È
stata una uggiosa giornata di lavoro in ufficio. Il cielo nuvoloso ha
costretto a tenere quasi sempre le luci accese nei locali. E ora si è
messa anche la pioggia.
Carlo
Maria Tutarelli, ultracinquantenne impiegato del catasto, aspetta
alla fermata. L’impermeabile e il cappello sono già completamente
bagnati. E il 66 tarda ad arrivare. L’orologio sulla torre della
piazza segna le 17.45.
Ma
ecco l’autobus sbucare dall’angolo di via Cavour. No, non è il
suo, ma il 32 – Circonvallazione Est. Tutte le persone che erano in
attesa chiudono gli ombrelli e salgono.
Solo
lui rimane a terra.
Un
suv passa molto rasente al marciapiede e gli spruzza addosso l’acqua
untuosa di una pozzanghera.
–
Maledizione! – impreca.
Poi
l’irritazione si stempera perché il mezzo pubblico sta arrivando.
Sì,
è proprio il 66.
L’impiegato Carlo Maria sale con un balzo e si siede nel primo
sedile che trova libero.
Un
sospiro di sollievo. In un quarto d’ora al massimo si troverà
proprio davanti al portoncino del condominio in cui abita. Potrà
rifugiarsi nel suo trilocale da vecchio scapolo. Si riscalderà dei
ravioli al microonde, e poi passerà una tranquilla serata nel suo
mondo virtuale di Facebook a ciattare con gli amici. O magari
finirà per guardarsi quella videocassetta che gli ha prestato il
cugino Michele: un film porno che deve promettere qualche emozione.
Nel caso prevarrà questa seconda opzione, se lo sparerà in
camera da letto, in pigiama, con un paio di birre al doppio malto a
portata di mano. E poi… nanna, prima di affrontare un’altra
giornata di lavoro noioso in mezzo a scartoffie polverose e colleghi
fastidiosi.
Solo
un paio di minuti dopo essere salito sull’autobus, si guarda
intorno.
Strano, la vettura e semivuota. Ci sono solo otto passeggeri, oltre
lui e l’autista. Eppure, a quell’ora di punta tante persone
tornano a casa dal lavoro.
Carlo
Maria osserva la vecchia che sta seduta nell’altra fila di
poltroncine. È trasandata, gli abiti strappati in più punti, le
scarpe logore e sfondate. Porta un cappellino decisamente fuori moda.
Ma il viso non è brutto, solo alquanto triste, con gli occhi persi
nel vuoto.
Gli
altri passeggeri sono più indietro, nella penombra, figure avvolte
nei loro indumenti inumiditi dalla pioggia. Carlo Maria riesce a
capire che due sono anziani, forse marito e moglie; uno invece è
giovane, muscoloso, con un giubbotto di pelle e un casco da
motociclista sulle ginocchia. Poi ci sono due uomini sui
cinquant’anni. Uno dei due è obeso, con la testa china sul petto;
l’altro è magrissimo con una faccia grigiastra, pelle e ossa.
Indossa un cappotto invernale sopra quello che sembra un pigiama. Più
indietro, sulla sua stessa fila, sono sedute due donne, una anziana e
l’altra giovanissima, le cui facce sono poco visibili per la scarsa
luce.
Carlo
Maria guarda attraverso i vetri del finestrino e vede negozi, persone
con gli ombrelli che si rincorrono o si incrociano con passo
frettoloso. Ma la via non gli sembra del tutto familiare. Che il 66
si sia messo a fare un altro percorso?
Ma
adesso si rende conto che l’autobus non ha ancora fatto una
fermata. Eppure sta viaggiando da qualche minuto, forse dieci.
Scopre
il quadrante dell’orologio da sotto polsino della camicia: sono
ancora le 17.45.
Forse
si è fermato, pensa.
–
Mi scusi – si rivolge alla donna con il cappello fuori moda, – mi
sa dire che ora è?
Quella
gli dedica un sorriso neutro. Guarda il suo orologio e dice:
–
Sono le 9.32.
Caspita!
Come fa quella a rifilargli un orario tanto fasullo?
Allora
volge lo sguardo all’indietro, con aria interrogativa.
La
giovane donna, seduta accanto all’anziana, coglie al volo la sua
richiesta.
–
La signora, probabilmente ha l’orologio indietro. Per me sono le
16.25.
–
Io, invece, faccio le 11.40 – si intromette il motociclista.
– E
io le 7.05 – dice l’obeso.
E poi
si sente un’altra voce, ma Carlo Maria non capisce a chi dei
rimanenti appartenga.
–
No, l’ora esatta è la mia: le 13.55.
L’impiegato
del catasto trattiene il fiato. Che lo stiano prendendo in giro?
Aspetta un momento e poi guarda di nuovo il suo orologio: riporta
sempre le 17.45.
Fuori,
la pioggia sembra torrenziale, uno strano chiarore illumina le
facciate delle case, la gente e i veicoli che vanno e vengono.
Il
veicolo pubblico continua a procedere con un’andatura regolare, il
che a Carlo Maria sembra un po’ strano, essendoci molto traffico.
Finalmente si ferma. Ma si apre solo la porta di ingresso. Quelle di
uscita rimangono chiuse. Nessuno si alza, naturalmente neanche Carlo
Maria, perché non è la sua fermata.
Sale,
con fatica, un signore molto anziano con un bastone e va a sedersi
accanto all’impiegato.
Il
mezzo si rimette in moto.
Dopo
un po’ Carlo Maria gli chiede:
–
Sa dirmi l’ora?
L’altro
lo fissa a lungo, con aria stranita. Poi guarda il suo orologio.
–
Sono le 18.15.
–
Quello di Carlo Maria, invece, è sempre fermo sulle 17.45.
Non
resta che il conducente.
L’impiegato
si alza e, traballando, si avvicina al posto di guida.
–
Mi scusi… – ma le parole gli rimangono in gola.
Il
conducente dell’autobus 66 non ha volto. Solo una liscia superficie
madreperlacea si stende fra il collo e il cappello d’ordinanza.
–
Non vede cosa c’è scritto? – gli risponde. – Non parlare al
conducente. Torni a sedersi e stia buono.
Carlo
Maria Tutarelli di anni cinquantacinque, impiegato al catasto, non
può fare altro che ubbidire.
Intanto
il mezzo continua la sua corsa, in un ambiente cittadino sempre più
trasfigurato da una luminosità lattiginosa. Ma le case, gli angoli,
le piazze, non sono quelli di sempre. E il traffico non intralcia
l’autobus.
Solo
alle fermate, sale qualcuno… sempre uno alla volta. A tutti Carlo
Maria chiede l’ora. E tutti dichiarano un orario diverso dal suo e
da quello riportato dagli orologi degli altri passeggeri.
Vorrebbe
scendere, ma non può. Nessun altro scende.
Quando
l’autobus si ferma per far salire un nuovo passeggero, le altre
porte non si aprono. E poi non è mai la sua fermata…
Adesso
si chiede: cosa avverrà quando il veicolo sarà pieno, con tutti i
posti esauriti, quelli a sedere e quelli in piedi?
* * *
–
Poveraccio! – esclamò una delle tre persone che era accorsa a
soccorrere l’uomo.
Avvolto
nel suo impermeabile bagnato, era caduto sul marciapiede, alla
fermata dell’autobus. Il cappello era rotolato in una pozzanghera.
–
Deve avere preso un infarto… o un ictus – fece un altro.
Intanto
si era formato un capannello di gente, gli ombrelli aperti sotto la
pioggia scrosciante.
Poi i
rumori della città vennero coperti dal suono lacerante di una sirena
d’autoambulanza.
Come il solito, Giuseppe, i tuoi racconti (come appunto il presente, molto suggestivo), sono pieni di vibrante suspense e di una particolare atmosfera di irrealtà davvero inquietante.
RispondiEliminaGrande atmosfera! Ha finito per sfasare anche il mio orologio, così sono tornato indietro di qualche anno e mi sono ritrovato davanti al televisore a guardare un vecchio episodio di The Twilight Zone.
RispondiEliminaSauro Nieddu
Bel racconto, proprio riuscito, sospeso nel tempo. Il finale risulta ancora più sospeso, tra realtà e fantasia.
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