(È con grande
piacere che pubblichiamo, su Letteratura Fantastica, un racconto di Vittorio
Catani, uno tra i più importanti scrittori italiani di genere fantastico e
fantascientifico. Per questa gentile collaborazione rivolgiamo a Vittorio
cordiali e sinceri ringraziamenti.)
Mbarara è magnifica, in questa stagione.
Cielo azzurro, sole, aria limpida non inquinata. Di solito,
in tempi così, io e la mia cerchia di conoscenze – soprattutto colleghi
dell’università – riprendiamo antiche abitudini e in comitiva ce ne andiamo per
qualche giorno al lago George, un centinaio di km. da qui. È tutto molto bello
anche perché l’Uganda ha ragazze splendide. Ma stavolta devo pensare al mio
lavoro: è da un po’ che sono a spasso, mio malgrado.
— Amin — mi ha
detto l’altroieri Badoul, il capo del Dicastero Ugandese Ex-Mondo — se vuoi guadagnarti
qualcosa in attesa che le tue due lauree portino i loro frutti, beh, ci sarebbe
un posto per te… Ma — ha precisato Badoul ironico — devi rassegnarti a lasciare
per un po’ le donne e le tue partite di awele. — Poi, serio, mi ha spiegato: andare
nell’Ex-Mondo. È un lavoro di volontariato, però stavolta il nostro Ministero è
riuscito ad accantonare circa 500 scellini ugandesi per ogni volontario.
Penso che se stringo al massimo la cinghia dovrei farcela
a recuperare le spese di viaggio, cibo e alloggio. E magari mi rimane in tasca
il resto.
Accidenti però, come cambiano le cose. Ho scoperto che negli
anni Dieci occorrevano quasi 3000 scellini ugandesi per 1 euro, oggi ci
vogliono 3 euro per 1 scellino!
Ok. D’altronde è proprio grazie a una situazione del
genere che io andrò nell’Ex-Mondo.
Viaggio tranquillo. Ho preso un Cessna C172 ristrutturato,
della Società di Servizi Aerei ugandese. A bordo eravamo quattro viaggiatori.
Pilota automatico. Il C172 era un aereo a elica, ma sostanzialmente del vecchio
aeroplano resta solo il profilo esteriore. Non va più a benzina, è azionato da
una versione indiana del motore fotonico.
Sappiamo arrangiarci, noi dei vecchi Paesi poveri.
Il viaggio è durato quattro ore, perché strutturalmente il
Cessna non può sopportare le velocità ben maggiori che il suo motore
consentirebbe. L’appuntamento è all’aeroporto d’arrivo. Atterriamo, ma quello
che succede non me l’aspettavo.
Scendiamo dall’aereo e ci fanno sostare tutt’e quattro in
una specie di bunker per quasi un’ora. Nessuno che venga a dirci perché. Poi si
apre la porticina ed entra un signore in camice bianco che dice alcune parole
in spagnolo. Ad uno ad uno, ci fa delle punture. Ci guardiamo costernati.
Capiamo solo che dovrebbe trattarsi di un polivaccino, contro cosa non si sa.
Poi il tipo va via e richiude la porta. Prima che si riapra passa un’altra ora.
Esco imbestialito, ma mi calmo subito quando, all’uscita,
riconosco il mio referente locale.
I segnali sono la bandierina a strisce nere gialle e rosse
(i colori del mio Paese) e lo stemma del Servizio di Volontariato sulla camicetta.
— Ciao! — dice sorridendo. Poi aggiunge in inglese: — Sono
Snješka. Conosco poco l’italiano.
Mi presento e aggiungo: — Anche io lo conosco poco… Mio
nonno lavorò trent’anni a Foligno. Quando tornò, ebbe il tempo di insegnarmi
qualcosa. — Di comune accordo prendiamo a parlarci in inglese, che comunque in
Uganda è lingua ufficiale.
L’aria è pesante. Puzza. In cielo c’è caligine, siamo a
metà giornata ma non riuscirei a individuare da che parte sta il sole. — Accidenti,
anche ora che arriviamo in città sarà ancora così? — chiedo a Snješka.
— A Roma, vuoi dire? — risponde lei, e aggiunge: — Certo.
Anzi, in tutta l’Italia. O in Europa. Anche a casa mia… In Boemia le cose non
vanno molto meglio.
Penso al mio limpido Lago George.
Saliamo su un vecchio pullman, pigiati come pesci nella
rete. — Usano ancora la benzina? — chiedo un tantino meravigliato.
— Diamine, ragazzo, da dove vieni?
Snješka mi spiega che i Paesi europei da decenni blaterano
di fonti alternative ma continuano a raschiare il fondo degli ultimi pozzi di
petrolio, roba che è più melma che altro. Mi dice che le aziende petrolifere
ostacolano le altre energie, specie quelle pulite, a suon di bustarelle, omicidi, attentati con
autobombe e piccoli robot volanti esplosivi mimetizzati da uccelli.
Ufficialmente, da governo e stampa venduta, i morti sono addebitati a fantomatiche
fazioni politiche estremiste.
Pensavo che la gente fosse ammassata solo nell’aeroporto,
ma arrivati in centro città scendiamo per ritrovarci tra migliaia di persone. Un
muro di corpi. Cerco di guardare in giro, oltre le teste in movimento senza
fine. Mura sbrecciate, edifici cadenti, asfalto con buche, aria ancora più
fetida, cespugli striminziti. Urla, chiasso di clacson, rombi di auto. — Ora
che andrò in camera farò una doccia piuttosto lunga. C’è un caldo umido
tremendo, qui.
Snješka mi guarda: — Doccia? Vedrai, vedrai che bell’acqua…
Ci incamminiamo tra la folla.
Comincio ad avere la nausea: — Che dici di andarci a
prendere un buon caffè? — Fra l’altro Snješka è un fiore di donna. Penso sia
sui 40. Matura al punto giusto. Finora è l’unica cosa decente in cui mi sono
imbattuto. Ma non voglio azzardare a dirglielo, non so in Occidente come funzionano
queste cose. Penso che Snješka a sua
volta non veda l’ora di rinfrescarsi. Mi dice: — Ecco, lì c’è un bar.
Cambiamo direzione.
È più di mezz’ora che siamo seduti al tavolino, ormai ci
siamo detti quasi tutto. Lei è divorziata con figli ventenni emigrati nel
Sichuan, in Cina. Vive sola. Di me, le ho detto delle mie due lauree in Fisica
Multilaterale e in Storia delle Civiltà, conseguite all’università di Kampala, capitale
del mio Paese.
— Domattina dovrai andare al Centro Smistamento — mi
anticipa lei. — Credo di capire che ti indirizzeranno all’Istruzione.
— È la prima volta, per me. Sarà una cosa difficile,
faticosa?
Mi fa un sorrisetto ambiguo: — Diciamo che non sono le
parole giuste… Ma vedrai da te. Non devi spaventarti, l’Europa che ti
raccontava tuo nonno è sparita. — Resta quasi soprappensiero, poi aggiunge: — Ma
in fondo l’abbiamo voluto noi.
Ok, so bene che l’Europa è cambiata, ma non capisco. Insisto:
— In che senso l’avete voluto?
Lei mi fissa: — Beh… era prevedibile che man mano lo
sviluppo tecnologico eliminasse la maggior parte dei lavori manuali. Restavano
le occupazioni legate alla “conoscenza”, ma le abbiamo date in appalto agli ex
Paesi poveri, per lucrare sui bassissimi costi di lavoro… Sai dirmi cosa resta?
Solo alcuni lavori manuali che, in effetti, non necessitano di particolare
istruzione. Il risultato sai già qual è. Le tue…
Afferro al volo e la anticipo: — Le mie due lauree
conseguite in Uganda, vuoi dire. Snješka sorride: — Esatto. L’istruzione autentica
oggi è nell’ex Terzo Mondo, divenuto il vero “pensatoio globale”. E quindi
anche l’economia planetaria sta cambiando. Certo non siete proprio ricchi, né benestanti,
e avete enormi disuguaglianze, ma l’Occidente si è dato l’ultima zappata sui
piedi, non contento della Grande Crisi del 2008.
Mi guardo intorno. È questa la Città Eterna di cui leggevo
ammirato durante i miei studi? Incredibile. L’Urbe che condizionò e scrisse la
storia del mondo per secoli? Oggi ha più l’aspetto di un anonimo formicaio
nevrotico e inquinato, sull’orlo del collasso. Poi mi torna a mente che mi
trovo in ciò che noi chiamiamo Ex-Mondo.
— All’aeroporto mi hanno vaccinato — dico. — Che altro sta
succedendo?
Lei: — Certo, contro il perikitanka… È un nuovo ceppo, ma
non temere. Ci stanno piovendo addosso un sacco di strane malattie.
Cado dalle nuvole. — Peki.. pertiri… Ma cosa è?
— La variante contaminata della muffa d’una pianta asiatica.
È la prima volta che le malattie del mondo vegetale attecchiscono in quello
animale. Colpa delle ibridazioni Ogm, si pensa.
Cambio argomento. — Hai da fare, stasera?
Lei scoppia a ridere. — Ti vedo smarrito, Amin. Stasera? Spiacente,
ho un impegno.
— Scusa — le dico.
Ci alziamo dai tavolini e tiro fuori la card per pagare.
Snješka protesta, vorrebbe offrire lei. Il tutto mi costa una cifra
ridicolmente irrisoria.
Già, la svalutazione…
Ci salutiamo. Stringendomi la mano dice: — Ma tu riprova per
domani sera. — Sorride, poi si gira e se ne va.
Al Centro Smistamento – un palazzotto malandato in
periferia – mi riceve un certo signor Maazel. Mi saluta frettolosamente e mi
consegna una card. Prima parla in tedesco, io scuoto la testa, allora passa nervosamente
a un italiano disastroso, da intuire più che capire: devo controllare che la
card sia la mia; dentro c’è l’indirizzo al quale recarmi, e sono descritti i
miei compiti. Mi impone la firma d’una ricevuta, poi borbotta un: — Auf
Wiedersehen. — Mi ritrovo con la card in mano: Maazel è sparito. Esco.
Di fronte vedo del verde. C’è un giardinetto pubblico che
appare meno stitico di quelli visti finora. Fra gruppi di persone anziane e
malmesse trovo una panchina libera, mi siedo, tiro fuori la card e il mio lettore
portatile. In tre minuti credo di aver capito tutto. E di non saper proprio
cosa fare.
Non avevo idea che esistesse la figura del Pacificatore
Scolastico.
Ora lo so, ma temo non sia sufficiente.
La scuola si chiama “Alessandro Volta” ed è un istituto
superiore. È ubicata al Laurentino 38. Apprendo che questo è divenuto uno dei
quartieri periferici più malfamati. Apprendo anche che ieri la mafia cinese
(ufficialmente) ha provocato l’esplosione di un intero palazzo a 10 piani: 113
morti. Erano uffici del Comune, nell’ora di punta, e si può immaginare di tutto
sui reali mandanti.
Giungo in vista della scuola, che si presenta come un
enorme isolato a due piani. Già da lontano mi arriva un vociare intenso, come da
uno stadio di calcio. Foglischermo luminosi alle mura gridano slogan: ABOLIRE
LA SCUOLA! Leggo anche: MORTE AL PRESIDE! Un’altra: A SCUOLA: SCOPARE COME CI
PARE! Sull’ingresso, che è una scalinata, sono fermi gruppi di persone. L’atmosfera
è accesa. Mi avvicino, nessuno sembra accorgersi di me. Alcuni giovani stanno
contrattando fra loro, guardo meglio: circolano bustine. Molti esibiscono tranquilli
una fondina con un’arma, o coltelli. Pacificatore Scolastico? Stringo i denti e
decido di entrare. Chiedo del Preside.
Apprendo che si chiama Onorio Giannelli; per arrivare a
lui attraverso corridoi enormi dove gruppi di gente (genitori, immagino)
litigano tra loro, fanno barricate, si lanciano sedie, bestemmiano. Alla svolta
d’un corridoio, per miracolo riesco a scansare uno sgabello in volo diretto a
qualcuno dietro di me mentre un tizio mi corre incontro inferocito, mi
sorpassa. Mi impongo di non girarmi, sento tonfi di scazzottate e un urlo di
dolore. Seguono lontani colpi di pistola. Improvvisamente una dozzina di adulti
e di giovani urlanti sfondano la porta di un’aula ed entrano. Stavolta guardo:
afferrano il docente alla cattedra e spingono verso la finestra. Interviene un
gruppo più piccolo, rabbioso e sbavante, in difesa del malcapitato. Sfuggo
giusto in tempo al ciclone e dopo salite e giravolte estenuanti arrivo finalmente
alla Presidenza.
La porta chiusa è scortata da tre guardie in assetto da guerra
mondiale. Mi presento, e dopo varie formalità mi lasciano entrare.
Mi ritrovo in una stanza vasta e disordinata. — Buongiorno,
signor Preside — dico in inglese. Gli mostro il distintivo del volontariato
internazionale Ex-Mondo, Sezione Uganda. Lui mi invita a sedere, rispondendo in
francese.
— Dottor Giannelli — esordisco — vorrei sapere da lei cosa
sono venuto a fare qui.
— Senta — mi risponde lui ancora in francese, strabuzzando
gli occhi — sono io che vorrei sapere cosa sono venuto a fare qui.
Mi accorgo che il dialogo sta assumendo toni surreali.
— Bene — rispondo io, che per fortuna mastico anche
l’altra lingua — sappiamo entrambi di non sapere. È già qualcosa che ci
accomuna.
— Ma scopriamo l’acqua calda, signor…
— Amin, per gli amici.
— Caro amico Amin — dice Giannelli — lei si sente in grado
di fare una cosa, una qualunque cosa, qui?
— Assurdo — rispondo. — Non immaginavo lontanamente che
questa scuola…
— Neanche io. Lo sa che nonostante le guardie alla mia
porta, sono tre giorni che non riesco a uscire da questa maledetta stanza? Lo
sa che sono costretto a orinare dalla finestra? Senza di loro, qualcuno mi
avrebbe già fatto a pezzi. La prego, lei è stato inviato qui, lei costa denaro
al suo Paese, Amin. Lei deve… ripeto: deve
essere in grado di far qualcosa, qualunque cosa per sbloccare la situazione!
Lei è un Pacificatore!
— Ma il governo…
— Per carità. Il potere non è più in mano al governo da
anni. Ora voteranno per l’Abolizione Scolastica: l’Istruzione costa troppo, quel
denaro risparmiato chissà dove andrà, e in fin dei conti l’Istruzione non serve
più, perché le vere abilità sono nelle vostre mani. Il resto può farlo anche un
analfabeta.
— Siete stati egoisti e feroci con noi per secoli, caro
Giannelli — dico. — Ma io guardo al qui e ora. Vorrei sapere cosa sono venuto a
fare qui, ma vorrei anche adoperarmi concretamente per aiutarla, signor
Preside. Per aiutarvi.
— La verità — dice Giannelli fissandomi — è che lei, qui,
non può fare un bel nulla. — A queste parole segue un lungo, stanco silenzio.
Sì, abbiamo detto anche qualche altra cosa, ma non ricordo
cosa, più che altro per non cadere in un vuoto imbarazzante. Poi non ho
resistito. Mi sono salutato con Giannelli, e mi veniva quasi di abbracciarlo. Lui
ha aggiunto sottovoce: — Ringrazi i suoi e tutta l’Uganda — mentre la porta
della Presidenza si richiudeva alle mie spalle.
Sono uscito dalla scuola prendendo una scala secondaria
consigliatami dai guardiani. Uno d’essi ha voluto scortarmi. Sono ripassato
attraverso gruppetti sparsi; giunto all’uscita la guardia è tornata su.
E ora che faccio?, mi sono detto.
Dovrò tornarmene a casa con la coda tra le gambe.
E perdo anche questo lavoro. Mi crederanno, quando
racconterò? Ma almeno lì non respirerò quest’aria fetida. Stasera io…
Prendo il cellulare. — Pronto… Snješka?
— Ciao! Come stai? Come mai mi chiami?
— Come sto… poi te lo dico. Senti: sei libera stasera? — Domani
intendo partire, ma almeno venire fin qui non sarà stato inutile.
— Stasera, dici? Ci devo pensare un bel po’. — L’ascolto
ridacchiare, poi: — Direi di sì… Sì, guarda caso sono libera.
Ci diamo appuntamento.
Termino di scendere la scalinata dell’edificio. Il vociare
continua a stordire, e tuttavia allontanandomi definitivamente percepisco con
chiarezza una frase. Stavolta è in italiano:
– Fanculo, sporco negro.
(Per gentile concessione dell’Autore)
Stupendo scrittore come sempre
RispondiEliminaSilver
Ancora un ringraziamento a Vittorio per questo splendido racconto
RispondiEliminaPaolo
Il mondo rovesciato. Quello che era il primo mondo, rappresentato da questo scampolo d'Italia, è ormai degradato e regredito alla barbarie. L'istruzione e la cultura sono calpestate, non servono più a nulla. Eppure, l'agente mandato dalla evoluta (soprattutto in senso culturale)Africa viene chiamato sporco negro. Bellissimo affresco di un ambiente livido e degradato, degno della migliore fantascienza a sfondo sociologico. E il tutto condito con una leggera storia sentimentale. Ho trovato il racconto di grande attualità. Povera Italia, e povera Europa! Se non troviamo un rimedio, il processo sarà irreversibile. E a noi ex dominatori, ex sfruttatori è destinata una terribile nemesi. Splendida prosa, personale e molto funzionale.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Quattro sinceri ringraziamenti: a chi gentilmente mi ha pubblicato, a Silver, Paolo e Giuseppe che hanno voluto commentare. Un racconto gradito è ossigeno per chi scrive:-) Un saluto.
RispondiEliminaVittorio
Mi trovo in Uganda in questo momento... tra qualche giorno dovro' tornare in Inghilterra... Questo racconto non e' poi cosi' fantascentifico!!
RispondiEliminaBravo lo scrittore... mi verrebbe da sceneggiarlo in un cortometraggio..
Fammi sapere
William Ranieri
Ho inviato la tua richiesta all'autore Vittorio Catani
EliminaCiao