel Trasmettitore e trasferirsi nel Mondo B. Che cos’è? Lo scopra,
con pazienza, il lettore.
Si tratta di una storia
avvincente, narrata con un linguaggio moderno, spigliato, non privo di
eleganza, dai toni ora lirici, ora avventurosi, ma anche speculativi e
filosofici. Una bella lettura per riflettere sugli scenari futuri, e possibili,
di questo nostro pianeta. Essi, infatti, si basano sui problemi di oggi e
possiedono una carica di suggestione notevole.
Ma si dovrebbe segnalare un
difetto. Il futuro immaginato, benché verosimile e inquietante, è troppo
vicino. La data scelta dall’autore (2043) è proprio dietro l’angolo e certe
cose, in quell’anno, risulterebbero (per fortuna) alquanto premature.
(Vittorio Catani, IL QUINTO PRINCIPIO, Urania, Mondadori)
Giuseppe Novellino
PEGASUS SF
La fantascienza italiana indubbiamente è una parente povera di quella di
lingua inglese, ma vi siete mai chiesti il motivo? Possibile che gli scrittori
italiani siano geneticamente incapaci di scrivere buona fantascienza? In
effetti, la motivazione genetica lascia piuttosto a desiderare; in parte perché
la presenza di alcuni ottimi scrittori negherebbe questa regola, in parte
perché – si sa – noi italiani geneticamente siamo un miscuglio di popolazioni;
la storia ci ha lasciato un’eredità di sangue nordico quanto africano.
Quindi?
Colpa in buona
parte dell’editoria, che nella sua mancanza di coraggio – si preferisce quasi
sempre affidarsi a scrittori esteri già affermati – sbarra quasi completamente
la strada agli esordienti. Situazione che non è certo di stimolo alla crescita
degli scrittori in erba.
Colpa dei
lettori, che troppo spesso pigri, preferiscono farsi guidare dalla pubblicità
piuttosto che incuriosirsi di fronte a nomi sconosciuti.
Entrambe
queste affermazioni hanno un fondo di verità, anche se a dire il vero la
situazione è ben più complessa; basti pensare, per esempio, che un editore di
lingua inglese, con a disposizione un pubblico di quattrocento milioni e passa
di persone di madrelingua, può ben permettersi di essere coraggioso rispetto
all’editore italiano, il cui pubblico è, a voler esagerare, meno di un quinto.
Ma lasciamo
perdere questo problema, che comunque è troppo complicato perché il
sottoscritto ne possa venire a capo, e proviamo a passare direttamente alla
soluzione; servirebbe una buona palestra, un luogo dove chi si affaccia al
mondo della scrittura, possa iniziare a farsi conoscere e a confrontarsi col
pubblico. Purtroppo in Italia manca da tempo, almeno per quanto riguarda la SF,
una palestra di questo genere. O forse dovrei dire mancava. Questa nuova
rivista edita da Paolo Secondini – Pegasus SF – infatti, ha tutte le
potenzialità per diventarla.
Per quanto sia
grande l’impegno profuso da Paolo nelle sue pubblicazioni, da solo non è però
sufficiente a concretizzare tali potenzialità. Per far sì che queste non
vengano meno, è indispensabile la partecipazione di tutti; dei lettori e degli
stessi scrittori, che dando la propria opinione sui vari racconti, aiutino gli
autori a correggere i propri difetti e siano di stimolo a migliorarsi. Sono
convinto che le capacità e il talento si possano sviluppare solo tramite un
franco e costruttivo confronto.
È con questo
spirito, perciò, che mi accingo a stendere questa breve recensione. Invito
inoltre gli autori dei racconti, a non prendersela a male nel caso di opinioni
negative o parzialmente negative sui loro scritti; si tratta comunque di
opinioni personali e come tali vanno affrontate. Tenendo sempre a mente, però,
che in quanto appassionato di fantascienza, lettore e acquirente di libri, il
sottoscritto è da considerarsi come parte del loro pubblico potenziale.
A livello
generale, questo primo numero di Pegasus, si presenta come un’antologia di buon
livello, nei vari racconti c’è una notevole varietà di tematiche – si spazia
dall’introspezione di TRAMONTO, di Gianni Sarti all’azione di IL
CAVALIERE DEL FIOCCO, di Damiano Lotto – e di ambientazioni – da
quella rurale e contadina di IL SIGNORE DEL TEMPO, di Sergio
Bissoli, al prossimo futuro di TERRAMATTA, di Vittorio Catani allo spazio
profondo di LA METAMORFOSI, del sottoscritto –.
Come potete
vedere quindi, ce n’è per tutti i gusti.
Innanzitutto,
mi è molto piaciuta la prefazione di Giuseppe Novellino, col suo gusto della
citazione che non diventa mai didattico, e la forma narrativa, nella storia del
chierico che si sviluppa senza intralcio dall’inizio alla fine.
Tra i
racconti, quelli che ho preferito sono il DIARIO DA UN AVAMPOSTO, di
Paolo Secondini, che affronta il tema della solitudine in modo originale e
fulminante, e IL DIO IN SCATOLA, di Sergio Bissoli; nonostante un’idea
di base non proprio originale, la struttura e la forma, la caratterizzazione
dei personaggi, ne fanno un piccolo gioiello.
Devo fare un
discorso a parte per TERRAMATTA, di Catani; pur non avendomi preso in maniera
particolare – forse perché le vicende dei personaggi sono subordinate alla
descrizione dello scenario, mentre personalmente preferisco quei racconti in
cui prevale la storia – è obiettivamente un bel racconto, che ha dalla sua una
splendida scrittura, un’ambientazione originale ed efficace, nonché
l’affascinante idea dei Mutamenti e un finale allo stesso tempo morale e
grottesco.
IL REGALO,
di Giuseppe Novellino, che per il resto mi è piaciuto molto – contiene un
tentativo di immaginare dove porteranno alcune tendenze sociali già avviate,
che è davvero interessante – non mi ha convinto nel finale, a mio avviso troppo
didascalico.
In MIGLIORAMENTO DI SPECIE, di Danilo Concas, un’idea di partenza non originale avrebbe necessitato di qualche guizzo a livello della costruzione o almeno della scrittura, che invece è, ahimè, piuttosto discontinua. Ho anche rilevato un’incoerenza logica – o forse non ho proprio capito dove volesse andare a parare il racconto – che, pur non gravissima, mi ha disturbato nella lettura. IL CAVALIERE DEL FIOCCO, che mi è piaciuto sia nel linguaggio sia nella struttura, mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca in un altro senso; lo riterrei molto più valido come inizio di un romanzo, che non come racconto a sé stante. Mi sono chiesto se per caso l’autore non avesse quell’intenzione…
Riguardo agli altri racconti; trovo che siano tutti lavori di piacevolissimo mestiere, che forse non mi hanno lasciato un segno profondo, ma che ho trovato comunque delle letture molto gradevoli.
Detto ciò, a costo di essere noioso, voglio rinnovare il mio appello: Commentate. Confrontatevi. Fatevi sentire!
In MIGLIORAMENTO DI SPECIE, di Danilo Concas, un’idea di partenza non originale avrebbe necessitato di qualche guizzo a livello della costruzione o almeno della scrittura, che invece è, ahimè, piuttosto discontinua. Ho anche rilevato un’incoerenza logica – o forse non ho proprio capito dove volesse andare a parare il racconto – che, pur non gravissima, mi ha disturbato nella lettura. IL CAVALIERE DEL FIOCCO, che mi è piaciuto sia nel linguaggio sia nella struttura, mi ha lasciato un po’ di amaro in bocca in un altro senso; lo riterrei molto più valido come inizio di un romanzo, che non come racconto a sé stante. Mi sono chiesto se per caso l’autore non avesse quell’intenzione…
Riguardo agli altri racconti; trovo che siano tutti lavori di piacevolissimo mestiere, che forse non mi hanno lasciato un segno profondo, ma che ho trovato comunque delle letture molto gradevoli.
Detto ciò, a costo di essere noioso, voglio rinnovare il mio appello: Commentate. Confrontatevi. Fatevi sentire!
(AA. VV., PEGASUS SF,
Lulu.com)
Sauro Nieddu