Era una splendida domenica
di sole; l'ideale per una bella scampagnata.
Jason Barrimore si era
trasferito a San Francisco da qualche mese. Il paesino dell'Ohio in
cui era nato, e sempre vissuto, infatti, da qualche tempo gli andava
stretto. Così, aveva salutato i suoi genitori e si era trasferito in
una grande città. Aveva scelto San Francisco perché un lontano
cugino, che lavorava al Chronicle, gli aveva promesso un posto da
fattorino nel giornale.
Ma San Francisco, almeno
per lui, si era rivelata una grossa delusione; provinciale,
zappaterra, ragazzo. Questi erano gli appellativi che la gente gli
rivolgeva con maggior frequenza; come se la sua identità non valesse
nulla. Nessuno, tra quelli che aveva conosciuto là in città, gli
aveva mai concesso un briciolo di considerazione.
Quasi nessuno, perché
adesso c'era Betty Anne.
Betty Anne aveva la sua
stessa età, e lavorava in redazione, cercando di imparare il
mestiere di giornalista. Per Jason era tanto bella che avrebbe potuto
fare l'attrice. Anche se quando lui glielo aveva fatto notare, si era
limitata ad alzare le spalle e aveva risposto:
«Ho anche un cervello,
io. »
Jason, pur non capendo
bene il senso della risposta, le aveva sorriso (suo cugino gli aveva
spiegato che bisognava fare sempre così, con le ragazze), e lei
aveva risposto con un altro sorriso.
Betty Anne era nata e
vissuta a San Francisco, ma era sempre stata affascinata dalla natura
e dalla vita semplice delle campagne. Così, quando Jason le aveva
raccontato da dove venisse, anziché sdegnarlo come facevano tutti,
lo aveva tempestato di domande. Si erano incontrati un altro paio di
volte, e un pomeriggio avevano persino pranzato assieme, alla tavola
calda all'angolo, ma quel giorno era davvero la sua grande occasione.
Era di domenica e, al
mattino presto, Betty Anne era passata a prenderlo con la sua vecchia
Ford per una scampagnata. A Jason quel particolare non aveva fatto
troppo piacere; dalle sue parti, farsi venire a prendere da una
ragazza, non era considerato precisamente un comportamento virile.
Del resto lui non possedeva una macchina sua. Non aveva nemmeno la
patente; al paese, per quanto i ragazzi cominciassero a portare la
macchina sin da quando avevano nove o dieci anni, di rado qualcuno
sentiva la necessità di mettersi in regola con le legge.
Betty Anne fermò la
macchina accanto a un boschetto. Scesero e fecero un giro nei
paraggi, senza allontanarsi troppo; ormai era quasi ora di pranzo.
Parlavano del più e del meno, confessandosi le loro speranze per il
futuro come fanno sempre i ragazzi, quando si ritrovarono in una
splendida radura, circondati dal cinguettio gioioso degli uccelli.
«È vero che là in
campagna, siete capaci di parlare con gli animali? »
Chiese ridendo Betty Anne.
«Certo! » mentì Jason,
che non aveva colto l'ironia. «Stai a sentire! »
Si riempì d'aria i
polmoni, e iniziò a imitare, come meglio poteva, i versi degli
uccelli.
«Ma sei bravissimo!
Continua, ti prego. »
Rise ancora Betty Anne.
Jason riprese fiato e continuò a cinguettare.
Dopo un po' si accorsero
che il numero degli uccelli intorno a loro era cresciuto a dismisura;
sembravano fissarli. Se Betty Anne non avesse avuto una mente da
giornalista, avrebbe potuto anche credere che rispondessero.
«Ma allora non scherzavi!
»
Esclamò la ragazza,
stavolta con sincero stupore.
«Certo che no! »
Replicò Jason con
sicurezza, anche se in realtà era più stupito di lei. Continuò a
cinguettare ancora per qualche minuto, mentre gli uccelli
continuavano ad affluire, poi tornarono verso la macchina, dove
avevano lasciato le vivande.
Entrambi erano piuttosto
euforici, e a Jason parve il momento più bello della sua vita. Cinse
Betty Anne con un braccio e cercò goffamente di baciarla. Lei si
ritrasse. Lui assunse un’aria ferita.
«Oh Jason! » disse
piano Betty Anne. «Mi dispiace se in
qualche modo ti ho illuso, ma devi sapere...
Scusate, a questo
punto è meglio lasciar soli i ragazzi; è
giusto che godano di un po’ di privacy, mentre vengono a capo dei
loro patemi amorosi.
Poco dopo che Jason e
Betty Anne avevano lasciato la radura, un corvo arrivò e prese posto
accanto a un passero.
«Salve amico! Ma è vero
quel che si dice in giro? Mi sono arrivati certi cinguettii... »
«È tutto vero,
purtroppo. » annuì tristemente il passero. «se fossi arrivato
qualche spicchio di sole fa, avresti sentito con le tue stesse
orecchie; l'ambasciatore se n'è appena andato! »
«Ha spiegato almeno
perché gli umani hanno deciso questa guerra totale contro di noi? »
Chiese ancora il corvo.
«Lo ha spiegato, ma in
realtà non è stato molto chiaro; aveva uno accento strano. Da
quanto ci ho capito, c'entra qualcosa il controllo del territorio;
credo che disturbiamo il volo di quei loro uccelli meccanici... »
Il corvo scosse il capo.
«E tu ci credi? Io penso
che sia la solita vecchia storia; gli umani non sopportano che noi
mangiamo. Secondo loro non dovremmo mangiare i semi, non dovremmo
mangiare i pesci, non dovremmo mangiare i frutti... di cosa dovremmo
vivere secondo loro, d'aria? »
«Però bisogna ammettere
una cosa. » concesse il passero «almeno stavolta si sono presi la
briga di farci una dichiarazione di guerra formale.»
«Non hai tutti i torti »
riconobbe il corvo «dev'essere la prima volta in tutta la storia che
gli umani si comportano con una certa correttezza. »
«Se non altro ci hanno
lasciato il tempo per organizzare le difese… »
«A proposito... » disse
il corvo mentre spiegava le ali. «anche noi dovremmo svolazzare via
da qua e andare a spargere la voce. »
«Giusto! Non c'è davvero
tempo da perdere.»
Confermò il passero.
E, detto ciò, spiccarono
il volo.
Simpatico racconto tra il fantasy e la fantascienza con una spruzzatina di weird.
RispondiEliminaSi può proprio dire che una guerra tra umani e uccelli è nell'aria.
RispondiEliminaRacconto piacevole e coinvolgente. Interessante la struttura bipartita con le due scene affidate rispettivamente agli umani e ai volatili. Il doppio dialogo si amalgama e confluisce nel finale.
Fa pensare al famoso film di Hitchcock.
Giuseppe Novellino