Era un personaggio dinoccolato il cui sguardo non
stava mai fermo. Vestito di nero, aveva un che di uomo di chiesa, compresa la
tonsura. All'albergo dei quattro cammini la luce del giorno declinava dietro le
tende rosse e bianche quando l'uomo cominciò il suo racconto.
“Ero diretto a ovest”, disse. “Mi restava da
percorrere una mezza lega per raggiungere il cimitero dove riposano i miei
antenati. Nel cielo di quel tardo pomeriggio delle nubi violacee trascinavano
il loro ventre pesante sui campi dove si stagliavano in controluce delle querce
mozze. Avevo perso molto tempo. Sarei arrivato prima di notte?
La sera mi sorprese in una landa desolata che gli
stessi uccelli avevano abbandonato, poiché in mezzo ai giunchi non trovavano
posto per i nidi. Nient'altro che una bruma acre che faceva appassire gli
ultimi fiori gialli. Essa falsava le distanze e rendeva ancora più inquietanti
le sagome irte dei cespugli.
Una notte senza luna finiva di oscurare il paesaggio. Io
non trovavo più il sentiero. Le spine laceravano i miei abiti e quando volevo
liberarmi, mi ferivano le mani.
L'oscurità s'ispessiva ancora, io proseguivo per la
mia strada quando un grido salì dalla bruma, un urlo da far accapponare la
pelle che mi ghiacciò il sangue, veniva da sinistra, dalla parte dove mi stavo
dirigendo, dalla parte del cimitero. Gli uomini lupo! Essi andavano a caccia,
alla ricerca di qualche vittima isolata. A quell'ora essi giravano fra le tombe
dove brillavano i loro occhi di nictalopi, tutti i sensi acuiti dal desiderio,
annusando gli effluvi della notte che portavano loro un odore di carne
palpitante nelle vicinanze, la mia. Un rictus abominevole faceva scoprire loro
le zanne. La fame tendeva i loro muscoli e faceva rizzare il loro pelame bruno.
D'un tratto fracassarono il muro del cimitero riducendolo a un mucchio di
pietre sconnesse e balzarono verso la loro preda.
Come sfuggire ai loro sensi esacerbati, al loro
insondabile appetito? Fare dietrofront, nascondermi? Dove trovare un riparo su
questa terra ingrata? A dieci leghe di distanza mi avrebbero trovato. In
mancanza di preda sanguinante non andavano forse a dissotterrare i cadaveri per
divorarli?
Tutti i terrori della mia infanzia, nutriti dai
racconti dei vecchi mi risalirono in gola paralizzando le mie membra, balbettai
interminabili preghiere, diedi fondo alla mia riserva di paternostri nella
misura in cui il mio cervello febbricitante non li aveva dimenticati, mi feci
il segno della croce dieci volte, venti volte.
Le urla si avvicinavano inesorabilmente. Scappare a
gambe levate non serviva a niente, non toccando terra, gli uomini lupo
correvano molto più veloci di me. In un istante mi avrebbero acchiappato,
stavano per piombare sulla loro vittima. Mi torsi le mani dalla disperazione.
Inciampai, caddi in un fosso dove ristagnava l'acqua
piovana. Là mi rannicchiai. Restare lì? Quel buco vischioso, maleodorante era la
mia ultima speranza? Mi avrebbe nascosto alla loro vista, al loro olfatto? O mi
avrebbe lasciato senza difesa all'orrore? Rifugio irrisorio, quella cloaca, ma
non avevo più la forza di uscirne.
Arrivavano. Erano là, su di me. Più neri della notte
contro cui stagliavano le loro membra muscolose e villose, i loro musi irsuti.
Spiccavano solo gli occhi dove luccicavano delle fiammelle verdastre, occhi
come fuochi fatui. Le gole emettevano un alito bruciante con un sentore di
forgia. Vidi una lingua di un rosso scuro fosforescente che leccava delle
labbra bluastre.
Sopra di me le mascelle battevano.
E mi accorsi che ero stato ingannato dalla mia
immaginazione angosciata. Vicino a me non c'era traccia di uomini lupo.
Le grida, se erano reali, si allontanavano.
Infine mi tolsi di lì.
Il vento si alzava ghiacciato, mi colpiva il viso.
Portava un fetore di putredine, non perché veniva dal cimitero, quello che
trasportava era l'odore degli uomini lupo. Allora capii di essere fortunato,
poiché il vento soffiava nella mia direzione, mi sottraeva al fiuto dei miei
cacciatori.
Infatti le grida non tardarono a spostarsi verso destra,
verso lo stagno del Granduca dove i mostri andavano ogni notte a placare la
loro sete smodata.
Caddi in ginocchio.
Spinto dalla vergogna, avevo finito per controllare la
mia paura. Se essi non avessero trovato la mia traccia, per stizza sarebbero
tornati al cimitero per sfogare la loro fame sui cadaveri. Si trovavano
talvolta delle tombe aperte, delle bare vuote tranne che per qualche ossame
rosicchiato, qualche avanzo. Nell'egoismo della paura che mi aveva attanagliato
poco prima, io avrei lasciato loro volentieri i resti dei miei antenati.
Se i mostri deviavano dal mio cammino, io avevo una
possibilità, ben debole ancora, ma una possibilità di raggiungere il poggio
vicino e la sua via crucis e mettermi sotto la protezione della croce.
Tutto a un tratto il cielo dalla parte dello stagno fu
striato da luci sulfuree che mettevano in risalto le sagome dei giunchi. Le
urla ripresero correndo come un incendio sulla landa. Cielo e terra se ne
rinviavano l'eco.
Allora apparvero al posto delle nubi, delle forme di
brandelli sanguinolenti che si stiravano, si contorcevano, si attorcigliavano
le une sulle altre, si fondevano, sembravano divorarsi a vicenda per fondersi
tra rantoli e gemiti. Talvolta prendevano dei contorni riconoscibili. Vedevo
dei serpenti, dei draghi che sputavano il loro fuoco, dei tori dai dorsi
mostruosi le cui corna sventravano la notte, degli stalloni impennati dalla
criniera di fuoco, ogni sorta di animali favolosi. La notte gridava tutta la
sofferenza del mondo in preda al male e in attesa di riscatto. Sarei
sopravvissuto ancora abbastanza a lungo per non soccombere con l'anima pesante
di tutti i miei peccati?
Ero sfuggito agli uomini lupo per incappare nell'ora
dell'apocalisse? Vedevo l'Orda. Quelli che la vedono, dicevano i vecchi,
non hanno più di un'ora da vivere. Questa volta, l'orrendo spettacolo
non era il prodotto della mia immaginazione, persisteva nei miei occhi
sbarrati. Stavolta non avevo scampo. Sentii i capelli che mi si rizzavano sulla
testa, e nonostante la frescura della notte, il sudore ruscellava lungo la mia
schiena. Le mie gambe erano di nuovo deboli. Strinsi i denti per non sentirli
battere.
Infine mi sembrò di vedere un chiarore in un angolo del cielo, un lucore irradiato
dalla luna che restava velata.
Lentamente, l'Orda si spostava verso ovest. Subito il
tumulto si attenua, si allontana per svanire infine. Non era a me che dava la
caccia. Il cielo grigio scuro si stendeva senza stelle dietro la cortina di
bruma. Oltre il chiarore che persisteva all'est, al livello dell'orizzonte, un
lucore biancastro sorto dal nulla sembrava muoversi verso di me. Raccolsi il
mio coraggio per affrontare questa nuova prova.
Una forma uscì dalla bruma, aveva riflessi d'argento.
Distinsi il corpo, poi le ali. Riconobbi colui la cui venuta senza dubbio era
stata annunciata dall'Orda, l'angelo della morte. E curiosamente, stavolta non
ebbi alcuna paura.
“Cosa vuoi?”, gli chiesi con una voce la cui fermezza
mi sorprese, “l'ora è arrivata?”
“Si”, mi rispose.
“Sono pronto”.
Curiosamente, era vestito di bianco alla maniera di un
cavaliere, si sarebbe detto che portasse una corazza, ma che doveva essere di
un'estrema leggerezza. Sulla testa nuda brillavano i suoi lunghi capelli
biondi. Riprese a parlare:
“Questo non è che il nostro primo incontro. Ti lascio
una possibilità, a una condizione: dobbiamo batterci”.
Una lotta con l'angelo? Che speranza avevo di vincere?
L'impresa era disperata!
“Se vinci”, disse, “otterrai un rinvio”.
“Per quanto tempo?”
“Fino al nostro prossimo incontro”.
“E in quel momento?”
“Avrai una seconda possibilità, poi se vincerai, una
terza che sarà l'ultima”.
“Di quanto saranno intervallati i nostri incontri?”
“Nessun mortale lo sa prima di trovarmi sulla sua
strada. Accetti?”
Per debole che fosse la mia speranza,perché non tentare?
Avevo vinto la paura.
Forte di questa vittoria, raccolsi la sfida. Per
formidabile che fosse il mio avversario, aveva preso forma, una forma che tutto
sommato non era inumana. Io potevo confrontarmi con lui anche se le mie
speranze di batterlo restavano infime. Sarei stato battuto ma in questa lotta
prima di perire avrei guadagnato il rispetto di me stesso, riscattato i miei
errori e soprattutto le mie debolezze. L'avversario era degno di me, sarei
stato degno di lui? Come saperlo senza lottare? Non ho mai provato come in quel
momento una furiosa voglia di vivere. La bestia in noi che sfodera tutte le sue
unghie, tutti i suoi denti.
“Accetto. Che Dio mi aiuti!”
“Preparati”.
L'angelo indietreggiò. Non che facesse qualche passo
indietro, perché non toccava terra. Come per evitare di abbagliarmi e dare un
sembiante di uguaglianza, ridusse il fulgore della sua figura. A dire il vero,
al primo contatto entrai nell'alone che lo circondava e ormai avvolgeva tutti e
due.
La lotta fu di un'estrema violenza. Tanto più che non
riuscivo a vedere il viso dell'angelo, io non vedevo che la sua capigliatura.
Essa gettava una luminosità più viva dell'alone dove si inscriveva il nostro
corpo a corpo, essa faceva vibrare fra le mie mani delle lunette d'argento. Io
ero ancora robusto a quell'epoca. Le molte prove che avevo attraversato – il cielo non mi aveva risparmiato niente –
avevano indurito la mia carcassa. Vedendo che resistevo, credetti di sorpassare
i miei limiti, mi sentivo posseduto da una volontà spaventosa, malsana, empia
di salvare la mia miserabile pelle e – perché negarlo? – da un desiderio di
vincere dove dominava l'orgoglio.
Il mio avversario aveva dalla sua tutta la forza
dell'aldilà. Era difficile da afferrare, scivolava tra le dita. D'un tratto
aveva il peso del piombo o quello della piuma. I suo corpo emanava un freddo
che in ogni caso faceva lasciare la presa. E anche quando non pesava niente, il
suo pugno era di ferro. Mi piegava come un cestaio un filo di giunco. Cento
volte avrei creduto che mi avrebbe spezzato la schiena, rotto la nuca,
squartato. Ma no, resistevo. Avevo la sensazione che non spingesse a fondo il
suo vantaggio. Cosciente della sua superiorità, certo di vincere, faceva durare
la prova. Compresi allora quello che voleva da me: che io chiedessi grazia, che
capitolassi, che riconoscessi la mia sconfitta. Invece di uccidermi, cosa che
per lui sarebbe stata facile, voleva che accettassi, che sollecitassi la morte.
Davanti alla potenza di un tale avversario le forze mi
abbandonavano. La mia volontà si piegava, la crudele coscienza dei miei peccati
che mi rodeva, l'indeboliva ancora di più. Stavo per soccombere. Con un'ultima
presa irresistibile, l'angelo mi aveva gettato a terra. Il freddo della morte
mi raggiungeva.
Allora vidi il viso dell'angelo, o piuttosto vidi il
mio, poiché l'angelo aveva preso i miei lineamenti. Compresi che ero perduto.
Che potevo fare? Recitai un'ultima preghiera, più vibrante ancora.
Di colpo mi trovai solo nella landa. Il giorno
spuntava. La bruma si alzava. Il mio avversario era scomparso. Dopo questa
avventura non si è più manifestato. Ma la sfida è ancora in corso. Viene l'ora
dell'ultimo incontro. Io sono pronto”.
Un colpo di vento aprì la finestra sulla notte, fece
battere le tende, soffiò sulle candele che crepitarono. Si fece silenzio
intorno alla tavola. L'angelo passò.
(Traduzione dal francese di Fabio Calabrese)
Altro bel racconto, di ispirazione decisamente fantastica, di Pierre Jean, cui rivolgiamo un saluto cordialissimo.
RispondiEliminaRacconto molto bello, avvincente, con parecchia suspense.
RispondiEliminaG.S.
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaUn'altro bel racconto di Pierre Jean, contenente alcuni dei suoi temi che stiamo ormai imparando ad apprezzare. La fragilità del confine tra realtà e fantasia, tra vita e morte, si manifesta appieno tra le ombre. Per lasciare, al sorgere del sole, l'ombra del dubbio nella mente del protagonista. E del lettore.
EliminaPS il commento precedente è stato eliminato per motivi meramente formali.
Racconto davvero suggestivo, ricco di atmosfere tenebrose ma anche percorso da autentici brividi metafisici. A una prima parte, degna delle migliori ambientazioni gotiche e orrorifiche, fa seguito l'arcano, epico e terribile duello tra il protagonista e l'angelo biancovestito. Qui il racconto assume il significato dell'incontro che tutti gli uomini hanno con la morte, sulle soglie di un'eternità dove si fisserà per sempre il significato che abbiamo dato alla nostra esistenza. C'è veramente da tremare, ma anche da essere affascinati dal grande mistero in cui siamo immersi.
RispondiEliminaBella la traduzione di Fabio.
Giuseppe Novellino