sabato 9 marzo 2013

LA PARTITA di Vincenzo Di Pietro

                              


Luci verdi intense.
Lampade rotonde.
Rotonde come astronavi…
Passo attraverso la coltre di fumo denso che avvolge tutti i presenti, scivolo fluido attorno al tavolo.
Gli occhi, che ormai lacrimano, sempre fissi sulla sponda corta opposta.
Il panno, con il suo verde eccitato dalle luci, è una palude nella quale i miei gomiti affondano sempre di più, ogni minuto che passa…
Il pubblico guarda me, le mie mani, l’inclinazione che decido per la stecca.
Il mio avversario è obeso, con il suo sigaro in bocca che trema, con i suoi occhi foderati di carne stanca, maculata.
Non devo guardarlo.
Non devo pensare a lui, né avere alcuna pietà.
Me la prendo comoda, cambiando la posizione del legno tre o quattro volte.
Qualcuno, sulle tribune, bisbiglia.
Per tutti loro, è un momento entusiasmante…
Mi concentro sulla palla bianca, decido la quantità d’effetto da caricare, dò un’ultima controllata alla posizione del pallino.
Inspiro, espiro.
Lascio partire il colpo, secco, felpato.
Una, due, tre sponde, calcio, tac, palla bianca su pallino, dodici punti e copertura.
Partita.
Ho vinto.
Un secondo di silenzio, poi il grido della folla radunata mi travolge.
Pulisco delicatamente la punta della stecca con il gessetto, senza guardare il mio avversario. Tuttavia percepisco che sta raggiungendo il bagno, accompagnato da uno degli spettatori.
Smonto la stecca e la ripongo, con cura, nel cofanetto.
Mi sciolgo il papillon e sbottono il colletto della camicia. Espiro tutta l’aria che ancora tenevo costretta nei polmoni.
Il mio avversario è scomparso dentro il gabinetto.
Mi siedo sul primo panchetto delle tribune, qualcuno mi fa i complimenti.
Mani enormi sulle spalle.
Mani smisurate, viscide, oleose…
Qualche suono disarticolato, grugniti, più che altro.
Dopo qualche istante, una tremenda detonazione scuote la porta del bagno.
Ovazione dei presenti.
I camerieri della sala bigliardo, incerti sulle gambe, entrano nella ritirata.
Poi, dopo alcuni minuti liquidi, escono, assieme al mio avversario.
Il grassone viene trascinato fuori dai piedi, il suo sangue disegna un percorso vermiglio lungo il corridoio del bar.
La folla, il mio pubblico, si avventa sul cadavere, divorando famelica brandelli di carne, pasteggiando con i suoi intestini.
Senza una parola esco dal locale, lascio la mia tessera di salvacondotto all’ominide color azzurro marcio dai grandi occhi macchiati di giallo, il quale controlla l’esito delle gare e mi accingo a ritornare nel penitenziario dove sono detenuto da tre anni.
Le guardie mi scortano fino alla navetta.
Tre anni fa, quando arrivarono le astronavi, al Presidente sembrò una buona idea far conoscere il biliardo agli alieni; un passo verso l’integrazione, disse.
Bella trovata, sul serio.
Io, da allora, ho cominciato ad allenarmi, perché avevo una specie di presentimento…

                                               (Per gentile concessione dell’Autore)

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