Luci
verdi intense.
Lampade
rotonde.
Rotonde
come astronavi…
Passo
attraverso la coltre di fumo denso che avvolge tutti i presenti, scivolo fluido
attorno al tavolo.
Gli
occhi, che ormai lacrimano, sempre fissi sulla sponda corta opposta.
Il
panno, con il suo verde eccitato dalle luci, è una palude nella quale i miei
gomiti affondano sempre di più, ogni minuto che passa…
Il
pubblico guarda me, le mie mani, l’inclinazione che decido per
la stecca.
Il mio
avversario è obeso, con il suo sigaro
in bocca che trema, con i suoi occhi
foderati di carne stanca, maculata.
Non
devo guardarlo.
Non
devo pensare a lui, né avere alcuna pietà.
Me la
prendo comoda, cambiando la posizione del legno tre o quattro volte.
Qualcuno,
sulle tribune, bisbiglia.
Per
tutti loro, è un momento entusiasmante…
Mi
concentro sulla palla bianca, decido la quantità d’effetto da caricare, dò
un’ultima controllata alla posizione del pallino.
Inspiro,
espiro.
Lascio
partire il colpo, secco, felpato.
Una, due, tre sponde, calcio, tac, palla bianca su pallino, dodici
punti e copertura.
Partita.
Ho
vinto.
Un
secondo di silenzio, poi il grido della folla radunata mi travolge.
Pulisco
delicatamente la punta della stecca con il gessetto, senza guardare il mio
avversario. Tuttavia percepisco che sta raggiungendo il bagno, accompagnato da
uno degli spettatori.
Smonto
la stecca e la ripongo, con cura, nel cofanetto.
Mi
sciolgo il papillon e sbottono il colletto della camicia. Espiro tutta l’aria
che ancora tenevo costretta nei polmoni.
Il mio
avversario è scomparso dentro il gabinetto.
Mi
siedo sul primo panchetto delle tribune, qualcuno mi fa i complimenti.
Mani
enormi sulle spalle.
Mani
smisurate, viscide, oleose…
Qualche
suono disarticolato, grugniti, più che altro.
Dopo
qualche istante, una tremenda detonazione scuote la porta del bagno.
Ovazione
dei presenti.
I
camerieri della sala bigliardo, incerti sulle gambe, entrano nella ritirata.
Poi,
dopo alcuni minuti liquidi, escono, assieme al mio avversario.
Il
grassone viene trascinato fuori dai piedi, il suo sangue disegna un percorso
vermiglio lungo il corridoio del bar.
La
folla, il mio pubblico, si avventa
sul cadavere, divorando famelica brandelli di carne, pasteggiando con i suoi
intestini.
Senza
una parola esco dal locale, lascio la mia tessera di salvacondotto all’ominide
color azzurro marcio dai grandi occhi macchiati di giallo, il quale controlla
l’esito delle gare e mi accingo a ritornare nel penitenziario dove sono
detenuto da tre anni.
Le
guardie mi scortano fino alla navetta.
Tre
anni fa, quando arrivarono le astronavi, al Presidente sembrò una buona idea
far conoscere il biliardo agli alieni; un passo verso l’integrazione, disse.
Bella
trovata, sul serio.
Io, da
allora, ho cominciato ad allenarmi, perché avevo una specie di presentimento…
(Per gentile concessione dell’Autore)
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