«Credo occorra intervenire chirurgicamente, e
più presto agiremo, meglio sarà.»
Il
dottore riesamina una per una le lastre radiografiche mettendole controluce
davanti al vetro della finestra.
«Cosa?», protesta “lui”, «Ma io mi sento
benissimo!»
«Dottor Bandini»; replica il sanitario, «Posso
ricordarle che il medico sono io? Lei ha una scheggia metallica nel cranio. Al
momento non sembra che ci siano ematomi, ma basterebbe che la scheggia si
spostasse di poco per provocare conseguenze imprevedibili.»
È la
prima volta in tutti questi anni che sento nella voce del mio carceriere un tono
incollerito o spaventato.
«Non voglio essere operato!», ripete con voce
alterata.
Non
posso non considerare la cosa con un lieve divertimento, con una tenue
speranza, forse. Allora anche in quella mezza personalità c’è una specie
d’istinto di sopravvivenza!
D’un
tratto desidererei avere il controllo del mio corpo a sufficienza per poter
scoppiare a ridere, me lo immagino, il maledetto, come una belva in trappola;
dovrebbe spiegare che rimuovere quella scheggia equivale ad ucciderlo, ma per
farlo dovrebbe rendere conto del fatto che la sua posizione nell’esistenza è
del tutto illegittima.
«Lei non è in sé», dice il medico contrariato,
fa un cenno ad un’infermiera che si avvicina dopo aver riempito con il
contenuto di una fiala lo stantuffo di una siringa.
Sento
l’ago gelido che mi si pianta nel braccio. Deve trattarsi di un sedativo, la
stanza mi gira intorno vorticosamente; mentre io/lui/il mio corpo mi
accascio/si accascia/ci accasciamo sul letto, sento il medico dire:
«Il dottor Bandini non è lucido. Dovrò
consultare il primario, ma credo che l’unica soluzione sia quella di chiedere
alla famiglia di autorizzare l’intervento.»
Non
so quanto tempo sia trascorso da quando il medico ha annunciato l’intenzione di
operarmi d’urgenza, dato che di urgenza appunto si trattava, immagino che non
sia stato posto tempo in mezzo.
Apro
gli occhi: se prima eravamo di primo pomeriggio, dalla luminosità più ovattata
(ancora non è scattata l’illuminazione fredda dei tubi al neon), direi che è
trascorsa qualche ora e che siamo verso sera.
Ho un
lieve mal di testa, ma nel complesso mi sento abbastanza bene.
Passa
un giovane medico, dà un’occhiata alla cartella clinica, poi vedendo che sono
sveglio, si rivolge a me.
«Come si sente, dottor Bandini, dottor
Bandini, DOTTOR BANDINI!!!»
Lo
fisso e solo lentamente mi rendo conto che tocca a me rispondere, che nessun
altro muoverà i muscoli della mia gola al mio posto. Con sforzo, con lentezza,
vincendo una lunga disabitudine, mormoro:
«Abbastanza bene, grazie.»
Con
lentezza, con una prudenza e una lentezza quasi infinite, come per riattivare
muscoli da tempo disabituati, porto le mani alla testa all’altezza delle
tempie, e mi accorgo di avere il capo fasciato; ma naturalmente questi muscoli
non sono affatto disabituati, è piuttosto il collegamento fra essi e la mia
volontà che è venuto a mancare.
«L’abbiamo operata», mi dice il dottore, «Un
intervento d’urgenza, ma farlo non comportava rischi, era rimandare che era
pericoloso, sua moglie ha dato il permesso. Le abbiamo tolto una scheggia che
le si era conficcata poco sopra la tempia sinistra. Credo che sia andato tutto
bene.»
(«Altroché»,
penso, «Molto di più di quanto tu possa immaginare»).
«Bene», dico con un certo sforzo, «Vorrei solo
essere lasciato riposare un po’.»
Mentre
il medico si allontana silenzioso, continuo a rimanere disteso a letto ma
dentro di me vorrei piangere, ridere, prorompere in esclamazioni di gioia,
mettermi a ballare. Dopo tutti questi anni sono libero, libero, libero,
LIBERO!!!
Più
tardi portano la cena, il solito cibo degli ospedali, non è che sia il massimo,
ma dopo tanto tempo, già solo il fatto di poter mangiare scegliendo cosa
mettere in bocca e cosa scartare, cosa deglutire in fretta e cosa soffermarsi
ad assaporare, è un’esperienza che ha dell’incredibile, come i piccoli
movimenti che posso fare con le mani, con le braccia, con le gambe, con la
testa, con il tronco a mio assoluto piacimento.
Sto
pensando a tutto quello che mi sono perso per tutti questi anni, a tutto quello
di cui mi rifarò una volta uscito di qui.
Io
ero in viaggio/il dottor Bandini era in viaggio ovviamente per lavoro. Sono io
il dottor Bandini o è/era quell’altro? Giacché un’entità estranea si è
impadronita della mia vita e l’ha vissuta a suo gusto, definire l’identità, ciò
che sono io e ciò che non sono io, diventa molto problematico.
Io/lui,
quel lui che se ne andava a zonzo con il mio corpo e custodiva dentro la
prigione della sua scatola cranica la mia povera identità prigioniera, aveva
preso il treno perché doveva andare a Roma, era stato chiamato a conferire
dalla direzione centrale della banca; non amava guidare quando si trattava di
viaggi lunghi e l’aereo, non so, forse era una questione di economia: i suoi
pensieri profondi, ammesso che ne avesse, mi sono sempre sfuggiti.
Da un
po’ di anni le ferrovie fanno sempre lo stesso giochetto al rialzo: se si
voleva un collegamento decente, prima si doveva prendere il rapido, poi non
bastava più e occorreva l’intercity, poi idem, di nuovo bisognava passare
all’eurostar; in pratica ogni volta occorreva pagare di più per avere lo stesso
servizio, ed anche l’eurostar era passato nel giro di pochi anni da linea di
lusso, quasi un jet sui binari, a treno di medio affollamento.
Raggiunto
il posto a sedere regolarmente prenotato, lui/me, quel me stesso così
profondamente estraneo a me, non era però tipo da guardarsi attorno, da
prestare attenzione alla svariata umanità che popolava la vettura, e si era
tuffato nella lettura del “Sole 24 ore” indifferente a tutto.
Al di
là di qualche dato tecnico che poteva marginalmente tornare utile per il
lavoro, non ho mai capito e non sono neppure mai riuscito ad immaginare cosa ci
trovasse in una lettura così noiosa.
Il
treno era forse a mezza strada quando, ricordo che c’è stata una frenata incredibilmente
brusca che ha fatto volare da tutte le parti le valige collocate in alto sulle
reticelle portabagagli, le bottiglie e gli altri oggetti posti sui tavolini e
quasi ogni cosa non fissa che si trovasse collocata in alto, poi ci fu uno
schianto secco che rintronò fin dentro le ossa provocando una seconda caduta di
oggetti che finirono addosso ai passeggeri che si riparavano il capo con le
mani, infine il treno stridendo uscì dalla sua sede naturale e la carrozza si
dispose in una posizione obliqua rispetto al piano dei binari.
Le
vetture avevano deragliato, forse un ostacolo sui binari, forse uno scambio
imboccato per errore, difficile riuscire a capirlo.
Lui/me
si alzò/mi alzai piuttosto rapidamente, non si era/non mi ero fatto
praticamente nulla, ma una volta rimessosi/rimessomi in piedi, non si poteva
fare altro che aspettare. Aprire le porte esterne dei vagoni era impossibile: o
il meccanismo di chiusura pneumatica era ancora attivo, o le lamiere si erano
deformate nell’urto, ad ogni modo “lui” si agitava come un animale in trappola,
e la cosa mi sorprese parecchio, in tanti anni non l’avevo mai visto dare segni
di nervosismo o d’impazienza.
Dopo
diverse ore arrivarono i soccorsi, le ambulanze ci smistarono in diversi
ospedali della zona. Lui/io fece uno strepito incredibile dicendo di sentirsi
benissimo e di voler solo andare via al più presto, e forse è stato proprio
tutto il chiasso che ha fatto che gli ha nuociuto, ha persuaso i soccorritori
che in realtà si trovasse in stato di shock.
Poi ci
hanno ricoverati e fatto le analisi e le radiografie. Quando hanno visto quella
della mia testa, hanno trovato la scheggia metallica piantata nella mia tempia,
senza immaginare naturalmente che potesse essere là da decenni. Poi
l’operazione, e così addio, demone, anima dannata o semplice grumo di neuroni
impazziti con cui sono stato costretto a condividere il mio corpo tutti questi
anni; di certo non ti rimpiangerò.
Io
non credo, a pensarci bene, che sia stata tutta colpa dell’incidente in sé e
per sé, probabilmente è un meccanismo più sottile, come una concrezione
calcarea che tutti quanti, volenti o nolenti, siamo costretti chi più chi meno,
a formarci attorno. Le abitudini hanno una forza vincolante. Quante volte
capita, ad esempio, che abbiamo preso la decisione di ritornare a casa per un
itinerario inconsueto, e dopo un po’ ci accorgiamo che stiamo percorrendo il
solito tragitto, che le nostre gambe si sono in pratica mosse da sole senza
nessun controllo della volontà cosciente?
Quante
sono le cose che facciamo soprappensiero senza controllare esattamente i nostri
movimenti, anche sequenze complesse come guidare l’automobile cui ci dedichiamo
mentre la nostra mente è impegnata in altro?
E
questo è ancora il meno, la cosa più innocua. Le regole del vivere sociale ci
costringono il più delle volte a fare quello che noi non vogliamo. Quante volte
tocca sorridere e si avrebbe voglia di urlare di rabbia! In quei momenti sembra
che la nostra volontà sia solo un esile collegamento che si potrebbe facilmente
bypassare, tra i nostri atti e il mondo esterno che ce li impone. Quando si
agisce sotto una minaccia, e la sanzione sociale è una minaccia, si è
altrettanto poco liberi che se il nostro corpo fosse una marionetta mossa da
fili.
Forse
io ero particolarmente predisposto, o almeno devo cercare di dare un senso a
quel che mi è successo.
Non
credo che si possa dire che fin allora avessi gestito granché bene la mia vita.
Certo, a vent’anni, quanti ne avevo allora, nessuno è maturo, ma la differenza
fra quelli che hanno le idee chiare, che sanno programmare la propria
esistenza, e quelli che si limitano a lasciarsi vivere, si vede.
Avevo
concluso con un paio d’anni di ritardo la scuola superiore e mi ero iscritto
senza troppa convinzione all’università. Avevo scelto lettere che mi appariva
la facoltà meno impegnativa, e perché vi si era iscritta la maggior parte dei
compagni che si erano diplomati con me. Con gli esami ero indietro; in realtà
c’erano solo due cose che m’interessavano in quel periodo: stare dietro alle
ragazze, e il quartetto di musica rock che avevo formato insieme ad altri tre
amici.
Coi
miei, soprattutto con mio padre, erano discussioni continue: lui era un
bancario ed aveva sottomano una buona raccomandazione per far entrare in banca
anche me, se soltanto mi fossi deciso a mettermi in regola con gli studi e con
il servizio militare. C’era poi un’altra questione: in quel periodo ero insieme
ad una ragazza, Chiara; era anche lei una matricola dell’università, ma
soprattutto era un’appassionata di musica e non si perdeva uno dei concerto che
tenevamo nelle cantine, negli oratori, per pochi spiccioli o gratis.
Mio
padre spingeva in maniera piuttosto scoperta per Silvia, la figlia di un
collega di grado superiore al suo, un ispettore di zona, che poteva aiutarlo
nella carriera ed aiutare anche me ad avere l’agognato posto: «Una ragazza
seria, di buona famiglia», era quello che lui – pace all’anima sua – diceva
sempre.
Già
come “matricola” ero anziano, poi con gli esami non è che fossi proprio in
regola, così sul più bello, quando meno me l’aspettavo, arrivò la cartolina per
il servizio militare.
Tirai
giù un paio di bestemmie, anche se in realtà avrei dovuto aspettarmelo.
«In fondo si tratta solo di un anno», mi
dissi, «Tocca a tutti.»
Non
amavo per nulla l’idea di indossare la divisa, ma sapevo che l’obiezione di
coscienza era una strada più lunga e difficile. Non so cosa avrei fatto se
avessi saputo che il mio periodo di non libertà sarebbe durato molto, molto più
di un anno, forse mi sarei suicidato.
La
sera prima di partire per il CAR feci l’amore con Chiara; le promisi che al
ritorno dalla naja l’avrei sposata.
L’esperienza
del CAR fu spiacevole anche se forse un po’ meno traumatica di come me l’ero
aspettata. Mi è rimasto fisso in mente il lungo stanzone squallido e
impersonale delle camerate, dove tutto era studiato per non concedere a coloro
che vi vivevano nemmeno un briciolo d’intimità. Dei nomi e dei volti dei miei
compagni non ho per la maggior parte un ricordo preciso: eravamo tutti anonimi,
strappati alle nostre vite, tutti coi capelli rasati e le stesse divise.
Libertà,
personalità, autodeterminazione, tutti termini bellissimi con i quali i
filosofi si baloccano, e che non avevano alcun significato per noi, imparammo
presto che avevamo una sola scelta: fare quanto ci veniva detto e ubbidire con
prontezza.
Io
non so se l’incidente sarebbe potuto succedere nello stesso modo nella vita
civile, certo l’ambiente della caserma predisponeva: il non sentirsi se stessi,
il dover ubbidire impersonalmente, ma nella vita cosiddetta civile, senza la
divisa addosso, in famiglia, sul lavoro è poi molto diverso? Quanti signorsì
deve dire quotidianamente ognuno di noi?
Il
giorno dell’incidente, quello lo ricordo molto bene, come potrei
dimenticarmene? Ho rivissuto migliaia di volte quell’esperienza nella mia mente
prigioniera.
Terminato
il CAR ci avevano inviati al nostro corpo definitivo dopo un paio di giorni di
licenza. La nuova caserma era composta di cameroni squallidi ed anonimi come la
vecchia. Ti spedivano in mezzo ad un gruppo di sconosciuti, e dovevi sentirti
fiero di appartenere ad un’unità che era un nome o una sigla che fin allora per
te non aveva significato nulla.
Quel
giorno dovevamo andare a fare l’esercitazione al poligono di tiro, ed era una
giornata che pareva voler essere disgraziata anche con il tempo. Eravamo in un
autunno inoltrato che scivolava verso l’inverno. Quella mattina ci svegliammo
con la pioggia, l’acqua che veniva giù a scrosci pesanti, che ogni tanto
qualche raffica di vento stizzoso trasformava in qualcosa di simile a fendenti
di sciabola. All’adunata eravamo già inzuppati.
Prima
di uscire dalla caserma ci fecero indossare le mantelle di tela cerata, ma il
poligono era un mare di fango.
Ci
mettemmo in posizione: ciascuno di noi, a turno, doveva sparare con il fucile,
il garand, tirare una raffica con la mitragliatrice, la MG 35, e
lanciare la bomba a mano. Contro dei bersagli viventi sarebbe stato una cosa
atroce, così era solo una cosa stupida che, specie nel bel mezzo di
quell’acquitrino melmoso, non aveva nulla di divertente.
Ci
sdraiammo al suolo uno dopo l'altro con il garand appoggiato alla spalla, e poi
il treppiede della MG 35, poi ci alzammo in piedi per lanciare la granata,
incuranti del fango che aveva trasformato le nostre mantelle da grigioverde a
marrone.
Avevo
fatto la mia parte nella sceneggiata da guerrieri e mi ero rialzato colando
fango da tutte le parti, quando il tipo dietro di me – doveva essere
l’imbranato della compagnia – che si apprestava a lanciare la granata, se la
lascia sfuggire di mano, cerca di allontanarla col piede e le dà un calcio,
quella rimbalza su una delle poche rocce ad altezza d’uomo che sporgevano da
quel mare di fango, vola verso di me e mi esplode praticamente addosso. Non oso
pensare, anche se forse sarebbe stato meglio, cosa sarebbe successo se fosse
stata una vera arma da guerra, invece, per fortuna o per disgrazia, era solo un
petardo da esercitazione che più del botto non faceva.
Mi
ritrovai a terra stordito.
Il
più doveva essere lo shock, ma avvertivo un lieve dolore pulsante alla tempia
sinistra: lo capii molto più tardi, una piccola scheggia era entrata in quel
punto, il poco sangue era stato coperto dal fango.
Non
riuscivo a capire come, ma, sebbene fossi ancora stordito, mi ritrovai in piedi
nel giro di un minuto.
Il
tenente mi si avvicinò con aria preoccupata.
«Bandini», disse, «Stai bene? Non sei ferito?»
Scossi
il capo.
Mi
tese un pacchetto di sigarette.
«Vuoi una sigaretta?», mi chiese.
Si,
la volevo, in quel momento desideravo una sigaretta come nulla al mondo: con la
naja avevo dovuto diradare il fumo e da civile ero stato un fumatore accanito,
e ci avevo messo pure qualche spinello.
Con
mia enorme sorpresa, sentii la mia voce rispondere placidamente:
«No grazie, tenente, non sa che fumare fa
male?»
L’ufficiale
ritirò il pacchetto senza fare commenti, era sorpreso, ma molto meno di me.
Non
amavo la naja, non l’avevo mai amata, avrei fatto di tutto per scroccare un
soggiorno all’infermeria od almeno un po’ di riposo branda, ma sentivo la mia
voce ripetere:
«Non si preoccupi tenente, sto bene, è stato
solo un po’ di spavento.»
Per
sicurezza, il tenente mi mandò ugualmente all’infermeria ed io andai; o meglio,
il mio corpo e le mie gambe si mossero non appena ricevuto l’ordine ma io, la
mia volontà, non avevo parte alcuna in ciò.
Ad un
certo punto decisi di rallentare e fermarmi: niente, il mio corpo continuò a
muoversi con la stessa andatura spedita, come se avessi cercato di fermare con
la sola forza del pensiero qualcuno che mi passava accanto.
Poco
per volta cominciai ad essere consapevole della verità, dell’orribile verità:
ero prigioniero all’interno di me stesso!
O se
volete, non ero più protagonista e nemmeno attore, ma solo spettatore della mia
vita, rinchiuso all’interno della mia testa. Qualcos’altro mi aveva
spodestato e governava il mio corpo. Forse la possessione diabolica è una cosa
del genere; sinceramente non lo so, ma se devo essere onesto, questo genere di
cose non mi sembra probabile. Il sistema nervoso ed il cervello sono dei
sistemi fisici: i neuroni formano una fitta rete di circuiti, una rete dove
basterebbe cambiare pochi collegamenti, pochi “scambi” per avere una
configurazione del tutto diversa. Probabilmente quella scheggia di metallo ha
tagliato alcuni circuiti e creato fra altri un collegamento che prima non
esisteva.
Si,
lo ripeto, sicuramente è stato l’incidente a far emergere quella “personalità”,
a farla diventare padrona di me, ma con ogni probabilità me l’ero “costruita”
prima e, che Dio vi perdoni se esiste un Dio, è quello che fa in fondo ciascuno
di voi; infatti “il dottor Bandini” è stato per due decenni quello che gli
altri si aspettavano da lui o volevano che fosse.
All’inizio
ho sperato, mi sono illuso che fosse un effetto temporaneo dovuto allo shock,
che la mattina dopo o quella successiva mi sarei risvegliato libero di
muovermi, in un corpo obbediente alla mia volontà, ma per metà della mia vita
ogni maledetta mattina mi sono invece risvegliato prigioniero in un corpo
divenuto estraneo che non riuscivo a muovere: mi sono alzato, ho camminato, ho
parlato, ho fatto ogni mio più piccolo gesto sotto l’impulso di una volontà che
non era la mia.
Io
non so se riuscite a concepire quale tortura sia divenuta in queste condizioni
anche una cosa banale come mangiare se non si ha la possibilità nemmeno di
scegliere i bocconi: “lui” mangiava sempre di fretta, ingurgitando il cibo in
modo non selettivo, non doveva provare gran piacere, era solo un modo per stare
in piedi.
E’
difficile immaginare cosa sia stare seduto ad un tavolo con la vescica gonfia
perché “lui” è troppo concentrato sul lavoro per accorgersene e andare al
bagno.
Forse,
senza essere il dottor Jekyll e mister Hyde, una personalità secondaria ce
l’abbiamo tutti, ce la costruiamo giorno per giorno facendo cose che non ci
interessano e non occupandoci di quelle che vorremmo, dicendo “si” quando
vorremmo dire “no” e viceversa; nel mio caso aveva semplicemente preso il
comando. Avrei voluto urlare, ribellarmi in qualche modo, distruggere tutto
intorno a me, ma nel “mio” comportamento esteriore non c’era nulla di meno che
normale ed equilibrato, solo che non ero io quello.
Ero
prigioniero di una specie di automa ligio che scattava in piedi dicendo
signorsì e faceva il saluto regolamentare tutte le volte che si avvicinava un
paio di spalline, che faceva i turni di guardia senza sbuffare, che teneva la
divisa in perfetto ordine.
Un
giorno verso la fine della naja, il sergente maggiore della nostra compagnia mi
disse che quando ero arrivato al reparto gli avevo dato l’impressione di uno
che avrebbe causato grane, ed era lieto di ammettere di essersi sbagliato, cosa
che per la sua esperienza di ragazzi di leva, non gli capitava spesso.
Se
avessi potuto, non so cosa gli avrei urlato in faccia, mentre la mia bocca
replicava in tono anodino:
«Grazie, maggiore.»
Se
c’è una cosa da dire di quel bastardo, è che ci ha saputo fare. Finito il
servizio militare è/sono tornato a casa, si è/mi sono impiegato in banca grazie
alla raccomandazione di cui disponeva mio padre e di cui io non avevo
mai voluto fare conto, e contemporaneamente, lavorando ha/ho ripreso gli studi;
non lettere per cui non sembrava provare alcun interesse, ma matematica,
laureandosi in statistica, un tipo di corso di studi che non potrebbe essere
più adatto ad un bancario, ed anche nei tempi giusto, a parte il tempo che
avevo già perso.
Sotto
sotto devo ammettere che in un certo modo l’ammiravo il bastardo, io non
sarei stato capace di lavorare e studiare contemporaneamente, di metterci un
simile impegno. L’odiavo, l’odiavo con tutte le mie forze, il bastardo che si
era impadronito del mio corpo, lasciandomi solo uno scomodo e limitato ruolo di
osservatore della mia vita.
Nessuno
era in grado di accorgersi di nulla, il “mio” comportamento esteriore, il suo
comportamento esteriore era quanto di più normale, ragionevole e pacato si
potesse immaginare.
Se
non fossi stato costretto ad un ruolo di
osservatore quasi disincarnato, gli avrei tagliato la gola a costo di porre
fine alla mia stessa esistenza dopo che ebbe dato il benservito a Chiara.
Oh,
lo ricordo parola per parola il discorso che le fece, il colmo del senno e
della ragionevolezza: lo sapevamo tutti e due, non avevamo mai pensato al
nostro rapporto come a qualcosa di durevole; io non ero l’uomo adatto a mettere
insieme una famiglia con lei, e lei non era la donna adatta per fondare una
famiglia con me.
Dentro
di me urlavo, mi contorcevo. «Chiara», avrei voluto gridare, «Non dargli retta!
Non sono io che parlo, è una cosa estranea che si è impadronita di me!»
Dopo
aver lasciato Chiara, lui ha sposato Silvia, proprio come i miei
desideravano. Sentivo mio padre e mia madre che parlavano, ed erano così
contenti di quel figlio che era tornato dal servizio militare così maturo,
responsabile, assennato, e sentivo di odiare anche loro.
Ha
lavorato bene tutti questi anni il bastardo, ha fatto carriera in banca,
dimostrandosi sempre un impiegato scrupoloso, ligio, serio, affidabile e
competente; è diventato direttore di filiale. Da lui ho ereditato una
situazione economica più che soddisfacente, un lavoro che non mi piace, e una
situazione familiare che fa schifo.
«Come stai, come ti senti?» Silvia è venuta a
trovarmi e mi sta rivolgendo un sorriso da brava mogliettina premurosa.
Io
questa donna non la amo, non l’ho mai amata, non l’ho scelta io, l’ha scelta lui,
era quella che volevano i miei. Che dire? Da osservatore quasi esterno
potrei dire che è stato un bel matrimonio: lui sempre così preciso,
sicuro di sé, decisionista, metodico, lei una testa nutrita di pettegolezzi e
soap opera. L’essere umano tende alla maggiore pigrizia che gli è consentita, è
una specie di legge naturale.
Nel
corso di questi anni, Silvia si è appoggiata sempre di più su di un marito dinamico
ed efficiente che prendeva tutte le decisioni e le evitava ogni genere di
fatiche, compresa quella di pensare; un direttore di banca ed un uomo senza
vizi né grilli per il capo che le ha assicurato una vita agiata. Non ha avuto
nulla di che preoccuparsi, neppure la cura di un figlio; finora non si è
occupata di altro che di sfilate di moda, di pettegolezzi, dei falsi sospiri
d’amore dei divi riportati sulla carta patinata, di tutte quelle cose che
puzzano di ciò che io chiamo il frivolezzo, il lezzo delle cose frivole
e inutili. Mentre il bastardo padrone del mio corpo viveva la mia vita al mio
posto, non ho avuto molto da fare oltre ad inventare giochi di parole che non
potevo raccontare a nessuno, e coltivare l’arte del sarcasmo.
Già
non mi andava a genio prima, l’avevo trovata una persona sciocca e
superficiale; immaginarsi dopo qualche decennio di fossilizzazione nella
vacuità più o meno assoluta. Se lui fosse stato davvero un uomo e non un
frammento schematico di personalità umana, non l’avrebbe potuta sopportare a
lungo.
Ripenso
a Chiara, certe volte non era facile stare accanto a lei, aveva le sue
paturnie, le sue crisi esistenziali, bisognava stare attenti a non ferire la
sua suscettibilità di femminista, ma almeno era una persona viva, vera, non un
bel manichino.
«Sto bene», rispondo in tono neutro, con
calcolata freddezza.
«Ecco, lo sapevo», fa lei, «Sei arrabbiato con
me perché ho dato ai dottori il permesso di operarti, ma era una cosa da poco,
e poi adesso stai bene.»
«Non sono arrabbiato con te», rispondo, «Il
fatto è che mi sei indifferente. Non ti amo, non ti ho mai amata anzi, per
dirtela tutta, la tua presenza mi urta.»
«Ma sei impazzito!»
«Al contrario, non credo di essere mai stato
tanto lucido come ora. La verità è che tu mi disgusti, sei una persona frivola,
stupida ed inutile.»
Che
immensa soddisfazione poterglielo dire liberamente, soprattutto considerato che
sto maltrattando la donna di lui.
L’espressione
di Silvia è da principio quella di un immenso stupore, poi, ma per poco, vira
verso l’addolorato, per approdare infine alla collera.
«Fammi un favore», le dico, «Cerca di fare le
valigie prima che mi dimettano; se quando torno non ti trovo dentro casa, è
meglio.»
«Carogna!», esplode lei, «Non pensare di
passarla così liscia, te la farò pagare. Aveva ragione mio padre a non fidarsi
di te.»
Mi
volto, mostrandole ostentatamente la schiena mentre si allontana, ma in effetti
sono un po’ preoccupato. Questi cervellini mediocri di solito sono abbastanza
intelligenti da escogitare le più raffinate e crudeli forme di vendetta.
Poco
più tardi ho sorpreso i bisbigli di due infermieri che non hanno capito che mi
sono accorto che stavano parlando di me. Naturalmente, non sono andato oltre
l’aver sentito un paio di frasi slegate, tipo un «Incredibile», un «Nuovo caso
Phineas Cage», un «Responsabilità dell’ospedale» un «Ma figurati, dava già in
escandescenze quando l’abbiamo portato qui.»
Quando
ero studente di lettere, uno dei pochi esami che sostenni fu quello di
psicologia, e il mio testo dedicava una certa ampiezza al caso di Phineas Cage
che è rimasto famoso negli annali della medicina ed in quelli della psicologia.
Quest’uomo era un operaio vissuto in Inghilterra nel XX secolo. Un giorno ebbe
un incidente sul lavoro e una sbarra di ferro gli trapassò il cranio. Cosa
incredibile, sopravvisse, ma la sua personalità rimase completamente alterata:
se prima dell’incidente era un uomo buono, tranquillo, lavoratore, dedito alla
famiglia, responsabile, socievole; dopo divenne violento, scontroso, rissoso,
senza voglia di lavorare e incurante dei problemi della famiglia.
Il
bastardo, maledetto lui, si presentava come il colmo della pacatezza, della
socievolezza, della ragionevolezza in modo addirittura caricaturale, ed è
questa la fregatura: per tutti ormai la mia personalità “vera” è quella, e
qualsiasi manifestazione di come sono in realtà, verrà probabilmente scambiata
per una manifestazione di patologia, si dirà che “non sono in me”.
L’aspetto
ironico della faccenda sarebbe dimostrare che questi “cambiamenti di
personalità” sono avvenuti in seguito ad un intervento chirurgico a cui non
volevo sottopormi. Potrei citare l’ospedale per danni, e qualsiasi giudice mi
darebbe ragione.
Rieccomi
a casa. Dimesso dall’ospedale, sono tornato con il taxi, nessuno è venuto a
prendermi. Silvia se n’è andata ed ha portato via tutte le sue cose e qualcosa
di più, mi ha lasciato la branda del letto con un materasso e un armadio coi
miei vestiti e la biancheria; immagino che se avesse potuto, si sarebbe portata
via anche i sanitari del bagno; nelle stanze di casa c’è l’eco.
Non
importa: quel che conta è che mi sono liberato di lei, anche se non m’illudo
che sia finita così facilmente.
Quasi
non ci credevo, ho rintracciato Chiara con relativa facilità e, cosa ancor più
incredibile, ho telefonato e lei ha accettato di vedermi.
Abbiamo
fissato un appuntamento ai tavolini di un caffè cittadino. Non riuscivo a
crederci, ero euforico.
Quando
l’ho vista, ho stentato a riconoscerla: gli anni trascorsi l’hanno appesantita
ed invecchiata molto più di quanto non è successo a me. Il suo volto mi è
apparso come tumefatto e percorso da rughe sottili. Non deve aver avuto una
vita facile. Secondo le mie informazioni è moglie di un operaio, lavora in
fabbrica lei stessa, ha tre figli.
«Chiara…», ho esordito con esitazione. Cosa
potevo raccontarle, di essere stato posseduto per decenni da un’entità
estranea? Cosa avrei ottenuto oltre a farmi prendere per pazzo?
Non
c’è stato bisogno che dicessi nulla.
Chiara
mi ha guardato con uno sguardo fiammeggiante di odio e mi ha detto:
«Ho accettato quest’incontro solo per dirtelo
in faccia. Sei un pezzo di m… Tanti anni fa mi hai dato il benservito, non ero
la donna adatta con cui tu potessi mettere su famiglia. Sei stato molto chiaro.
E adesso cosa vuoi? La tua mogliettina perfetta ti ha scaricato? Ma vai al
diavolo!»
Si è
girata e si è allontanata lasciandomi come un cretino. Cosa avrei potuto dirle?
Che senso aveva cercare di richiamarla indietro?
Avrei
dovuto rendermene conto da un pezzo, ma è stato in quel momento che ho intuito
la verità: il tempo perduto non si può recuperare, gli anni passati non tornano
indietro.
Ho
tirato fuori dallo sgabuzzino dov’era rimasta tutti questi anni a coprirsi di
polvere, la mia vecchia chitarra; mi stupisce perfino che lui l’abbia
conservata.
Ho
provato a strimpellarci sopra con risultati che mi sono parsi penosi, e non mi
pare che dipenda dal fatto che le corde si siano arrugginite od abbiano perso
elasticità; sono proprio le mie mani che, dopo decenni, hanno perso
l’allenamento, le antiche attitudini; è un’altra conferma, chiara come il sole
e che fa più male del sole guardato direttamente negli occhi: il tempo passato
è perduto, non si può recuperare.
E’
difficile farci caso se non si è particolarmente allenati, ma c’è un odore
sottile sulla massicciata, o forse sono io che me lo immagino, lo stesso odore,
in forma molto diluita, che si avverte nelle stazioni o sui treni, solo con in
più un sentore di erbe con un po’ di acre di polvere e pietrisco sbrecciato; un
sentore estremamente lieve di cuoio, legno metallo, usurati da un uso
estremamente protratto, il tutto imbevuto dall’odore acido del sudore umano
come una leggera fragranza stantia: l’odore delle stazioni e dei treni, l’odore
del vissuto, l’odore del passato che si estende come una nuvola sottile ed
allungata, sempre più tenue ma senza scomparire mai del tutto, attraverso le
massicciate di pietrisco biancastro circondate di epilobio, le traversine, i
binari che coprono il paesaggio in una lunghissima ragnatela.
Eccomi
qua, a respirare sentori che mi riportano indietro nel tempo: non è un brutto
modo, né un brutto momento per concludere tutto.
Stanotte, o stamattina,
perché quando mi sono svegliato, la luce del sole filtrava già attraverso le
tapparelle della finestra della mia camera vuota, ho avuto di nuovo l’incubo
ricorrente che mi perseguita sempre più spesso, lui, il bastardo era
tornato e si era di nuovo impadronito di me; ancora una volta, cosى come è
stato per tanti anni, una volontà estranea muoveva da padrona il mio corpo.
Non è solo un sogno,
potrebbe succedere di nuovo, e c’è solo un modo per impedirlo.
Ecco, il treno ha
fischiato imboccando l’inizio della grande curva che lo nasconde ai miei occhi
e mi nasconde agli occhi del macchinista. Mi vedrà solo all’ultimo momento.
Salto
sui binari. Tra poco sarò libero per sempre.
(Per
gentile concessione dell’Autore)
Bel racconto quello di Fabio Calabrese. Ben scritto. Originalissimo. Benvenuto, Fabio, tra i nostri autori. E' un onore per noi poter pubblicare ancora altri tuoi racconti.
RispondiEliminaCiao
Forse un po' troppo lungo, ma si legge ben volentieri. La storia mi sembra parecchio interessante.
RispondiEliminaSilver
Bel racconto sul tema del doppio. Secondo me, il largo respiro regge, anche perché c'è una buona analisi psicologica. Al di là della trama, infatti, è la parte forse più interessante della storia.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino