Tommy si mostrava tuttora
titubante.
Non era mai voluto andare lì, sino
a quella mattina, nonostante i suoi amichetti ci fossero già stati tutti,
magari anche più di una volta, e gliel’avessero descritta come un’esperienza
davvero divertente. Aveva sempre nutrito un certo senso di inspiegabile paura,
malgrado il babbo lo avesse tante volte rassicurato che non c’era proprio
niente da temere. Lì sarebbero stati al sicuro, protetti per tutto il tempo
dalla gabbia, e per quanto quelle bestiacce feroci si potessero avvicinare, mai
e poi mai avrebbero potuto aggredirli.
Eppure Tommy, sino ad allora,
accampando questa o quell’altra scusa, si era sempre rifiutato.
Era più forte di lui. Non si
fidava. Poco da farci. Si trattava di un sentimento del tutto irrazionale –
questo era pacifico –, ma proprio perciò era rimasto tanto a lungo inamovibile.
Riuscì infine a smuoverlo da
quella fifa, come spesso accade a quell’età, il fastidio che gli procuravano
gli amichetti che si prendevano continuamente gioco di lui, dandogli del cacasotto
e sfidandolo a dimostrare il contrario.
Quella mattina, appunto, Tommy si
era fatto forza e aveva chiesto al babbo di accompagnarlo. Quella mattina,
deglutendo a fatica e serrando per bene i pugni, si volle convincere una volta
per tutte che quella fila di sbarre in titanio dal diametro di due spanne,
poste nel mezzo tra loro e le belve, lo avrebbe veramente preservato – come
tutti quanti non la finivano mai di ripetergli – dall’eventuale furia ferina.
Strinse forte la mano di babbo. La
sua manina bianca e liscia scompariva in quella paterna, larga e scura. Babbo
osservò quella stretta per un istante, poi spostò lo sguardo sull’esile volto
del figlio, picchiettato di efelidi e ricoperto, sotto il nasino, di un velo di
moccio concrezionato. Babbo sorrise quando si scoprì fissato, di rimando, dagli
occhi chiari e freschi di Tommy. Gli scosse la manina, chiusa nella propria,
come a dire: Su, andiamo!
Tommy fece sì con la capoccetta.
I due si mossero lentamente verso
la lunga sequela di sbarre che li attendeva oltre un dosso di terra
spelacchiata, a duecento metri circa da loro.
Coprirono quella breve distanza
canticchiando in coro una vecchia canzoncina che a babbo, quando aveva l’età di
Tommy, aveva insegnato nonno – e al nonno chissà chi – e che lui aveva poi a
sua volta insegnato a Tommy, e che faceva:
Bingo-bango-bongo
stare bene solo al Congo
non mi muovo no no.
Bingo-bango-bengo
Molte scuse, ma non vengo
Non mi muovo più…”
Tommy, pur con i suoi piedi corti
e le gambe ancora graciline, tentò di regolare i propri passi sulle poderose
falcate di babbo e in un attimo furono in faccia alle sbarre. Ma, con sua
grande sorpresa, ancora non si muoveva alcunché al di là di esse.
Si potevano soltanto intravedere
delle postazioni a sedile, forse pensate per farvici adagiare le bestie più
stanche, e qualche punto di ristoro, anch’esso lasciato tuttora deserto.
“Abbi pazienza. Devono ancora
aprire i cancelli”, si affrettò a spiegargli babbo.
Era presto. La mattinata aveva
appena iniziato a inondare il cielo di una luce tersa e brillante, che
cominciava a intiepidire timidamente l’aria frizzantina delle prime ore del
giorno. Un vento fresco e sottile si era sbrigato a soffiare via tutte le brume
che si fossero attardate a fumare sopra la distesa di terreno ghiaioso dalla
notte precedente.
Babbo e figliolo stettero là, per
un po’, impalati, lo sguardo rivolto davanti a loro, in placida attesa. Ogni
tanto si scambiavano qualche rapida occhiatina, durante la quale babbo non
mancava di strizzargli simpaticamente l’occhio.
Poi, tutto d’un tratto, un rumore
sordo e metallico investì lo spazio d’aria sopra le loro teste castane. Clang!
Tommy rivolse istantaneamente uno
sguardo impaurito e titubante al genitore. Questi, in risposta, gli strinse la
mano con più forza e gli fece un sorriso a mezza bocca che ne discoprì gli
incisivi bianco-avorio e, nel contempo, gli fece comparire, agli angoli esterni
degli occhi, una raggiera di graziose rughe d’espressione per parte.
Era un sorriso buono. Era un
sorriso di incoraggiamento. Con quel sorriso voleva dirgli: Non ti
preoccupare! Non sta accadendo niente di pericoloso!
In effetti il rumore che aveva appena avvertito altro non
era che lo schianto dei cancelli di passaggio, al momento dell’apertura automatizzata.
Segno che la miriade di orride bestiacce stava finalmente per essere lasciata
libera di entrare e che, di lì a poco, a loro due, e a chi gli si fosse
eventualmente affiancato al di qua delle sbarre, si sarebbe offerta la
spettacolare esibizione di così tante razze, tutte insieme riunite.
Dapprima si poté udire qualche
leggero scalpiccio, ancora lontano. Poi un vociare sommesso. Infine si levò un
vento robusto, che, proveniente dalla parte delle cancellate, spirava sino a
loro, offrendo ai loro olfatti un misto di odori e profumi.
Tommy rovesciò la testolina in
modo da esporre il naso a quella nuova corrente. Annusò l’aria a pieni polmoni.
Ne colse un retrogusto forte e intenso, come di cuoio inumidito.
“Che cos’è?”, domandò.
“Arrivano”, spiegò babbo.
A quell’informazione,
immediatamente, gli occhi di Tommy si gonfiarono di sorpresa, mista a una punta
di trepidazione. Arretrò istintivamente di qualche passo. Incominciò a fissare,
con occhi messi a fessura, verso la sua destra, punto da cui presumeva dovesse
giungere da un momento all’altro il branco.
Le prime ombre si proiettarono,
lunghissime, contro il selciato che si trovava dall’altra parte delle sbarre.
Tommy ne notò i cucuzzoli che iniziavano a ondeggiare a terra, occupando sempre
più posto, man mano che il gruppo si avvicinava al luogo in cui lui e il padre
rimanevano.
A quella vista sentì il cuore
accelerare di colpo.
La gola gli parve ardere, da
quant’era asciutta.
Tommy guardò le sbarre luccicare
sotto quel primo sole. A occhio ne constatò e soppesò la consistenza. Portò lo
sguardo in alto, a quattro metri da terra, laddove terminavano. Le vide
sormontate da delle picche acuminate. Per di più un filo elettrificato si
stendeva tra punta e punta. Era ben difficile che riuscissero a scavalcare. Poi
scese con lo sguardo al terreno, dove le sbarre erano conficcate dentro un
muretto perimetrale in cemento armato alto almeno mezzo metro. Era anche
impossibile che potessero sradicarle, si disse.
A quell’ulteriore accertamento si
sentì più sollevato.
Il volto gli si distese. Il
cuoricino ricominciò a pulsare secondo un ritmo più tranquillo, sebbene fosse
ancora reso un po’ più rapido del solito da quello stato di suspense in
cui il ragazzino si trovava.
“Eccoli!”, lo avvertì a un certo
punto il babbo, che dalla sua statura poteva notare con qualche secondo di
anticipo che cosa si stesse preparando dietro l’inferriata.
Tommy trasalì. All’improvviso vide
spuntare tra una sbarra e l’altra due grosse palline bianche, bucate al loro
centro da due circoletti neri neri, che, appena arrivate presero ad agitarsi su
e giù, come se stessero rimbalzando su un appoggio invisibile.
Facendo forza alle proprie
resistenze psicologiche, Tommy dovette ammettere che non si trattava di un paio
di palline, bensì di due occhi ben sgranati che lo stavano scrutando con
attenzione.
Indeciso tra darsela a gambe e
rimanere, si aggrappò a viva forza alla gamba del babbo a lui più vicina.
Come reazione, dalla bocca di
babbo si staccò una risata sonora, mentre con la mano ben aperta andava a
cercargli la testa per arruffargli energicamente i lunghi capelli, in un gesto
che, nelle intenzioni, potesse infondergli qualche rassicurazione.
“Niente paura!”, lo esortò poi,
con la sua vociona bassa e ferma. “Non ti faranno alcun male. Sono solo curiose
di guardarti meglio, proprio come lo sei tu con loro”.
Tommy allora osservò meglio quelle
due orbite spalancate e ora gli sembrò che quegli occhi, in effetti, non
avessero un’espressione poi cattiva.
“Si tratta di un maschio di razza
negroide”, continuò a spiegargli, a bassa voce il padre, “Non sono cattivi.
Anzi generalmente sono esemplari piuttosto mansueti”.
Tommy lanciò ancora un’occhiata verso le
sbarre e, attraverso di esse, poté osservare –soffermandosi stavolta con
maggiore scrupolo – una bocca tumida e scura che, sotto quei due grandi occhi a
palla, proprio in quel momento si stava allargando in un ampio, candido
sorriso.
Aveva capelli neri e ricci e le
zampe e il muso erano di un marrone assai scuro.
Il fatto curioso era che quelle sue
lunghe zampe, le cui terminazioni erano dita sottili e snodate come un fascio
di giunchi, si presentassero di quella tinta unicamente sul dorso, perché i
palmi erano invece di un giallino pallido. Questo Tommy poté notarlo allorché
l’esemplare di negroide maschio parve volerlo salutare, agitando per aria la
zampa aperta.
Con quelle stesse zampe superiori,
subito dopo, corse ad afferrarsi alle sbarre, con un gesto inconsulto che sulle
prime fece sussultare il bambino e lo obbligò a indietreggiare rapidamente.
Poi però capì che il bestiale
soggetto che stava esaminando aveva impugnato il metallo con l’unico scopo di
avere un punto di appoggio abbastanza saldo da potersi spingere in avanti e, a
sua volta, esaminare meglio Tommy e il babbo.
Passò poco perché il maschio
negroide chiamasse a sé qualcuno, emettendo certi versi che alle orecchie di
Tommy dovettero suonare del tutto simili a una serie di latrati. Ed ecco quindi
spuntare accanto a lui due esemplari più piccoli della sua stessa razza.
“Sono i suoi cuccioli”, chiarì
babbo.
Uno dei due aveva occhi svegli e
ridenti, l’altro aveva capelli lunghi sino a metà schiena, tenuti insieme con
una bella treccia, e dei tratti più gentili di quelli del fratello.
“Sono carini”, ammise Tommy.
Il maschio adulto e i suoi due
piccoli cominciarono subito a comunicare tra loro, attraverso quelle loro
strane espressioni verbali, e intanto non la smettevano di fissare Tommy e suo
padre. Mentre quelli si scambiavano i loro versi gutturali, Tommy non poteva
fare a meno di indugiare con lo sguardo sulla insolita maniera in cui erano
ricoperti i loro corpi, dal collo giù giù sino ai piedi, con tutta una
combinazione di tessuti dal taglio un po’ squadrato, e si domandava se fossero
stati loro stessi a sistemarsi così o se, più probabilmente, non fosse stato
qualche ammaestratore a decidere per loro, tanto da renderli, rivestiti a quel
modo così buffo e inusuale, ancora più ridicoli di quanto non avesse già
provveduto per parte sua la natura.
I negroidi si attardarono lì
dietro ancora per un po’, mostrando di tanto in tanto le file dei grandi denti
immacolati con quelli che dovevano essere delle specie di sghignazzi
scimmieschi e poi, a un certo punto, proprio come se ne avessero avuto
abbastanza di quello spettacolo, tutto d’un tratto scomparvero dalla loro
vista.
Tommy era incerto se restare
ancora oppure andarsene. In altre parole non sapeva minimamente se la visita si
potesse dire conclusa o meno. Ma ben presto intese che la questione si sarebbe
protratta ancora a lungo, nel momento in cui il padre, posandogli lo sguardo
addosso, lo avvertì:
“E questo era solamente l’inizio,
figliolo. Vedrai d’ora in poi che altre stramberie ci passeranno davanti, se
saremo un po’ fortunati!…”.
Tommy si dispose per l’attesa.
Separò un tantino le gambe l’una dall’altra, così da piantare più saldamente i
piedi in terra e prepararsi con più comodità al resto di quel carosello di
animali esotici. Incrociò le braccia sul petto, inarcando leggermente la
schiena, e prese a puntare con assoluta serietà davanti a sé.
I successivi fenomeni in
esposizione non si fecero attendere molto.
Fu questa la volta per una
famigliola di avvicendarsi di fronte a loro.
“Sono musi gialli!”, riferì babbo.
Tommy li scrutò per bene, ma non
sembrarono propriamente gialli. Almeno non come erano gialle le foglie
sugli alberi quando si faceva autunno, né gialli com’era gialla la paglia dei
giacigli. Erano tutt’al più giallastri, volle concedere tra sé al padre.
Ma ciò che lo attrasse di più fu
il taglio dei loro occhi. Pareva che lo stessero rimirando con un’espressione
del tutto simile a quella di chi sta per scoppiare a ridere, ma cerca ancora di
trattenersi. E questo, a dire il vero, un po’ lo infastidiva.
“Sono come scimmiette”, spiegava
babbo, con bonarietà, “Ridacchiano sempre, lo vedi? Fanno inchini e
ridacchiano. Non sono pericolosi”.
Tommy osservò ancora per un po’
quella esigua rappresentanza di scimmiette dai musi giallognoli. Erano minute
di statura. Questo valeva anche per i capi adulti. Avevano facce lunghe e
simpatiche ed erano fin troppo ossequiosi nell’avvicinarglisi. Li hanno
addestrati bene, pensò tra sé e gli nacque la curiosità di capire chi avesse
mai avuto tanto tempo e pazienza da mettersi lì e portare quelle bestiole a un
così elevato grado di buona educazione. Certo ne avrà ben avuto il suo
tornaconto, chiosò poi sempre tra sé, adoperando una di quelle tipiche frasi
che sentiva spesso pronunciare al babbo, specie la sera, a cena, quando mamma
lo informava di qualche gentilezza ricevuta in giornata da parte di una vicina
di alloggiamento.
Spariti anche gli asiatici ci fu
un attimo di tregua. Il babbo ebbe così modo di accarezzare energicamente la
testa del figlio e intanto chiedergli:
“E allora? Hai paura?”
Tommy si affrettò scuotere la
testa in segno di diniego.
“E bravo il mio ometto! Visto che
avevo ragione?”, commentò babbo orgoglioso, “Sta’ a vedere che alla fine ti
diverti pure”.
Poi, lanciando una rapida occhiata
verso destra, con un tono monocorde avvertì:
“Balcanici in arrivo”.
Dalla voce, non sembrava dovesse
nutrire una grande predilezione per il branco che si apprestava a raggiungerli.
Tommy guardò e vide approssimarsi
a quel settore della gabbia tre o quattro esemplari dai musi ossuti, la pelle
chiara o rossastra, come in seguito ad una scottatura, i capelli biondi, ma di
un biondo diverso dalla tinta di miele che colorava i capelli della mamma:
quelli del gruppetto appena arrivato sembravano imitare le spighe di grano,
quando vengono intercettati dalla viva luce solare.
“Sono stati tra i primi a giungere
qui da noi. Arrivavano aggrappati ai barconi con le unghie. Rischiavano la
morte in mare come tanti lemming pur di pisciare su un pezzetto della nostra
bella terra. Ci si attaccavano con le loro unghie sudice e rapaci. Erano
pericolosi, erano belve affamate, ma – tranquillo! – li abbiamo saputi domare
in fretta!”
Anche i cosiddetti balcanici, dopo
una sbirciatina sommaria, se ne andarono, lasciando il posto ad un’altra
comitiva, stavolta composta da semi-negroidi, per come li designò
prontamente babbo. La loro tonalità epidermica tendeva infatti all’olivastro e
le loro capigliature si aggrovigliavano in una massa di ricci scuri quanto le
penne dei corvi che sorvolavano il tetto degli alloggiamenti, quando qualche
parente anziano stava male e già si capiva che di lì a poco sarebbe venuto a
mancare.
Tommy, nel sogguardare quei tre
nuovi esemplari, due femmine si sarebbe detto, una adulta e una più giovane,
più un cucciolo maschio, si compiaceva intanto in cuor suo con gli
organizzatori. A vedersi passare davanti al naso a quel modo tutto quel
variegato campionario di specie, si convinceva infatti sempre più che qualche
addestratore, che se ne rimaneva nell’ombra, li sospingesse, magari con un
piccolo pungolo da bestiame, perchè sfilassero in rassegna lì di fronte a loro,
a favore di un sano ludibrio, come di un onesto intrattenimento culturale, ad
agio suo e del babbo.
Tra gli ultimi, ecco appalesarsi
infine, pur con iniziale esitazione, una coppia di maschi, dalla gesticolazione
contenuta, il cui arrivo era stato annunciato da un tale frastuono da far
credere a Tommy che dovesse spuntare entro breve un quadrupede galoppante.
Scoprì invece che quello zoccolio era causato dalle insolite calzature dei due,
ossia due paia di stivaletti con tacchetto.
Doveva risultare del tutto
evidente ad un osservatore esterno che questi due esseri rappresentassero agli
occhi di Tommy, tra le numerose forme di vita squadrate durante quelle ore,
addirittura i soggetti più bizzarri.
Si muovevano con brevi scatti e
sembravano divertirsi un mondo, a modo loro, soprattutto quando uno dei due
emetteva qualche verso nell’orecchio dell’altro e quello subito si scomponeva
in qualche strillo, o mezzo squittio, che doveva essere l’equivalente di una
risatina.
Questi ultimi, tra tutti, si presentavano
come coloro su cui l’ipotetico addestratore si doveva essere maggiormente
sbizzarrito nell’abbigliarli, con tutte quelle tele sgargianti che si
ritrovavano addosso, dai colori talmente accesi che Tommy aveva visto, prima di
allora, giusto sui frutti più maturi e sul fogliame più grasso che la calura
estiva sia capace di produrre.
Rappresentavano senza dubbio una
scenetta piacevole, che non gli trasmetteva alcun senso di timore, come era
invece accaduto con quasi tutte le bestie che li avevano anticipati. Ma
vedendolo sorridere così, babbo prima lo guardò storto, dopo di che gli disse,
con un tono misto di rimprovero e di disprezzo che Tommy non gli aveva ancora
colto nella voce, sino ad allora: “Quelli sono invertiti! Non li guardare.
Quelli offendono madre natura già per il solo fatto che esistono”.
Tommy, a quelle parole, scansò
veloce lo sguardo dalla coppietta e lo sollevò d’istinto in alto verso il
cielo.
Puntando a quella solenne
azzurrità, che tanto placidamente pendeva sopra il loro capo, si accorse del
tempo trascorso, da quando si era appostato in quel luogo, di prima mattina,
mano nella mano con babbo.
Il sole oramai era uno smisurato
pomo in fiamme che si stava sempre più avvicinando a loro, gravando dritto a
picco sopra l’apice delle loro teste, da dove sembrava divertirsi ad
arroventargliele con i suoi raggi invisibili e cocenti, attraversati qua e là
dal volo pigro di una tortora o di un fanello, le cui ali, in quei passaggi
controluce, si facevano iridescenti.
Tommy fu richiamato a questioni
più terra terra, quando sentì che la propria manina veniva strattonata
dolcemente: era babbo, che da una sessantina di centimetri più in alto di lui
gli stava sorridendo con fare giocoso.
“E bravo il mio campione!”, disse
poi, “Visto? Ce l’hai fatta alla fine. Hai affrontato la vista delle bestie con
coraggio e ne sei uscito indenne. Fanne una regola di vita, figliolo: mai
abbassare il capo al cospetto del tuo nemico – ricorda! – a meno che tu non
voglia dargli soddisfazione. Non farti vedere tenero. Non scendere mai a patti.
Rimani rigido, imperturbabile, fiero di te stesso e del tuo passato. È così che
siamo diventati una razza superiore. È così che da sempre abbiamo dominato il
mondo e che sempre lo domineremo!”
Tommy
assentì. Sembrava
aver compreso la lezione. I suoi occhi brillavano, specchiandosi negli occhi
bruni del padre.
“Su, ora!”, riprese babbo dopo
poco, “È giunta l’ora di andarci a rifocillare adesso. Per te oggi chiederemo
ai custodi una doppia razione. Te la sei proprio meritata!”
Tommy gonfiò il petto per
l’orgoglio. Poi, in perfetta sincronia con babbo, si voltò per far ritorno con
passo convinto alla loro capanna, in fondo al recinto, a un centinaio di metri
di distanza dagli altri tre alloggiamenti monofamiliari, mentre già la jeep del
ranger la fiancheggiava senza rallentare, e il vice si sporgeva dallo sportello
con il pacco di viveri stretto tra le braccia per scagliarlo, come ogni giorno
a quell’ora, contro l’uscio in polietilene.
Sotto le piante dei piedi di Tommy
e babbo scorrevano ruvido pietrisco e ciuffi di erba selvatica.
Il clan dei negroidi, quello dei
seminegroidi, i musi gialli, gli invertiti, i balcanici, gli amerindi e tutti
quegli altri là fuori osservavano intanto, senza troppo trasporto, l’esemplare
adulto ed il suo cucciolo tornare al proprio punto di alloggiamento,
prefabbricato e termoregolato, inserito nell’esatto centro della zona
recintata, e sepolto sotto una fitta rete di buganvillee sintetica. Li
guardavano avviarsi verso quella strana struttura in finto legno, quando,
proprio allora, gli altoparlanti posti ai lati del passeggiamento asfaltato
annunciarono in cinque lingue differenti (swahili, slavo di base, arabo,
casigliano, cinese mandarino): “Si avvertono i gentili visitatori che
l’Antropozoo è in fase di chiusura per la pausa di mezzogiorno. Si pregano
pertanto i signori di apprestarsi ai cancelli d’uscita. Gli orari di visita
riprenderanno alle tre e trenta pomeridiane”.
I multietnici ospiti paganti
dell’antropozoo comunale, o dell’antroparco, com’era anche chiamato, o – più
ufficiosamente – del Giardino dei Mangiaspaghetti, ubbidirono indolenti
all’avviso preregistrato e presero a incamminarsi pian pianino fuori da quel
tipico ritrovo per famiglie, da afose domeniche mattina segnate dalla più
completa inattività, mentre ancora qualcuno di loro gettava un’ultima occhiata
prima a quel padre e al figlio che al di là delle sbarre, vestiti di pelli
molto scenografiche, rincasavano docilmente, poi sull’iscrizione incisa,
anch’essa in cinque lingue, nel piombo di un’insegna imbullonata contro la
parte esterna della lunga gabbia, che indicava, con lettere da scatola: ULTIMI
ESEMPLARI REDUCI DI NATIVO PUROSANGUE .
(Per gentile concessione dell’Autore)
Grazie a Bee Gee Daniel per il suo bel racconto.
RispondiEliminaUn po' troppo lungo, forse. Certe scene si potevano decurtare. Ad ogni modo il racconto è abbastanza originale e scritto bene
RispondiEliminaSilver
Grazie comunque, Silver. L'ho fatto della lunghezza e della cadenza che ritenevo necessarie a raggiungere il giusto effetto, ma può ovviamente darsi che mi sia sbagliato o che ciò non combaci con la sensibilità di tutti quanti. Ci tengo solo a una piccola precisazione: mi chiamo (o mi soprannomino) Pee Gee Daniel. Bee Gee Daniel è invece il mio fratello apicultore ;)
EliminaOps! Chiedo venia Pee Gee per quella "B" che mi è sfuggita.
RispondiEliminaNiente niente, mancherebbe altro. Anzi, ancora grazie per l'ospitalità!
RispondiElimina