giovedì 21 marzo 2013

ALLO ZOO di Pee Gee Daniel

                               


Tommy si mostrava tuttora titubante.
Non era mai voluto andare lì, sino a quella mattina, nonostante i suoi amichetti ci fossero già stati tutti, magari anche più di una volta, e gliel’avessero descritta come un’esperienza davvero divertente. Aveva sempre nutrito un certo senso di inspiegabile paura, malgrado il babbo lo avesse tante volte rassicurato che non c’era proprio niente da temere. Lì sarebbero stati al sicuro, protetti per tutto il tempo dalla gabbia, e per quanto quelle bestiacce feroci si potessero avvicinare, mai e poi mai avrebbero potuto aggredirli.
Eppure Tommy, sino ad allora, accampando questa o quell’altra scusa, si era sempre rifiutato.
Era più forte di lui. Non si fidava. Poco da farci. Si trattava di un sentimento del tutto irrazionale – questo era pacifico –, ma proprio perciò era rimasto tanto a lungo inamovibile.
Riuscì infine a smuoverlo da quella fifa, come spesso accade a quell’età, il fastidio che gli procuravano gli amichetti che si prendevano continuamente gioco di lui, dandogli del cacasotto e sfidandolo a dimostrare il contrario.
Quella mattina, appunto, Tommy si era fatto forza e aveva chiesto al babbo di accompagnarlo. Quella mattina, deglutendo a fatica e serrando per bene i pugni, si volle convincere una volta per tutte che quella fila di sbarre in titanio dal diametro di due spanne, poste nel mezzo tra loro e le belve, lo avrebbe veramente preservato – come tutti quanti non la finivano mai di ripetergli – dall’eventuale furia ferina.
Strinse forte la mano di babbo. La sua manina bianca e liscia scompariva in quella paterna, larga e scura. Babbo osservò quella stretta per un istante, poi spostò lo sguardo sull’esile volto del figlio, picchiettato di efelidi e ricoperto, sotto il nasino, di un velo di moccio concrezionato. Babbo sorrise quando si scoprì fissato, di rimando, dagli occhi chiari e freschi di Tommy. Gli scosse la manina, chiusa nella propria, come a dire: Su, andiamo!
Tommy fece sì con la capoccetta.
I due si mossero lentamente verso la lunga sequela di sbarre che li attendeva oltre un dosso di terra spelacchiata, a duecento metri circa da loro.
Coprirono quella breve distanza canticchiando in coro una vecchia canzoncina che a babbo, quando aveva l’età di Tommy, aveva insegnato nonno – e al nonno chissà chi – e che lui aveva poi a sua volta insegnato a Tommy, e che faceva:

Bingo-bango-bongo
stare bene solo al Congo
non mi muovo no no.
Bingo-bango-bengo
Molte scuse, ma non vengo
Non mi muovo più…

Tommy, pur con i suoi piedi corti e le gambe ancora graciline, tentò di regolare i propri passi sulle poderose falcate di babbo e in un attimo furono in faccia alle sbarre. Ma, con sua grande sorpresa, ancora non si muoveva alcunché al di là di esse.
Si potevano soltanto intravedere delle postazioni a sedile, forse pensate per farvici adagiare le bestie più stanche, e qualche punto di ristoro, anch’esso lasciato tuttora deserto.
“Abbi pazienza. Devono ancora aprire i cancelli”, si affrettò a spiegargli babbo.
Era presto. La mattinata aveva appena iniziato a inondare il cielo di una luce tersa e brillante, che cominciava a intiepidire timidamente l’aria frizzantina delle prime ore del giorno. Un vento fresco e sottile si era sbrigato a soffiare via tutte le brume che si fossero attardate a fumare sopra la distesa di terreno ghiaioso dalla notte precedente.
Babbo e figliolo stettero là, per un po’, impalati, lo sguardo rivolto davanti a loro, in placida attesa. Ogni tanto si scambiavano qualche rapida occhiatina, durante la quale babbo non mancava di strizzargli simpaticamente l’occhio.
Poi, tutto d’un tratto, un rumore sordo e metallico investì lo spazio d’aria sopra le loro teste castane. Clang!
Tommy rivolse istantaneamente uno sguardo impaurito e titubante al genitore. Questi, in risposta, gli strinse la mano con più forza e gli fece un sorriso a mezza bocca che ne discoprì gli incisivi bianco-avorio e, nel contempo, gli fece comparire, agli angoli esterni degli occhi, una raggiera di graziose rughe d’espressione per parte.
Era un sorriso buono. Era un sorriso di incoraggiamento. Con quel sorriso voleva dirgli: Non ti preoccupare! Non sta accadendo niente di pericoloso!
In effetti il rumore che aveva appena avvertito altro non era che lo schianto dei cancelli di passaggio, al momento dell’apertura automatizzata. Segno che la miriade di orride bestiacce stava finalmente per essere lasciata libera di entrare e che, di lì a poco, a loro due, e a chi gli si fosse eventualmente affiancato al di qua delle sbarre, si sarebbe offerta la spettacolare esibizione di così tante razze, tutte insieme riunite.
Dapprima si poté udire qualche leggero scalpiccio, ancora lontano. Poi un vociare sommesso. Infine si levò un vento robusto, che, proveniente dalla parte delle cancellate, spirava sino a loro, offrendo ai loro olfatti un misto di odori e profumi.
Tommy rovesciò la testolina in modo da esporre il naso a quella nuova corrente. Annusò l’aria a pieni polmoni. Ne colse un retrogusto forte e intenso, come di cuoio inumidito.
“Che cos’è?”, domandò.
“Arrivano”, spiegò babbo.
A quell’informazione, immediatamente, gli occhi di Tommy si gonfiarono di sorpresa, mista a una punta di trepidazione. Arretrò istintivamente di qualche passo. Incominciò a fissare, con occhi messi a fessura, verso la sua destra, punto da cui presumeva dovesse giungere da un momento all’altro il branco.
Le prime ombre si proiettarono, lunghissime, contro il selciato che si trovava dall’altra parte delle sbarre. Tommy ne notò i cucuzzoli che iniziavano a ondeggiare a terra, occupando sempre più posto, man mano che il gruppo si avvicinava al luogo in cui lui e il padre rimanevano.
A quella vista sentì il cuore accelerare di colpo.
La gola gli parve ardere, da quant’era asciutta.
Tommy guardò le sbarre luccicare sotto quel primo sole. A occhio ne constatò e soppesò la consistenza. Portò lo sguardo in alto, a quattro metri da terra, laddove terminavano. Le vide sormontate da delle picche acuminate. Per di più un filo elettrificato si stendeva tra punta e punta. Era ben difficile che riuscissero a scavalcare. Poi scese con lo sguardo al terreno, dove le sbarre erano conficcate dentro un muretto perimetrale in cemento armato alto almeno mezzo metro. Era anche impossibile che potessero sradicarle, si disse.
A quell’ulteriore accertamento si sentì più sollevato.
Il volto gli si distese. Il cuoricino ricominciò a pulsare secondo un ritmo più tranquillo, sebbene fosse ancora reso un po’ più rapido del solito da quello stato di suspense in cui il ragazzino si trovava.
“Eccoli!”, lo avvertì a un certo punto il babbo, che dalla sua statura poteva notare con qualche secondo di anticipo che cosa si stesse preparando dietro l’inferriata.
Tommy trasalì. All’improvviso vide spuntare tra una sbarra e l’altra due grosse palline bianche, bucate al loro centro da due circoletti neri neri, che, appena arrivate presero ad agitarsi su e giù, come se stessero rimbalzando su un appoggio invisibile.
Facendo forza alle proprie resistenze psicologiche, Tommy dovette ammettere che non si trattava di un paio di palline, bensì di due occhi ben sgranati che lo stavano scrutando con attenzione.
Indeciso tra darsela a gambe e rimanere, si aggrappò a viva forza alla gamba del babbo a lui più vicina.
Come reazione, dalla bocca di babbo si staccò una risata sonora, mentre con la mano ben aperta andava a cercargli la testa per arruffargli energicamente i lunghi capelli, in un gesto che, nelle intenzioni, potesse infondergli qualche rassicurazione.
“Niente paura!”, lo esortò poi, con la sua vociona bassa e ferma. “Non ti faranno alcun male. Sono solo curiose di guardarti meglio, proprio come lo sei tu con loro”.
Tommy allora osservò meglio quelle due orbite spalancate e ora gli sembrò che quegli occhi, in effetti, non avessero un’espressione poi cattiva.
“Si tratta di un maschio di razza negroide”, continuò a spiegargli, a bassa voce il padre, “Non sono cattivi. Anzi generalmente sono esemplari piuttosto mansueti”.
 Tommy lanciò ancora un’occhiata verso le sbarre e, attraverso di esse, poté osservare –soffermandosi stavolta con maggiore scrupolo – una bocca tumida e scura che, sotto quei due grandi occhi a palla, proprio in quel momento si stava allargando in un ampio, candido sorriso.
Aveva capelli neri e ricci e le zampe e il muso erano di un marrone assai scuro.
Il fatto curioso era che quelle sue lunghe zampe, le cui terminazioni erano dita sottili e snodate come un fascio di giunchi, si presentassero di quella tinta unicamente sul dorso, perché i palmi erano invece di un giallino pallido. Questo Tommy poté notarlo allorché l’esemplare di negroide maschio parve volerlo salutare, agitando per aria la zampa aperta.
Con quelle stesse zampe superiori, subito dopo, corse ad afferrarsi alle sbarre, con un gesto inconsulto che sulle prime fece sussultare il bambino e lo obbligò a indietreggiare rapidamente.
Poi però capì che il bestiale soggetto che stava esaminando aveva impugnato il metallo con l’unico scopo di avere un punto di appoggio abbastanza saldo da potersi spingere in avanti e, a sua volta, esaminare meglio Tommy e il babbo.
Passò poco perché il maschio negroide chiamasse a sé qualcuno, emettendo certi versi che alle orecchie di Tommy dovettero suonare del tutto simili a una serie di latrati. Ed ecco quindi spuntare accanto a lui due esemplari più piccoli della sua stessa razza.
“Sono i suoi cuccioli”, chiarì babbo.
Uno dei due aveva occhi svegli e ridenti, l’altro aveva capelli lunghi sino a metà schiena, tenuti insieme con una bella treccia, e dei tratti più gentili di quelli del fratello.
“Sono carini”, ammise Tommy.
Il maschio adulto e i suoi due piccoli cominciarono subito a comunicare tra loro, attraverso quelle loro strane espressioni verbali, e intanto non la smettevano di fissare Tommy e suo padre. Mentre quelli si scambiavano i loro versi gutturali, Tommy non poteva fare a meno di indugiare con lo sguardo sulla insolita maniera in cui erano ricoperti i loro corpi, dal collo giù giù sino ai piedi, con tutta una combinazione di tessuti dal taglio un po’ squadrato, e si domandava se fossero stati loro stessi a sistemarsi così o se, più probabilmente, non fosse stato qualche ammaestratore a decidere per loro, tanto da renderli, rivestiti a quel modo così buffo e inusuale, ancora più ridicoli di quanto non avesse già provveduto per parte sua la natura.
I negroidi si attardarono lì dietro ancora per un po’, mostrando di tanto in tanto le file dei grandi denti immacolati con quelli che dovevano essere delle specie di sghignazzi scimmieschi e poi, a un certo punto, proprio come se ne avessero avuto abbastanza di quello spettacolo, tutto d’un tratto scomparvero dalla loro vista.
Tommy era incerto se restare ancora oppure andarsene. In altre parole non sapeva minimamente se la visita si potesse dire conclusa o meno. Ma ben presto intese che la questione si sarebbe protratta ancora a lungo, nel momento in cui il padre, posandogli lo sguardo addosso, lo avvertì:
“E questo era solamente l’inizio, figliolo. Vedrai d’ora in poi che altre stramberie ci passeranno davanti, se saremo un po’ fortunati!…”.
Tommy si dispose per l’attesa. Separò un tantino le gambe l’una dall’altra, così da piantare più saldamente i piedi in terra e prepararsi con più comodità al resto di quel carosello di animali esotici. Incrociò le braccia sul petto, inarcando leggermente la schiena, e prese a puntare con assoluta serietà davanti a sé.
I successivi fenomeni in esposizione non si fecero attendere molto.
Fu questa la volta per una famigliola di avvicendarsi di fronte a loro.
“Sono musi gialli!”, riferì babbo.
Tommy li scrutò per bene, ma non sembrarono propriamente gialli. Almeno non come erano gialle le foglie sugli alberi quando si faceva autunno, né gialli com’era gialla la paglia dei giacigli. Erano tutt’al più giallastri, volle concedere tra sé al padre.
Ma ciò che lo attrasse di più fu il taglio dei loro occhi. Pareva che lo stessero rimirando con un’espressione del tutto simile a quella di chi sta per scoppiare a ridere, ma cerca ancora di trattenersi. E questo, a dire il vero, un po’ lo infastidiva.
“Sono come scimmiette”, spiegava babbo, con bonarietà, “Ridacchiano sempre, lo vedi? Fanno inchini e ridacchiano. Non sono pericolosi”.
Tommy osservò ancora per un po’ quella esigua rappresentanza di scimmiette dai musi giallognoli. Erano minute di statura. Questo valeva anche per i capi adulti. Avevano facce lunghe e simpatiche ed erano fin troppo ossequiosi nell’avvicinarglisi. Li hanno addestrati bene, pensò tra sé e gli nacque la curiosità di capire chi avesse mai avuto tanto tempo e pazienza da mettersi lì e portare quelle bestiole a un così elevato grado di buona educazione. Certo ne avrà ben avuto il suo tornaconto, chiosò poi sempre tra sé, adoperando una di quelle tipiche frasi che sentiva spesso pronunciare al babbo, specie la sera, a cena, quando mamma lo informava di qualche gentilezza ricevuta in giornata da parte di una vicina di alloggiamento.
Spariti anche gli asiatici ci fu un attimo di tregua. Il babbo ebbe così modo di accarezzare energicamente la testa del figlio e intanto chiedergli:
“E allora? Hai paura?”
Tommy si affrettò scuotere la testa in segno di diniego.
“E bravo il mio ometto! Visto che avevo ragione?”, commentò babbo orgoglioso, “Sta’ a vedere che alla fine ti diverti pure”.
Poi, lanciando una rapida occhiata verso destra, con un tono monocorde avvertì:
“Balcanici in arrivo”.
Dalla voce, non sembrava dovesse nutrire una grande predilezione per il branco che si apprestava a raggiungerli. 
Tommy guardò e vide approssimarsi a quel settore della gabbia tre o quattro esemplari dai musi ossuti, la pelle chiara o rossastra, come in seguito ad una scottatura, i capelli biondi, ma di un biondo diverso dalla tinta di miele che colorava i capelli della mamma: quelli del gruppetto appena arrivato sembravano imitare le spighe di grano, quando vengono intercettati dalla viva luce solare.
“Sono stati tra i primi a giungere qui da noi. Arrivavano aggrappati ai barconi con le unghie. Rischiavano la morte in mare come tanti lemming pur di pisciare su un pezzetto della nostra bella terra. Ci si attaccavano con le loro unghie sudice e rapaci. Erano pericolosi, erano belve affamate, ma – tranquillo! – li abbiamo saputi domare in fretta!”
Anche i cosiddetti balcanici, dopo una sbirciatina sommaria, se ne andarono, lasciando il posto ad un’altra comitiva, stavolta composta da semi-negroidi, per come li designò prontamente babbo. La loro tonalità epidermica tendeva infatti all’olivastro e le loro capigliature si aggrovigliavano in una massa di ricci scuri quanto le penne dei corvi che sorvolavano il tetto degli alloggiamenti, quando qualche parente anziano stava male e già si capiva che di lì a poco sarebbe venuto a mancare.
Tommy, nel sogguardare quei tre nuovi esemplari, due femmine si sarebbe detto, una adulta e una più giovane, più un cucciolo maschio, si compiaceva intanto in cuor suo con gli organizzatori. A vedersi passare davanti al naso a quel modo tutto quel variegato campionario di specie, si convinceva infatti sempre più che qualche addestratore, che se ne rimaneva nell’ombra, li sospingesse, magari con un piccolo pungolo da bestiame, perchè sfilassero in rassegna lì di fronte a loro, a favore di un sano ludibrio, come di un onesto intrattenimento culturale, ad agio suo e del babbo.
Tra gli ultimi, ecco appalesarsi infine, pur con iniziale esitazione, una coppia di maschi, dalla gesticolazione contenuta, il cui arrivo era stato annunciato da un tale frastuono da far credere a Tommy che dovesse spuntare entro breve un quadrupede galoppante. Scoprì invece che quello zoccolio era causato dalle insolite calzature dei due, ossia due paia di stivaletti con tacchetto.
Doveva risultare del tutto evidente ad un osservatore esterno che questi due esseri rappresentassero agli occhi di Tommy, tra le numerose forme di vita squadrate durante quelle ore, addirittura i soggetti più bizzarri.
Si muovevano con brevi scatti e sembravano divertirsi un mondo, a modo loro, soprattutto quando uno dei due emetteva qualche verso nell’orecchio dell’altro e quello subito si scomponeva in qualche strillo, o mezzo squittio, che doveva essere l’equivalente di una risatina.
Questi ultimi, tra tutti, si presentavano come coloro su cui l’ipotetico addestratore si doveva essere maggiormente sbizzarrito nell’abbigliarli, con tutte quelle tele sgargianti che si ritrovavano addosso, dai colori talmente accesi che Tommy aveva visto, prima di allora, giusto sui frutti più maturi e sul fogliame più grasso che la calura estiva sia capace di produrre.
Rappresentavano senza dubbio una scenetta piacevole, che non gli trasmetteva alcun senso di timore, come era invece accaduto con quasi tutte le bestie che li avevano anticipati. Ma vedendolo sorridere così, babbo prima lo guardò storto, dopo di che gli disse, con un tono misto di rimprovero e di disprezzo che Tommy non gli aveva ancora colto nella voce, sino ad allora: “Quelli sono invertiti! Non li guardare. Quelli offendono madre natura già per il solo fatto che esistono”.
Tommy, a quelle parole, scansò veloce lo sguardo dalla coppietta e lo sollevò d’istinto in alto verso il cielo.
Puntando a quella solenne azzurrità, che tanto placidamente pendeva sopra il loro capo, si accorse del tempo trascorso, da quando si era appostato in quel luogo, di prima mattina, mano nella mano con babbo.
Il sole oramai era uno smisurato pomo in fiamme che si stava sempre più avvicinando a loro, gravando dritto a picco sopra l’apice delle loro teste, da dove sembrava divertirsi ad arroventargliele con i suoi raggi invisibili e cocenti, attraversati qua e là dal volo pigro di una tortora o di un fanello, le cui ali, in quei passaggi controluce, si facevano iridescenti.
Tommy fu richiamato a questioni più terra terra, quando sentì che la propria manina veniva strattonata dolcemente: era babbo, che da una sessantina di centimetri più in alto di lui gli stava sorridendo con fare giocoso.
“E bravo il mio campione!”, disse poi, “Visto? Ce l’hai fatta alla fine. Hai affrontato la vista delle bestie con coraggio e ne sei uscito indenne. Fanne una regola di vita, figliolo: mai abbassare il capo al cospetto del tuo nemico – ricorda! – a meno che tu non voglia dargli soddisfazione. Non farti vedere tenero. Non scendere mai a patti. Rimani rigido, imperturbabile, fiero di te stesso e del tuo passato. È così che siamo diventati una razza superiore. È così che da sempre abbiamo dominato il mondo e che sempre lo domineremo!”
Tommy assentì. Sembrava aver compreso la lezione. I suoi occhi brillavano, specchiandosi negli occhi bruni del padre.
“Su, ora!”, riprese babbo dopo poco, “È giunta l’ora di andarci a rifocillare adesso. Per te oggi chiederemo ai custodi una doppia razione. Te la sei proprio meritata!”
Tommy gonfiò il petto per l’orgoglio. Poi, in perfetta sincronia con babbo, si voltò per far ritorno con passo convinto alla loro capanna, in fondo al recinto, a un centinaio di metri di distanza dagli altri tre alloggiamenti monofamiliari, mentre già la jeep del ranger la fiancheggiava senza rallentare, e il vice si sporgeva dallo sportello con il pacco di viveri stretto tra le braccia per scagliarlo, come ogni giorno a quell’ora, contro l’uscio in polietilene.
Sotto le piante dei piedi di Tommy e babbo scorrevano ruvido pietrisco e ciuffi di erba selvatica.
Il clan dei negroidi, quello dei seminegroidi, i musi gialli, gli invertiti, i balcanici, gli amerindi e tutti quegli altri là fuori osservavano intanto, senza troppo trasporto, l’esemplare adulto ed il suo cucciolo tornare al proprio punto di alloggiamento, prefabbricato e termoregolato, inserito nell’esatto centro della zona recintata, e sepolto sotto una fitta rete di buganvillee sintetica. Li guardavano avviarsi verso quella strana struttura in finto legno, quando, proprio allora, gli altoparlanti posti ai lati del passeggiamento asfaltato annunciarono in cinque lingue differenti (swahili, slavo di base, arabo, casigliano, cinese mandarino): “Si avvertono i gentili visitatori che l’Antropozoo è in fase di chiusura per la pausa di mezzogiorno. Si pregano pertanto i signori di apprestarsi ai cancelli d’uscita. Gli orari di visita riprenderanno alle tre e trenta pomeridiane”.
I multietnici ospiti paganti dell’antropozoo comunale, o dell’antroparco, com’era anche chiamato, o – più ufficiosamente – del Giardino dei Mangiaspaghetti, ubbidirono indolenti all’avviso preregistrato e presero a incamminarsi pian pianino fuori da quel tipico ritrovo per famiglie, da afose domeniche mattina segnate dalla più completa inattività, mentre ancora qualcuno di loro gettava un’ultima occhiata prima a quel padre e al figlio che al di là delle sbarre, vestiti di pelli molto scenografiche, rincasavano docilmente, poi sull’iscrizione incisa, anch’essa in cinque lingue, nel piombo di un’insegna imbullonata contro la parte esterna della lunga gabbia, che indicava, con lettere da scatola: ULTIMI ESEMPLARI REDUCI DI NATIVO PUROSANGUE .

(Per gentile concessione dell’Autore)






5 commenti:

  1. Un po' troppo lungo, forse. Certe scene si potevano decurtare. Ad ogni modo il racconto è abbastanza originale e scritto bene

    Silver

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    1. Grazie comunque, Silver. L'ho fatto della lunghezza e della cadenza che ritenevo necessarie a raggiungere il giusto effetto, ma può ovviamente darsi che mi sia sbagliato o che ciò non combaci con la sensibilità di tutti quanti. Ci tengo solo a una piccola precisazione: mi chiamo (o mi soprannomino) Pee Gee Daniel. Bee Gee Daniel è invece il mio fratello apicultore ;)

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  2. Ops! Chiedo venia Pee Gee per quella "B" che mi è sfuggita.

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  3. Niente niente, mancherebbe altro. Anzi, ancora grazie per l'ospitalità!

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